Nel linguaggio sociologico il concetto di civiltà ha progressivamente ceduto il posto a quello di cultura, a mano a mano che l'antropologia prendeva coscienza del carattere etnocentrico e idealizzato delle rappresentazioni della vita detta civilizzata; ma un uso più critico del concetto rimane oggi valido. Cerchiamo di comprendere questa evoluzione partendo dall'approccio classico alla civiltà, che conserva sempre il suo valore di riferimento.
APPROCCIO CLASSICO
La civiltà, per i letterati e gli umanisti, indica uno stato ideale della società in cui gli uomini coltivano le attitudini e le virtù delle comunità incivilite, caratterizzate dal progresso delle arti, delle lettere, delle scienze, dallo sviluppo armonico di istituzioni che regolano la vita familiare, sociale, economica, giuridica, politica, religiosa. Il concetto di civiltà esprime un tipo ideale che serve a distinguere e a valutare il progresso delle società. Il termine ha anche delle applicazioni particolari che indicano le grandi aree della civilizzazione che hanno segnato la storia dell'umanità, per esempio la civiltà cinese, greca, romana, inglese, francese. La dimensione soggettiva della civiltà connota la maturazione intellettuale, morale e civica dell'individuo che diventa una persona civilizzata. E soprattutto all'epoca dell'Illuminismo, verso la metà del Settecento, che la parola civiltà entra nel linguaggio dei filosofi, degli uomini politici e dei pensatori in genere. La civiltà è allora associata all'idea di progresso e di liberazione.
I primi antropologi che si applicarono allo studio delle società globali usarono anch'essi il concetto di civiltà per descrivere i tratti e le creazioni tipiche di un popolo. Ma già si può osservare una certa fluttuazione nella terminologia. Per i pionieri, come Edward Tylor e i suoi discepoli, civiltà e cultura sono praticamente sinonimi. Essi sostengono che anche le società dette primitive, hanno una loro civiltà. Questo uso del termine fu allora vivamente criticato perché era in contraddizione con l'opinione corrente che voleva che la qualifica di società civilizzata fosse riservata unicamente ai popoli più sviluppati. S'impose la tendenza di considerare la civiltà come uno stadio superiore delle culture: Bronislaw Malinowski, 1931. I criteri che stabiliscono la civiltà si trovano, allora, nell'insieme dei prodotti o delle opere di civilizzazione di cui le principali sono l'urbanizzazione, la tecnica, la scrittura, le arti, la filosofia e lo sviluppo di istituzioni religiose regolatrici dei comportamenti. Una distinzione si è dunque imposta, ben presto, agli antropologi tra cultura e civiltà, riservando quest'ultimo termine alle culture dette avanzate e, in primo luogo, alla cultura occidentale.
CRITICA DELLA CIVILITA' OCCIDENTALE
CRITICA DELLA CIVILITA' OCCIDENTALE
I progressi degli studi antropologici, attraverso una lunga serie di paragoni tra le culture e il rivelarsi della complessità e dell'insospettato sviluppo dei popoli detti primitivi, portarono ad una nuova percezione della civiltà occidentale. La critica del concetto di civiltà mise in evidenza il suo carattere etnocentrico, apprezzativo, ma anche discriminante. Parlare di civiltà significava spesso il riferirsi ai non‑civilizzati, ai barbari, ai non‑evoluti, ed era anche postulare un giudizio normativo sul valore superiore ed universale della cultura occidentale.
Questo atteggiamento si scontrò con due correnti di pensiero che resero ancora più problematica la definizione del concetto di civiltà.
Da una parte, le potenze coloniali, scosse dalle due grandi guerre, subirono lo choc culturale dell'affrancamento delle colonie dopo il 1945, ciò che portò all'avvento di una umanità policentrica in cui i popoli del terzo mondo rivendicarono una uguale dignità per i loro diritti e le loro culture. La nozione corrente di civiltà, legata alla psicologia dei popoli dominatori, è allora entrata in crisi, perché i fatti storici scoprivano agli Occidentali i limiti della loro cultura. Paul Valery si esprimeva con parole diventate celebri: «Noi civiltà, ora sappiamo di essere mortali».
Il concetto idealizzato di civiltà, d'altra parte, era stato oggetto di una critica riduttrice che andò accentuandosi dal secolo scorso. I sociologi tedeschi, rappresentati da Alfred Weber, opponevano Kultur a Zivilisation. La cultura significava il progresso dei Lumi che troverà la sua espressione più radicale nella Kulturkampf. La cultura rappresenterebbe l'anima profonda di una collettività, mentre la civiltà, costruita sulle scienza e la tecnica, corrisponderebbe al progresso materiale. La cultura è dunque lo spirito di un popolo e la civiltà è costituita dalle sue opere esteriori. Hegel opponeva così lo spirito soggettivo allo spirito oggettivo. Questa interpretazione sta ad indicare la relatività delle civiltà in quanto realizzazioni sempre imperfette dello spirito umano.
Oswald Spengler portò la critica al limite, sostenendo che ogni cultura si degrada in civiltà. E lo stadio finale e degradante di ogni cultura che appare secondo «una successione organica, rigorosa e necessaria»: O. Spengler, 1950, Introduzione. Indirettamente, attraverso la psicanalisi, Sigmund Freud attacca il processo stesso di civilizzazione e nell'opera: « Il disagio della civiltà » (1930) descrive il carattere patologico delle nostre società, confondendo, bisogna constatarlo, i termini di cultura e di civiltà.
LA CIVILTA' COME ESPERIENZA UMANA
LA CIVILTA' COME ESPERIENZA UMANA
Arnold Toynbee (1934‑1961) rifiuta questi punti di vista pessimistici e il suo studio monumentale sulle civiltà storiche dimostra come queste siano altrettante risposte valide alle sfide che l'ambiente naturale e sociale pone ai gruppi umani.
I sociologi americani e britannici hanno evitato la critica radicale della scuola storicistica tedesca e il termine civiltà non è stato da loro rifiutato a priori per ragioni ideologiche. Bisogna, tuttavia, riconoscere ch'essi hanno optato in favore del concetto di cultura, trascurando, in pratica, quello di civiltà o, se lo usano occasionalmente, lo fanno per qualificare le culture più avanzate. Howard Odum diceva: «La civiltà è cultura, ma non ogni cultura è civiltà».
In Francia, le scienze umane hanno preferito anch'esse il termine cultura, ma senza escludere il termine civiltà, debitamente spogliato della sua accezione etnocentrica e svilente. Lo storico Lucien Febvre (1930) ha notevolmente contribuito a questa chiarificazione. Gli antropologi si chiedono perché si dovrebbe rifiutare il termine civiltà riguardo, per esempio, alla cultura degli Aztechi, anche se non possedevano che una scrittura rudimentale, o alla cultura neolitica che «è già una vera civiltà», osserva Jean Cazeneuve: 1984. Questa posizione è rafforzata dallo studio più approfondito delle culture un tempo considerate come selvagge. André Leroi‑Gourhan (1943) si rifiuta di distinguere tra selvaggi e civilizzati e propone i termini «rustici» e «industrializzati». Le analisi di Claude Lévi‑Strauss hanno messo in luce la complessità dei miti e delle psicologie dei popoli non evoluti secondo i nostri criteri di modernità: «Queste società dette primitive sono nella storia», nota Lévi‑Strauss. La sola differenza con noi è ch'esse si sono specializzate per vie diverse da quelle che abbiamo scelte noi. Lucien Febvre aveva già sostenuto questa interpretazione che sottolinea più le continuità che le discrepanze tra culture. Egli scrive nel 1930: «Da molto tempo, la nozione di una civiltà dei non‑civilizzati è nozione corrente». La tendenza dei sociologi francesi è, tuttavia, quella di preferire, nelle loro opere, il termine tecnico di cultura a quello di civiltà. Il termine civiltà viene da loro usato quando vogliono porre in rilievo la ricchezza di tutte le culture e dimostrare la profonda convergenza di tutte le esperienze civilizzatrici.
Nel linguaggio della Chiesa cattolica si nota un'evoluzione. Fino al Concilio Vaticano II le espressioni «civiltà» e «civiltà cristiana» erano correnti, ma ora, il termine cultura, usato nella sua duplice accezione umanistica e antropologica, tende ad imporsi sempre più nettamente, ciò che non esclude l'uso della parola civiltà nel suo senso storico ed umanistico: H. Carrier 1987, 1990.
Malgrado la sua movimentata storia e l'attuale predominanza del termine cultura da parte degli specialisti, il concetto di civiltà, con le precisazioni e i correttivi sopra suggeriti, rimane una nozione valida per indicare uno stadio avanzato del progresso culturale, sviluppo a cui tutte le società aspirano come ad una legittima partecipazione al più alto patrimonio dell'umanità.
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Bibl.: F. Braudel 1987. H. Carrier 1987, cap. 2; 1990 a. J. Cazeneuve 1985. N. Elias 1973, 1988. D. Fauvel‑Rouif 1989. L. Febvre et al. 1930. S. Freud 1970, 1985. J. Laloup et J. Nélis 1955. B. Malinowski 1931. G. Michaud et E. Marc 1981. O. Spengler 1948‑1950, 1978. A.J. Toynbee 1934‑1961, 1948. E.B. Tylor 1876. S.N. Eisenstadt 1987. R. Guardini 1967.