LEGGE EBRAICA - LEVI - LEVITI - DIZIONARIO BIBLICO

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LEGGE EBRAICA - LEVI - LEVITI
LEGGE EBRAICA
È il complesso dei testi legislativi contenuti tutti nel Pentateuco e designati di preferenza col termine torah o Legge d'origine religiosa, anziché con altri termini d'origine giuridica (dobhar e mispàt) o morale (mizwah). Essi comprendono: 1) il Decalogo (Ex. 20, 2-17; Deut. 5, 6-21) con un fine eminentemente religioso e morale; 2) il Codice dell'Alleanza (Ex. 20, 22-23, 19) con carattere spiccatamente giuridico e determinante i rapporti sociali di una comunità a base pastorale, ancora poco organizzata ma con forti tradizioni religiose; 3) il complesso rituale (Ex. 34, 11-26) di prescrizioni relative a feste di carattere agricolo e sacrifici; 4) il Codice Deuteronomico (Deut. 12-26) che riprende leggi preesistenti con formule nuove e ne prescrive delle altre, supponendo una società centralizzata, avviata al commercio e alla sedentarizzazione; 5) la Legge di Santità (Lev. 17-25) con un accento particolarmente sacerdotale, rituale e morale e con carattere giuridico; 6) testi legislativo-storici, collegati con avvenimenti storici e puntualizzati sotto l'aspetto religioso; 7) testi legislativi minori: legge dei sacrifici (Lev. 1- 71, legge della purità (Lev. 11-16), legge sulle feste e riti sacrificali (Num. 28-29), complementi alle leggi relative al santuario (Ex. 30), fissazione di costumi religiosi (Num. 5-6; 8-10; 15; 19; 30). Testimonianze esplicite sparse in tutta la l. e lo stesso esame dei testi obbligano a ritenere che l'insieme di dette prescrizioni sono dell'epoca mosaica; e non si ha valida ragione di negarle a Mosè, che coadiuvato dai leviti le fissò specialmente durante i 38 anni ca. passati a Cades, nel deserto, o le ha riviste (Deut.) nelle steppe di Moab, immediatamente prima dell'ingresso d'Israele nella terra di Canaan. È l'autenticità sostanziale di cui parla la Pont. Comm. Biblica. Si ammettono revisioni e aggiunte successive o adeguamenti alle mutate condizioni ambientali e sociali; tutti ispirati allo spirito del grande legislatore. (Cf. lettera al Card. Suhard della Pont. Comm. Biblica, 27 marzo 1948). Alla redazione della l. ebraica hanno concorso svariati fattori naturali: condizioni geografiche, economiche, sociali e psicologiche. Particolare interesse presenta l'influsso delle condizioni storiche: i rapporti razziali dei Patriarchi ebraici con la civiltà sumeroaccadica spiegano la concordanza generica tra la l. ebraica e la legislazione sumeroaccadica (Codice di Lipit-Istar, Esnunna, Hammurapi, leggi assire e neo-babilonesi); i rapporti sociali poi di questi Patriarchi con i Hurriti nella Mesopotamia del Nord ed in Palestina illuminano le strette affinità del diritto patriarcale con la legislazione hurrita di Nuzu (R. de Vaux, in RH, 56 [1949] 17-30); altre immancabili mutuazioni si ebbero dai contatti con la civiltà egiziana e dalla funesta simbiosi con la civiltà cananea. Il fattore principale però nella promulgazione e nella redazione di queste leggi, che ne assicura l'unità letteraria, è quello religioso. La religione non interviene soltanto come garante del buon andamento della vita pubblica ma la orienta tutta: Israele appare così una teocrazia: popolo che Dio stesso dirige mentre il capo visibile della nazione è semplice rappresentante e portavoce della volontà divina espressa particolarmente nella Rivelazione. A questa situazione e concezione teologica è dovuta l'attribuzione di tutta la l. a Dio stesso, quasi sua diretta rivelazione a Mosè (cf. la formula «Iahweh disse a Mosè»: Ex. 20, 22; 21, l ecc .. ). È questo un fenomeno caratteristico degli Ebrei: le leggi assire ed hittite non sono presentate di origine divina; la legge di Hammurapi proviene dal sovrano «l. le mie parole», «le mie preziose parole»: 24, 81; 25, 12 ss.) a cui Dio ha data la giustizia, qualità morale per fare buone leggi. La l. ebraica, mentre sotto l'aspetto tecnico-giuridico è inferiore alle collezioni orientali antiche, è ad esse superiore sotto quello etico-religioso: le sue prescrizioni religiose preservarono gl'Israeliti dal politeismo; quelle morali imposero al popolo una superiore norma morale; quelle cultuali favorirono un degno tributo di onore alla Divinità adombrando il Nuovo Patto che Dio avrebbe più tardi concluso con l'umanità; infine quelle penali confermarono negli Ebrei la coscienza del peccato e della possibilità della resipiscenza. Nel Nuovo Testamento l. designa, oltre la legislazione mosaica ed i libri che la contengono (Lc. 24, 44), anche l'economia del V. T., basata sulla l., in opposizione a quella cristiana vitalizzata dalla fede e dalla grazia (Io. 1, 17; Rom. 6, 14 ss.). Accanto alle prescrizioni legali e cerimoniali, che il Cristianesimo progressivamente eliminerà con la penetrazione nel mondo ellenico (Io. 4, 21-24; 2, 19-21; Mc. 7 15. 21-23; At. 7, 42-53; 15, 1-31), la l. enuclea il patrimonio della vera religione, con la sua morale ed i suoi vaticini messianici che Cristo non abrogherà ma realizzerà e perfezionerà, insegnandone un'osservanza più spirituale e più perfetta (Mt. 5, 17-48). Anche in s. Paolo la l. designa talvolta l'insieme della Rivelazione, degli oracoli di Dio (Rom. 3, 2; I Cor. 14, 21; Rom. 3, 19): allora in armonia con l'insegnamento di Cristo, egli ne afferma la continuità e la perfetta realizzazione nel Vangelo (Rom. 1, 2; 3, 21; 13, 8.10; 1Cor. 9, 8.9; Gal. 5, 14 ecc.). Abitualmente però indica la l. ebraica coi suoi comandamenti (Eph. 2, 15 Rom. 7, 8-13) e decreti (Eph. 2, 15) nei cui riguardi i giudizi di s. Paolo sono, a primo aspetto, contraddittori O. Bonsirven [v. Bibl.], p. 144 ss). Da una parte la 1. è presentata come donatrice di vita, santa e spirituale (Rom. 7, 10- 14); essendo stata comunicata per mezzo degli angeli e per la mediazione di Mosè (Gal. 3, 19; Hebr. 2, 2) essa costituisce il vanto precipuo d'Israele (Rom. 9, 4) che viene guidato da essa come da un pedagogo a Cristo (Gal 3, 24); osservandola si viene dichiarati giusti (Rom. 2, 13; 19, 5; Gal. 3, 12); ombra di Cristo futuro (Col. 2, 17), essa in Lui ha trovato il proprio compimento (Rom. 10, 4). Per altra parte la l. viene accusata di non aver condotto nulla alla perfezione (Hebr. 7, 19), di provocare la collera di Dio (Rom. 4, 15), perché moltiplica le trasgressioni (Gal. 3, 19; Rom. 5, 20), risveglia la coscienza morale (Rom. 3, 20) senza dare la forza per combattere il peccato; essa è la lettera che uccide (2Cor. 3, 6), causa di morte e di condanna (2Cor 3, 7 ss.; Rom. 7, 6); chi vive sotto di essa è nella sfera della carne (Rom. 7, 5; Gal. 3, 3) ed è oggetto della maledizione divina (Gal. 3, 10). Queste antilogie sono dovute a differenti punti di vista nel considerare il mondo giudaico. Per un piccolo resto di Ebrei, guidati dalla l. abbinata alla Grazia, ottenuta mediante la fede nella promessa divina, la l. fu un mezzo di salvezza: s. Paolo, meno tre poteva testimoniare d'essere stato irreprensibile secondo la l. (Phil. 3, 6; At. 22, 3), aveva conosciuto in molti Giudei suoi contemporanei e negli eroi del Vecchio Testamento simile fedeltà (Rom. 3, 6-18; Hebr. 11). Ma per la massa degli Ebrei, a motivo di una deviazione farisaica imperante che si lusingava di poter raggiungere la giustizia senza il bisogno della Grazia, la l. era un mezzo di perdizione, un giogo insopportabile d'innumerevoli e minute prescrizioni (At. 15, 10), un continuo inciampo nella vita morale e religiosa, che doveva essere eliminato dall'economia cristiana. Contro i Farisei convertiti (= i giudaizzanti) che pretendevano fossero battezzati i Gentili solo dopo averli obbligati alla circoncisione e all'osservanza delle altre pratiche della l. ebraica, s. Paolo sostenne energicamente l'abrogazione, la nullità ormai di tali prescrizioni e la relatività della l. mosaica, data per un dato periodo (v. Alleanza), come fine e preparazione al Cristo (Gal.; cf. Rom. 1-11); e quindi il diritto dei Gentili innestati direttamente al Cristo. Principio sancito solennemente a Gerusalemme dal principe degli Apostoli (At. 15, 1-35), che per rivelazione divina aveva già ammesso direttamente col battesimo nella Chiesa il primo Gentile, il centurione Cornelio (At. 10-11).
[A. R.]

BIBL. - A. CLAMER. La Ste Bible (ed. Pirot 2). Parigi 1940. pp. 7-16. 214-27. 485-503; J. B. PRITCHARD. Ancient Near Eastern Tests relating to the Old Testament. Princeton 1950. pp. 159-223 (leggi orientali); H. CAZELLES. Etudes sur le Code de l'Alliance, Parigi 1946; ID. in DBs, V. col. 497 ss.; G. BONSIRVEN. Il Vangelo di Paolo, trad. ital.. Roma 1951, pp. 144-52.

LEVI
Terzo figlio di Giacobbe, nato da Lia. Questa fa derivare il suo nome (Lewi) dal verbo Iéwah al nifal "unirsi, accompagnarsi" (Gen. 29, 34). Perché, col suo fratello maggiore Simeone aggredì proditoriamente e massacrò i sichemiti, per vendicare l'onore di sua sorella Dina, fu biasimato dal padre (Gen. 34, 25.31; 49, 5.7). Nulla si conosce della vita di L., all'infuori di questo truce episodio. Da lui prese il nome la tribù di L. o Leviti (v.). I suoi figli furono Gerson (Gerson), Caath (Qehath), Merari (Gen. 46, 11; I Par. 6, 1).

LEVITI
Nome patronimico (lewijjim, al singolare Iewi, come il capo stipite; aramaico "lewàj, plur. enf. "lewaje') della tribù dei discendenti di Levi (v.), spesso detti bené Lewi "figli di Levi", la quale ebbe la vocazione e l'investitura esclusiva del servizio cultuale. Si segnalò per la sua fedeltà a Iahweh, uccidendo, su ordine di Mosè, 3.000 adoratori del vitello d'oro (Ex. 32, 25·29), e di ciò furono molto lodati nella benedizione mosaica (Deut. 33, 8 ss.; cf. Mal. 2 ss.). Mosè ed Aronne erano l. (Ex. 2, 1; 6, 20). Iahweh destinò la tribù di Levi al servizio del santuario e dell'altare; si riservò i L. in luogo dei primogeniti (Num. 3, 12.41; 8, 16; 18, 6), e ad essi riservò l'esercizio del culto. "Levita" designò, quindi, l'ufficio più che la tribù. I tre figli di Levi diedero origine ai tre rami di l.: i Gersoniti, i Caathiti, i Merariti (Ex. 6, 16.19; Num. 3·, 17-37), cui furono affidate tre diverse categorie di mansioni cultuali (Num. 4, 1-49). La famiglia d'Aronne, discendente da Caath, fornì i sacerdoti; gli altri appartenenti alla tribù di Levi erano aiuti dei sacerdoti (Num. 3, 6; 18, 2). A torto molti critici hanno concluso, dall'espressione «i sacerdoti leviti» (Deut. 17, 9; 18, l), e dalle narrazioni di Iudc. 17-18, che tutti i l. potevano esercitare il sacerdozio. I l., ministri subalterni del culto, erano iniziati al loro ufficio sacro mediante riti di purificazione e di presentazione a Iahweh come offerta dell'assemblea d'Israele, che corrispondevano ai soli riti preparatori della consacrazione dei sacerdoti (Num. 8, 5.22): segregazione "dal mezzo dei figli di Israele", aspersione con acqua lustrale, rasatura di tutti i peli della cute, lavaggio delle vesti; l'offerta, poi, di due giovenchi presentati dai l., uno in olocausto, l'altro in sacrificio per il peccato; infine il rito di destinazione al ministero sacro: davanti all'altare gl'Israeliti (rappresentati dagli anziani) impongono le mani ai l., in segno di solidarietà che si traduceva in sostituzione. I l. iniziavano il servizio nel luogo sacro all'età di 30 anni (Num. 4, 3.23.30.35. 39.43.47; I Par. 23, 3) o a 25 anni (Num. 8,24); dal tempo di David a 20 anni (I Par. 23, 24.27; Esd. 3, 8), e lo smettevano (in ogni epoca) dopo il 500 anno. "David, dietro consiglio dei profeti Gad e Nathan (2Par. 29, 25) li divise in 4 classi o ordini (I Par. 15, 16-27; 23, 3 ss.; 25-26) cui assegnò le mansioni di cantori (I Par. 16, 4 s.), scribi e giudici, portieri o custodi, sorveglianti o tesorieri. Dopò l'esilio Neemia riordinò il servizio levitico (Neh. 13, 30). «Dati a Aronne e suoi figli dal mezzo dei figli d'Israele per compiere il servizio dei figli d'Israele nella tenda di riunione» (Num. 8, 19), il loro ufficio consisteva essenzialmente nel prestare aiuto ai sacerdoti in tutto ciò elle si riferiva al servizio sacro. "Avevano cura della sacra tenda e dei suoi arnesi, e la custodivano e preparavano (Num. 1, 50-53; 4, 1-49; 7, 5-9). Fu poi loro affidata la custodia e i va;i lavori del Tempio, oltre il canto, le fritture, la cottura dei pani (v.) di presentazione (I Par. 9, 14, 34); cantavano e suonavano mentre i sacerdoti offrivano i sacrifici (2Par. 29, 25-30). Con i sacerdoti istruivano il popolo nella legge (Neh. 8, 7) e prendevano parte alle funzioni giudiziarie (I Par. 26, 29; II Par. 19, 8). I testi biblici non parlano di vesti speciali dei l.; ricordano solo che vestivano di lino. Ad essi spettavano le decime di tutti i prodotti e delle greggi (Lev. 27, 30-33; Num. 18, 21·32; Hebr. 7, 5). Dovevano essere invitati ai banchetti sacrificali (Deut. 12, 12; 14, 27); erano liberi da imposte (Esd. 7, 24) e dal servizio militare (Fl. Giuseppe, Ant. III, 12, 4). I mutilati e deformi erano esclusi Nella divisione della iena cananea furono assegnate ai l. le 48 cosiddette città levitiche. Come Mosè aveva ordinato (Num. 35, 1-8), non ebbero, come le altre tribù, una parte del territorio cc perché la loro parte era Dio» (Num. 18, 20; Deut. 18, 2). Ma dalle altre tribù furono sottratte 48 città (Ios. 21, 39; I Par. 6, 54-81) con i loro distretti (2000 cubiti dalle mura). Di queste, 13 furono destinate ai sacerdoti nella tribù di Giuda e Simeon (Hebrori, Lobna, Iether, Esthemo, Holon, Dabir, Ain, Ieta, Bethsames) e di Beniamin (Gabaon, Gabaa, Anathoth, Almon); Hebron e altre 5 città levitiche erano anche città d'asilo. Dopo lo scisma del regno settentrionale (928 a. C.), molti l. dal nord si recarono nel regno di Giuda e principalmente a Gerusalemme (2Par. 11, 13 ss.). Dall'esilio babilonese ne tornarono relativamente pochi (Esd. 2, 40; 8, 15). Con la distruzione di Gerusalemme (70 d. C.) scompaiono i l. come casta dedicata al culto. Secondo la fantasiosa teoria lanciata da Wellhausen quasi 80 anni fa, ed oggi accolta dai cattolici che si "aggiornano", la differenza tra personale superiore e inferiore del culto, cioè tra sacerdoti e leviti, fu introdotta dalla riforma del re Iosia nel 622 a. C., quando costrinse i sacerdoti dei santuari alti (bamoth) a trasferirsi a Gerusalemme, ove però non furono ammessi al servizio del Tempio (2Reg. 23, 8-9); Ezechiele, durante l'esilio, li avrebbe destinati ad aiutare il sacerdozio di Gerusalemme (Ez. 44, 4.31); tale ordinamento nuovo sarebbe alla base del "codice sacerdotale" (Priesterkodex) nei quattro primi libri del Pentateuco, e il Cronista l'avrebbe introdotto nella sua storia del tempo preesilico; una tribù di Levi non sarebbe mai esistita oppure si sarebbe estinta rapidamente. Ma ciò è contraddetto dal fatto che anche i libri preesilici conoscono, accanto ai sacerdoti, i l. Può darsi che nei secoli più antichi anche persone non appartenenti alla tribù di Levi fossero occasionalmente incaricate del servizio cultuale e quindi ritenute leviti, come Samuele (1Sam 2, 11) e forse Giosuè (Ex. 33, 11). Riferendosi al nome sudarabico lawi'u ("sacerdote"), femminile lawi'at, trovato da J. Euting tra le iscrizioni minee di el-Ela, F. Hommel (1893), poi Mordtmann, Sayce e altri critici, hanno affermato che originariamente lewi designava, non un uomo e la sua stirpe, bensì l'ufficio sacerdotale. Ma lewi in ebraico non significa mai "sacerdote"; né ricorre mai l'espressione "il lewi di Iahweh", mentre nelle iscrizioni minee si ha "il sacerdote (lawi'u) di Wadd". In Israele, peraltro, non si ebbe mai personale femminile nel culto. Poiché lewi etimologicamente significa" "unito, attaccato" (il verbo lwh al nifal = "aderire" a qualcuno: Is. 56, 3.6; Ps. 83, 9), il nome venne ad esprimere la funzione: i l. sono detti "associati" (illawu) ad Aronne, sommo sacerdote (Num. 18, 2). A torto però deducono molti critici che lewi non fu in origine né nome personale né patronimico, ma un qualificativo esprimente la funzione di "addetto" a un'istituzione cultuale. W. Baudissin, che spiega lewijjim "addetti alla scorta dell'arca" (Gesch. des alttest. Priestertunis, Lipsia 1889, p. 72), poggiandosi su Num. 18, 2.4, afferma che i l., essendo "addetti" ai sacerdoti, non sono per la loro nascita destinati al culto (ib., p. 50); ma questo stesso testo biblico smentisce ciò, poiché Dio presenta i l. ad Aronne come suoi "fratelli, la tribù di Levi, la razza di Aronne". Per P. de Lagarde (Orientalia, II, Gottinga 1880, p. 20), seguito da E. Renan (Histoire du peuple d'Israel, I, Parigi 1887, p. 149), i l. sono gli Egizi che "si unirono" agli Israeliti che emigravano (Ex. 12, 38; Num. 11, 4); ma questa ipotesi arbitraria misconosce la suscettibilità nazionale d'Israele, che non avrebbe mai affidato. a stranieri l'alto ministero del culto. Le "novità" che oggi vengono propugnate intorno all'ordinamento cultuale nell'Israele biblico sono tutte contenute nella vasta opera di W. Baudissin. È storicamente innegabile, dalle antiche enumerazioni delle tribù, dalla benedizione di Giacobbe (Gen. 49, 5-7) confermate dalla benedizione di Mosè (Deut. 33, 8-11), che i l., ancor prima della loro consacrazione al servizio cultuale, costituivano una tribù discendente dal terzo figlio di Giacobbe.
[A. Rom.]

BIBL. - A. VON HOONACKER, Le Sacerdoce Lévitique dans la loi et dans l'histoire. Londra-Lovanio 1899; A. LEGENORE, Lévi, in Dictionnaire de la Bible, vol. IV, Parigi 1908, coll. 199-213; F. X. KORTLEITNER, Archeologia biblica. Innsbruck 1917, pp. 151- 162. 165-173. 210-216 ; ID., Commentationes biblicae, vol. III, Innsbruck, 1930, p.p 94- 98: ID., Formae cultus mosaici, 3a ed., Tongerloo 1933: F. X. KUGLER, Von Moses bis Paulus, Munster 1922, pp. 119-125 e 234-68: A. SANDA, Moses und der Pentateuch, Munster 1924, pp. 187-246 e 335-43: H. GRIMME, Der Sudarabische Levitismus und sein Verhaltnis zum Levitismus in Israel. in Muséon 1924. pp. 169-99: A. EBERHARTER. Der Israelitische Levitismus in der Vorexilischen Zeit. in ZkTh. 1928, pp. 492·518; K. MOHLEN-BRINK, Die levitischen Ueberlieferungen des Alten Test . in ZatW, 1934, PP. 184-230; A. LEFÈVRE, Note d'Exegèse sur les généalogies des Qehatites. in RScR 1950, pp. 287-92; ID., Lévitique Organisation, in DBs, fasc. 25 (1952), coll. 389-97; A. ROMEO: I Leviti, in Enciclopedia del Sacerdozio (dir. G. Cacciatore), Firenze 1953, pp. 423-35. 438 s.

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