RABBI - RACA - RACHELE - DIZIONARIO BIBLICO

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R
RABBI - RACA - RACHELE
RABBI
Titolo onorifico presso i Giudei che si dava ai dottori della Legge, e più tardi, anche a coloro che, comunque, radunassero un gruppo di discepoli per istruirli. Nel Nuovo Testamento Gesù riceve spesso il titolo di r., sia da parte dei familiari (Mt. 26, 25.49; Mc. 9, 5 [Volgata]; II, 21; Io. 1, 38; 9, 2 ecc.), che da parte di estranei (Io. 3, 2; 6, 25); anche Giovanni Battista, dai suoi discepoli, è chiamato r. (Io. 3, 26). R. è parola ebraica, composta dall'aggettivo sostantivato rab (= padrone, signore, maestro) e dal suffisso pronominale di 1a pers. i (= mio); onde letteralmente r. significa: padrone mio ecc. (cf. il nostro: monsignore); col tempo, il suffisso i ha perduto il suo valore, specie quando il titolo precede un nome proprio, ad es. r. Simeon. Sempre al vocativo, ha come sinonimi; ***. Accanto a r., ricorre nel Nuovo Testamento anche *** (variamente ***), formato anch'esso da rabbon (= signore) e il suffisso pronominale i: cf. Mc. 10, 51; Io. 20, 16. Rabban, invece, che non ricorre mai nel Nuovo Testamento, era il titolo che veniva dato a quello dei dottori, che presiedeva l'accademia ebraica; il suo vero significato pare fosse: maestro (Cassuto); secondo altri, meno bene: maestro nostro. È incerta l'epoca in cui r. prese l'attuale significato di maestro; pare si possa fissare il secolo II-I a. C.; infatti, ricorre già nella Misnah (Abot. 1, 6). Ai tempi di Gesù, il titolo di r. era molto ambito per vanità, e spesso usurpato da chi non ne aveva diritto; da qui, il forte monito del divino Maestro (Mt. 23, 27 s.). Da r., è derivato il neo-ebraico rabbino (assente nel Nuovo Testamento) che indica, oggi, il ministro principale nel culto della sinagoga.
[B. P.]

BIBL. - L. FILLION, Rabbi, in DR, V, coll. 918-919; U. CASSUTO, Rabbi, in Enc. Ital., XXVIII, p. 65.3; STRACK-BILLERBERCK, Kommentar z. N. T. aus Talmud u. Midrasch, I, Monaco 1922, p. 916 ss.

RACA
Termine aramaico (reqa' oppure reqah); come epiteto offensivo (Mt. 5, 22) equivale su per giù all'italiano «testa vuota, stupido, cretino, ecc.», che il greco e il latino trascrivono semplicemente: ***, r. Anche al plurale, si legge spesso in scritti talmudici (H. Strack-P. Billerbeck, Kommentar z. N. T. aus Talmud u. Midrasch, I, Monaco 1922, p. 278). Per mostrare quanto fosse perfezionato l'antico precetto: Non ucciderai, Gesù afferma, fra l'altro, che nella nuova Legge Chi abbia detto al suo fratello "raca" sarà passibile del Sinedrio; modo di dire per accentuare il concetto che anche la minima ingiuria fatta al prossimo sarà oggetto di condanna.
[A. P.]

RACHELE
(Ebr. Rahel, "pecora madre"). - Figlia di Labano (Cen. 29, 6.9 s.), minore della sorella Lia (29, 16.18.26), moglie di Giacobbe (29, 28), madre di Giuseppe(30, 22 ss.) e di Beniamino (35, 16 ss.). Guardiana dei greggi paterni, riceve il bacio di saluto da Giacobbe e ne suscita l'amore (29, 16). Per R. Giacobbe si impegna a sette anni di lavoro, contratto che sostituisce il pagamento della somma (ebr. mohar, acc. terhatu) al suocero. Forse per l'uso di tenere velata la donna fino alla notte delle nozze, Giacobbe si trova come sposa Lia e deve impegnarsi altri sette anni per R. Il matrimonio con due sorelle, sebbene proibito da Lev. 18, 18 è attestato da contratti anteriori ad Hammurapi ed è sfruttato dai profeti per raffigurare le relazioni di Iahweh con Israele e Giuda (Ier. 3, 6 ss.; Ez. 23). R. sterile e desiderosa di figli, offre a Giacobbe la schiava Bilhah come concubina; così ha fatto Sara (Gen. 16, 12) secondo il diritto vigente. La schiava deve partorire sulle ginocchia della padrona, gesto che esprime l'adozione. Bilhah genera due figli che sono considerati di R. e chiamati da lei Dan e Neftali, secondo il privilegio riservato alla madre di imporre il nome. R., come Lia, ricorre alle mandragore, considerate come afrodisiaci dagli Ebrei (cf. Cant 7, 14), Arabi e Greci (Dioscoride 4, 76; Teofrasto, Hist. Plant. 9, 9) nella speranza di ottenere figli. Al disopra della lotta delle due donne, Dio apre e chiude il seno (Gen. 30, 22 ss.) e rende R. madre di Giuseppe. Quando Giacobbe vuol partire, R. e Lia si lamentano del padre (Gen. 31, 15): «Abbiamo ancora una parte e un'eredità nella casa di nostro padre? Non siamo noi considerate come straniere poiché egli ci ha venduto e in seguito ha mangiato il nostro denaro» ('akol keseph - akalu kaspa dei testi di Nuzu dove kaspu non significa solo denaro, ma anche il frutto della dote). Secondo gli usi la tirhatu doveva essere rimessa in parte alla sposa. Labano ha venduto la figlia e speso il ricavato. R. si rifà col furto dei terafim, titoli di successione, fugge con Giacobbe e finge di soffrire le mestruazioni (stato di impurità cf. Lev. 15, 19 ss.) per evitare la ricerca degli idoli sotto la sella del cammello sulla quale siede. Labano teme la contaminazione e, non sospettando che R. abbia potuto mettere a contatto gli dèi con una cosa impura, desiste dalla ricerca e lascia alla figlia i titoli all'eredità. R., all'incontro tra Giacobbe ed Esaù, come moglie preferita, è messa al sicuro (Gen. 33, l ss.). A Efrata ha un secondo figlio cui, morendo dà il nome "Ben-'oni = figlio del mio dolore" mutato dal padre in Benjamin = figlio della destra, del buon augurio" (dai testi di Mari significa "abitante del Sud"). È sepolta ad Efrata. I Sam 10, 2 pone la tomba di R. nel territorio di Beniamin. Cf. Ier 31, 15; Mt. 2, 18.
[F. V.]

BIBL. - C. H. GORDON, in RB, 44 (1935) 35 s.; ID., The story of Jacob and Laban in the light of the Nuzi tablets, in BACOR, 66 (1937), 25 ss.; M. BURROWS. The complaint of Laban's Daughters, in AOS. 57 (1947), 239 ss.; R. DE VAUX, in RB. 56 (1949), 32-35.

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