Secondo l'accezione più corrente, la società dei consumi è il sistema socio‑economico che trae il proprio dinamismo dall'incitamento al crescente consumo grazie alla persuasione pubblicitaria e all'incessante creazione di bisogni, spesso artificiali, e alla manipolazione degli istinti edonistici delle masse moderne. Questa formulazione lascia intravvedere fino a che punto la categoria « società dei consumi » abbia una carica emotiva, portatrice di serie contraddizioni. Ciò significa difficoltà d'analisi del termine che ha rapporti contemporaneamente con aspetti sociali, economici, psicologici ed etici molto complessi, quali i meccanismi della commercializzazione, dello sfruttamento dei bisogni, il gioco della pubblicità. Uno sforzo di chiarezza s'impone per evitare semplificazioni che portino a considerare la società dei consumi come un sistema globalmente creato da non si sa quale cospirazione d'oscuri interessi. Per orientarsi in questa analisi devono essere esaminate con cura due nozioni: quella dei consumi e quella dei bisogni, che sono da comprendere nei loro reciproci rapporti.
Questa analisi ci permetterà di guardare alla funzione della pubblicità in una società dei consumi e ci introdurrà a ciò che oggi si chiama la cultura dei consumi.
Consumo e bisogni
Consumo e bisogni
Prima di dare un giudizio critico sul consumo occorre riconoscere la sua indispensabile funzione nella vita economica e sociale. Gli autori classici ponevano il consumo tra le funzioni essenziali dell'economia, accanto alla produzione e alla distribuzione. Non ci sarebbe progresso economico, nel senso moderno, senza consumo e senza incitamento a consumare prodotti creati di recente e fatti conoscere dalla pubblicità a potenziali clienti. Questo ci riconduce alla nozione di bisogno, categoria che interessa l'economia, la sociologia, la psicologia e che non è facile, attraverso il confronto tra le diverse teorie, distinguere da concetti vicini come la motivazioni, le aspirazioni, i desideri, le soddisfazioni.
Ricordiamo alcuni dei criteri di classificazione dei bisogni nel quadro di quanto ci interessa. Una prima distinzione è spesso posta tra bisogni primari e secondari. I bisogni primari sarebbero i bisogni umani di base chiamati anche istintivi, fisiologici, indispensabili ad assicurare il mantenimento e la trasmissione della vita umana. I bisogni secondari sarebbero acquisiti, culturalmente derivati e destinati ad assicurare la qualità della vita e la partecipazione sociale.
Un'altra distinzione considera bisogni individuali e bisogni sociali. A.H. Maslow, in Motivation and Personality (New York, 1954), offre una classificazione dei bisogni personali definiti secondo il loro ordine di preminenza nella scala del progresso tipicamente umano: bisogni fisiologici, di sicurezza, di possesso e di amore, di stima, di autorealizzazione. I bisogni collettivi corrispondono ai beni e ai servizi richiesti per il buon funzionamento della società: servizio per la sicurezza pubblica, la salute, la libera informazione, l'organizzazione educativa e culturale, l'infrastruttura dei trasporti, la qualità delle risorse e dell'ambiente.
Altri, distinguono bisogni necessari e superflui; bisogni essenziali e non essenziali, bisogni naturali e artificiali. Importante è ricordare che il bisogno non è soltanto una categoria economica, ma anche psicologica e soggettiva, collettiva e culturale. Il consumo deve essere visto in questa prospettiva.
Condizionamento culturale dei bisogni
Condizionamento culturale dei bisogni
Si può, così, percepire come il consumo sia un comportamento sia economico che culturale, condizionato dal tipo di società in cui vivono i consumatori, perché l'ambiente influenza ampiamente il modo di concepire i bisogni. Adam Smith in The Wealth of Nations (1776), come Karl Marx in Il Capitale (1867), avevano riconosciuto che i bisogni sono culturalmente definiti. « Le necessità della vita, nota Smith, non corrispondono soltanto ai bisogni indispensabili per il mantenimento della vita, ma a tutto ciò di cui, secondo i costumi del paese, sarebbe indecente mancare anche per il più povero ». Anche Marx insiste sul carattere relativo dei bisogni, che variano non soltanto secondo le condizioni materiali di una nazione, ma anche secondo « il grado di civiltà di un paese ».
Occorre notare che la civiltà dei consumi è un fenomeno tipicamente moderno, legato all'industrializzazione e all'urbanesimo. Essa suppone prima di tutto un'abbondanza di beni ed un'aspirazione generalizzata ad un costante miglioramento dei livelli di vita. Marx aveva già detto che la produzione avrebbe creato il consumo. Basti pensare che un supermercato americano che offriva novecento prodotti negli anni 1940 ne offriva più di ottomila nel 1970. Le mostre di prodotti dei centri di vendita moderni rivelano l'enorme profusione delle novità offerte all'ammirazione e alla cupidigia dei consumatori. L'effetto trainante del consumo è rilevato dagli economisti come: stimolo all'economia, diffusione del benessere, incitamento alla creazione di nuovi beni, estensione dei mercati, della produzione e della manodopera, incoraggiamento alla concorrenza e all'emulazione in tutti i settori dell'economia. Questi obbiettivi sono legittimi e nessuna società, come ha dimostrato l'esperienza di molti paesi socialisti, può trascurarli senza gravi inconvenienti.
Il consumo come stile di vita
Il consumo come stile di vita
La critica alla società dei consumi non è diretta al fatto del consumare e al desiderio generalizzato di migliorare il proprio tenore di vita. Ciò che è messo in causa è un tipo di mentalità che accorda al consumo un valore sproporzionato ed esorbitante. Nella massa della popolazione si sviluppa una cultura del consumo favorita da un individualismo edonista e da un'ossessione d'acquisto sempre maggiore di beni materiali. Marx condannava già, nel secolo scorso, questo « feticismo dei prodotti materiali ». Le principali critiche riguardo alla società dei consumi possono essere espresse come segue.
In questa società si produce una « mercializzazione del modo di vivere », secondo l'espressione di Victor Scardigli: 1983. Consumare diventa un obbiettivo preponderante nella scala dei valori individuali e collettivi. Il consumo acquista un ruolo simbolico, perché rappresenta il segno del successo acquisito o sognato, l'appartenenza ad una classe sociale. E un modo d'imitazione delle élites artificiali, presentate dalla pubblicità, di cui s'invidia la sorte. Il sociologo Thorstein Veblen, in Theory of the Leisure Class (New York, 1899), aveva felicemente illustrato l'aspetto simbolico del consumo come segno di appartenenza ad una classe sociale, ciò che spiega la stravaganza di coloro che si danno ad una forma ostentata di consumo per affermare il proprio stato sociale. Questo atteggiamento è indotto da una cultura dell'effimero, dell'invidia, dell'istantanea gratificazione.
Il consumo come delusione
Il consumo come delusione
Le delusioni di questa cultura sono evidenti. Secondo quanto osserva Christopher Lasch (1978): « La pubblicità crea il proprio prodotto: un consumatore perpetuamente insoddisfatto, agitato, curioso, disincantato... Essa si rivolge alla desolazione spirituale della vita moderna e propone il consumo come cura ». Il consumatore tipico è facilmente colpito dall'ossessione del lusso reale o immaginario. Una mentalità di nuovo ricco si diffonde come un'illusione generalizzata, crudelmente smentita dall'inevitabile delusione dei consumatori e soprattutto dalla persistenza di vistose ineguaglianze di fronte al consumo. Un atteggiamento di consumatore invade l'insieme del comportamento, anche in campi non economici, ivi compresi gli impegni religiosi, come ha dimostrato Thomas Luckmann: 1967. I beni materiali assumono maggiore importanza delle persone, l'avere primeggia sull'essere come valore etico. E « la civiltà dei consumi in cui il perseguire il piacere è eretto a valore supremo », come osserva Paolo VI: Evangelii Nuntiandi, 1975, n. 55.
La trascuratezza dei bisogni collettivi
La trascuratezza dei bisogni collettivi
In assenza di correttivi, difficili da applicare, la società dei consumi privilegia la soddisfazione dei bisogni individuali a spese dei bisogni collettivi. Le automobili sono vendute in numero sempre crescente, ma le strade e il sistema dei trasporti pubblici rimangono insufficienti.
La massa dei beni individuali aumenta, ma la polizia non basta più a proteggerli. Il benessere individuale si generalizza - con notevoli eccezioni - ma i servizi educativi, sanitari, culturali non riescono ad assicurare il benessere collettivo. Bisogna riconoscere che i regimi socialisti avevano cercato di sviluppare una maggiore sensibilità riguardo alle esigenze del consumo detto pubblico, ma il loro successo in questo campo è rimasto relativo e non è riuscito a compensare la crescente frustrazione dei consumatori individuali.
La cultura occidentale è minata da un caratteristico individualismo, di cui è vistoso rivelatore una forma di consumismo compulsivo ed ossessivo. Di fronte a questa mentalità egocentrica, chiedere privazioni ai consumatori per soddisfare i bisogni collettivi è cosa che si dimostra sempre più difficile. Il consumatore individuale si abbandona senza ritegno ai propri desideri anche artificiali: comprare sempre di più, lasciarsi sedurre dall'ultima moda, dall'ultimo prodotto di grido, in un istinto di gratificazione immediata ed ostentata. La visita di routine ai grandi magazzini, spesso senza precisa intenzione, diventa un'abitudine, un bisogno psicologico, quasi un rito. Questi sono i connotati del consumo per il consumo, una specie di ebbrezza e di narcisismo ossessivi, come hanno dimostrato numerosi studi psico‑sociali.
Il ruolo della pubblicità
Il ruolo della pubblicità
La pubblicità gioca abilmente su questi fattori psico‑sociali esaltando l'immagine di una classe media, idealizzata e descritta come accessibile a tutti. Nelle masse si crea inconsciamente l'idea di una grande società opulenta e aperta, ciò che favorisce il paragone invidioso, l'imitazione collettiva, l'aspirazione di tutti al piacere continuo, al benessere totale. Il ruolo della pubblicità nella cultura dei consumi non è facilmente valutabile in maniera oggettiva. C'è chi la rende direttamente responsabile del degrado della cultura. « E l'attività più distruttrice della civiltà economica », dice Robert Heilbroner: 1976. Sembra più giusto considerare la pubblicità come uno dei fattori della cultura del consumo, il cui ruolo è meno quello di creare nuovi valori che quello di rinforzare, di ripercuotere atteggiamenti suscitati dall'insieme dei condizionamenti economici, sociali, tecnici, etici della società moderna. In questo senso, la pubblicità è uno specchio a ingrandimento che rinvia alla nostra società la propria immagine.
Come si è detto del consumo in sé, si può dire della pubblicità che non può essere giudicata soltanto per i suoi abusi o i suoi eccessi. J. K. Galbraith, pur essendo severo nei confronti della società opulenta, afferma che il sistema industriale non potrebbe assolutamente esistere senza la pubblicità: The Affluent Society, New York, 1958.
Perfino le critiche più crude nei confronti della pubblicità ammettono ch'essa abbia un importante ruolo d'informazione per i compratori, di stimolo per la creatività, d'incitamento alla competitività e allo spirito d'impresa. La pubblicità contribuisce anche a democratizzare le aspirazioni e a generalizzare i desideri o la plausibilità di un'elevazione dei livelli di vita. Questi risvolti della pubblicità costituiscono altrettanti fattori positivi nelle economie dei regimi liberi. Anche i paesi socialisti hanno finito per riconoscerlo, perché il dirigismo del loro sistema di consumo non ha saputo soddisfare le popolazioni, che scoprirono con crescente invidia i mercati e i prodotti occidentali.
Non bisogna, tuttavia, minimizzare gli effetti di destabilizzazione culturale dovuti allo stile corrente della pratica pubblicitaria. Anche gli autori che accordano alla pubblicità soltanto un limitato potere persuasivo, riconoscono che la sua influenza è spesso disumanizzante. Michael Schudson (1984) scrive: « Una pubblicità noncurante trasmette sulle onde valori che pochi pubblicisti o artisti accetterebbero personalmente o per i loro figli... Valori che le nostre tradizioni religiose, le nostre scuole, i nostri consiglieri più rispettati ci invitano a rigettare ».
La pubblicità dispone di somme favolose, ricavate, d'altra parte, dal costo dei prodotti annunciati, per illustrare e vantare una cultura materialista, in cui sono sfruttati gli istinti primari e sessuali in uno sforzo concertato per inibire il senso critico dei consumatori. La pubblicità gioca sull'illusione delle apparenze, semplifica, idealizza, offre un'immagine ottimistica della vita e costantemente eccita il desiderio latente di apparire meglio, di elevarsi nella scala sociale imitando una élite immaginaria e utopica.
Consumo e alienazione
Consumo e alienazione
La pubblicità si fa complice, più o meno consapevole, di una società schiava, perché dominata dal principio del godimento. Herbert Marcuse (1964) ha descritto efficacemente questa alienazione: « La promessa suprema è quella di una vita sempre più confortevole, per un numero sempre crescente di persone, che non sanno veramente più immaginare un altro tipo di discorsi e di comportamenti, perché il potere di manipolare e di contenere l'immaginazione o la reazione sovversiva è parte integrante di questa società ». Vedendo come il sistema di commercializzazione giochi sulla credibilità delle masse, alcuni osservatori parlano della pubblicità come di una forma di religione. Anche se questo giudizio è eccessivo, bisogna riconoscere che è con una mentalità da predicatori che la pubblicità trasmette il suo messaggio, il cui contenuto, del resto, non è senza analogia con la propaganda ideologica del « realismo socialista ». M. Schudson vi scorge un parallelismo nel « realismo capitalista », propagandato dalla pubblicità moderna che pur senza un piano prestabilito instilla nelle popolazioni lo spirito della società dei consumi. Questa massa umana, plasmata dalla pubblicità, è stata chiamata Admass dal britannico J. B. Priestly.
Poiché gli immensi capitali che sono dietro la pubblicità s'identificano con gli interessi dei poteri economici stabiliti, alcuni autori giungono ad affermare che una delle principali funzioni della pubblicità non è quella di accrescere il consumo globale, ma quella invece d'integrare gli individui in una società tutta rivolta ai consumi, come promessa d'un benessere idillico.
La pubblicità avrebbe per effetto d'inibire ogni velleità di critica o di contestazione sociale. La società capitalista, in questo modo, esalta se stessa e previene ogni possibile sovversione che potrebbe intralciare il sistema di produzione e di consumo. Questo effetto della pubblicità è difficilmente misurabile, ma non lo si può escludere o trascurare.
I consumatori, bisogna dirlo, in generale non si lasciano ingannare dal linguaggio esagerato, interessato e unilaterale della pubblicità. Ma, anche se la comunicazione « non vuol dire ciò che afferma » suscitando un sedicente distacco negli ascoltatori, essa crea in loro disposizioni latenti, voglie non coscienti, « proprio perché non chiede di credervi », afferma Schudson. In questo è, forse, il segreto del suo insidioso potere, a proposito del quale David Riesman et al. si chiedeva in The Lonely Crowd (1950): « Non è forse possibile che, in conclusione, la pubblicità sia una fantastica frode che rappresenta un'immagine dell'America che nessuno prende sul serio? ». Questo interrogativo non potrebbe diventare un grido d'allarme che permetterebbe ad un pubblico alienato di dare con lucidità un giudizio critico sulla società dei consumi? Questa società frattanto si universalizza nei paesi industrializzati e costituisce anche il modello che spontaneamente cercano d'imitare le nazioni del terzo mondo. « E la società dei consumi che guida già il loro avvenire », osserva Victor Scardigli.
Per un consumo umanizzato
Per un consumo umanizzato
Le sfide poste dalla società dei consumi non rimangono senza risposta. Ci sono potenti associazioni di consumatori che hanno preso l'iniziativa di agire sui produttori e sui commercianti per controllare i prezzi, la qualità e la sicurezza dei prodotti. Ralph Nader ha suscitato negli Stati Uniti una crociata per la difesa dei consumatori. La sua azione e quella dei suoi affiliati, malgrado sia villipesa dagli industriali, ha ottenuto risultati molto tangibili. Essi hanno costretto i produttori a riprendere in fabbrica più di cento milioni di autovetture difettose, sono riusciti ad imporre le cinture di sicurezza, a controllare la qualità e i prezzi dei prodotti, a boicottare le industrie che inquinano l'ambiente, a far votare leggi formulate dai consumatori. Il movimento si organizza in molti paesi e rappresenta una forza con la quale industriali e politici devono fare i conti. I partiti politici cercano ormai di agire sul potere dei consumatori. Il movimento si fa promotore di un'economia in cui i consumatori e gli utenti negozieranno i prezzi e la qualità con i produttori, i commercianti, i servizi, le compagnie di assicurazione. In Svezia, si è sviluppato un sistema di cogestione in cui i consumatori hanno voce nel ciclo della produzione e della commercializzazione. Alcuni prevedono che il movimento dei consumatori potrà, in avvenire, rappresentare una forza sociale potente quanto l'attuale sindacalismo. Noi, comunque, assistiamo ad una presa di coscienza che promette lo sviluppo di uno spirito critico, capace di apportare un correttivo agli incontrollati condizionamenti della società dei consumi, oggi troppo esclusivamente guidata dalla pura legge del mercato e dai giochi d'interesse.
Molti si chiedono se non si stia assistendo ad un rovesciamento di tendenza del pubblico, perché il consumo di massa sta finalmente toccando i propri limiti e rivela la disfunzione del sistema. Ci sono osservatori che ora riscontrano nei paesi ricchi un movimento di « erosione del consumo ». Le cause sarebbero multiple. I consumatori sono stanchi d'essere manipolati dalla pubblicità e sono delusi dall'accumulo dei prodotti che non portano la felicità sognata. In pratica, una larga parte della popolazione deve limitare con meticolosità le proprie compere a causa di un'indebolita situazione economica: persone anziane, disoccupati, pensionati precoci, immigrati, giovani senza impiego, gruppi di emarginati dal sistema. D'altra parte, i bisogni non materiali si fanno sentire chiaramente nella popolazione e chiedono una nuova ripartizione dei bilanci familiari e personali. Questi bisogni corrispondono a nuove aspirazioni: la qualità della vita, la salubrità dell'ambiente, il tempo libero che dà un senso alla vita, le esigenze della formazione permanente, la partecipazione alla vita collettiva.
L'azione organizzata dei consumatori non può limitarsi alla sola rivendicazione economica. C'è da augurarsi ch'essa agisca nei confronti delle tendenze destabilizzanti della pubblicità e che incoraggi positivamente le forme pubblicitarie che mirano a promuovere sia gli interessi dei consumatori che quelli dei produttori e del pubblico in generale, nel pieno rispetto dei valori etici della società. Questo tipo di pubblicità esiste già ed è in gran parte compito dei consumatori, di assicurarne lo sviluppo come forma d'indrustria culturale creatrice.
Sul piano culturale, la posta in gioco è dunque quella di sapere se il consumo anarchico continuerà a plasmare la società dell'avvenire o se il consumo non si trasformerà invece in un comportamento collettivo più critico e disciplinato attraverso l'apporto etico degli individui e dei gruppi. Come è stato detto a proposito delle industrie culturali, la pubblicità, come industria, esige un'autoresponsabilità dei creatori e un nuovo tipo di educazione del pubblico.
Vedi
Industrializzazione
Industrie Culturali
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