CESAREA MARITTIMA - CHERUBINO - CHIESA - DIZIONARIO BIBLICO

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C
CESAREA MARITTIMA - CHERUBINO - CHIESA
CESAREA MARITTIMA
Città della Palestina edificata (22-91 a. C.) da Erode il Grande, al posto dell'antica Torre di Strabone; dotata di un grandioso porto con moli e torri, di un tempio in onore di Augusto e della Dea Roma e di un palazzo regale (At. 23, 35) poi sede dei procuratori romani, denominata nel 9 a. C. (odierna el Qaisariye) in onore di Angusto (Flavio Giuseppe, Ant. XIII, 11, 2; 12, 2.4; XIV, 4, 4 ecc.; Bell. I, 20, 3; 21, 5, 8). Essendo una città ellenistica con popolazione prevalentemente pagana, fu presto lievitata dal Cristianesimo: fu residenza del diacono Filippo (v.); quivi fu battezzato il centurione della coorte italica, Cornelio, il primo incirconciso ammesso nel cristianesimo, per intervento soprannaturale, da s. Pietro (At. 10); qui morì di morte ignominiosa Re Erode Agrippa I, che vi si fece orgogliosamente proclamare dio (At. 12, 19.22; F. Giuseppe, Ant. XIX. 8, 2). A c. passò s. Paolo per recarsi da Gerusalemme a Tarso dopo la sua conversione; vi approdò di ritorno dal suo secondo e terzo viaggio apostolico; vi fu trattenuto prigioniero per due anni (58-60 d. C.) sotto i procuratori romani Felice e Festo; di qui infine, dopo essersi appellato a Cesare e difeso anche dinanzi ad Agrippa II e Berenice, s'imbarcò per Roma (At. 9, 30; 18, 22; 21, 8; 23, 23-27, 2).
[A. R.]

BIBL. - E. LE CAMUS. in DR. II, coll. 456-65; F. M. ABEL, Géographie de la Palestine. II, Parigi 1938. p. 296 s.; J. GORBACH. Caesarea Palaestinae, in Das hl. Land in Vergangenheit und Gegenwart. 4 (1949) 45-80.

CHERUBINO
(Ebr. kerubim plur. di kerùb). È un ministro visibile di Dio, ne manifesta la presenza e simbolizza l'azione. Il nome ha un equivalente solo nell'acc. karibu "colui che prega, intercede", participio presente di karabu, che nel pantheon assiro-babilonese è un dio (il nome è preceduto dall'ideogramma determinativo "ilu = dio"), ma secondario, come lo sedu e il lamasu, geni tutelari, ed è rappresentato, come essi, alle porte del tempio (v. anche il cilindro di Asarhaddon scoperto recentemente a Nimrud, lin. 10 s. in Iraq, 14 [1952] 54-60). Non si conserva nei rituali una descrizione tecnica, né alcuna figura di geni tutelari porta il nome del karibu. I c. biblici hanno il nome in comune col karibu, l'antropomorfismo e la funzione, non il carattere divino. In Gen. 3, 24 (Ez. 28, 14.16) i c. sono posti davanti all'Eden con la spada fiammeggiante, immagine della folgore e simbolo dell'anatema divino, per custodire il cammino all'albero della vita. Avrebbero ali e forme umane, secondo Dhorme e Vincent, o sarebbero quadrupedi alati con faccia umana, per Wright. Nel tabernacolo i c. occupano un posto considerevole: ricamati sulle tende interne (Ex. 26, 1.31; 36, 8.35) appaiono all'estremità del propiziatorio (Ex. 25, 17-22; 37, 6-9) donde, tra 2 c., Dio parla a Mosè (Num. 7, 89) ed è chiamato "colui che siede sui c." (I Sam 4, 4; 2Sam 6, 2; 2Reg. 19, 15; Is. 37, 16; Ps. 80, 2; 99, 1; Dan. gr. 3, 55) o "colui che viaggia sui C. e vola sulle ali del vento" (2Sam 22, 11; Ps 18, 11; cf. Ez. 10, 19 s.). L'immagine del re seduto sul trono, sostenuto da sfingi o leoni, alati, con testa umana, degli scavi di Byblos, Hamath e Megiddo (1200-800 a. C.) ha spinto ad una identificazione, per Albright certa, dei C. Nel tempio di Salomone non mancano 2 c. in legno d'olivo rivestito d'oro, dell'altezza di 10 cubiti (= ca. 5 m.) con ali della stessa misura, che raggiungono le opposte pareti e si toccano all'interno tra loro (I Reg. 6, 23-28; 2Par. 3, 10-13, cf. I Reg. 7, 6 s.; 2Par. 6, 7 s.). Sono ricamati sulla tenda che nasconde il santo dei santi (2Par. 3, 14) e scolpiti tra le ghirlande e i palmeti delle pareti del tempio (I Reg. 6, 29; Ez. 41, 18.20.25) e sulle 10 basi (I Reg. 7, 29.36) che sono, per Albright, archeologicamente parallele agli altari per l'incenso, scoperti a Taanac e a Megiddo. In Ez. (1, 5 s.; 9, 3; 10, 1 s.; 41, 18 s.) i C. sono legati alla gloria di Iahweh (cf. Eccli. 49, 8) ; e presentano esseri non specificati, variamente composti, con quattro aspetti: testa, e forse petto, d'uomo; ali d'aquila; il corpo di leone da un lato e di toro dall'altro. Tutti questi simboli e perciò tutte queste forze, erroneamente divinizzate dai Babilonesi, servono di sgabello al trono dell'unico vero Dio. Il N. T. non offre molte spiegazioni: Hebr. 9, 5 è un chiaro riferimento a Ex. 25, 17 ss. Anche nei 4 animali di Apoc. 4, 6 si riscontrano i c. di Ezechiele, sebbene non nominati.
[F. V.]

BIBL. - P. DHORME - H. VINCÈNT. Les Chérubins, in RB, 35 (1926) 328 SS. 481 ss.; W. F. ALBRIGHT, What were the Cherubin, in The Biblical Archaeologist, I (1938) l ss.; TRINQUET J.. Kerub, Kerubin, in DBs; F. SPADAFORA; Ezechiele, 2a ed., Torino 1951, pp. 27-37. 85-90.

CHIESA
Nel Vecchio Testamento il gr. *** (traduzione assieme a *** dell'ebr. qahal) indica adunata di popolo (per es. Deut. 9, 10; 18, 16) qualche volta per motivi civili (Eccle. 26, 5; Iudc. 20, 2; il popolo è convocato per la guerra), ma ordinariamente a scopo religioso (Deut. 9, 10; 18, 16, ecc.; molte volte in Ps.): così il giorno in cui il popolo veniva convocato alle falde del Sinai (Deut. 4, 9-13; 5, 19, ecc.) è detto iom haqqahal: *** (trad. greca); e "C. (= adunata) d'Israele" il raduno del popolo per la dedicazione del tempio (I Reg. 8, 14 . 22), e per la celebre festa delle capanne, sotto Esdra e Neemia (Neh. 8, 17). "Sinagoga", invece, ha un significato più generico e profano. Il termine C. è usato solo tre volte nei Vangeli (Mt. 16, 18; 18, 17 bis); 23 volte negli Atti; 64 nelle Lettere di s. Paolo; 1 in Iac.; 3 nella III Io. e 20 in Ap. Ha il significato di "adunata di popolo" o "popolo adunato" (At. 19, 32.39'.40); sempre per il culto di Dio; C. sono gli stessi adunati (Rom. 16, 23; I Cor. 11, 23; cf. I Cor 7, 7; 17; 14, 33.34.35). Più spesso designa "società locali" (per es. At. 5, 11; 8, 1.3; 11, 26; 12, 1...), frequentemente con l'indicazione del luogo dove la C. risiedeva (la C. di Cenere: Rom. 16, l; cf. I Cor l, 2; 1Ts. l, 1...). Lo stesso senso ha il plurale chiese (Rom. 15, 31; 16, 4.5.6... ). La comunità qualche volta è tanto piccola da abbracciare soltanto una famiglia: C. domestica (Rom. 16, 5; I Cor 16, 29; Col. 4, 15 ... ). Ma nello stesso tempo si parla di C. che si estende per tutta la Giudea, la Galilea, la Samaria (At. 9, 31; cf. 8, 1; 13, 1; Rom. 16, 1; I Cor 1, 2; 2Cor 1, 1); è l'unica C. universale che comprende tutti i fedeli, e che si manifesta nelle varie comunità o C. particolari (per es. Rom. 16, 1; I Cor 1, 2; 2Cor 1, 1). L'universalità della C. vien confermata dal fatto che sia le chiese giudaico-cristiane (per es. in Gerusalemme) sia quelle etnico-cristiane (in Antiochia) era n dette con lo stesso diritto C. Si ha qualche volta la specificazione chiesa di Dio (At. 20, 28; I Cor 1, 2; 2Cor 1, 1; cf. qahal Iahweh). La C. realizza il "regno di Dio" ( ="regno dei cieli": Mt.) preannunziato dai profeti, termine ultimo di tutta l'antica economia (v. Alleanza). La C. è lo stesso "regno di Dio". Termine e significato vanno dunque interpretati alla luce dell'uso nel V. T.: la C. del N. T. è il popolo eletto, erede e perfezionatore della e. o regno di Dio del V. T. Di ciò si ha conferma nelle qualità ché, già attribuite al popolo del V. T. (cf. Ex. 19, 5.6), son trasferite ai cristiani: schiatta eletta, regale sacerdozio, stirpe santa, popolo acquisito (I Pet 2, 9). Questi sono la circoncisione (Phil. 3, 3), Israele di Dio (Gal. 6, 16), il seme di Abramo e i suoi eredi (Gal. 3, 29), le dodici tribù (Iac. 1, 1). Così son detti chiamati, eletti, santi, diletti (Rom. 1, 6.7; 1Cor 1, 2 ...) come il popolo del V. T. (Ex 19, 5; Deut. 7, 8.9). La C. per S. Paolo è anche il corpo di Cristo (cf. Rom. 12, 4-8; I Cor 12, 31 e particolarmente le lettere della prigionia, Eph., Col.). I cristiani sono un solo corpo perché tutti vivono della stessa vita, ricevuta nel battesimo, nutrita con l'eucaristia (I Cor 10, 17) e vincolo di unione non solo a Cristo (Rom. 6, 3), ma a tutti gli altri cristiani (I Cor 12, 13); v. Corpo mistico. La relazione tra Cristo e i fedeli, principio di unione e di grazia, è presentata con l'immagine di Cristo capo del corpo della C. (Eph. 1, 22; 2, 16; 4, 15.16; 5, 23.30; Col. 1, 18, 24; 3, 15). Cristo capo ha il primato assoluto (Col. 1, 18; Eph. 1, 22); a lui la C. è soggetta (Eph. 5, 24); Egli è principio di unione (Eph. 4, 16) e di vita del corpo (Col. 2, 19); questo deve tendere a lui (Eph. 4, 15). Con il sacrificio della croce Cristo operò questa unione, soppresse la legge, ruppe la parete che divideva i Giudei dai Gentili (Eph. 2, 14- 16), influì salutarmente sui fedeli (Eph. 4, 15, 16; Col. l, 20; 3, 15) e redense la C. (Eph. 5, 23). Affinché questo corpo giungesse alla statura perfetta, Cristo, oltre i vari doni, come il battesimo e la fede, largì il suo Spirito (Eph. 2, 22; 4, 4) e mansioni di vario genere che i fedeli devono disimpegnare nella misura a ciascuno di essi concessa (Eph. 4, 11-14) e nella carità (Eph. 4, 3.16). I fedeli a loro volta risentono di questi influssi vitali in quanto son membra del corpo di Cristo (Eph. 4, 16) e aderiscono al Capo (Col. 2, 19). La C. è detta anche pleroma (pienezza) di Cristo (Eph. l, 23). In Cristo abita il pleroma della divinità, che tende alla santificazione degli altri; il Cristo è la causa della redenzione e della salvezza universale e vuole che tutti si santifichino (Col. l, 18; cf. Eph. 4, 10). Dunque la C. è il pleroma di Cristo, in quanto in essa si esercitano tutti gl'influssi salutari del Cristo, operanti la redenzione. (cf. J. Huby, Les Epitres de la captivité, Paris 1935, pp. 167-71). La C. è inoltre sposa di Cristo (Eph. 5, 22-32; cf. II Cor 11, 2) e Cristo consegnò se stesso per lei affinché la santificasse. È agricoltura di Dio, costruzione di Dio (I Cor 3, 9), tempio santo in costruzione (Eph. 2, 21; cf. I Cor 3, 15). Da queste immagini appare chiaro che la G. non è qualcosa di statico, ma di dinamico, in quanto è coltivata, edificata, santificata (cf. Eph. 4, 15.16), deve crescere come corpo. Perché la C. pervenisse allo stato di perfezione Cristo le concesse molti carismi (Eph. 4, 7.16; cf. Rom. 12, 3-8; I Cor 12, 7-30), disciplinati dalla gerarchia (I Cor 12, 14), perché essa non è una società carismatica, ma retta dall'autorità: gli apostoli (Mt. 28, 18-20; Mc. 16, 15; Lc. 24, 47; Io. 20, 21) cui trasmise la sua autorità (Lc. 10, 16; Mt. 10, 40; 18, 18) e ne assegnò in Pietro e nei suoi successori, il capo, fondamento della C. e capo universale (Mt. 16, 18.19), guida autorizzata delle pecorelle (Io. 21, 16-18: cf. F. Spadafora, I Pentecostali, 2a ed., Rovigo 1950, pp. 50-89). Dell'esercizio di questa autorità concessa a Pietro abbiamo vari indizi già sin dai tempi apostolici (At. l, 15; 2, 14-17...). Gli apostoli ritenevano piena potestà sulle chiese da loro fondate (I Cor 11, 16.34), anche se vi erano già dei superiori locali (1Ts. 5, 12; Rom. 12, 5; At. 14,23; 20, 17; vescovi e diaconi: Phil. 1, 1). Verso la fine della vita s. Paolo enuncia le regole per la costituzione dei successori, indicando le qualità di cui dovevano essere rivestiti (I-II Tim.; Tit.; cf. U. Holzmeister, in Biblica, 12 [1941] 41-69). La C. infine è la società di quelli che per la predicazione degli apostoli credettero in Cristo (Rom. 10, 9.10). Tutti possono prendervi parte (Rom. 10, 11.12). Si entra col battesimo (Mt. 28, 19; Mc. 16, 16; At. 2, 28 ... ). Rito d'unione è l'eucaristia (I Cor 10, 17), legge fondamentale la carità fraterna (Io. 13, 35). Il fedele ha il dovere di osservare tutti i precetti di Cristo (Mt. 28, 20; cf. Rom. 13, 9), in caso contrario l'autorità ha la facoltà di radiarlo dalla comunità (Mt. 18, 17) o per errori circa la fede (I Tim. 1, 20) o per cattivi costumi (I Cor 5, 3-6; 1Ts. 3, 6.14). Però la potestà non fu data per dominare ma per servire (cf. Lc. 22, 25-27; Philem. 8, 9; I Cor 4, 14.15; I Petr. 5, 3) e per edificare il corpo di Cristo (Eph. 4, 12).
[B. N. W.]

BIBL. – A. MÉDEBIELLE, in DBs. II, coll. 487-691; K. L. SCHMIDT, in ThWNT. In. 502-39; L. CERFAUX, La théologie de l'Eglise suivant s. Paul. 2a ed. Parigi 1948; F. M. BRAUN. Aspects nouveoux du problème de l'Eglise, Friburgo 1942; C. SPICQ. Les E. pastorales. Parigi 1947, pp. 84-97. 234-40; M. MEINERTZ, Theologie des Neue Testaments, I, Bonn 1950, pp. 69-80.

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