Si tratta di una terminologia relativamente recente coniata per descrivere la penetrazione del messaggio cristiano in un determinato ambiente e i nuovi rapporti che si stabiliscono tra il Vangelo e la cultura di quell'ambiente. L'inculturazione si apparenta all'acculturazione, un termine usato dagli antropologi, dalla fine del secolo scorso, per indicare i cambiamenti culturali che si producono quando due gruppi umani vengono a vivere in contatto diretto. L'incontro delle culture provoca generalmente molteplici mutamenti, ad esempio, sul piano della lingua, dei costumi, delle credenze, dei comportamenti. I cattolici cominciarono assai presto ad usare il concetto di acculturazione per studiare i rapporti tra il cristianesimo e le culture. Oggi il termine inculturazione è preferito ed è più corrente. Esso ha il vantaggio di indicare con chiarezza che l'incontro del Vangelo con una cultura non si riduce unicamente al rapporto tra due culture (acculturazione). Si tratta specificamente dell'interazione del Messaggio di Cristo con una data cultura. La parola inculturazione è in uso tra i cattolici dagli anni '30, ma è soltanto a partire dagli anni '70 che i testi ufficiali della Chiesa la impiegano. Nel 1988, la Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato il documento La Fede e l'inculturazione, preparato in collaborazione con il Consiglio Pontificio della Cultura, in cui si legge la seguente definizione al n. 11: « Il processo d'inculturazione può essere definito come lo sforzo della Chiesa per far penetrare il messaggio del Cristo in un dato ambiente socio‑culturale, chiamando questo a crescere secondo tutti i valori propri quando questi siano conciliabili col Vangelo. Il termine inculturazione include l'idea della crescita, del reciproco arricchimento delle persone e dei gruppi, posto il fatto dell'incontro del Vangelo con un ambiente sociale. «L'inculturazione è l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e, nel medesimo tempo, l'introduzione di queste culture nella vita della Chiesa»: Enciclica Slavorum Apostoli, 2 giugno 1985, n. 21 ».
E opportuno sottolineare gli aspetti innovatori e gli aspetti tradizionali dell'inculturazione. In seguito indicheremo le ragioni che fanno considerare l'inculturazione come un nuovo approccio dell'evangelizzazione, ma occorrerà ugualmente notare che l'attuale riflessione sul tema beneficia di una lunga e ricca esperienza nella Chiesa.
Le lezioni della storia
Le lezioni della storia
Strettamente parlando, il processo d'inculturazione, cioè la compenetrazione tra Chiesa e culture, è antico quanto il cristianesimo stesso. Il Vangelo si è rivelato fin dall'inizio un potente fermento di trasformazione delle culture. I primi evengalizzatori hanno imparato a conoscere le lingue, i costumi, le tradizioni dei popoli a cui il messaggio di Cristo era annunciato. I primi pensatori cristiani hanno dovuto affrontare il problema sollevato dall'incontro del Vangelo con le culture del loro tempo. Si trovano già, nel secondo secolo, nella Lettera a Diogneto, delle osservazioni molto pertinenti sullo stile di vita dei cristiani, « cittadini del cielo » ma contemporaneamente identificati ai costumi del loro paese: « I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita... Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma il loro modo di vivere supera le leggi »: Lettera a Diogneto: da Liturgia delle Ore, mercoledì della quinta settimana di Pasqua.
Al tempo dell'espansione coloniale e dello sviluppo delle missioni, la Chiesa ha emanato, avanti lettera, delle vere regole d'inculturazione. Per esempio, la Congregazione per la propagazione della Fede pubblicava, nel 1659, la seguente direttiva: « Non fate alcun uso di zelo, non proponete argomenti per convincere questi popoli a cambiare i loro riti, i loro costumi e i loro usi, a meno che questi siano evidentemente contrari alla religione e alla morale. Che cosa c'è di più assurdo che il voler trasferire tra i Cinesi, la Francia, la Spagna, l'Italia o qualche altro paese d'Europa? Non introducete tra loro i nostri paesi, ma la fede, quella fede che non respinge né ferisce i riti o gli usi di un popolo, purché non siano detestabili, ma che, al contrario, vuole che siano conservati e li protegge: Le Siège apostolique et les Missions, Paris, Union missionnaire du Clergé », 1959.
L'età moderna ha conosciuto un grande sviluppo missionario, segnato da una preparazione sempre più attenta dei preti, dei religiosi e delle religiose inviati in Africa, in Asia, nelle Americhe. Nel secolo XIX sono stati creati numerosi nuovi Istituti missionari che hanno portato il Vangelo in vaste regioni dove la Chiesa non era ancora penetrata per esservi impiantata. Questi Istituti, progressivamente, si sono specializzati nel definire sia il compito missionario, sia i metodi di adattamento ai diversi popoli.
Dopo la prima guerra mondiale e fino al Concilio Vaticano II, molti sono stati i documenti pubblicati nella Chiesa dai papi riguardo alle missioni e, particolarmente: Maximum illud (1919), Rerum Ecclesiae (1926), Evangelii praecones (1951). Vi erano in essi annunciate chiare direttive per promuovere un migliore adattamento del Vangelo al carattere e alle tradizioni di ogni popolo. Prima di tutto è necessario un buon possesso della lingua del paese. Una importanza tutta speciale era data alla costituzione di un clero indigeno. E necessaria la formazione del prete autoctono per la comprensione degli usi, dei costumi e dell'anima del proprio popolo. Egli deve essere accolto e rispettato dall'élite locale e deve essere preparato ad accedere in avvenire alle resposabilità di governo delle nuove Chiese. Anche i religiosi e le religiose sono incoraggiati ad accogliere e formare dei candidati indigeni. Tutti gli evangelizzatori dovrebbero beneficiare dell'aiuto che procurano le scienze moderne per conoscere meglio e servire le popolazioni: geografia, linguistica, storia, medicina, etnografia.
Queste direttive contengono preziosi orientamenti per l'inculturazione e manifestano una maturazione della teologia missionaria. La prima norma è quella di rispettare il carattere e il genio dei popoli da evangelizzare, coltivando i loro doni migliori, purificandoli ed elevandoli mediante la fede cristiana. Pio XII, nella sua prima enciclica Summi Pontificatus (1939), invita tutta la Chiesa « a comprendere più profondamente la civiltà e le istituzioni dei diversi popoli e a coltivare le loro qualità e i loro migliori doni... Tutto ciò che, nei costumi dei popoli, non è indissolubilmente legato alle superstizioni o agli errori, deve essere esaminato con benevolenza e, se possibile, conservato intatto ». Molti di questi orientamenti, come lo vedremo, saranno ripresi dal Vaticano II, soprattutto nel decreto Ad Gentes.
Nuovi aspetti dell'inculturazione
Nuovi aspetti dell'inculturazione
Molti degli avvenimenti che hanno segnato il mondo e la Chiesa dopo la seconda guerra mondiale, erano destinati a dare all'inculturazione una nuova urgenza. Con il movimento di decolonizzazione e di liberazione, le giovani Chiese erano chiamate a ridefinirsi in relazione alle nazioni che avevano portato loro il Vangelo. I pastori, i teologi delle Chiese d'Africa e d'Asia, ed anche molti Occidentali con essi, procedettero ad una revisione dei metodi di evangelizzazione praticati dai missionari. Le Chiese, certo, erano state impiantate, ma le culture autoctone erano state veramente convertite in profondità? Spesso, un certo paganesimo latente non era stato raggiunto. D'altra parte, le potenzialità religiose di molti costumi e tratti culturali non erano stati capiti ed assunti da parte dei missionari. Altre critiche ancora venivano fatte agli evangelizzatori europei, talvolta anche in forma eccessiva: troppo spesso questi avevano trapiantato le loro lingue, le loro istituzioni, il loro modo di pensare da un paese all'altro. Non era forse necessario, a questo punto, spogliare il cristianesimo dei suoi paludamenti occidentali per inculturare la fede nelle culture locali e procedere così ad una africanizzazione, un'indianizzazione o indigenizzazione delle Chiese autoctone? Il dibattito riguardava tutti gli aspetti della vita ecclesiale: il linguaggio, la teologia, la morale, la liturgia e l'eventuale accettazione da parte della Chiesa di certi elementi delle religioni tradizionali, quali i testi sacri e le forme di preghiera.
L'ampiezza e la gravità delle questioni dibattute fecero emergere l'urgente necessità di studi più approfonditi sulle condizioni, i criteri e i metodi dell'inculturazione. S'impose chiara la necessità di un riesame di tutta la questione alla luce dei principi teologici e di una migliore conoscenza dell'antropologia.
Criteri dell'inculturazione
Criteri dell'inculturazione
I criteri da tenere presenti sono fondati sulla natura dell'inculturazione, concepita come un approccio metodico per evangelizzare le culture. E il presupposto fondamentale che deve ispirare tutto lo sforzo dell'inculturazione: lo scopo perseguito è l'evangelizzazione della cultura: vedi Evangelizzazione della Cultura.
L'inculturazione del Vangelo e l'evangelizzazione della cultura sono due aspetti complementari dell'unica missione evangelizzatrice. A questo titolo, l'inculturazione sarà guidata secondo le norme che reggono i rapporti tra la fede e le culture. E necessario il duplice rispetto delle realtà teologiche e antropologiche che entrano in gioco nel processo d'inculturazione.
In partenza, c'è il fatto gratuito dell'Incarnazione di Gesù Cristo e la sua eco nelle culture storiche. L'irradiamento del Vangelo chiama ormai tutte le culture ad un nuovo destino. Occorre sottolineare il significato culturale dell'Incarnazione. Gesù si è inserito in una particolare cultura: « Il Cristo stesso, per la sua Incarnazione, si è vincolato a condizioni sociali e culturali determinate dagli uomini coi quali è vissuto »: AG, 10. D'altra parte, l'Incarnazione raggiunge tutto l'uomo e tutte le realtà dell'uomo. Il Cristo raggiunge dunque tutti gli uomini nella complementarità delle loro culture. Si può dire, in un certo senso, che l'Incarnazione del Figlio di Dio è stata anche un'incarnazione culturale. L'Incarnazione del Cristo richiama da sé l'inculturazione della fede in tutti gli ambienti umani.
Il secondo principio che governa l'inculturazione è il discernimento antropologico delle culture da evangelizzare. E un'esigenza che nasce dalla complessità che assume l'evangelizzazione negli ambienti in rapida trasformazione, spesso in crisi d'identità culturale e religiosa.
Uno sforzo metodico di ricerca e di riflessione è oggi indispensabile. Occorre apprendere ad analizzare le culture per discernervi gli ostacoli, ma anche le potenzialità nei confronti della recezione del Vangelo. L'inculturazione favorirà la conservazione e la crescita di tutto ciò che è sacro nei costumi, nelle tradizioni, nelle arti e nel pensiero dei popoli. La vita della Chiesa, la liturgia stessa si arricchiranno del patrimonio culturale delle nazioni da evangelizzare. Nessuna rigida uniformità è imposta dalla Chiesa, come lo afferma il Vaticano II: « Essa, anzi, rispetta e favorisce le qualità e le doti d'animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o a errori, essa lo considera con benevolenza e, se è possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella Liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico »: SC, 37.
Il discernimento richiesto non s'improvvisa, esso richiede uno sforzo concertato e suppone che le Chiese particolari sottopongano ad un « nuovo esame » i dati della fede e gli elementi culturali di ogni regione, per discernere ciò che può o non può essere integrato nella vita cristiana. Senza usare il termine inculturazione, il decreto sulle missioni del Vaticano II spiega chiaramente le regole che devono guidare la sua pratica: AG, 22.
L'autenticità dell'inculturazione riposa, insomma, sul rispetto delle condizioni sia teologiche che etnologiche del compito missionario. Occorre una piena comprensione delle realtà della fede e delle realtà culturali implicate nell'evangelizzazione. Questo discernimento, di natura socio‑teologica, è indispensabile per riconciliare gli elementi che entrano in tensione dinamica nel processo di inculturazione. L'inculturazione deve salvaguardare, in primo luogo, la distinzione tra la fede e la cultura e, quindi, la necessità dell'unità e del pluralismo nella Chiesa. Queste esigenze sono fondamentali nella pratica dell'inculturazione.
Distinguere fede e cultura
Distinguere fede e cultura
Da una parte, la fede dovrà essere riconosciuta come radicalmente distinta da ogni cultura. La fede in Cristo non è il prodotto di una cultura e non s'identifica con nessuna di esse, se ne distingue in maniera assoluta perché viene da Dio. Per le culture, la fede è « scandalo » e « follia », per usare le parole di san Paolo: 1 Cor 1,22‑23. Ma questa distinzione tra fede e cultura non è dissociazione. La fede è destinata ad impregnare tutte le culture umane per salvarle ed elevarle secondo l'ideale del Vangelo. Aggiungiamo che la fede non è veramente vissuta che se diventa cultura, cioè, se trasforma le mentalità e i comportamenti. C'è una dialettica che deve essere rispettata tra la trascendenza della Parola rivelata e il suo destino di fecondazione di tutte le culture. Rigettare l'una o l'altra di queste esigenze conduce ad esporre l'inculturazione sia al sincretismo, che confonde la fede con le tradizioni umane, sia ad un accomodamento fittizio e superficiale del Vangelo a culture contingenti.
Salvaguardare unità e pluralismo
Salvaguardare unità e pluralismo
D'altra parte, l'inculturazione mirerà a salvaguardare insieme l'unità della Chiesa e il pluralismo dei suoi modi di espressione. L'evangelizzazione serve a costruire la Chiesa nella sua unità e nella sua identità essenziali. Certo, il messaggio annunciato è stato tradotto, nel passato, nelle categorie di pensiero appartenenti a particolari culture, ma queste interdipendenze culturali non invalidano il valore permanente delle concettualizzazioni elementari della fede e delle strutture organiche della Chiesa. L'evangelizzatore trasmette un insegnamento arricchito da generazioni di credenti, di pensatori, di santi, il cui apporto è parte integrante del patrimonio cristiano. E questa identità essenziale e fondante che l'evangelizzazione è chiamata a trasmettere alle culture umane in termini accessibili a tutti.
Ma l'unità non deve essere confusa con l'uniformità. L'inculturazione dovrà, per conseguenza, saper conciliare l'unità e la diversità nella Chiesa. La lunga esperienza delle Chiese orientali offre, a questo soggetto, un modello che Paolo VI presenta come esemplare: « E proprio nelle Chiese Orientali si ritrova storicamente anticipato e esaurientemente dimostrato nella sua validità lo schema pluralistico, sicché le moderne ricerche intese a verificare i rapporti tra annunzio evangelico e civiltà umane, tra fede e cultura, hanno già nella storia di queste Chiese venerande, significative anticipazioni di elaborazioni concettuali e di forme concrete in ordine a detto binomio di unità e diversità ». Il papa sollecita quindi la Chiesa ad « accogliere un tale pluralismo come articolazione della sua stessa unità »: al Collegio greco, Roma, 30 aprile 1977: Insegnamenti di Paolo VI, 15, 1977, p. 425.
Il principio direttivo di ogni sforzo d'inculturazione della teologia, della predicazione e della disciplina è dunque la crescita della Communio Ecclesiae, la comunione della Chiesa universale. Questa unità, tuttavia, non è quella di un sistema uniforme e indifferenziato, ma quello di un corpo in crescita organica. La Chiesa universale è una comunione di Chiese particolari. Essa è anche, per estensione, una comunità di nazioni, di lingue, di tradizioni, di culture. Ogni epoca o ogni civilità apporta i propri doni e il proprio patrimonio alla vita della Chiesa. Con l'inculturazione, le culture accolgono i tesori del Vangelo e offrono a tutta la Chiesa, in cambio, le ricchezze delle loro migliori tradizioni e il frutto della loro sapienza. E questo complesso e delicato scambio che l'inculturazione deve promuovere per la crescita reciproca della Chiesa e di ogni cultura.
Estensione dell'inculturazione
Estensione dell'inculturazione
Uno sviluppo più recente della riflessione porta ad estendere la pratica dell'inculturazione non soltanto ai territori tradizionali delle missioni, ma alle società moderne, le cui culture sono state scristianizzate e segnate da una crescente secolarizzazione. La cultura moderna ostacola l'evangelizzazione e richiede uno sforzo metodico di inculturazione. E la sfida della seconda evangelizzazione negli ambienti nei quali la fede, assopita, respinta o rigettata rende difficile l'annuncio del Vangelo in tutta la sua novità. Il documento La Fede e l'Inculturazione della Commissione Teologica Internazionale (1988) dedica la sua ultima parte alla cultura moderna. Vi si legge: « L'inculturazione del Vangelo nelle società moderne esigerà uno sforzo metodico di ricerca e di azione concertate. Questo sforzo richiederà nei responsabili dell'evangelizzazione: un atteggiamento di accoglienza e di discernimento critico, la capacità di percepire le attese spirituali e le aspirazioni umane delle nuove culture, l'attitudine all'analisi culturale in vista di un effettivo incontro con il mondo moderno ».
L'inculturazione acquista ormai dimensioni nuove: non concerne unicamente le persone, i paesi, le nazioni, le istituzioni in attesa del Vangelo. Inculturare il Vangelo significa anche raggiungere i fenomeni psicosociali, le mentalità, i modi di pensare, gli stili di vita, per farvi penetrare la forza salvifica del Messaggio cristiano.
In sintesi, si può dire che occorre superare una concezione geografica dell'evangelizzazione ed arrivare ad una concezione più culturale. Queste prospettive non si escludono in alcun modo, ma segnano il senso di uno sviluppo necessario della missione evangelizzatrice.
Ci sono, certamente, ancora alcune regioni geografiche da cristianizzare, ma la posta in gioco più grande è oggi quella di evangelizzare le culture stesse. Occorre far penetrare la luce del Vangelo nelle mentalità e negli ambienti di vita segnati dall'indifferenza e dall'agnosticismo. Queste correnti di pensiero tendono a diffondersi ovunque penetri la modernità. Con discernimento e fiducia, la Chiesa intende annunciare Cristo alle culture di oggi e questo richiederà un lungo e coraggioso processo d'inculturazione, come afferma Giovanni Paolo II: « La Chiesa deve farsi tutta a tutti, raggiungendo con simpatia le culture d'oggi. Ci sono ancora degli ambienti, delle mentalità, così come paesi e intere regioni da evangelizzare, la qual cosa suppone un lungo e coraggioso processo d'inculturazione affinché il Vangelo penetri l'anima delle culture vive, rispondendo alle loro più profonde attese e facendole giungere verso la dimensione della fede, della speranza e della carità cristiane ». Il termine missione, aggiunge Giovanni Paolo II, « si applica ormai alle vecchie civiltà segnate dal cristianesimo, ma che oggi sono minacciate dall'indifferenza, dall'agnosticismo o anche dall'incredulità. Numerosi nuovi settori della cultura si presentano con degli obbiettivi, dei metodi e dei linguaggi diversi. Il dialogo interculturale s'impone dunque ai cristiani in tutti i paesi »: al Consiglio Pontificio della Cultura, 18 gennaio 1983.
Vedi
Evangelizzazione della Cultura
Acculturazione
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