GIOBBE - GIOELE - DIZIONARIO BIBLICO

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GIOBBE - GIOELE
GIOBBE
L'eroe del libro omonimo; ricco e saggio idumeo (Us, tra Edom e l'Arabia. settentrionale, cf. Ier. 25, 20-2.4; Lam. 4, 21), perfetto cultore del vero Dio, anche nelle più grandi sofferenze. Il nome ricorre anche nelle lettere d'el-Amarna = A-ia-ab. Ez. 14, 20 ricorda G. per la sua giustizia (cf. Iob 12, 4) con Noè (cf. Gen. 6, 9) e Daniele (cf. Eccl. 49, 9); Iac. 5, 11 lo ricorda per la sua pazienza (cf. Tob. 2, 12-15 nella Volgata). Riferimenti tratti dal libro sacro, e che quindi non decidono se C. è un personaggio reale o figura puramente letteraria. Il libro di G. è «uno dei più meravigliosi poemi del mondo» (A. Vaccari); lo si è avvicinato alla Divina Commedia di Dante, e al Faust di Goethe. «Un tema appassionante, un dramma profondamente umano e divinamente sublime, vi è trattato con una vivezza di colorito, con una forza di affetto, con tanta varietà di forme, che può ben dirsi la lingua vi abbia esaurita la sua facondia e l'arte la sua tavolozza» (Vaccari). La parte centrale, il poema propriamente detto (cc. 3-41) è in versi di squisita fattura; l'introduzione e prologo (cc. 1-2) e l'epilogo (42) in prosa.
Il Libro di Giobbe
Composizione eminentemente didattica
I. (cc. 1-2). - Il pio G. dalla più grande prosperità piomba, per permesso di Dio, nella più squallida miseria; perde figli, averi; egli stesso colpito da ributtante malattia è scacciato da casa, disprezzato e schernito fin dalla propria moglie. Pur nel profondo dolore, G. è rassegnato al volere Divino. Tre amici: Elifaz (nativo di Teman cf. Gen. 36, 11, celebre per la saggezza cf. Ier. 49, 7), Baldad (di Sue, nell'Arabia settentrionale, Gen. 25, 2) e Solar, si recano a consolarlo; ha inizio così il dialogo.
II. (cc. 3-41). - G. lamenta i suoi dolori (c. 3); gli amici partendo dall'idea allora comune: - soffre soltanto chi ha peccato -, non sopportano che G. attesti la sua innocenza; una tale protesta per essi è una bestemmia, una empietà contro la divina giustizia; invitano pertanto G. a umiliarsi e a invocare misericordia. Gli amici parlano sempre nel seguente ordine Elifaz, Baldad, Sofar, e G. risponde volta per volta a ciascuno; e con un crescendo manifesto. Nella prima disputa (4, 14), Elifaz espone la tesi suddetta in forma astratta, per evitare l'esplicita condanna di G., fondandola su una rivelazione soprannaturale (4-5). Ma G., che accetta le sue sofferenze, non può dubitare della sua innocenza; pur non sapendo spiegare perché il Signore l'abbia colpito (6-7). Interviene Baldad a favore di Elifaz, con l'autorità della tradizione; proclamare la propria innocenza, come fa G., è offendere la Provvidenza (8). G. vede ancora più chiaramente il contrasto tra questa teoria e il fatto della sua innocenza (9-10). Queste parole scandalizzano il giovane Sofar che adduce in prova della tesi degli amici, argomenti di ragione e l'esperienza (11-12, 6). Ma l'esperienza, replica G., dimostra il fatto sconcertante della prosperità degli empi. La sua fede nella giustizia di Dio è indiscussa e profonda; resta pertanto più vivo il mistero (12, 5-14, 21). Nella seconda disputa (15-21), i tre amici accusano apertamente G. di empietà; è impossibile che soffra da innocente. Elifaz adduce la propria esperienza e la dottrina dei saggi (15, 1-18); gli altri due ripetono la stessa cosa con tono violento e con acrimonia (cc. 18-20). G. non spera più comprensione (15, 17-35; 16, 1-5); ma ripone in Dio tutta la sua speranza, pregandolo vivamente che intero venga a dare il Suo giusto giudizio, prima che egli scenda negl'inferi (16, 6-17, 16); la dottrina dei suoi tre importuni visitatori lo disgusta profondamente, gli risulta, infatti, ineccepibilmente contraria all'esperienza (21). Dio sarà il suo vindice; G. è sicuro che egli interverrà lì dinanzi ai suoi oppositori, prima che la morte lo faccia scomparire nello se'ol (19); per l'esegesi, v. Risurrezione dei corpi. Nella terza disputa (22-28), gli amici irritati colmano di ingiurie il povero G. attribuendogli i più gravi peccati (22-25). G. risponde con l'ironia; la felicità dell'empio è evidente, e gli oltraggi non sono ragioni. Egli invoca il giudizio di Dio (27, 1-6). Dopo un inno alla sapienza divina (c. 28), G. imbastisce abilmente la difesa (29-31). Egli invoca un giudizio in regola nel quale si propone di affrontare Dio, che crede irritato contro di lui, e confutare i tre implacabili accusatori (Iob 13, 18; 31, 35 ss.); desidera pertanto un arbitro, un avvocato che prenda le sue difese (cf. 9, 33; 31, 35: «chi mi darà qualcuno che mi ascolti?). Quest'arbitro è Elia, che interviene con un tono affatto speciale. G. non deve dire che Dio lo perseguiti; Egli invia i mali non solo per punire, ma anche per preservare e purificare. Vendica così l'innocenza di G., lo illumina circa lo scopo delle sue sventure e prelude all'intervento finale di Iahweh (38-41). Dio appare in una nuvola che ne vela la maestà ed espone la sua onnipotenza e la sua sapienza nella creazione e nel governo dell'universo. Com'è possibile penetrare l'insondabile opera di Dio nel mondo morale, quando non riusciamo a farlo per lo stesso mondo fisico?
III. - G. si prostra e confessa la sua ignoranza. Nell'epilogo (42) Dio pronunzia la sentenza; i tre saggi sono condannati e a G., dichiarato innocente, sono restituiti altrettanti e maggiori beni di prima. «La conclusione morale è che, per una misteriosa ma sapiente disposizione di Dio, talora anche i giusti soffrono senza veruna colpa; che però infine Dio premia la virtù misconosciuta dagli uomini. Il fondo del libro è così la discussione concretata in un fatto, sulla origine e ragione ontologica del dolore» (A. Vaccari). Il problema non è del tutto risolto, ma sono dati i punti essenziali che entreranno sulla soluzione adeguata, insegnata dal cristianesimo: a) le sofferenze provano il giusto; b) lo preservano dall'orgoglio, dal peccato (discorso di Eliu); c) l'uomo deve sempre rimettersi alla Sapienza divina, affidano dosi alla sua Provvidenza. L'unità della composizione è mirabile: il prologo è richiesto come fondamento e l'epilogo come complemento. L'intervento di Dio, connesso con l'invocazione di G. (31, 35 ss.), dello stesso Elifaz (5, 8) e con l'annunzio di Eliu (37, 16·24), è il punto culminante preparato e atteso in tutto il poema. Eliu è l'avvocato di G. ed arbitro della discussione, ne fa il punto e preludia la sentenza di Iahweh (L. Dennefeld). Autore del libro è un dotto ed ignoto giudeo di Palestina. È innegabile l'affinità e la dipendenza di G. dai libri sacri e particolarmente da Geremia (cf. Ier. 12, 1-4 per il tema; Ier. 20, 14-19 e Iob 3, 3-12; Ier. 9, 3 e Iob 7, 15, ecc.).
Datazione e natura
L'autore ha scritto probabilmente verso la fine del regno di Giuda; l'eleganza dello stile, la proprietà della lingua rendono poco verosimile una data posteriore all'esilio. Il testo ebraico ha bisogno di molte correzioni, ma nel complesso è meglio conservato di altri libri del Vecchio Testamento, ad es. di Geremia; la versione greca dei LXX è piuttosto libera; in genere, tende ad abbreviare. La siriaca è fedele, utile per la critica, ma poco giova per l'esegesi. Tra tutte eco celle la versione latina di s. Girolamo (Volgata) per comprensione del testo, chiarezza ed eleganza (Vaccari).
[F. S.]

BIBL. - P. DHORME. Le livre de Job. Parigi 1926: L. DENNEFELD, Le discours d'Elihou (Job 32-37), in RB, 48 (1939) 163-80, con esauriente bibliografia; G. RICCIOTTI. Giobbe, Torino 1924; A. VACCARI, La Sacra Bibbia, IV. Firenze 1949. pp. 13-100; A. LEFEVRE. in DBs, XXII, coll. 1073-98; O. GARCIA DE LA FUENTE, La prosperidad del malvado en el libro de Job y en los poemas babilonicos del «Justo pacient». in EstE, 34 (1960) 603- 619: Miscellanea biblica A. Fernandez.

GIOELE
Profeta, probabilmente di stirpe sacerdotale (cf. 1, 13; 2, 17); il nome = Iahweh è Dio (Ioel). A motivo dei suoi frequenti richiami a Gerusalemme e a Sion la sua attività è posta in Giudea e precisamente nella capitale. Allo stesso modo, solo con l'esame interno, si cerca definire il tempo in cui G. profetizzò. Prevalentemente gli antichi (cf. Konig, Theis) pensavano al regno di Ioas (836. 797); la moderna esegesi (dal Merx in poi) inclina sempre più concordemente per dopo l'esilio, tra il 500 e il 400 a. C. Infatti G. non ha accenni al regno di Samaria, a Damasco, all'Assiria e all'impero babilonese; al re di Giuda, e particolarmente ai peccati di idolatria; il popolo di Giuda è tutto Israele (2, 17-27; 3- 2,-16; come nei Par.); ha allusioni all'avvenuta distruzione di Gerusalemme, all'esilio dei superstiti, all'invasione del paese da parte delle genti vicine. Sono notate le dipendenze di G. dai profeti antecedenti, e in particolare da Ezechiele (Ioel 3, 4·8.19 [in ebr. c. 4], con Ez. 35-36; Ioel 3, 9-17 con Ez. 38-39; Ioel 3, 18 con Ez. 47, 1- 12). Qualcuno precisa ancora, subito dopo Malachia, in quanto i sacerdoti in C. appaiono pii intercessori (1, 13 s.; 2, 15 s.), mentre sono noti i richiami di Mal. contro i loro difetti e il loro poco zelo. Il testo, nell'originale ebraico consta di 4 cc.; nella Volgata ne ha 3 (2, 28-32 della Volgata = 3, 1-5 dell'ebr.; il c. 3 della Volgata = c. 4 in ebr.). La breve profezia di G., narrata una terribile invasione di cavallette (1, 1-12), esorta al pentimento (1, 13-20). Il flagello viene ancora descritto con vivide immagini e forti metafore, ed è presentato come un esempio, o tipo del "giorno di Iahweh" o manifestazione della divina giustizia (2, 1-11); ripete l'esortazione a rivedere la propria condotta morale (2, 12-17). A tali disposizioni di Giuda, risponde il Signore: promettendo, con la cessazione del flagello, grandi benedizioni temporali (2, 18-27) e spirituali (2, 28- 32; ebr. 3). Giuda sarà liberato dai nemici che tenteranno di soffocarlo; questi saranno puniti (3, ebr. 4). Il testo è ben conservato; lo stile è smagliante. La profezia sostanzialmente assicura la realizzazione delle promesse divine sulla stabilità del nuovo Israele, rinato dopo l'esilio sui colli di Giuda; e sul suo passaggio e completamento definitivo nel regno del Messia. Ci saranno è vero delle lotte, principalmente quella vaticinata da Ez. 38-39, ma Dio interverrà ("giorno di Iahweh"), e assicurerà il trionfo, e quindi l'esistenza dell'antica Economia, fino all'avvento del Messia. E al regno messianico si riferisce il celebre oracolo (2, 28-32; ebr. 3) realizzato si nella Pentecoste, al promettente inizio della predicazione apostolica (At. 2, 14-21; cf. Rom. 10, 12 s.). Grandiose immagini tradizionali (cf. Is. 13, 10; Ez. 32, 7 s.) sono le commozioni della natura, in esso annunziate: così meraviglioso sarà l'intervento divino nell'effusione dello Spirito, che lo stesso creato ne sarà colpito (v. Escatologia); come semplicemente simbolica è l'indicazione "valle di Giosafat" (v.), (valle dove "Iahweh giudica" o punisce le nazioni pagane), concretizzata soltanto posteriormente (IV sec. d. C.!) nella valle del Cedron.
[F. S.]

BIBL. - L. DENNEFELD, Les problèmes du livre de Joel, Parigi 1926: G. M. RINALDI, Il libro di lode, Rapallo 1938; H. HOPFL-MILLER-METZINGER, Introd. generalis in V. T., Roma 1946, pp. 498-505; G. RINALDI, I profeti minori, II, (La S. Bibbia. Marietti), Torino 1959, pp. 125-168.

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