Nessun mutamento culturale ha segnato l'homo faber più fortemente dell'industrializzazione, questo primo motore della modernizzazione.
Di fatto, la storia sociale può legittimamente essere divisa in due parti: il periodo anteriore alla rivoluzione industriale e quella che viviamo dopo questo avvenimento. Così si fa netta distinzione tra le nazioni industrializzate e quelle che non lo sono. Queste ultime sono, in generale, economicamente poco sviluppate e vivono in condizioni di povertà ed anche di miseria, mentre le prime godono di un livello di vita incomparabilmente più elevato. L'industrializzazione è storicamente considerata un fattore di progresso economico, ma il costo umano della rivoluzione industriale del secolo XIX è stato molto pesante e nella memoria collettiva l'immagine che se ne conserva è quella di un tratto distintivo della cultura contemporanea.
Inizi conflittuali
Inizi conflittuali
L'industrializzazione, che ebbe inizio in Inghilterra alla fine del secolo XVIII, poi in Francia all'inizio del XIX secolo, fu un processo complesso che riguardò prima i lavoratori singoli e le loro famiglie e quasi subito anche le classi abbienti e i detentori di capitali, rivoluzionando rapidamente tutto il sistema economico e politico dei paesi, come anche l'equilibrio tra le nazioni. L'industria nacque con l'invenzione della meccanizzazione, cioè con l'applicazione della forza motrice (vapore, elettricità) ad un meccanismo operativo. La meccanizzazione fu introdotta inizialmente in Inghilterra nelle manifatture tessili. Occorre sottolineare che tutto un insieme di condizioni resero possibile l'industrializzazione all'epoca dell'Illuminismo: lo sviluppo della scienza e della tecnica, l'orientamento razionalistico, la costituzione di un capitale libero, il senso della gestione, il gusto dell'invenzione, del rischio e dell'impresa, la concorrenza tra regioni e nazioni. Ma l'industrializzazione, ai suoi inizi, si accompagnò di traumi culturali collegati allo sfruttamento operaio e alla lotta dei lavoratori contro i capitalisti. Di fatto, si manifestò una crescente opposizione nell'opinione pubblica contro i proprietari industriali ed ebbe inizio ciò che più tardi venne chiamato il conflitto industriale, alimentato dalla « immeritata miseria delle classi lavoratrici », secondo l'espressione di Leone XIII nella Rerum novarum: 1891. Questo sfondo conflittuale non è mai completamente scomparso dalla cultura industriale moderna.
Le prime fasi dell'industralizzazione si sono realizzate senza regole né controlli e sono ancora collegate nella coscienza popolare a tutti gli abusi del capitalismo liberale: sfruttamento dei lavoratori, uomini, donne e bambini, sottoposti ad orari inumani, assenza di contratti, salari derisori, condizioni insalubri, trattamenti arbitrari.
Da parte loro, le classi ricche intravvedevano l'avvento di una nuova società che presto avrebbe beneficiato, pensavano, dei prodotti e dei progressi dell'industrializzazione. Ma la partecipazione generalizzata ai vantaggi del nuovo sistema fu illusoria. Lo sviluppo industriale richiedeva la concentrazione, sempre più forte, dei capitali e la ricerca di materie prime all'estero, ciò che doveva dare un impulso senza precedenti alla colonizzazione.
La situazione dei lavoratori dell'industria ben presto divenne intollerabile e suscitò inchieste che fecero scandalo, come quella di P. Gaskell in Inghilterra (1833), di L. R. Villermé in Francia (1840). Poco a poco si faceva chiara la necessità di un intervento dei poteri pubblici e di una legislazione sociale. Marx ed Engels utilizzarono queste inchieste ed affrettarono lo sviluppo del sindacalismo allora nascente, ciò che portò all'inasprimento del conflitto industriale e alla diffusione dell'ideologia rivoluzionaria.
Conseguenze culturali
Conseguenze culturali
Tra le principali conseguenze culturali dell'industrializzazione, che si possono riscontrare fin dall'inizio sono da ricordare: una concentrazione irrazionale dei lavoratori e delle famiglie in zone urbanizzate; un mutamento dei rapporti tra città e campagna; la separazione tra i luoghi di lavoro e quelli di residenza; una divisione del lavoro sempre più accentuata in relazione ai mestieri, ai compiti e ai tipi dell'industria stessa; la crescente affermazione di una coscienza di classe, che mette in opposizione le classi operaie e quelle che detengono i capitali; l'assoggettamento dei lavoratori a sistemi di produzione sempre più razionalizzati che, in seguito, saranno perfezionati dal taylorismo e susciteranno il sentimento di una dipendenza alienante, senza significato, perché l'operaio è obbligato a operazioni parcellari di un « lavoro in briciole »: Georges Friedman.
La rivoluzione industriale è stata dunque anche una rivoluzione culturale che ha profondamente sconvolto un sistema di valori fino allora sicuri quali: il senso del lavoro personale e comunitario; il rapporto diretto dell'uomo con la natura; l'appartenenza ad una famiglia di sostegno attraverso la coabitazione e il lavoro; il radicamento in comunità locali e religiose a misura d'uomo; la partecipazione a tradizioni, riti, cerimonie e celebrazioni che danno significato ai grandi momenti della vita.
L'industrializzazione, con la sua provocazione all'ammucchiamento disordinato delle popolazioni, ha gravemente colpito questi valori secolari ed ha suscitato nelle masse operaie il sentimento di una dolorosa alienazione.
Collaboratori responsabili
Collaboratori responsabili
Progressivamente, sotto la spinta delle rivendicazioni operaie e di un'opinione pubblica più illuminata, le società industriali hanno cercato di equilibrare meglio i rispettivi ruoli di tutti i collaboratori dell'attività economica: i detentori di capitali, i responsabili delle gestioni e le associazioni di datori di lavoro, i lavoratori e i loro sindacati, i consumatori e i loro organismi di difesa, i rappresentanti dei poteri pubblici.
I governi si sono dotati di una legislazione sociale ed economica efficace, particolarmente nel campo del lavoro, della sicurezza sociale, delle pensioni. Nelle popolazioni si è venuta creando, a poco a poco, una coscienza sociale che non tollerava più gli abusi dell'inizio. Si sono costituiti gruppi di potere che hanno proposto l'ideale della « democrazia industriale » e il conseguimento di un nuovo « contratto sociale ». Questi obbiettivi, malgrado l'imprecisa terminologia che li descrive, rivelano la ricerca di nuove solidarietà all'interno della società industriale. Sempre più si comprende che gli interessi degli uni sono intimamente connessi agli interessi di tutti, proprietari, produttori, lavoratori, consumatori. E quanto aveva già presentito Ford, che, introducendo la prima catena di montaggio, aveva nutrito l'ambizione di produrre un giorno automobili a prezzo accessibile per tutti. Egli annunciava così i suoi famosi quattro principi: diminuire i costi, elevare i salari, abbassare i prezzi, aumentare le vendite.
Il sistema industriale, soprattutto dopo gli anni '20, si andava così orientando ad istituzionalizzare la soluzione dei conflitti e ad adattarsi gradualmente ad una situazione socioeconomica nuova, caratterizzata dall'aumento delle classi medie, dall'accresciuta mobilità della popolazione, dalla differenziazione e specializzazione delle categorie operarie, dal considerevole sviluppo del settore terziario. Di fatto, il settore industriale, chiamato secondario, che aveva inizialmente largamente superato quello primario (agricoltura, estrazione), è oggi soppiantato dal settore terziario (servizi) nei paesi più industrializzati.
Ora, il sistema industriale deve affrontare nuove sfide suscitate dal progresso tecnico, dall'automazione, dalla robotizzazione, che spesso si accompagnano al grave rischio della disoccupazione nel settore tecnologico. Le tecnologie di punta portano le imprese a trasformarsi profondamente e a ridefinire il ruolo della mano d'opera, che la razionalizzazione economica porta a progressiva decrescita. Questi cambiamenti tendono a ridurre il potere di negoziato dei sindacati operai, tanto più che interdipendenze allargate vengono a stabilirsi tra i paesi industrializzati sul piano tecnico, finanziario e commerciale e ciò apre un nuovo spazio a società multinazionali, di fronte alle quali la pratica sindacale e le legislazioni dei paesi si trovano spesso a non poter rispondere. La disoccupazione rappresenta una delle più gravi sfide delle società ad alta tecnologia.
Molti osservatori stimano che il mondo moderno sia ormai entrato in un periodo post‑industriale, con i problemi nuovi che pongono la specializzazione dei tecnici, la ridistribuzione dell'impiego e la corresponsabilità tra nazioni inegualmente sviluppate. Le soluzioni di queste nuove sfide non possono essere trovate che nel quadro allargato delle interdipendenze internazionali, che alcuni indicano come l'obbiettivo del mondialismo.
Nell'Est europeo
Nell'Est europeo
Le evoluzioni socio‑culturali, di cui si è accennato prima, riguardano soprattutto il mondo industriale occidentale. Nell'URSS, l'industrializzazione è stata metodicamente perseguita, secondo le pianificazioni ufficiali, dalla rivoluzione d'Ottobre 1917. Tecnicamente, le industrie si sono sviluppate sul modello delle imprese occidentali da cui hanno attinto largamente i preventivi e le attrezzature meccaniche. Ma le condizioni della gestione industriale vi erano radicalmente diverse: il primo responsabile industriale era lo Stato, che diede priorità all'industria pesante, lasciò poco margine ai sindacati liberi e impedì ogni forma di concorrenza interna. Un modello analogo si è instaurato nella Cina comunista dopo la seconda guerra mondiale.
Nell'URSS, l'industrializzazione è riuscita a produrre, sul piano della quantità e della qualità, armamenti che hanno permesso alla Russia di occupare i primi ranghi nel mondo, ma la società industriale sovietica non è mai riuscita ad armonizzarsi con uno sviluppo agricolo soddisfacente; come non è riuscita a raggiungere gli alti livelli del consumo e della concorrenza commerciale in un mondo in cui le poste in gioco economiche hanno anche una valenza strategica. Avendo constatato il fallimento del loro modo di produzione e di consumo, l'URSS e i paesi dell'Est europeo verso il 1990 si sono impegnati in una radicale ristrutturazione del settore socio‑economico e del sistema politico. La perestroika si è proposta come obbiettivo una rifondazione e una liberalizzazione del sistema industriale, la cui realizzazione, come si può constatare, richiederà un profondo mutamento democratico e culturale.
Nel terzo mondo
Nel terzo mondo
Nella ricerca che oggi si va compiendo per l'industrializzazione del terzo mondo si comprendono meglio sia i vantaggi sia i rischi e i costi umani dell'industrializzazione. L'esperienza dei due ultimi secoli dimostra che l'industrializzazione esige delle condizioni preventive di carattere tecnico, sociale e politico. Oggi è necessario, in partenza, tener conto dei rapporti tra i collaboratori sociali ed economici sia all'interno sia all'esterno e, fra questi collaboratori, ci sono ormai paesi di alta industrializzazione e paesi che sono ai primi stadi. Occorre, inoltre, conformarsi alle legislazioni nazionali esistenti e alle convenzioni internazionali, quali, ad esempio, quelle dell'Ufficio Internazionale del Lavoro. Questi dati fanno parte di un'esperienza umana secolare che non si può più dimenticare.
Alla luce di molti decenni di sviluppo, si può prevedere che l'industrializzazione nei paesi in via di sviluppo porterà dei mutamenti culturali riguardo alle persone, alle famiglie, alle comunità locali, alle tradizioni e questi mutamenti non saranno meno profondi di quelli che hanno colpito le società occidentali. C'è da augurarsi che la dimensione culturale dell'industrializzazione riceva un'attenzione almeno uguale a quella che si presta agli obbiettivi strettamente economici. E una condizione indispensabile perché l'industrializzazione dei paesi in via di sviluppo sia veramente un fattore di progresso umano oltre che economico.
Vedi
Modernità
Sviluppo culturale
Urbanizzazione
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