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Per noi il
vangelo designa sia lo scritto che narra la vita di Gesù, sia il brano che ne
viene letto ad ogni messa. In greco profano vangelo significava «buona novella»,
specialmente annunzio di vittoria. La pace romana, i principali fatti della vita
dell’imperatore, dio e salvatore, erano celebrati come altrettanti vangeli.
Tuttavia non c’è dubbio che il linguaggio cristiano abbia desunto dal VT il
verbo «evangelizzare» , col senso particolare che già vi possedeva: annunciare
la salvezza.
I. VECCHIO TESTAMENTO
L’ebraico disponeva di una parola per indicare l’annuncio delle buone novelle,
della vita privata o nazionale: la morte d’un nemico (2 Sam 18, 19 s. 26), la
vittoria (Sal 68, 12), la salvezza di Giuda (Nah 2, 1). Questa parola assume
valore propriamente religioso in Is 40 - 66. Il «messaggero di buona novella»
annuncia allora, con la fine dell’esilio la venuta del regno di Dio (Is 52, 7):
il suo messaggio è *consolazione, perdono del peccato, ritorno di Dio a Sion
(40, 1 s. 9). Questo «vangelo» è una forza divina in azione (52, 1 s). Gridato
sul monte (40, 9), esso interessa tutte le *nazioni (52, 10; cfr. Sal 96, 2).
Trascende anche l’orizzonte del secolo. Al di là del ritorno dall’esilio,
annunzia la *vittoria ed il *regno definitivo di Dio.
II. GESÙ
1. Il messaggero di buona novella.
- Sia nella risposta agli inviati del Battista (Mt 11, 14 s par.) che nella
scena della sinagoga di Nazaret (Lc 4, 16-21), Gesù applica a se stesso il testo
di Is 61, 1 s: «Unto da Dio con lo Spirito Santo e con potere» (Atti 10, 38; Mt
3, 16 s), egli viene ad «evangelizzare i poveri».
2. La buona novella.
- «I tempi sono compiuti. Il regno di Dio è vicino» (Mc 1, 15), questo
è l’elemento essenziale del messaggio. Ma questa volta la persona stessa del
messaggero diventa il centro della buona novella. Il vangelo è Gesù (cfr. Mc 1,
1). Gli angeli hanno annunciato la sua nascita come un vangelo (Lc 2, 10 s). Con
lui è presente il regno di Dio (Mt 12, 28). Colui che abbandona tutto a motivo
di Gesù ed «a motivo del vangelo» riceve «fin d’ora il centuplo» (Mc 10, 30). Si
vedono quindi le folle stringersi attorno al messaggero di buona novella, e
sforzarsi di trattenerlo. Ma il vangelo deve diffondersi: «Io devo annunciare la
buona novella del regno di Dio anche alle altre città, perché sono stato mandato
a tal fine» (Lc 4, 43).
3. La risposta al vangelo sarà *penitenza e *fede (Mc 1, 15).
- Dio offre una grazia di perdono (Mc 2, 10 par.; 2, 17 par.), di
rinnovamento (Mc 2, 21 s). Si aspetta che l’uomo, confessando e rinnegando il
proprio peccato, metta in gioco la vita per il vangelo: «Chi vuol salvare la sua
vita, la perderà; ma colui che perde la vita per causa mia e del vangelo, la
salverà» (Mc 8, 35). I clienti nati del vangelo sono i «poveri in spirito» (Mt
5, 3 par.; Mc 10, 17-23 par.), i «piccoli» (Mt 11, 28; Lc 9, 48; 10, 21), anche
i peccatori (Lc 15, 1 s; 18, 9-14; Mt 21, 31), persino i pagani (Mt 8, 10 s; 15,
21-28 par.). Il sentimento della propria indigenza li predispone ad ascoltarlo
ed a percepire la compassione divina da cui procede (Mt 9, 36; 14, 14 par.; Lc
7, 47- 50; 19, 1-10).
III. GLI APOSTOLI
1. I messaggeri.
- Gesù risorto comanda ai suoi apostoli di «andare nel mondo intero a predicare
il vangelo a tutta la creazione» (Mc 16, 15), «a tutte le nazioni» (Mc 13, 10).
Il libro degli Atti descrive le tappe di questa proclamazione (o kèrygma).
Nonostante gli ostacoli la buona novella si diffonde «fino ai confini della
terra» (Atti 1, 8). Mediante la grazia dello Spirito, la Chiesa la annunzia «con
sicurezza» (2, 29; 4, 13. 31; 28, 31). Questa funzione è così importante che
basta a qualificare coloro che la svolgono; così il diacono Filippo è chiamato
«evangelista» (Atti 27, 8; cfr. Ef 4, 11; 2 Tim 4, 5).
2. Il messaggio.
- La buona novella è sempre quella del regno di Dio (Atti 8, 12; 14, 21
s; 19, 8; 20, 25; 28, 23), ed annunzia che «la promessa fatta ai nostri padri è
adempiuta» (13, 32). Essa è grazia di perdono, dono dello Spirito (2, 38; 3, 36;
10, 43; 13, 38; 17, 30). Ma ormai si identifica con «la buona novella di Gesù»
(8, 35; 17, 18), «del *nome di Gesù Cristo» (8, 12), «del Signore Gesù» (11,
20), «della pace per mezzo di Gesù Cristo» (10, 36). La risurrezione di Cristo
passa al centro del vangelo.
3. L’accoglienza del vangelo.
- La buona novella è accompagnata dai «*segni» promessi da Gesù (Mc
16,17; Atti 4, 30; 5, 12. 16; 8, 6 ss; 19, 11 s). Si propaga in un’atmosfera di
povertà, di semplicità, di carità comunitaria e di gioia (Atti 2, 46; 5, 41; 8,
8. 39). Il vangelo incontra dovunque dei *cuori che sono in sintonia con esso,
«desiderosi di sentire la *parola di Dio» (13, 7. 12), avidi di sapere ciò che
bisogna fare, per essere salvi (16, 29 s). Essi hanno in comune il tratto di
«*ascoltare» (2, 22. 37; 3, 22 s; ecc.), di «accogliere» (8, 14; 11, 1; 17, 11),
di «obbedire» (6, 7). Viceversa, la sufficienza sprezzante (13, 41) e gelosa
(13, 45 s), la leggerezza (17, 32), chiudono il cuore degli uomini al vangelo.
IV. SAN PAOLO
1. Il messaggero.
- Paolo è per eccellenza l’uomo del vangelo. Dio lo ha «segregato per
il vangelo» (Rom 1, 1). Gli ha rivelato il Figlio suo affinché «lo annunzi fra i
pagani» (Gal 1, 15 s). Gli ha «affidato il vangelo» (1 Tess 2, 4). «Ministro»
del vangelo (Col 1, 23), Paolo si sente in dovere di annunciarlo (1 Cor 9, 16),
rendendo in tal modo a Dio «un *culto spirituale» (Rom 1, 9), esercitando una
«funzione sacra» (Rom 15, 16).
2. Il messaggio.
- Questo vangelo Paolo lo chiama sia vangelo semplicemente, sia vangelo
«di Dio» , «del suo Figlio... Gesù Cristo nostro Signore» (Rom 1, 3 ss. 9), «di
Cristo» (Rom 15, 19 s; 2 Cor 2, 12; ecc.), «della gloria di Cristo» (2 Cor 4,
4), della sua «insondabile ricchezza» (Ef 3, 8).
a) Forza di salvezza. - Come quello di tutta la
Chiesa, ma con un vigore singolare, il vangelo di Paolo è accentrato sulla morte
e la risurrezione di Cristo (1 Cor 15, 1-5), ed orientato verso la sua venuta
gloriosa (1 Cor 15, 22-28). Esso è la nuova economia, in quanto questa si
propaga e si sviluppa mediante la *predicazione apostolica e mediante l’energia
divina che è insita in esso, «è una *forza di Dio per la salvezza» (Rom 1, 16).
«Nel mondo intero il vangelo fruttifica e si sviluppa» (Col 1, 6). Una fioritura
di Chiese, una sovrabbondanza di *carismi, un rinnovamento spirituale senza
precedenti, tutto questo, unito alla «sicurezza» soprannaturale dell’apostolo
stesso, ne testimonia la potenza che sta per conquistare il mondo (Gal 3, 5; 4,
26 s; 2 Cor 2, 12; .3, 4; 1 Tess 1, 5). Paolo lavora con le sue mani e «sopporta
tutto... per non creare ostacoli al vangelo di Cristo» (1 Cor 9, 12).
b) Compimento delle Scritture. - Paolo sottolinea la
continuità del vangelo con il VT: esso è «la rivelazione di un *mistero avvolto
di *silenzio nei secoli eterni, ma oggi manifestato e,per mezzo delle
*Scritture, portato a conoscenza di tutte le nazioni» (Rom 16, 25 s). La
*promessa fatta ad Abramo (Gen 12, 3) era un «prevangelo», che si realizza oggi
nella conversione dei pagani (Gal 3, 8; Ef 3, 6).
3. La risposta umana al vangelo.
- Il vangelo esercita la sua virtù salvatrice soltanto se l’uomo vi
risponde con la *fede: «Esso è forza di Dio per la salvezza di ogni fedele... In
esso si rivela la giustizia di Dio dalla fede alla fede» (Rom l, 16 s; 1 Cor 1,
18. 21). È il luogo di una opzione. Dispiegando nella debolezza la sua forza
salutare e prolungando il mistero della *croce (1 Cor 1, 17 - 2, 5), per gli uni
è «scandalo, «stoltezza» (1 Cor 1, 18. 21. 23; Rom 9, 32 s; Gal 5, 11) e «rimane
velato» : accecati dal dio di «questo mondo» , essi «non vedono risplendere il
vangelo della gloria di Cristo» (2 Cor 4, 4). Non gli *obbediscono (2 Tess 1,
8). Invece, dagli altri, il vangelo è ricevuto nell’«obbedienza della fede» (Rom
1, 5; 2 Cor 10, 5). Nella grazia del vangelo essi si aprono al «vangelo della
grazia» (Atti 20, 24).
V. SAN GIOVANNI
Né il vangelo né le lettere giovannee usano il termine vangelo. Ne
tengono il posto la *parola e la *testimonianza; ne è oggetto la *verità, la
*vita e la *luce. Ma nell’Apocalisse Giovanni ha la visione di un «angelo che
vola allo zenit ed ha un vangelo eterno da annunziare a coloro che dimorano
sulla terra» (14, 6 s), il vangelo della venuta definitiva del regno di Dio.
CONCLUSIONE
Quando, nel corso del sec. II, la parola «vangelo» incominciò a
designare la relazione scritta della vita e degli insegnamenti di Gesù, non
perdette tuttavia il suo significato primitivo. Continuò ad indicare la buona
novella nella salvezza e del regno di Dio in Cristo. «Questo vangelo - scrive S.
Ireneo - gli apostoli l’hanno da prima predicato. Poi, per la volontà di Dio, ce
l’hanno trasmesso nelle scritture, affinché diventi la base e la colonna della
nostra fede». Il vangelo, proclamato nel corso della liturgia, annunzia al mondo
la buona novella e la sua liberazione ad opera di *Gesù Cristo. Rispondendo,
l’assemblea manifesta lo slancio e l’esultanza del primo incontro del mondo con
la novità del vangelo.
D. MOLLAT
→ apostoli II 1 - esortare - Gesù (nome di) III - Gesù Cristo II 2 - Israele NT
1 - mistero II - parola di Dio NT I, II - predicare - regno NT I - rivelazione
NT - salvezza NT - testimonianza NT III 1 - tradizione NT 1 2.
→ carne I 3 b - creazione NT II 3 - delusione I 1 - fierezza VT 2 - gloria II - idoli - menzogna II 1 - ombra I 1 - orgoglio - umiltà.
Vivere a lungo è
la speranza di chiunque sia felice in mezzo ai propri beni; però, se la
vecchiaia può essere ricca di esperienza e di saggezza, può anche essere un peso
per lo sventurato logorato dall’età e al termine della pazienza (Eccli 41, 1 s).
Così la vecchiaia cambia significato a seconda che sia la strada del declino
verso la morte o quella del progresso verso la felicità eterna.
1. Vita lunga e approssimarsi della morte.
- La *vita, anche sotto la minaccia della *morte, è un dono di Dio; una lunga
vita è quindi desiderabile; promessa a chi onora i propri genitori (Es 20, 12),
è una corona per il giusto (Prov 10, 27), che ha così la gioia di vedere i figli
dei propri figli (Prov 17, 6). Come Abramo sazio di giorni (Gen 25, 8), il
giusto, dopo una vecchiaia felice e florida (Sal 92, 15), può morire in pace,
cosciente che la sua vita è stata piena (Gen 15, 15; Tob 14, 1; Eccli 44, 14).
Ma può anche succedere che la morte sia una liberazione (Eccli 41, 2), quando il
vecchio sente il proprio vigore declinare (Sal 71, 9; Eccle 12, 5) e che nulla
per lui ha più sapore (2 Sam 19, 36).
2. Lunga esperienza e progresso nella saggezza.
- All’età, e all’esperienza che essa apporta, tutti i popoli hanno attribuito
l’*autorità; anche nella Bibbia, gli anziani sono a capo delle comunità (Es 3,
16; 18, 12; 2 Sam 5, 3; Esd 6, 7; Atti 11, 30; 15, 4). Benché certi vecchi siano
di una corruzione e di una ingiustizia scandalose (Eccli 25, 2; Dan 13, 5), i
capelli bianchi meritano rispetto (Lev 19, 32; 1 Tim 5, 1 s) e i figli devono
venire in aiuto dei genitori anziani (Eccli 3, 12). Il vecchio, per via della
sua *sapienza (Eccli 25, 4 s) e in quanto testimone della *tradizione, è in
grado di parlare con autorità; lo faccia tuttavia con discrezione (Eccli 32, 3;
42, 8). Un pericolo infatti minaccia gli anziani: chiudersi ad ogni novità
anziché mantenersi aperti alla verità; questa falsa fedeltà alla tradizione (Mt
15, 2-6) ha indotto gli anziani del popolo a schierarsi tra i nemici di Cristo,
che lo insulteranno sulla croce (27, l. 41). Il numero degli anni non basta
quindi a rendere il vecchio degno dell’onore che gli viene reso; inoltre, la
sapienza può essere retaggio della gioventù (Sal 119, 100; Sap 4, 8 s. 16), e
per entrare nel regno, tutti devono riceverlo come bambini (Mc 10, 15). I
cristiani in età seguano quindi i consigli del vecchio Paolo (Filem 9) e
brillino per le loro *virtù (Tito 2, 2-5). La vecchiaia è infine il simbolo
dell’eternità; l’Eterno appare a Daniele sotto le sembianze di un vegliardo (Dan
7, 9) e, nell’Apocalisse, i ventiquattro anziani simboleggiano la corte di Dio
che canta in eterno la sua gloria (Apoc 4, 4; 5, 14...).
M. F. LACAN
→ amico 1 - bambino 0 - malattia-guarigione VT I 1 - morte - nuovo III 3 b -
sapienza VT II 1.2 - tradizione VT II; NT I 1 - uomo III 3 - vita II 1.
Mentre gli *idoli
«hanno occhi e non vedono» (Sal 135, 16), Dio vede «tutto ciò che è sotto il
cielo» (Giob 28, 24), in particolare «i figli di Adamo» (Sal 33, 13 s) di cui
«scruta i reni ed i cuori» (7, 10). Ma rimane per l’uomo «un Dio nascosto» (Is
45, 15), «che nessuno ha visto né può vedere» (1 Tim 6, 16; 1, 17; 1 Gv 4, 12).
Tuttavia Dio si è scelto un popolo «al quale si è fatto vedere» (Num 14, 14)
sino ad apparirgli nella persona del suo Figlio unico (Gv 1, 18; 12, 45) prima
di introdurlo un giorno nel *cielo «per vedere la sua faccia» (Apoc 22, 4).
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL DESIDERIO DI VEDERE DIO
Vedere Dio, «gli occhi negli occhi» (Is 52, 8), è il *desiderio più
profondo del VT. La nostalgia del *paradiso che domina tutta la Bibbia, è
anzitutto la coscienza di aver perduto il contatto immediato e familiare con
Dio, è il *timore permanente della sua *ira, ma è pure la *speranza instancabile
di incontrare la sua *faccia e di vederla sorridere. Le due grandi esperienze
religiose di Israele, l’esperienza della *presenza di Dio nel *culto, e
l’esperienza della sua *parola attraverso i *profeti, sono entrambe tese verso
questa esperienza privilegiata: vedere Dio.
1. Le teofanie profetiche.
- Le teofanie profetiche rappresentano il vertice dell’esistenza e
della missione dei profeti. *Mosè ed *Elia hanno conosciuto questa esperienza
nella sua forma più alta. Ancora, a Mosè che lo prega: «Fammi vedere la tua
*gloria» (Es 33, 18), Dio, pur esaudendo la sua preghiera, risponde: «Io ti
riparerò con la mia mano durante il mio passaggio..., mi vedrai da tergo; ma la
mia faccia non la si può vedere» (33, 22 s). Elia, quando si accosta a Jahvè,
«si vela il volto» e non sente che una voce (1 Re 19, 13; cfr. Deut 4, 12).
Nessuno può vedere Dio, se Dio non si fa vedere. Il privilegio di Mosè ha
qualcosa di unico, «egli guarda l’*immagine di Jahvè» (Num 12, 8). A livelli
diversi, ma molto inferiori, i profeti, «in sogni ed in visioni» (12, 6), vedono
qualcosa che non è di questo mondo (Num 24, 4. 16; 2 Cron 18, 18; Am 9, 1; Ez 1
- 3; Dan 7, 1; ecc.). *Abramo e Giacobbe hanno conosciuto anch’essi esperienze
simili (Gen 15, 17; 17, 1; 28, 13), e così pure Gedeone (Giud 6, 11-24), Manoah
e sua moglie (13, 2-23). Anche i settanta anziani di Israele hanno parte, sino
ad un certo punto, al privilegio di Mosè e, sul monte,«contemplano il Dio di
Israele» (Es 24, 10, ma i LXX traducono: «videro il luogo in cui si trovava
Dio»).
2. Il culto.
- Il culto, nei luoghi in cui Dio si è reso presente (Es 20, 24), suscita nei
migliori il desiderio di vedere Dio, di «ricercare la sua faccia» (Sal 24, 6),
di «vedere la sua dolcezza» (27, 4), «la sua potenza e la sua gloria» (63, 3),
di guardare, anche da lontano, al *tempio (Giona 2, 5). La visione di Isaia,
così vicina alle teofanie di Mosè, fa coincidere la visione profetica,
imperniata su una *parola ed una *missione, e la visione cultuale, imperniata
sulla *presenza (Is 6; cfr. 2 Cron 18, 18; Ez 10 - 11).
II. VEDERE E CREDERE
Se il desiderio di vedere Dio viene appagato solo raramente e
parzialmente, si è perché Dio è «un Dio nascosto» (Is 45, 5) che si rivela alla
*fede. Per *conoscerlo, bisogna *ascoltare la sua parola e vedere le sue *opere;
infatti, nelle meraviglie della sua creazione «ciò che egli ha di invisibile si
fa vedere» (Rom 1, 20). La vista degli *astri lascia presentire la sua potenza (Is
40, 25 s) e contemplare il mondo (Giob 38 - 41) è già vedere Dio. Ma il Dio
nascosto si fa vedere di più ancora nella storia. Nelle meraviglie da lui
dispiegate per il suo popolo (Es 14,13; Deut 10, 21; Gios 24, 17) - *segni come
non se ne videro mai (Es 34, 10) - Israele ha «visto la sua *gloria» (Es 16, 7).
Conoscere Dio significa quindi «vedere le sue alte gesta» e «comprendere chi è»
(Sal 46, 9 ss; cfr. Is 41, 20; 42, 18; 43, 10), osservarne le prodezze e credere
in lui (Es 14, 31; Sal 40, 4; Giudit 14, 10), perché «nessun altro» con lui «è
Dio» (Deut 32, 29). Ma, al pari degli *idoli stupidi, gli uomini sono sordi e
ciechi (Is 42,18), «hanno occhi e non vedono nulla, orecchie e non sentono
nulla» (Ger 5, 21; Ez 12, 2): i segni ed i doni di Dio, destinati a illuminarli,
li *induriscono nel loro accecamento. La predicazione dei profeti finisce con
«l’appesantire il cuore di questo popolo, col chiudergli gli occhi per tema che
i suoi occhi vedano... che il suo cuore comprenda» (Is 6, 10).
NUOVO TESTAMENTO
I. DIO VISIBILE IN GESÙ CRISTO
1. In Gesù Cristo.
- In *Gesù Cristo, Dio fa vedere le meraviglie inaudite promesse dai profeti (Is
52, 15; 64, 3; 66, 8), le cose «mai viste» (Mt 9, 33). Simeone può andarsene in
pace: «[i suoi] occhi hanno visto la salvezza» (Lc 2, 30). «Beati gli occhi che
vedono» le opere di Gesù: essi vedono «ciò che molti profeti e giusti hanno
desiderato vedere e non hanno visto» (Mt 13, 16 s); vedono da vicino ciò che
Abramo ha visto «da lontano» (Ebr 11, 13) e di cui già si rallegrava, «il
*giorno» di Gesù (Gv 8, 56). Sono beati a condizione di non *scandalizzarsi di
Gesù e di vedere ciò che avviene in realtà: «i ciechi vedono... il vangelo è
annunziato» (Mt 11, 5 s).
2. Vedere e credere.
- Già nei vangeli sinottici, ma più chiaramente ancora in Giovanni, la visione
di ciò che fa Gesù e di ciò che Dio realizza in lui è un invito a credere, ad
accedere per mezzo della *fede al versante invisibile della storia della
salvezza. I *segni operati da Gesù dovrebbero condurre alla fede (Gv 2, 23; 10,
41; 11, 45; cfr. Lc 17, 15. 19). Se non sono concessi altri segni a chi li
richiede, è senza dubbio perché, almeno in parte, non porterebbero alla fede (Mt
12, 38 s par.; cfr. Mc 15, 32). La fede perfetta dovrebbe d’altronde poter fare
a meno di vedere dei segni (Gv 4, 38), ma la realtà è lontana da questo ideale.
Molti, infatti, malgrado tanti segni operati dinanzi ai loro occhi, non possono
credere e neppure, in certo qual modo, vedere (Mt 13, 14 s; Gv 12, 40; cfr. Is
6, 9 s). Per loro, la *luce del mondo (Gv 8, 12; 9, 5) diventa tenebre, la
chiaroveggenza diventa accecamento: «Se foste ciechi, non sareste nel peccato;
ma voi dite: “Noi vediamo”. Il vostro peccato resta» (Gv 9, 39 s). Nei racconti
della risurrezione, si ritrovano gli stessi temi. La vista della tomba vuota (Gv
20, 28), quella delle *apparizioni in cui Gesù «si fa vedere» (òfthe: Atti 13,
31; 1 Cor 15, 5-8; Mt28, 7. 10 par.) a *testimoni scelti (Atti 10, 40 s),
dovrebbero portare alla fede (Gv 20, 29; cfr. Mt 28, 17). Ma resta possibile
vedere o sentire coloro che hanno visto e tuttavia rimanere nell’*incredulità (Lc
24, 12; 27, 39 ss; Mc 16, 11-14), mentre anche qui la fede ideale sarebbe stata
quella di credere senza vedere (Gv 20, 29).
3. In Gesù Cristo, è visibile Dio.
- Se esiste una visione che precede la fede, la fede a sua volta sfocia in una
*conoscenza e in una vista. Infatti, non solo i *cieli sono aperti sul figlio
dell’uomo (Gv 1, 51; cfr. Mt 3, 16) ed i *misteri di Dio sono rivelati, la vita
è data a coloro che credono in lui (Gv 3, 21. 36), ma la *gloria stessa di Dio,
quella che Mosè non aveva potuto contemplare se non in modo passeggero e
parziale (Es 33, 22 s; 2 Cor 3, 11), irradia in permanenza e senza velo dalla
persona del Signore (2 Cor 3, 18): «Noi abbiamo visto la sua gloria, la gloria
del Figlio unigenito» (Gv 1, 14). Vedere Gesù equivale già a vedere il Verbo,
«la vita che era presso il Padre e che ci è apparsa» (1 Gv 1, 1-3). E poiché «io
sono nel Padre e il Padre è in me... chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,
9 s; cfr. 1, 18; 12, 45).
II. VEDERE DIO COM’È
Neppure l’incarnazione del Figlio può soddisfare il nostro desiderio di
vedere Dio, perché Gesù, finché non è ancora ritornato al Padre (Gv 14, 12. 28),
non ha ancora rivelato tutta la gloria che gli spetta (17, 1. 5). Gesù deve
scomparire, ritornare al mondo invisibile donde viene, il mondo «delle realtà
che non si vedono» e che sono la fonte di quelle che noi vediamo (Ebr 11, 1 s),
il mondo di Dio. Perciò bisogna che non lo si veda più (Gv 16, 10-19), che gli
uomini lo *cerchino senza poterlo trovare (7, 34; 8, 21). Quando i discepoli
l’avranno «visto» per l’ultima volta al momento dell’ *ascensione (Atti 1, 9
ss), avrà inizio il tempo in cui coloro «che non l’hanno visto» dovranno amarlo
e rallegrarsi «senza vederlo ancora, ma credendo» (1 Piet 1, 8 s). Verrà un
giorno in cui si vedrà il figlio dell’uomo «sedere alla destra della Potenza»
(Mt 26, 64 par.) e «venire sulle nubi del cielo» (Mt 24, 30 par.). Stefano
«vede» già quel *giorno del Signore come una realtà attuale (Atti 7, 55 s).
L’Apocalisse suggerisce che questa venuta è già visibile lungo tutta la storia:
«Eccolo che viene, scortato dalle nubi; ognuno lo vedrà, anche quelli che
l’hanno trafitto...» (Apoc 1, 7; cfr. 19, 37). Ma, in realtà, «noi non vediamo
ancora» se non nella fede, «che tutto gli è sottomesso» (Ebr 2, 8). Non è più
ormai il tempo di «guardare il cielo», ma di testimoniare che lo si vedrà
tornare come è scomparso (Atti 1, 11) e di vivere in questa duplice attesa:
essere sempre con il Signore (1 Tess 4, 17; Fil 1, 23) e «vedere Dio» (Mt 5, 8),
«vedere la sua faccia» (Apoc 22, 4), «vederlo qual è» (1 Gv 3, 2), nel suo
mistero inaccessibile, totalmente dedito ai suoi figli.
J. DUPLACY e J. GUILLET
→ apparizioni di Cristo - faccia - fede - immagine - predestinare 3.5 -
presenza di Dio III - puro NT I 3 - rivelazione - segno NT I 2.
Sola (Bar 4,
12-16), la vedova rappresenta un caso tipico di sventura (Is 47, 9). La sua
condizione rende manifesto un duplice lutto: a meno di contrarre un nuovo
*matrimonio, essa ha perduto la speranza della *fecondità; è rimasta senza
difesa.
1. L’assistenza alle vedove.
- Come l’orfano e lo straniero, la vedova è oggetto di una particolare
protezione da parte della legge (Es 22, 20-23; Deut 14, 28-29; 24, 17-22) e di
Dio (Deut 10, 17 s) che ascolta il suo lamento (Eccli 35, 14 s) e si fa il suo
difensore e vendicatore (Sal 96, 6-10). Guai a coloro che abusano della sua
debolezza (Is 10, 2; Mt 12, 40 par.). Gesù, come Elia, restituisce a una vedova
il suo unico figlio (Lc 7, 11-15; 1 Re 17, 17-24) e affida Maria al discepolo
prediletto (Gv 19, 26 s). Nel servizio quotidiano della Chiesa primitiva, ci si
preoccupa di sovvenire alle necessità delle vedove (Atti 6, 1). Se non hanno più
parenti (1 Tim5, 16; cfr. Atti 9, 36-39), la comunità deve assumersene la
responsabilità, come esige la *pietà autentica (Giac 1, 27; cfr. Deut 26, 12 s;
Giob 31, 16).
2. Valore riconosciuto alla vedovanza.
- Già verso la fine del VT, si assiste alla nascita di una particolare
stima per la vedovanza definitiva di Giuditta (Giudit 8, 4-8; 16, 22) e di Anna
la profetessa (Lc 2, 36 s), consacrata a Dio nella preghiera e nella penitenza.
In Giuditta balza agli occhi il contrasto tra la naturale debolezza e la *forza
attinta in Dio. Allo stesso modo Paolo, pur tollerando un secondo matrimonio,
per evitare i pericoli di una cattiva condotta (1 Cor 7, 9. 39), e arrivando
fino ad auspicarlo per le giovani vedove (1 Tim 5, 13-15), considera però
migliore la vedovanza (1 Cor 7, 8) e vi vede una provvidenziale indicazione
della necessità di rinunciare al matrimonio (7, 17. 24). Infatti, la vedovanza,
al pari della *verginità, è un ideale spirituale che apre all’azione di Dio e
libera per il suo servizio (7, 34).
3. L’istituzione delle vedove.
- Nella Chiesa, tutte le vedove devono essere irreprensibili (1 Tim 5, 7. 14).
Certune, veramente sole, libere da ogni impegno familiare e aliene da ogni
dissipazione, si dedicheranno alla preghiera (5, 5 s). Esiste anche un impegno
ufficiale alla vedovanza permanente (5, 12). Vi sono ammesse solo vedove che
siano state sposate una volta sola e abbiano raggiunto i sessant’anni (5, 9); è
probabile che esercitassero funzioni caritative, perché dovevano fornire per il
passato garanzie di dedizione (5, 10). L’ideale proposto alle vedove all’ultima
tappa della loro esistenza si riassume quindi nella preghiera, nella castità e
nella carità.
P. SANDEVOIR
→ digiuno 1 - donna VT 3; NT 1.3 - fecondità II 2 - matrimonio VT II 1;
NT II - solitudine I 1 - verginità VT 2.
Vegliare, in
senso proprio, significa rinunziare al *sonno della notte; lo si può fare per
prolungare il proprio lavoro (Sap 6, 15) o per evitare di essere sorpresi dal
nemico (Sal 127, 1 s). Di qui un senso metaforico: vegliare significa essere
vigilante, lottare contro il torpore e la negligenza per giungere alla meta
prefissa (Prov 8, 34). Per il credente la meta è d’essere pronto ad accogliere
il Signore, quando verrà il suo *giorno; per questo egli veglia ed è vigilante,
per vivere nella notte senza essere della *notte.
I. TENERSI PRONTI PER IL RITORNO DEL SIGNORE
1. Nei Sinottici.
- Nei vangeli sinottici l’esortazione alla vigilanza è la raccomandazione
principale che Gesù rivolge ai suoi discepoli a conclusione del discorso sui
fini ultimi e sull’avvento del figlio dell’uomo (Mc 13, 33-37). «Vegliate
dunque, perché non sapete in qual giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24, 42).
Per esprimere che il suo ritorno è imprevedibile, Gesù si serve di diversi
paragoni e parabole che stanno all’origine dell’uso del verbo vegliare
(astenersi dal dormire). La venuta del figlio dell’uomo sarà imprevista come
quella di un ladro notturno (Mt 24, 43 s), come quella del padrone che rientra
durante la notte senza avere preavvisato i suoi servi (Mc 13, 35 s). Come il
padre di famiglia prudente, oppure il buon servo, il cristiano non deve
lasciarsi vincere dal *sonno, deve vegliare, cioè stare in guardia e tenersi
pronto per accogliere il Signore. La vigilanza caratterizza quindi
l’atteggiamento del discepolo che *spera ed attende il ritorno di Gesù; consiste
innanzitutto nell’essere sempre all’erta, e per ciò stesso esige il distacco dai
piaceri e dai beni terreni (Lc 21, 34 ss). Poiché l’ora della parusia è
imprevedibile, bisogna prendere le proprie disposizioni per il caso che si
faccia attendere: è l’insegnamento della parabola delle vergini (Mt 25, 1-13).
2. Nelle lettere paoline.
- Nelle prime lettere paoline, dominate dalla prospettiva escatologica, si trova
l’eco dell’esortazione evangelica alla vigilanza, specialmente in 1 Tess 5, 1-7.
«Noi non siamo della notte, né delle tenebre; non dormiamo quindi come gli
altri, ma vegliamo, siamo sobri» (5, 5 s). Il cristiano, essendosi convertito a
Dio, è «figlio della *luce» , quindi deve rimanere sveglio e resistere alle
tenebre, simbolo del male, altrimenti corre il rischio di essere sorpreso dalla
parusia. Questo atteggiamento vigilante esige la sobrietà, cioè la rinuncia agli
eccessi «notturni» ed a tutto ciò che può distrarre dall’attesa del Signore;
esige nello stesso tempo che si indossi l’armatura spirituale: «rivestiamoci
della fede e della carità come di corazza, e della speranza della salvezza come
di elmo» (5, 8). In una lettera posteriore S. Paolo, temendo che i cristiani
abbandonino il loro fervore primitivo, li invita a risvegliarsi, ad uscire dal
loro *sonno ed a prepararsi per ricevere la salvezza definitiva (Rom 13, 11-14).
3. Nell'Apocalisse.
- Nell’Apocalisse il messaggio che il giudice della fine dei tempi
rivolge alla comunità di Sardi è una esortazione pressante alla vigilanza (3, 1
ss). Questa Chiesa dimentica che Cristo deve ritornare; se non si risveglia,
egli la sorprenderà come un ladro. Viceversa, beato «colui che veglia e conserva
le sue vesti» (16, 15); egli potrà partecipare al corteo trionfale del Signore.
II. STARE IN GUARDIA CONTRO LE TENTAZIONI QUOTIDIANE
La vigilanza, che è attesa perseverante del ritorno di Gesù, si deve
esercitare durante tutta la vita cristiana nella lotta contro le tentazioni
quotidiane che anticipano il grande combattimento escatologico.
1. Nel momento in cui sta per realizzare la *volontà salvifica
del Padre, Gesù deve sostenere nel Getsemani un combattimento doloroso (agonia),
che è una anticipazione del combattimento della fine dei tempi. Il racconto
sinottico fa vedere in Gesù il modello della vigilanza nel momento della
*tentazione, modello che tanto più risalta in quanto i discepoli, indocili alla
esortazione del maestro, sono stati vinti. «Vegliate e pregate per non entrare
in tentazione» (Mt 26, 41): la raccomandazione trascende la cornice del
Getsemani e si rivolge a tutti i cristiani. L’ultima domanda del Pater vi
corrisponde: essa implora il soccorso divino non soltanto nel momento del
combattimento escatologico, ma anche durante il combattimento della vita
cristiana.
2. L’esortazione alla vigilanza a motivo dei pericoli della
vita presente ritorna più volte nelle lettere apostoliche (1 Cor 16, 13; Col 4,
2; Ef 6, 10-20); essa è formulata in un modo particolarmente espressivo in un
passo che si legge ogni sera a compieta: «Siate sobri, vigilate! Il vostro
avversario, il demonio, come un leone ruggente si aggira cercando qualcuno da
divorare» (1 Piet 5, 8). Qui, come in Ef 6, 10 ss, il nemico è chiaramente
designato; con un odio implacabile, Satana ed i suoi ministri spiano
continuamente il discepolo per fargli rinnegare Cristo. Il Cristiano stia sempre
in guardia, preghi con fede ed eviti con la sua rinunzia le insidie
dell’avversario. Questa vigilanza è particolarmente raccomandata ai capi che
hanno la responsabilità della comunità; essi devono difenderla contro i «lupi
crudeli» (Atti 20, 28-31).
III. PASSARE LA NOTTE IN PREGHIERA
In Ef 6, 18 e Col 4, 2, S. Paolo verosimilmente fa allusione ad una pratica
delle comunità primitive, quella delle veglie di preghiera. «Fate costantemente,
per mezzo dello Spirito, preghiere e suppliche. Occupate in questo le vostre
veglie con una perseveranza instancabile» (Ef 6, 18). La celebrazione della
vigilia è una realizzazione concreta della vigilanza cristiana ed una imitazione
di ciò che aveva fatto Gesù (Lc 6, 12; Mc 14, 38). Conclusione. - La vigilanza,
richiesta dalla fede nel giorno del Signore, caratterizza quindi il cristiano
che deve resistere all’apostasia degli ultimi giorni ed essere pronto ad
accogliere il Cristo che viene. D’altra parte, poiché le tentazioni della vita
presente anticipano la tribolazione escatologica, la vigilanza cristiana si deve
esercitare ogni giorno nella lotta contro il maligno; essa esige dal discepolo
una preghiera ed una sobrietà continua: «Vegliate, pregate e siate sobri!» .
M. DIDIER
→ angeli - giorno del Signore NT II - lampada 2 - ministero II 3 -
Noè 3 - notte NT 2.3 - pastore e gregge - preoccupazioni 1 - Provvidenza - sonno
- speranza NT II - ubriachezza 2 - visita NT 2. VELO → donna NT 3 - Mosè 5 -
veste I 1, II 4.
I figli di
Israele, da semi-nomadi quali erano, nella terra promessa divennero agricoltori,
coltivatori dei cereali e della vigna. Al pari della *messe, la vendemmia è
segno e fonte di *gioia; ma può anche simboleggiare la sventura.
1. Benedizione divina.
- La festa del raccolto (Es 23, 16; 34, 22) diventata festa dei Tabernacoli (Deut
16, 13), «la festa» per eccellenza (1 Re 8, 2. 65) indubbiamente perché la più
popolare, non ha alcun rapporto con il culto di Bacco, ma trae probabilmente la
sua origine dalla festa cananea delle vendemmie (Giud 9, 27). Riconoscendo nel
raccolto dell’uva la *benedizione divina, Israele ne ringrazia Dio con feste
popolari: danze (Giud 21, 19 ss), grida degli operai nelle *vigne ed al torchio
(Is 16, 10; Ger 48, 33), gioia che il *vino nuovo procura (Sal 4, 8), e forse
anche *ubriachezza (1 Sam 1, 14 s). Questo per i fedeli dell’*alleanza; ma per
gli infedeli, *maledizione: la vigna è devastata (Os 2, 14; Is 7, 23), non c’è
più raccolto (Deut 28, 39), la vigna «languisce» (Is 24, 7), uomini e donne,
invece di danzare e di bere, fanno lamenti (Is 32, 10-13; Gioe 1, 5);
nell’orgoglioso Moab, niente più gioia né grida di letizia (Is 16, 9 s; Ger 48,
32 s). Ma, quando il popolo avrà espiato le sue colpe, la locusta non renderà
più *sterile la vigna (Mal 3, 11), i vigneti ormai in fiore (Ger 31, 12; Agg 2,
19) daranno nuovamente un vino di qualità superiore (Os 14, 8). In breve, la
vendemmia esprime eccellentemente la gioia dell’era messianica (Am 9, 13; Ez 28,
26; Gioe 2, 24; Is 25, 6).
2. Simbolo del castigo divino.
- Come la *messe, che suppone trebbiatura e vagliatura, simboleggia il
*castigo del peccatore indurito, così è pure della vendemmia per gli infedeli,
perché è preceduta dallo spogliamento dei pampini e dallo schiacciamento delle
uve nel torchio. Per punire il popolo che lo ha rinnegato, Dio invita l’invasore
a racimolare ciò che rimane di Israele (Ger 6, 9); egli stesso pigia al torchio
la vergine, figlia di Giuda (Lam 1, 15). Raccolta dell’uva, scelta dei grappoli,
tino pigiato, queste immagini illustrano pure il castigo delle nazioni,
specialmente quello di Edom che non aiutò Giuda, al momento della presa di
Gerusalemme: verranno vendemmiatori che non lasceranno nulla da racimolare (Ger
49, 9; Ab 5 s); Jahvè pigerà Edom al torchio, ed il *sangue che ne sprizzerà
tingerà di porpora le sue *vesti (Is 63, 1-6). L’immagine della vendemmia
simboleggia quindi volentieri il *giudizio di Dio. Così, per loro sventura,
Jahvè farà bere alle *nazioni il suo *calice inebriante (Ger 25, 15-30); o,
secondo l’Apocalisse, un angelo, armato di falce, vendemmierà i grappoli e
verserà il tutto nel tino immenso dell’*ira di Dio (Apoc 14, 17 ss; 19, 15).
A. DARRIEUTORT
→ feste VT I - giudizio VT II 2 - ira - messe - vino - vite-vigna.
Nel linguaggio
odierno, vendicarsi significa punire un’offesa rendendo agli altri male per
male. Nel linguaggio biblico la vendetta designa anzitutto un ristabilimento
della *giustizia, una vittoria sul male. Se è sempre vietato vendicarsi per odio
del malvagio, è un dovere vendicare un diritto vilipeso. Tuttavia l’esercizio di
questo dovere si è evoluto nel corso della storia: lo si è tolto all’individuo
per affidarlo alla società e, soprattutto, Dio si è rivelato a poco a poco come
il solo legittimo vendicatore della giustizia.
1. Il vendicatore del sangue.
- Nella società nomade che Israele formava alle sue origini, i membri del clan
dovevano proteggersi e difendersi reciprocamente. In caso di omicidio, un gô’el,
«vendicatore del sangue» (Num 35, 21), vendicava il clan uccidendo l’assassino.
Al motivo di solidarietà si aggiungeva la convinzione che, come quello di
*Abele, il *sangue versato grida vendetta (cfr. Gen 4, 10; Giob 16, 18), ha
profanato la terra dove abita Jahvè (Num 35, 33 s). Così doveva essere
salvaguardata la giustizia. Israele, diventato popolo sedentario, conservò
questa usanza (cfr. 2 Sam 3, 22-27). Ma la sua legislazione (Es 21, 12; Lev 24,
17), pur considerando ancora il vendicatore del sangue come un giustiziere (Num
35, 12. 19), si preoccupa di regolare l’esercizio del suo diritto, affinché sia
premunito contro gli eccessi della sua *ira (Deut 19, 6). Ormai solo più in caso
di omicidio volontario (Deut 24, 16) l’omicida cade sotto i colpi del
vendicatore del sangue, ed un processo deve aver avuto luogo nella città-rifugio
dove l’assassino avrà cercato scampo (Num 35, 24. 30; Deut 19). In tal modo il
diritto alla vendetta passa a poco a poco dall’individuo alla società.
2. La vendetta personale.
- Con la legge del taglione (Es 21, 23 ss; Lev 24, 19; Deut 19, 21), la
legislazione ebraica frena la passione umana sempre pronta a rendere male per
male: proibisce la vendetta illimitata dei tempi barbari (cfr. Gen 4, 15. 24).
Infine addolcisce anche la legge del taglione, ammettendo in taluni casi che ci
sia compensazione pecuniaria, principio ammesso da altri codici orientali (Es
21, 18 s. 26 s). Tuttavia il taglione minacciava di impedire alla coscienza di
innalzarsi progressivamente: anche codificato dalla giustizia sociale, il
desiderio di vendetta può continuare a dimorare nel cuore dell’uomo. Occorreva
dunque realizzare anche un’educazione della coscienza.
a) Divieto di vendicarsi. - La legge di santità
colpisce il desiderio di vendetta alla radice: «Non avrai nel tuo cuore odio per
il tuo fratello... Non ti vendicherai e non conserverai rancore verso i figli
del tuo popolo. Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19, 17 s). Sono
celebri taluni esempi di *perdono: quello di Giuseppe, che interpreta la
persecuzione di cui è stato vittima come un disegno di Dio che sa trarre il bene
dal male (Gen 45, 3 s. 7; 50, 19); quello di David che non si vendica di Saul (1
Sam 24, 4 s; 26, 5-12), per non levare la mano sull’unto di Jahvè. Tuttavia lo
stesso David fa esercitare una vendetta postuma contro Shimei e contro Joab (1
Re 2, 6-46). Ad ogni modo il dovere del perdono resta limitato ai fratelli di
razza: così il libro dei Giudici non critica affatto Sansone che si vendica
personalmente dei Filistei (Giud 15, 3. 7). Con i Sapienziali questo dovere
tenderà ad universalizzarsi e ad approfondirsi: «Chi si vendica, proverà la
vendetta del Signore... Non conservar rancore contro il tuo *prossimo» (Eccli
28, 1. 7). Il principio, a quanto pare, non esclude nessuno.
b) L’appello alla vendetta divina. - La ragione per
cui il giusto rinunzierà completamente a vendicarsi è la sua *fiducia in Dio.
«Non dire: restituirò il male; dà fiducia a Jahvè, egli ti libererà» (Prov 20,
22). Il giusto non si vendica, ma lascia a Dio la cura di vendicare la
giustizia: «A me la vendetta, dice il Signore» (Deut 32, 35). Così fa Geremia
perseguitato, quando «rimette a Dio la sua causa» (Ger 20, 12); certamente egli
desidera di «vedere la vendetta divina» (11, 20), ma perché ha identificato la
sua causa con la causa di Dio (15, 15). Non desidera il male, ma la *giustizia;
e questa non può essere ristabilita se non da Dio solo. Così pure il salmista
che, a sua volta, desidera, con enfasi semitica, «lavare i suoi piedi nel sangue
dei nemici» (Sal 58, 11) e proferisce contro di essi imprecazioni terribili (Sal
5, 11; 137, 7 s), è animato da una volontà di giustizia. Rimane possibile
illudersi sull’autenticità di un simile sentimento, ma il valore religioso
dell’atteggiamento è innegabile. Esso si ricollega a quello di Giobbe: «Io so
che il mio difensore (gô’el) è vivo e che egli per ultimo si ergerà sulla terra»
, e renderà la giustizia (Giob 19, 25).
3. Il Dio vendicatore.
- La speranza di Giobbe non è vana, e così pure non lo è quella di
Geremia: Dio è il *giudice per eccellenza che scruta reni e cuori e ricompensa
ciascuno secondo le sue *opere; egli è il gô’el di Israele (Is 41, 14). Il
*giorno del Signore può quindi essere chiamato «giorno di vendetta» (Ger 46,
10): Dio vendicherà allora la *giustizia; vendicherà pure il suo onore e, in
questo senso, si può dire che soltanto Dio «si» può vendicare. Giustizia,
salvezza, vendetta: ecco ciò che porterà il giorno del Signore (Is 59, 17 s).
Nella misura in cui Israele è fedele all’alleanza può quindi fare appello per
l’ingiustizia dei giudici umani al suo gô’el, al «Dio delle vendette», affinché
compaia e giudichi la terra (Sal 94). Se questo non è ancora perdonare da
cristiano, è attendere, con umíle sottomissione al Signore, il giorno della sua
*visita.
4. Cristo e la vendetta.
- Quel giorno è venuto quando Gesù ha versato il suo *sangue: allora la suprema
ingiustizia degli uomini ha rivelato la *giustizia infinita di Dio. Ormai il
comportamento del credente sarà radicalmente mutato dall’*esempio di Cristo che,
«insultato, non ha restituito l’insulto» (1 Piet 2, 23). Non soltanto Gesù
instaura una nuova *legge che porta a compimento (*compiere) il principio del
taglione, ma prescrive di non resistere al malvagio (Mt 5, 38-42). Egli non
condanna la giustizia dei tribunali umani, di cui Paolo dirà che ha l’incarico
di esercitare la vendetta divina (Rom 13, 4); ma esige dal suo discepolo il
perdono delle offese e l’amore dei *nemici. Soprattutto insinua che soltanto
colui che è capace di sopportare l’ingiustizia personale risparmierà
l’ingiustizia agli altri. Ormai non basta più rimettersi alla vendetta divina,
bisogna «essere vincitori del male mediante il bene» (Rom 12, 21): in tal modo
«si pongono carboni accesi sul capo del proprio nemico», collocandolo in una
situazione impossibile che lo impegna a tramutare il suo *odio in amore. Se, in
virtù del sangue di Cristo, è stata compiuta ogni giustizia, l’ultimo giorno non
è tuttavia ancora giunto. L’amore subisce quaggiù sconfitte. Dopo Gesù, i
cristiani muoiono, vittime di una *violenza ingiusta. Se essi perdonano ai loro
carnefici (Atti 7, 60), il loro sangue versato grida tuttavia a Dio: «Fino a
quando, o Signore santo e vero, tarderai a far giustizia, a prendere vendetta
del nostro sangue sugli abitanti della terra?» (Apoc 6, 10; cfr. 16, 6; 19, 2).
Ma questa vendetta finale della giustizia ad opera del Dio-giudice avrà come
risultato di annientare per sempre la *maledizione (22, 3).
A. DARRIEUTORT e X. LÉON-DUFOUR
→ Abele 2 - giorno del Signore VT II - giudizio VT I 1. NT II 1 - ira -
liberazione-libertà II 2 - maledizione IV - misericordia VT II - nemico II 3 -
odio I 3 - perdono III - sangue VT 1; NT 4 - violenza I 1, III 2, IV 3 - zelo I
2.
→ Pentecoste I 1 - presenza di Dio VT II - spirito VT 1 - Spirito di Dio 0.
→ giorno del Signore - missione NT I - nube 3.4 - visita.
→ parola di Dio.
In parecchie
religioni antiche la verginità aveva un valore sacro. Talune dee (Anat,
Artemide, Atena) erano chiamare vergini, ma per mettere in rilievo la loro
giovinezza eterna, la loro fiorente vitalità, la loro incorruttibilità. Soltanto
la rivelazione cristiana avrebbe mostrato nella sua pienezza il senso religioso
della verginità, abbozzato nel VT: la fedeltà in un amore esclusivo per Dio.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Sterilità e verginità.
- Nella prospettiva del popolo di Dio, orientato verso il suo
accrescimento, la verginità equivaleva alla *sterilità che era un’umiliazione,
un obbrobrio (Gen 30, 23; 1 Sam 1, 11; Lc 1, 25): la figlia di Jefte, condannata
a morire senza figli, piange per due mesi la sua «verginità» (Giud 11, 37),
perché non parteciperà alla ricompensa (Sal 127, 3), alla *benedizione (Sal 128,
3-6) che è il frutto delle viscere. Tuttavia la verginità prima del matrimonio
era stimata (Gen 24, 16: Giud 19, 24); si vede, ad esempio, che il sommo
sacerdote (Lev 21, 13 s) ed anche il semplice sacerdote (Ez 44, 22; cfr. Lev 21,
7) non poteva sposare che una vergine, ma più per preoccupazione di *purità
rituale nel campo della *sessualità (cfr. Lev12; 15) che non per stima della
verginità come tale. Nel contesto delle promesse e dell’alleanza bisogna cercare
la vera preparazione della verginità cristiana. Rendendo feconde delle donne
sterili, Dio con questa misteriosa disposizione vuol mostrare che i portatori
delle *promesse non sono stati suscitati per la via normale della *fecondità, ma
per un intervento della sua onnipotenza. La gratuità della sua *elezione si
manifesta in questa segreta preferenza accordata alle sterili.
2. Continenza volontaria.
- Accanto a questa corrente principale, esistono casi isolati in cui la
continenza è volontaria. Geremia, per ordine di Jahvè, deve rinunziare al
matrimonio (Ger 16, 2), ma è semplicemente per annunziare con un atto simbolico
l’imminenza del castigo di Israele, in cui donne e bambini saranno massacrati
(16, 3 ss. 10-13). Gli Esseni vivono nella continenza, ma sono spinti
soprattutto, a quanto pare, da una preoccupazione di purità legale. Altri esempi
hanno un valore più religioso: Giuditta, con la sua vedovanza volontaria e la
sua vita penitente (Giudit 8, 4 ss; 16, 22), merita di essere, come già Debora (Giud
5, 7), la madre del suo popolo (Giudit 16, 4. 11. 17), e con il suo genere di
vita prepara la comune stima della *vedovanza e della verginità nel NT; Anna
rifiuta di risposarsi per aderire più strettamente al Signore (Lc 2, 37);
Giovanni Battista prepara la venuta del Messia con una vita di asceta ed osa già
chiamarsi l’amico dello sposo (Gv 3, 29).
3. Le nozze (cfr. *sposo-sposa) tra Dio ed il suo popolo.
- Il precursore si rivelava in tal modo l’erede di una tradizione profetica
sulle nozze tra Jahvè ed il suo popolo, che preparava anch’essa la verginità
cristiana. Di fatto i profeti più di una volta danno il nome di vergine ad un
paese conquistato (Is 23, 12; 47, l; Ger 46, 11), in particolare ad Israele (Am
5, 2; Is 37, 23; Ger 14, 17; Lam 1, 15; 2, 13), e questo per deplorare la
perdita della sua integrità territoriale; ma Geremia apostrofa parimenti il
popolo, che ha profanato l’alleanza, come «la vergine Israele» (Ger 18, 13), per
ricordargli quel che avrebbe dovuto essere la sua *fedeltà. Lo stesso titolo
ritorna pure nel contesto della restaurazione, quando Jahvè ed il suo popolo
avranno nuovamente relazioni di amore e di fedeltà (Ger 31, 4. 21). Per Isaia
(62, 5), il matrimonio di un giovane e di una vergine simboleggia le nozze
messianiche tra Jahvè ed Israele. Con le sue esigenze esclusive Dio preparava i
suoi fedeli a riservargli tutto il loro amore.
NUOVO TESTAMENTO
A partire da Cristo, la vergine Israele si chiama la *Chiesa. I fedeli
che vogliono rimanere vergini partecipano alla verginità della Chiesa. Realtà
essenzialmente escatologica, la verginità non assumerà tutto il suo senso che
nel compimento ultimo delle nozze messianiche.
1. La Chiesa vergine, sposa di Cristo.
- Come nel VT, il tema della verginità si collega paradossalmente a quello delle
nozze (cfr. *sposo-sposa): l’unione di Cristo e della Chiesa è una unione
verginale, simboleggiata altrove dal *matrimonio. «Cristo ha amato la Chiesa e
si è dato per essa» (Ef 5, 25). La Chiesa di Corinto è stata fidanzata a Cristo,
Paolo gliela vuol presentare come una vergine pura ed immacolata (2 Cor 11, 2;
cfr. Ef 5, 27); l’apostolo prova per essa la gelosia di Dio (2 Cor 11, 2): non
permetterà che si attenti alla integrità della sua fede.
2. La verginità di Maria.
- La verginità della Chiesa incomincia a realizzarsi nel punto di
congiunzione delle due alleanze, in *Maria, figlia di Sion. La madre di Gesù è
la sola donna del NT cui sia applicato, quasi come un titolo, il nome di vergine
(Lc 1, 27; cfr. Mt 1, 23). Con il suo desiderio di conservare la verginità (cfr.
Lc 1, 34), essa assumeva la sorte delle donne rimaste senza figli, ma ciò che un
tempo era una umiliazione doveva divenire per essa una benedizione (Lc 1, 48).
Fin da prima dell’annunciazione, Maria era portata a riserbarsi a Dio; aveva
tuttavia accettato l’obbligo del matrimonio, come un segno misterioso della
volontà divina. Ma quando l’angelo le rivela che sarà madre e vergine nello
stesso tempo, di colpo prende coscienza della ragione di questo orientamento
profondo della sua esistenza; la sua vocazione virginale le viene rivelata
contemporaneamente all’incarnazione dei Figlio di Dio, di cui essa deve essere
il segno. Nella verginità di colei che diventa la madre di Dio si compie così la
lunga preparazione della verginità nel VT, ma anche la preghiera delle donne
sterili rese feconde dall’intervento di Dio. In Maria si palesa già il senso
escatologico della verginità cristiana, che a sua volta, manifesta l’irruzione,
nella storia, di un mondo nuovo.
3. La verginità dei cristiani.
- È stato Gesù, rimasto vergine come Giovanni Battista e Maria, a rivelare il
vero senso ed il carattere soprannaturale della verginità. Essa non è un
precetto (1 Cor 7, 25), ma una chiamata personale di Dio, un *carisma (7, 7).
«Oltre agli eunuchi che sono nati tali dal seno materno ed a quelli che sono
diventati tali per opera degli uomini, ce ne sono pure di quelli che si sono
resi tali per il *regno dei cieli» (Mt 19, 12). Soltanto il regno dei cieli
giustifica la verginità cristiana; comprendono questo linguaggio soltanto coloro
ai quali è dato (19, 11). Secondo Paolo, la verginità è superiore al
*matrimonio, perché consente una consacrazione integrale al Signore (1 Cor 7,
32-35): l’uomo sposato è diviso; coloro che restano vergini non hanno il cuore
diviso, possono consacrarsi interamente a Cristo, avere come *preoccupazione le
cose del Signore e non lasciarsi distrarre da questa attenzione costante. La
frase di Cristo in Mt 19, 12 («per il regno dei cieli» ) conferisce alla
verginità la sua vera dimensione escatologica. Paolo ritiene che lo stato di
verginità convenga «a motivo delle angustie presenti» (1 Cor 7, 26) e del tempo
che diventa breve (7, 29). La condizione del matrimonio è legata al tempo
presente, ma la figura di questo mondo passa (7, 31). Coloro che rimangono
vergini sono distaccati da questo secolo. Come nella parabola (Mt 25, l. 6),
essi attendono lo *sposo ed il regno dei cieli. Rivelazione costante della
verginità della Chiesa, la loro vita è anche una testimonianza della non
appartenenza dei cristiani a questo mondo, un «segno» permanente della tensione
escatologica della Chiesa, un’anticipazione dello stato di *risurrezione in cui
coloro che saranno stati giudicati degni di partecipare al mondo futuro saranno
simili agli angeli, ai figli di Dio (Lc 20, 34 ss par.). Lo stato di verginità
fa quindi conoscere in modo eccellente il vero volto della Chiesa. Come le
vergini prudenti, i cristiani vanno incontro a Cristo, loro sposo, per
partecipare con lui al banchetto delle nozze (Mt 25, 1-13). Nella Gerusalemme
celeste, tutti gli eletti sono chiamati vergini (Apoc 14, 4), perché hanno
rifiutato la prostituzione dell’*idolatria, ma soprattutto perché ora sono
interamente dediti a Cristo: con una docilità totale, «seguono l’agnello
dovunque vada» (cfr. Gv 10, 4. 27). Appartengono ormai alla città celeste, la
sposa dell’agnello (Apoc 19, 7. 9; 21, 9).
I. DE LA POTTERIE
→ donna NT - fecondità III 2 - madre II 2 - Maria II - matrimonio NT II
- sessualità I 2 - Sposo-sposa - sterilità - vedove 2.
I. LE
SITUAZIONI DELLA VERGOGNA
Il vocabolario della vergogna non ha per, nulla lo stesso senso nel
linguaggio delle Scritture e nel nostro. Si avvicina moltissimo alla nozione di
frustrazione, di *delusione. Cadere a terra, essere nudo, indietreggiare, essere
inutile, sono per tutti situazioni tipiche della vergogna, ma nella Bibbia
questo sentimento si estende ad ogni sofferenza. Così anche la prova di una
carestia (Ez 36, 30) sarà formulata in termini di obbrobrio. Per l’uomo biblico
ogni sofferenza è vissuta sotto lo sguardo altrui, comporta un *giudizio da
parte degli altri, e quindi si ricollega alla vergogna. Perciò le nozioni di
vergogna e di giudizio sono sovente collegate, poiché il giudizio è il momento
che, sia nel corso di questa vita, sia al suo termine, rivela dinanzi a tutti ed
alla luce divina che una speranza è stata vana o giusta.
1. Vergogna e sconfitta.
- Si faceva affidamento, e tutti lo sapevano, su un soccorso esterno,
su un piano, su un’arma, che vengono a mancare o si rivelano inoperanti. Si
perde la faccia cadendo; si dà occasione a *riso. La nozione di vergogna è
quindi collegata in modo antitetico a quella di appoggio (Sal 22, 4 ss: ebr.
«fidarsi»), di speranza, di *fede fiduciosa, il che spiega la sua estensione. Si
sa che il giusto si appoggia a Dio; se ciò si rivelasse inefficace, egli avrebbe
vergogna. Di qui la sua preghiera ripetuta di non essere «confuso» (Sal 25, 2 s;
22, 6...; cfr. Is 49, 23). Viceversa, quando i falsi appoggi, come il faraone (Is
20, 5; 30, 3 ss) o gli idoli, crolleranno facendo vedere in un giudizio il loro
nulla, gli insensati arrossiranno delusi e confusi al tempo stesso (Is 1, 9).
«Indietreggeranno nella vergogna» (Is 42, 17; Sal 6, 11; 70, 4). La loro
umiliazione consisterà sovente nel veder trionfare colui che essi pensavano di
aver visto (Sap 2, 20; 5, 1 ss) o di vedere un giorno umiliato (Sal 35, 26).
2. Vergogna e nudità.
- La vergogna di essere senza *veste rientra nei fatti misteriosi che il
racconto del paradiso fa risalire al primo peccato. È l’affiorare alla coscienza
di una *solitudine che proviene dal disordine. L’essere denudate sarà una
vergogna inflitta alle figlie di Israele o di altri popoli per castigarle (Ez
23, 29; Is 47, 1 ss).
3. Vergogna e *sterilità.
- Chiunque non giustifica con qualche *frutto la sua esistenza dinanzi agli
altri è in situazione di obbrobrio. È anzitutto il caso di colei che non
partorisce (Lc 1, 25; Gen 30, 23) ed anche di colei che rimane sola, senza
marito (Is 4, 1).
4. Vergogna ed idolatria.
- «Vergogna» è quasi un nome proprio dell’*idolo (di Baal: 2 Sam 2, 8 ebr.).
Esso infatti è fragile ed illusorio, menzogna e sterilità (Sap 4, 11; Is 41, 23
s; 44, 19), mentre il guardare la *faccia di Jahvè salva dalla vergogna (Sal 34,
6).
II. IL GIUSTO SALVATO DALLA VERGOGNA
1. Da Dio, da Cristo.
- Il giusto è assalito dalla vergogna: ci si scosta da lui (Is 53, 3;
Sap 5, 4; Sal 69, 8), lo si identifica con la vergogna (Sal 22, 7; 109, 25). Ma
egli rende la sua *faccia come pietra dura (Is 50, 7; cfr. Lc 9, 51). Si trova
spesso nel NT l’uso dell’espressione «non arrossire» o di altre analoghe, in un
senso che implica una volontà attiva di credere, quindi di agire e di parlare,
senza temere la vergogna. Al credente è promesso l’obbrobrio (Mt 5, 11 s), ma
egli non deve arrossire né di Gesù né della sua parola (Lc 9, 26). S. Paolo (Rom
1, 16; cfr. 2 Tim 1, 8) non arrossisce del vangelo: benché attenda ancora il
giudizio che darà piena conferma alla sua speranza, egli si attiene fermamente a
questa speranza ed agisce, parla di conseguenza. Questo atteggiamento è la
parresìa (gr.) o sicurezza (taluni traducono *fierezza) di linguaggio e di
azione nell’uomo liberato dalla vergogna mediante la fede. Nella fede in Gesù è
rigettata la vergogna: «tale è l’attesa della mia ardente speranza: nulla mi
confonderà, conserverò invece tutta la mia sicurezza e... Cristo sarà
glorificato nel mio corpo...» (Fil 1, 20). Di fatto Gesù ha disprezzato per
primo la vergogna (Ebr 12, 2).
2. Dalla carità fraterna.
- Il vocabolario paolino della vergogna è sorprendentemente ricco e ne
attesta l’importanza nella sensibilità dell’apostolo. Al pari degli uomini del
VT, Paolo avverte l’aspetto sociale delle sue prove (1 Cor 4, 13); grazie ad
esse egli esperimenterà la carità di coloro che non arrossiranno di lui (Gal 4,
14). La Chiesa è un corpo in cui nessuna parte deve arrossire dell’altra (1 Cor
12, 23): Paolo porta l’obbrobrio di Cristo (Ebr 11, 26) che ha portato il nostro
e non arrossisce di chiamarci fratelli (2, 11): ecco la base di questa
concezione della carità. Essa servirà di regola verso coloro che si sarebbe
tentati di disprezzare (Rom 14, 10).
P. BEAUCHAMP
→ delusione I 2 - fiducia - fierezza - silenzio 2 - solitudine 1 1 -
sterilità I 1 - ubriachezza 1.
Nel linguaggio
corrente si dice vero un pensiero, una parola conforme alla realtà, od ancora la
realtà stessa che si svela, che è chiara, evidente per lo spirito (vero,
a-lethès = non nascosto). È la concezione intellettualistica dei Greci, che
ordinariamente è anche la nostra. La nozione biblica di verità è diversa, perché
si fonda su un’esperienza religiosa, quella dell’incontro con Dio. Essa conobbe
tuttavia una notevole evoluzione: mentre nella Bibbia la verità è anzitutto la
fedeltà all’alleanza, nel NT diventerà la pienezza della rivelazione che ha
Cristo come centro.
VECCHIO TESTAMENTO
Il verbo ebr. ‘aman (cfr. l’*amen liturgico: 2 Cor 1, 20), da cui è
formato ‘emet (verità), significa fondamentalmente: essere solido, sicuro, degno
di fiducia; la verità è quindi la qualità di ciò che è stabile, provato, ciò su
cui ci si può appoggiare. Una pace di verità (Ger 14, 13) è una pace salda,
duratura; una via di verità (Gen 24, 48) è una via che conduce sicuramente alla
metà; «in verità» significa talvolta (Is 16, 5): in modo stabile, per sempre.
Applicata a Dio od agli uomini, la parola si dovrà sovente tradurre con
*fedeltà, perché appunto la fedeltà di uno ci impegna a dargli fiducia.
1. La «‘emet» di Dio.
- Essa è legata al suo intervento nella storia in favore del suo
popolo. Jahvè è il Dio fedele (Deut 7, 9; 32, 4; Sal 31, 6; Is 49, 7).
L’importanza di questo attributo non si spiega bene che nel contesto
dell’*alleanza e delle *promesse: «Jahvè tuo Dio è Dio, il Dio fedele che
conserva la sua alleanza ed il suo amore per mille generazioni a coloro che lo
amano» (Deut 7, 9). Il Sal 89, a proposito dell’alleanza davidica, è consacrato
tutto a celebrare la fedeltà di Dio. Il senso fondamentale del termine è
chiarissimo nel Sal 132, 11 («Jahvè ha giurato a David ‘emet, non si ritrarrà da
essa»), dove il *giuramento, chiamato ‘emet, è con ciò stesso qualificato come
infrangibile. Sovente ‘emet è associato a hesed (ad es. Sal 89; 138, 2) per
indicare l’atteggiamento fondamentale di Dio nell’alleanza: è una alleanza di
*grazia, alla quale Dio non è mai venuto meno (Es 34, 6 s; cfr. Gen 24, 27; 2
Sam 2, 6; 15, 20). Altrove la fedeltà è congiunta agli attributi di giustizia (Os
2, 21 s; Neem 9, 33; Zac 8, 8) o di santità (Sal 71, 22) ed assume un
significato più generale, senza riferimento all’alleanza. In parecchi salmi la
stabilità divina è presentata come una protezione, un rifugio per il giusto che
implora il soccorso divino: di qui le immagini del bastione, dell’armatura,
dello scudo (Sal 91), che pongono in evidenza la saldezza dell’appoggio divino
(cfr. Sal 40, 12; 43, 2 s; 54, 7; 61, 8). La ‘emet caratterizza ancora la
*parola di Dio e la sua legge. David dice a Jahvè: «Le tue parole sono verità»
(2 Sam 7, 28), perché le promesse divine assicurano la perpetuità alla sua casa.
I salmi celebrano la verità della legge divina (Sal 19, 10; 111, 7 s; 119, 86.
138. 142. 151. 160); secondo il testo citato per ultimo, la verità è ciò che vi
ha di essenziale, di fondamentale nella parola di Dio: essa è irrevocabile,
rimane per sempre.
2. La «‘emet» degli uomini.
- Anche qui si tratta di un atteggiamento fondamentale di fedeltà (cfr. Os 4,
2). «Uomini di verità» (Es 18, 21; Neem 7, 2) sono uomini di fiducia, ma i due
testi aggiungono «tementi Dio», il che collega questo apprezzamento morale al
contesto religioso del jahvismo. Ordinariamente la «verità» degli uomini designa
direttamente la loro fedeltà all’alleanza ed alla legge divina. Descrive quindi
l’insieme del comportamento dei giusti; di qui il parallelismo con perfezione (Gios
24, 14), cuore integro (2 Re 20, 3), il bene ed il diritto (2 Cron 31, 20),
diritto e giustizia (Is 59, 14; cfr. Sal 45, 5), santità (Zac 8, 3). «Fare la
verità» (2 Cron 31, 20; Ez 18, 9) e «camminare nella verità» (1 Re 2, 4; 3, 6; 2
Re 20, 3; Is 38, 3), significa essere fedeli osservatori della legge del Signore
(cfr. Tob 3, 5). Per le relazioni degli uomini fra di loro riappare la formula
«fare la bontà e la verità» (Gen 47, 29; Gios 2, 14): significa agire con
benevolenza e lealtà, con una bontà fedele. La ‘emet significa parimenti il
rispetto delle norme del diritto nell’esercizio della *giustizia (Prov 29, 14;
Es 18, 8; Zac 7, 9) o la perfetta sincerità nel linguaggio; ma anche qui si
ritrova la sfumatura fondamentale: una *lingua sincera «rimane per sempre» (Prov
12, 19).
3. La verità rivelata.
- Nella tradizione sapienziale ed apocalittica, la nozione di verità assume un
senso parzialmente nuovo che prepara il NT: designa la dottrina di sapienza, la
verità rivelata. In taluni salmi (25, 5; 26, 3; 86, 11), l’espressione
«camminare nella verità di Dio» lascia capire che questa verità non è
semplicemente il comportamento morale, ma la *legge stessa che Dio insegna ad
osservare. I sacerdoti devono trasmettere «una dottrina di verità» (Mal 2, 6): è
l’*insegnamento che viene da Dio. «Verità» diventa sinonimo di *sapienza:
«Acquista la verità, non la vendere: sapienza, disciplina ed intelligenza» (Prov
23, 23; cfr. 8, 7; 22, 21; Eccle 12, 10); «Fino alla morte lotta per la verità»
(Eccli 4, 28 LXX). La parola «verità», indicando il disegno ed il volere di Dio,
è pure affine a *mistero (Tob 12, 11; Sap 6, 22). Al momento del giudizio, i
giusti «comprenderanno la verità» (Sap 3, 9), non nel senso che debbano
esperimentare la fedeltà di Dio alle sue promesse oppure vedere l’essere stesso
di Dio, ma comprenderanno il suo *disegno provvidenziale sugli uomini. Per
Daniele, «il libro della verità» (Dan 10, 21) è quello in cui è scritto il
*disegno di Dio: la verità di Dio è la rivelazione del suo disegno (9, 13), è
ancora una visione celeste o la spiegazione del suo significato (8, 26; 10, 1;
11, 2), è la vera fede, la religione di Israele (8, 12). Quest’uso del termine
si conserva nel giudaismo apocalittico e sapienziale. A Qumrân «l’intelligenza
della verità di Dio» è la conoscenza dei misteri (Inni di Qumrân: I QH 7, 26 s),
che però si ottiene mediante l’interpretazione vera della legge: «convertirsi
alla verità» (Manuale di disciplina: I QS 6, 15), significa «convertirsi alla
legge di Mosè» (5, 8). Dottrina rivelata, la verità ha pure una portata morale,
si oppone alla iniquità: i «figli della verità» (4, 5) sono coloro che seguono
«le vie della verità» (4, 17). La verità finisce così per designare a Qumrân
l’insieme delle concezioni religiose dei figli dell’alleanza.
NUOVO TESTAMENTO
1. Eredità biblica.
- In Paolo, più che altrove nel NT, la nozione di verità (alètheia) presenta le
sfumature che aveva nei LXX. L’apostolo se ne serve nel senso di sincerità (2
Cor 7, 14; 11, 10; Fil 1, 18; 1 Cor 5, 8) o nella espressione «dire la verità»
(Rom 9, 1; 2 Cor 12, 6; Ef 4, 25; 1 Tim 2, 7). Profondamente biblica è la
formula «la verità di Dio» per designare la *fedeltà di Dio alle sue promesse
(Rom 3, 7; cfr. 3, 3; 15, 8; 2 Cor 1, 18 ss: le *promesse del Dio fedele hanno
il loro «sì» in Cristo); così pure alètheia nel senso di verità morale, di
rettitudine: opposta alla ingiustizia (1 Cor 13, 6), sinonimo di *giustizia (Ef
5, 9; 6, 14), essa caratterizza il comportamento che Paolo si aspetta dai suoi
cristiani (Col 1, 6; 2 Cor 13, 8). Il *giudizio di Dio sarà anch’esso improntato
a verità, a giustizia (Rom 2, 2). L’antitesi tra «la verità di Dio» e la
*menzogna degli *idoli (Rom 1, 25; cfr. 1 Tess 1, 9) si ispira alla polemica
giudaica contro l’idolatria pagana (Ger 10, 14; 13, 25; Bar 6, 7. 47. 50): il
vero Dio è il Dio vivente, sul quale si può contare, colui che esaudisce il suo
popolo e lo salva.
2. La verità del vangelo.
- Qui appare la nozione di verità cristiana. Essa si collega al tema sapienziale
ed apocalittico di verità rivelata. I Giudei si illudevano di possedere nella
loro legge l’espressione stessa di questa verità (Rom 2, 20), di trovarsi
depositata tutta la *volontà di Dio (2, 18). All’espressione giudaica «la verità
della legge» Paolo sostituisce «la verità del *vangelo» (Gal 2, 5. 14) o «la
parola di verità» (Col 1, 5; Ef 1, 13; 2 Tim 2, 15). Oggetto di una *rivelazione
(2 Cor 4, 2) allo stesso titolo del *mistero (Rom 16, 26; Col 1, 26; 4, 3), essa
è la *parola di Dio *predicata dall’apostolo (2 Cor 4, 2. 5).
a) La verità e la fede. - Gli uomini a cui questo
messaggio è indirizzato devono ascoltare la parola (Ef l, 13; Rom 10, 14),
devono convertirsi per giungere alla *conoscenza della verità (2 Tim 2, 25).
L’accettazione della verità del vangelo avviene mediante la *fede (2 Tess 2, 13;
Tito 1, 1; cfr. 2 Tess 2, 12; Gal 5, 7; Rom 2, 8), ma questa fede esige nello
stesso tempo l’*amore della verità (2 Tess 2, 10). «Giungere alla conoscenza
della verità» diventa nei testi posteriori (1 Tim 2, 4; 2 Tim 3, 7; cfr. Ebr 10,
26) un’espressione stereotipata per dire: aderire al vangelo, abbracciare il
cristianesimo, perché i fedeli sono precisamente coloro che conoscono la verità
(1 Tim 4, 3); questa non è altro che la fede cristiana (Tito 1, 1).
b) Verità e vita cristiana. - Secondo le lettere
cattoliche i fedeli sono stati generati alla nuova vita dalla parola di verità (Giac
1, 18; 1 Piet 1, 23); hanno santificato le loro *anime mediante l’*obbedienza
alla verità nel momento del battesimo (1 Piet 1, 22). Bisogna quindi non
smarrirsi lontano da questa verità una volta abbracciata (Giac 5, 19),
rafforzarsi nella verità presente in vista della parusia (2 Piet 1, 12); bisogna
continuare a desiderare questo *latte della parola, per crescere per la
*salvezza (1 Piet 2, 2). In tal modo il cristiano, aggiunge Paolo, si *riveste
dell’uomo *nuovo e realizza la *santità che la verità esige (Ef 4, 24).
c) La sana dottrina e l’*errore. - Nelle pastorali la
polemica contro gli *eretici conferisce al tema una nuova sfumatura: la verità è
ormai la buona dottrina (1 Tim 1, 10; 4, 6; 2 Tim 4, 3; Tito 1, 9; 2, 1) opposta
alle favole (1 Tim 1, 4; 4, 7; 2 Tim 4, 4; Tito 1, 14) dei dottori di *menzogna
(1 Tim 4, 2). Questi hanno voltato la schiena alla verità (Tito 1, 14; cfr. 1
Tim 6, 5; 2 Tim 2, 18; 4, 4), insorgono persino contro di essa (2 Tim 3, 8). Ma
la Chiesa del Dio vivente rimane «la colonna ed il fondamento della verità» (1
Tim 3, 15).
d) Tra la verità e Cristo esiste uno stretto legame.
L’oggetto del messaggio dell’apostolo non è una dottrina astratta, ma la persona
stessa di Cristo (2 Cor 4, 5; cfr. Gal 1, 16; 1 Cor 1, 23; 2 Cor 1, 19; 11, 4;
Ef 4, 20; Fil 1, 15): Cristo, «manifestato nella carne... proclamato presso i
pagani, creduto nel mondo», è la verità di cui la Chiesa è la custode, è il
*mistero della *pietà (1 Tim 3, 16). Il Cristo-verità annunziato dal vangelo non
è quindi un essere celeste in senso gnostico, ma il *Gesù della storia, morto e
risorto per noi: «la verità è in Gesù» (Ef 4, 21).
3. S. Giovanni.
- Nella teologia di Giovanni, che è anzitutto una teologia di
*rivelazione, la nozione di verità occupa un posto notevole. Si interpreta
frequentemente 1’alètheia giovannea nel senso dualistico metafisico, platonico o
gnostico, di essere sussistente ed eterno, di realtà divina che si svela. Ma
Giovanni non chiama mai Dio stesso la verità, il che tuttavia sarebbe essenziale
secondo questi sistemi. In realtà, egli non fa che sviluppare il tema
apocalittico e sapienziale della verità rivelata, ripreso altrove nel NT, ma
insistendo maggiormente sul carattere rivelato e sulla forza interiore della
verità.
a) La parola del Padre ed il Cristo-verità. - Per
Giovanni la verità non è l’essere stesso di Dio, ma la *parola del Padre (Gv 17,
17; cfr. 1 Gv l, 8: «la verità non è in voi» e 1, 10: «la sua parola non è in
voi»). La parola che Cristo ha inteso dal Padre (Gv 8, 26. 40; cfr. 3, 33), è la
verità che egli viene a «proclamare» (8, 40. 45 s) e a cui viene a «rendere
testimonianza» (18, 37; cfr. 5, 33). La verità è quindi nello stesso tempo la
parola che Cristo stesso ci rivolge, e che ci porta a credere in lui (8, 31 s.
45 s). La differenza tra questa rivelazione e quella del VT è fortemente
sottolineata: «La legge fu data per mezzo di Mosè; la *grazia della verità ci è
venuta da *Gesù Cristo» (1, 17), perché con lui ed in lui è apparsa la
*rivelazione totale, definitiva. Mentre il demonio è il padre della menzogna (8,
44), Cristo invece proclama la verità» (8, 45), è «pieno della grazia della
verità» (1, 14). La grande novità cristiana è questa: che Cristo è egli stesso
la verità (14, 6): lo è non tanto perché possiede la natura divina, ma perché,
Verbo fatto carne, ci rivela il Padre (1, 18). Gesù spiega il senso di questo
titolo unendolo a due altri: egli è «la via, la verità e la vita» ; è la *via
che conduce al Padre, proprio perché lui, l’uomo Gesù, in quanto verità, ci
trasmette in se stesso la rivelazione del Padre (17, 8. 14. 17) e così ci
comunica la *vita divina (1, 4; 3, 16; 6, 40. 47. 63; 17, 2; 1 Gv 5, 11 ss).
Questo titolo rivela quindi indirettamente la persona divina di Cristo; se Gesù,
unico tra gli uomini, può essere per noi la verità, è per il fatto di essere
nello stesso tempo la Parola, «il Verbo rivolto verso il seno del Padre» (Gv 1,
18), il Figlio unigenito.
b) Lo Spirito di verità. - Terminata la rivelazione al
mondo (Gv 12, 50), Gesù annuncia ai suoi discepoli la venuta del *Paraclito, lo
Spirito di verità (14, 17; 15, 26; 16, 13). Per Giovanni la funzione
fondamentale dello *Spirito è di rendere *testimonianza a Cristo (15, 26; 1 Gv
5, 6), di introdurre i *discepoli a tutta intera la verità (16, 13), di
richiamare alla loro *memoria ciò che Cristo aveva detto, cioè di farne
afferrare il vero senso (14, 26). Poiché il suo compito consiste nel far
comprendere nella fede la verità di Cristo, lo Spirito è detto anch’esso «la
verità» (1 Gv 5, 6); come testimone di Cristo, rende presente la verità nella
Chiesa; lo Spirito è per essa «il dottore della verità» (Tertulliano).
c) Verità e santità. - Giovanni sottolinea con forza
la funzione della verità nella vita del fedele. Egli deve «essere dalla verità»
(Gv 18, 37; 1 Gv 3, 19): dopo aver aderito una volta per sempre alla nuova *vita
mediante la fede (cfr. Giac 1, 18; 1 Piet l, 22 s), il cristiano deve *nascere
dallo Spirito (Gv 3, 5. 8) e sforzarsi di essere abitualmente sotto l’influsso
della verità che rimane in lui (2 Gv 4) per diventare un uomo nato dallo Spirito
(Gv 3, 5. 8). Soltanto colui che *rimane così nella *parola di Gesù giungerà a
conoscere veramente la verità e ad essere *liberato internamente dal peccato
mediante questa verità (Gv 8, 31 s): perché la fede purifica (Atti 15, 9), e
quindi anche la parola di Cristo (Gv 15, 3); essa ci fa vincere il maligno (1 Gv
2, 14); quando il fedele permette che il seme della parola «rimanga» attivamente
in lui, diventa impeccabile (1 Gv 3, 9), si *santifica nella verità (Gv 17, 17.
19). Giovanni vede così nella alètheia il principio interiore della vita morale
e conferisce alle antiche espressioni bibliche una pienezza di senso cristiano:
«fare la verità» significa accogliere e fare propria la verità di Gesù (3, 21) o
convertirsi a lui riconoscendosi peccatore (1 Gv 1, 6); «camminare nella verità»
(2 Gv 4; 3 Gv 3 s) significa procedere nel precetto dell’amore (2 Gv 6),
lasciarsi dirigere nella propria azione dalla verità, dalla fede. Amare i propri
fratelli «in verità» (2 Gv 1; 3 Gv l), significa amarli con la forza della
verità che rimane in noi (2 Gv 1 ss; cfr. 1 Gv 3, 18); l’adorazione «in spirito
e verità» (Gv 4, 23 s) è una *adorazione che sgorga dall’interno; è un *culto
ispirato dallo Spirito e dalla verità di Gesù, che lo Spirito di verità rende
attivo in coloro che ha fatto rinascere; Gesù-verità diventa così il nuovo
tempio, dove si deve praticare il culto distintivo dei tempi messianici. Poiché
la verità è la rivelazione dell’amore di Dio, Gesù invita i cristiani a
praticare l’amore fraterno; essi diventeranno con questo «cooperatori della
verità» (3 Gv 8), lasceranno esprimersi del tutto nella loro vita la verità del
Cristo (3 Gv 3. 6). La verità in senso cristiano non è quindi il campo immenso
del reale, che noi dovremmo conquistare con uno sforzo di pensiero, ma è la
verità del vangelo, la parola rivelatrice del Padre, presente in Gesù Cristo ed
illuminata dallo Spirito, che dobbiamo accogliere nella fede perché trasformi le
nostre esistenze. La verità di salvezza risplende per noi nella persona del
Cristo, che è insieme mediatore e pienezza della rivelazione, e ci è
autenticamente comunicata nei libri santi.
I. DE LA POTTERIE
→ adorazione II 3 - amen 2 - conoscere - eresia - errore - fede -
fedeltà - giuramento - labbra 1 - luce e tenebre NT II 1 - menzogna - Paraclito
- parola di Dio - testimonianza.
→ Chiesa III 2 c - ministero II 3.4.
Con il nutrimento
ed il tetto, la veste è condizione primordiale dell’esistenza umana (Eccli 29,
21); la benedizione assicura pane e veste (Deut 10, 18; cfr. Gen 28, 20), il
castigo carestia e nudità (Deut 28, 48). La veste protegge contro le intemperie:
non bisogna tenere in pegno il mantello del povero quando il freddo della notte
piomba su di lui (Es 22, 25). Accanto a questi dati elementari, il simbolismo
della veste si orienta verso una duplice direzione. Significa da una parte un
mondo ordinato dal creatore, e dall’altra parte la promessa della gloria perduta
nel paradiso.
I. LA VESTE, RIFLESSO DELL’ORDINE DIVINO DEL MONDO
Strappando le cose al caos originale, il creatore ha assegnato a
ciascuna di esse il suo posto in un mondo ordinato. Così la veste appare come un
segno della persona umana nella sua identità e nella stia distinzione.
1. Veste e persona umana.
- In un primo stadio la veste protegge il corpo non soltanto contro le
intemperie, ma contro gli sguardi che potrebbero ridurre la persona ad un
oggetto di bramosia, facendola ritornare nel caos della indistinzione da cui il
creatore l’ha fatta uscire. Trova così fondamento il divieto di «sollevare il
velo» che protegge il gruppo parentale (Gen 9, 20-27), uterino (Gen 34; 2 Sam 3)
e coniugale (Deut 22, 13-24): la vita privata di ciascuno è protetta dalla
veste. La veste assicura parimenti la distinzione dei *sessi e può simboleggiare
i loro rapporti. L’uomo e la donna devono portare abiti distinti (Deut 22, 5).
La donna si vela il volto per motivi precisi, come nell’incontro prenuziale,
specie di rito di consacrazione a colui che l’ha scelta (Gen 24, 65); risponde
all’atto del fidanzato che le comunica ciò che egli ha, «stendendo su di essa il
lembo del suo mantello» (Rut 3, 9; cfr. Deut 23, 1): in tal modo egli non prende
«possesso» di essa (cfr. Rut 4, 7; Deut 25, 9; Sal 60, 10), ma conferisce
all’eletta la gloria della sua stessa persona. La veste riflette la vita in
società. Per ciascuna cellula della comunità essa è come il segno di una vita
armoniosa che nasce dal lavoro in comune (tosatura: 1 Sam 25, 4-8; tessitura:
Prov 31, 10-31; Atti 18, 3; confezione: Atti 9, 39), di una saggia
amministrazione (Prov 31, 30) e dell’aiuto reciproco. Donare il proprio mantello
è un segno di fraternità; Gionata conclude in tal modo alleanza con David (1 Sam
18, 3 s), perché la veste fa con la persona un’alleanza unica, riconosciuta da
coloro che si amano (Gen 37, 33), ad esempio dal *profumo che ne emana (Gen 27,
15. 27; Cant 4, 11). Il lusso ostentatore che accusa vergognosamente la
sproporzione dei livelli di vita invece di cercare di porvi rimedio (Eccli 40,
4; Giac 2, 2) attira le maledizioni dei profeti e degli apostoli. Rivestire chi
è nudo è un precetto vitale che si impone per giustizia (Ez 18, 7) alla
comunità, sotto pena di decomposizione: è più che «riscaldare le sue membra» (Giob
31, 20), è farlo rinascere alla vita comune (Is 58, 7), rifare per lui ciò che
Dio ha fatto per tutti (Deut 10, 18 s), trarlo dal caos. Senza questa giustizia
la carità è morta (Giac 2, 15). «Da’ dunque anche il tuo mantello!» (Mt 5, 40),
dice Cristo, indicando con ciò che bisogna dare la propria persona a colui che
lo chiede.
2. Veste e funzioni umane.
- Non si porta sempre la stessa veste: bisogna distinguere i tempi della vita,
il profano ed il sacro, il lavoro e la festa. Se il lavoro può esigere che si
deponga la veste (Gv 21, 7), esistono, in cambio, vesti festive di tutte le
specie. Cambiar veste può significare che si passa dal profano al sacro; così il
popolo nell’attesa della teofania (Es 19, 10; Gen 35, 2) od i sacerdoti
nell’entrare e nell’uscire dall’atrio interno (Es 28, 2 s; Lev 16, 4; Ez 44, 17
ss; Zac 3); così quando sono in gioco le categorie del *puro e dell’impuro (Lev
13 - 15). La veste caratterizza infine le grandi funzioni in Israele. Tra gli
abiti regali (1 Re 22, 30; Atti 12, 21), c’è una veste di porpora con fermaglio
d’oro (1 Mac 10, 20. 62. 64). Per confermare l’unzione regale, il popolo stende
le sue vesti sotto i piedi del re (2 Re 9, 13; Mt 21, 8): ed egli le copre di
gloria (cfr. 2 Sam 1, 24)! Il profeta porta un mantello di pelo sopra una
cintura di pelle (Zac 13, 4; Mt 3, 4 par.), simile al mantello che Elia gettò su
Eliseo dandogli la vocazione profetica (1 Re 19, 19); con questa investitura il
carisma profetico può essere comunicato (2 Re 2, 13 ss). Il sommo sacerdote
riceve pure l’investitura «rivestendo gli abiti sacri» (Lev 21, 10); con queste
vesti simboliche (Es 28-29; Lev 16; Ez 44; Eccli 45, 7-12), un «uomo
irreprensibile» può «affrontare il corruccio divino, lo sterminatore
indietreggia» (Sap 18, 23 ss; cfr. 1 Mac 3, 49).
II. VESTE E NUDITÀ, SIMBOLI SPIRITUALI
La veste è pure il segno della condizione spirituale dell’uomo. È
quanto in sintesi fa vedere il racconto del paradiso e ciò che racconta la
storia sacra.
1. Nel paradiso.
- Aperti gli occhi con la conoscenza proibita, Adamo ed Eva seppero di essere
nudi (Gen 6, 7); fino a quel momento si sentivano in armonia con l’ambiente
divino per via di una specie di grazia che rivestiva come un abito la loro
persona. Ormai tutto il loro corpo, e non soltanto il loro sesso, è segnato da
un difetto dinanzi alla presenza divina; una cintura vegetale non è sufficiente
a mascherarlo; i peccatori si nascondono in mezzo agli alberi del giardino,
perché dinanzi alla maestà divina nasce il loro pudore: «Ho avuto paura perché
sono nudo». Essi ormai non hanno più il segno che giustifica la vicinanza
familiare di Dio: hanno perso il senso della loro appartenenza al Signore e
rimangono sorpresi della loro nudità come dinanzi a uno specchio che non
riflette l’immagine di Dio. Ora Dio non allontana i peccatori senza rivestirli
egli stesso di tuniche di pelle (Gen 3, 21). Questa vestizione non sopprime la
spogliazione; è il segno che essi rimangono chiamati alla dignità cui sono
venuti meno. La veste è ormai il segno di due cose: afferma la dignità dell’uomo
decaduto e la possibilità di rivestire una gloria perduta.
2. La storia dell'Alleanza.
- La storia dell’alleanza è simboleggiata sovente mediante la veste,
che allora significa la gloria perduta o promessa. Con l’alleanza Dio inaugura
una comunicazione intima della sua gloria: come un pastore egli avvolge il
bambino trovato nel caos del deserto (Deut 32, 10); come un re, i lembi del suo
mantello riempiono il tempio (Is 6, 1); come uno sposo, egli stende il lembo del
suo mantello sul suo popolo (Ez 16, 8 ss), e lo riveste non di pelli di animali,
ma di «lino fine e di seta» , come se lo facesse sacerdote (cfr. Es 28, 5. 39.
42). Jahvè gli comunica il suo proprio splendore (Ez 16, 13 s); ma la sposa
regale non rimane fedele. Basandosi sulle usanze delle alture idolatriche,
Ezechiele continua l’allegoria con crudezza, facendo vedere la sposa che si
esibisce nuda e si offre a tutti: «Delle sue vesti essa fa alture dai ricchi
colori» e si prostituisce ad ogni passante (16, 15 ss; cfr. Os 2, 9 ss). Mentre
la sua veste non avrebbe dovuto logorarsi, come un tempo nella lunga marcia del
deserto (Deut 8, 4), ecco che invecchia, cade a brandelli (Is 50, 9), rosa dalla
tignuola e dalle tarme (51, 8). Tuttavia il disegno di Dio si realizzerà, in
controcorrente, traendo il rimedio dal male. Da una parte Jahvè fa di Israele
una terra nuda, tramutando in furore distruttore la cupidigia dei suoi amanti (Ez
16, 37; Ger 13, 26), fino a che un *resto raggiunga infine nella spogliazione la
grazia del ritorno. Dall’altra parte un *servo, «senza bellezza e senza
splendore», inviato da lui, guarirà il suo popolo dalle sue passioni,
umiliandosi fino alla morte (Is 53, 12); e Sion potrà cingersi ad un tempo dei
suoi demolitori e dei suoi ricostruttori «come farebbe una sposa» (49, 17 s).
Allora Jahvè, rivestito della *giustizia come corazza, della *vendetta come
tunica e avvolto nella gelosia (59, 17), ornerà la sua *sposa col mantello di
giustizia (61, 10).
3. Cristo, vestito di gloria.
- Perché Israele sia ornato in tal modo, bisogna che Cristo, vero servo, sia
spogliato delle sue vesti (Mt 27, 35; Gv 19, 23), esposto alla parodia di una
investitura regale (Gv 19, 2 s...), diventi un «uomo» indistinto, privo di
appartenenza legale. Ma quest’uomo è il Figlio di Dio, la cui gloria è
incorruttibile. Già nella *trasfigurazione, nello splendore delle vesti, la sua
carne si è mostrata gloriosa (Mt 17, 2), ed egli era stato capace di far
riprendere le vesti all’indemoniato di Gerasa (Mc 5, 15; cfr. Atti 19, 16). Dopo
la risurrezione, come gli angeli che l’annunciano (Mt 28, 3 par.), il Signore
non conserva della veste che l’essenziale: lo splendore, segno della sua *gloria
(Atti 22, 6-11; cfr. 10, 30; 12, 7); e tuttavia gli occhi non ancora aperti di
Maria di Magdala o dei pellegrini di Emmaus non vedono a tutta prima che un
ortolano o un viandante (Gv 20, 15; Lc 24, 15 s): e questo perché la gloria non
si manifesta che alla fede piena. Per il credente, Cristo fa l’ardente guerra
dell’*ira, rivestito d’un manto che porta l’iscrizione: «Re dei re e Signore dei
signori» (Apoc 19, 16).
4. La veste degli eletti.
- L’ordine della creazione è già stato reso percepibile agli occhi della fede.
In quest’ordine divino, di cui gli *angeli sono i testimoni, dice Paolo (1 Cor
11, 10), Adamo riflette la gloria di Dio a viso scoperto (cfr. 2 Cor 3, 18),
come Cristo che è il suo capo (1 Cor 11, 3 s); Eva, creata non identica, ma
complementare di Adamo (11, 8 s), ne deve portare il segno della padronanza
nella sua subordinazione: con il velo essa rifiuta di offrire la sua «gloria»
(11, 6. 10. 15) indistintamente al dominio degli sguardi (11, 5. 13; cfr. 1 Tim
2, 9. 14); questo velo indica il pieno possesso di sé nella consacrazione, il
contrario di un’alienazione. Ma questa gloria non sarà manifesta che nel giorno
della risurrezione. Di fatto ogni uomo è chiamato ad entrare nel movimento di
gloria inaugurato da Cristo. Se di un granello nudo gettato in terra Dio può
fare un corpo splendente, può fare del corpo di ogni uomo un corpo
incorruttibile (1 Cor 15, 37. 42), e sopra la veste corruttibile rivestire
l’uomo di una veste incorruttibile (2 Cor 5, 3 ss). Ormai l’umanità esce dalla
sua nudità, acquista libertà, filiazione, diritto all’eredità divina mediante
l’atto di «rivestirsi di Cristo». Con coloro che si sono spogliati dell’uomo
vecchio ed hanno rivestito l’uomo nuovo (Col 3, 10; Ef 4, 24), mediante la fede
ed il battesimo (Gal 3, 25 ss), Dio costituisce una comunità perfetta ed «unica»
in Cristo (3, 28), animata da un principio ontologico nuovo, lo Spirito. I
membri devono lottare, ma con «armi di luce» (Rom 13, 12), e neppure la nudità
li potrà separare da Cristo (Rom 8, 35). Coloro che trionfano «hanno lavato le
loro vesti e le hanno imbiancate nel sangue dell’agnello» (Apoc 7, 14; 22, 14).
Ormai la sposa non può venir meno; essa si orna, nel corso della storia, per le
nozze: «Le è stato dato di rivestirsi di un lino di bianchezza splendente» (19,
7 s). Quando Dio arrotolerà cieli e terra come un abito che ha fatto il suo
tempo, per sostituirli con altri nuovi (Ebr 1, 11 s), ed avranno preso posto i
protagonisti del giudizio, in maggioranza in vesti *bianche, la nuova
Gerusalemme, ornata come una sposa (Apoc 21, 2), avanzerà infine dinanzi allo
sposo. Allora «la città può fare a meno dello splendore del sole e della luna,
perché la gloria di Dio l’ha illuminata e la sua lucerna è l’agnello» (21, 23).
E. HAULOTTE
→ bianco - gloria I, V - trasfigurazione 2.
VESTE NUZIALE (inizio)
→ bianco 2 - pasto IV - regno NT II 3 - Sposo-sposa NT 3 b c - veste II 4.
L’antico semita è
un nomade. Nella sua esistenza, strada, via e sentiero hanno una parte
essenziale. Con tutta naturalezza egli si serve di questo stesso vocabolario per
parlare della vita morale e religiosa, e lo stesso uso si è conservato nella
lingua ebraica. All’epoca del giudaismo, la dottrina delle «due vie» riassume la
condotta morale degli uomini. Esistono due modi di comportarsi, due vie: la
buona e la cattiva (Sal 1, 6; Prov 4, 18 s; 12, 28). La via della *virtù, via
diritta e perfetta (1 Sam 12, 23; 1 Re 8, 36; Sal 101, 2. 6; 1 Cor 12, 31),
consiste nel praticare la *giustizia (Prov 8, 20; 12, 28), nell’essere fedele
alla *verità (Sal 119, 30; Tob 1, 3), nel ricercare la *pace (Is 59, 8; Lc 1,
79). Gli scritti sapienziali proclamano che questa è la via della *vita (Prov 2,
19; 5, 6; 6, 23; 15, 24); essa assicura lunghezza e prosperità di esistenza. La
via cattiva, tortuosa (Prov 21, 8), è quella che seguono gli insensati (Prov 12,
15), i peccatori (Sal 1, 1; Eccli 21, 10), i malvagi (Sal 1, 6; Prov 4, 14. 19;
Ger 12, 1). Essa porta alla perdizione (Sal 1, 6) ed alla morte (Prov 12, 28).
Tra queste due vie l’uomo è *libero di scegliere ed ha la *responsabilità della
sua scelta (Deut 30, 15-20; Eccli 15, 12). Il vangelo segnala l’angustia del
sentiero che conduce alla vita, e l’esiguo numero di quelli che l’imboccano;
mentre la maggioranza segue la via larga che conduce alla morte (Mt 7, 13 s).
I. LE VIE DI DIO
Abramo si è messo in cammino all’appello di Dio (Gen 12, 1-5); da allora è
incominciata un’immensa avventura, nella quale la grande questione è di
riconoscere le vie di Dio e di seguirle. Vie sconcertanti: «le mie vie non sono
le vostre vie» , dice il Signore (Is 55, 8), ma che terminano in realizzazioni
meravigliose.
1. L'esodo.
- L’*esodo ne è l’esempio privilegiato. Il popolo esperimentò allora
quel che significa «camminare con il suo Dio» (Mi 6, 8) ed entrare nella sua
*alleanza. Dio stesso si mette in testa per aprire la strada, e la sua presenza
è concretizzata dalla colonna di *nube o dalla colonna di *fuoco (Es 13, 21 s).
Il mare non lo ferma: «Sul mare fu la tua via, il tuo sentiero sulle acque
innumerevoli» (Sal 77, 20), cosicché Israele sfugge agli Egiziani, liberato. Poi
c’è la marcia nel deserto. (Sal 68, 8); Dio vi combatte per il suo popolo e lo
sostiene «come un uomo sostiene il proprio figlio»; gli procura cibo e bevanda;
«cerca un posto dove accamparsi» e veglia a che non manchi nulla (Deut 1,
30-33). Ma interviene pure per punire Israele delle sue mancanze di fede. La
marcia con Dio, in effetti, è difficile. Il tempo del *deserto può essere
considerato come un tempo di *prova, che permette a Jahvè di sondare il suo
popolo fino in fondo al cuore e di correggerlo come si conviene (Deut 8, 2-6).
Perciò la via di Dio è divenuta lunga e sinuosa (Deut 2, 1 s). Ma non manca di
giungere a termine: Dio conduce il suo popolo al *riposo, in un paese fortunato,
dove Israele soddisfatto benedirà Jahvè (Deut 8, 7-10). Diviene così manifesto
che «i sentieri di Jahvè sono amore e verità» (Sal 25, 10; cfr. Sal 136), ed
anche che «tutte le sue vie sono il *diritto» (Deut 32, 4). Il ricordo
dell’esodo, ravvivato ogni anno in occasione della Pasqua e della festa dei
tabernacoli, segna profondamente l’animo giudaico. I pellegrinaggi (Sichem,
Silo, poi Gerusalemme) contribuiscono a fissare la nozione di via sacra che
porta al riposo di Dio. Quando l’idolatria minaccia di soppiantate il jahvismo,
*Elia riprende la strada dell’Horeb. Più tardi i profeti idealizzano il tempo in
cui Jahvè camminava con il suo figlio (Os 11, 1 ss).
2. La *legge.
- Arrivato nella terra promessa, Israele deve nondimeno continuare a
«camminare nelle vie del Signore» (Sal 128, 1). *Conoscerle è il suo grande
privilegio (cfr. Sal 147, 19 s). Di fatto Dio ha rivelato al suo popolo «tutta
la via della conoscenza»; «è il libro dei precetti di Dio, la legge che sussiste
in eterno» (Bar 3, 37; 4, 1). Bisogna dunque «camminare nella legge del Signore»
(Sal 119, 1), per mantenersi nella sua alleanza ed avanzare verso la luce, verso
la pace, verso la vita (Bar 3, 13 s). La legge è la vera via dell’uomo, perché è
la via di Dio. La disobbedienza alla legge è un traviamento (Deut 31, 17) che
porta alla catastrofe. La sua ultima sanzione sarà l’*esilio (Lev 26, 41),
strada che va a ritroso dell’esodo (Os 11, 5). Ma Dio non può rassegnarsi al
decadimento del suo popolo (Lev 26, 44 s); bisogna nuovamente «preparare nel
deserto una strada per Jahvè» (Is 40, 3); egli stesso «traccerà sentieri nella
*solitudine» (Is 43, 19) e «di tutti i monti farà strade» (Is 49, 11) per un
ritorno trionfale.
II. CRISTO, VIA VIVENTE
Il ritorno dall’esilio è ancora soltanto una immagine della realtà definitiva.
Questa è annunziata da Giovanni Battista con gli stessi termini che il
Deutero-Isaia usava per il nuovo esodo: «Preparate la via del Signore» (Lc 3, 4
= Is 40, 3). L’era messianica è infatti un nuovo esodo che, questa volta, porta
effettivamente fino al riposo di Dio (Ebr 4, 8 s). Gesù, nuovo *Mosè, ne è la
guida, l’accompagnatore, il trascinatore (Ebr 2, 10 s; 12, 2 ss). Egli chiama
gli uomini a *seguirlo (Mt 4, 19; Lc 9, 57-62; Gv 12, 35 s). Dando una
pregustazione del *regno glorioso, la *trasfigurazione illumina per un istante
questa strada, ma l’annunzio della passione ricorda che bisogna prima passare
per il calvario; l’ingresso nella gloria non può avvenire se non per la via
della *croce (Mt 16, 23; Lc 24, 26; 9, 23; Gv 16, 28). Gesù si pone quindi
risolutamente in via verso *Gerusalemme, ascesa il cui termine è il suo
sacrificio. Ma, a differenza dei riti antichi, questo sacrificio sfocia nel
*cielo stesso (Ebr 9, 24) e ci apre nello stesso tempo la strada: mediante il
*sangue di Cristo noi abbiamo ormai accesso al vero santuario; attraverso la sua
carne Gesù ha inaugurato per noi una via nuova e vivente (Ebr 10, 19 ss). Negli
Atti, il cristianesimo nascente è chiamato «la via» (Atti 9, 2; 18, 25; 24, 22).
Di fatto i cristiani hanno coscienza di aver trovato la vera strada, che fino
allora non era manifesta (Ebr 9, 8), ma questa strada non è più una legge, bensì
una persona: *Gesù Cristo (Gv 14, 6). In lui avviene la loro Pasqua ed il loro
esodo; in lui essi devono camminare (Col 2, 6), persino *correre (Fil 3, 12 ss)
seguendo la via dell’amore (Ef 5, 2; 1 Cor 12, 31), poiché in lui Giudei e
Gentili hanno accesso, in un solo Spirito, presso il Padre (Ef 2, 18).
A. DARRIEUTORT
→ correre - deserto VT I 1 - disegno di Dio VT IV - esempio - esilio II
4 - esodo - morte VT II 2 - pellegrinaggio - riposo II - seguire - virtù e vizi.
→ pellegrinaggio - straniero II - via.
→ legge B I 4 - via - volontà di Dio.
→ vegliare.
Con il grano e
l’*olio, il vino che la terra santa fornisce fa parte del *nutrimento quotidiano
(Deut 8, 8; 11, 14; 1 Cron 12, 41); esso ha questo di particolare, che «rallegra
il cuore dell’uomo» (Sal 104, 15; Giud 9, 13). Costituisce quindi uno degli
elementi del banchetto messianico, ma anche, e in primo luogo, del banchetto
eucaristico dove il fedele attinge la *gioia alla sua fonte: la carità di
Cristo.
I. IL VINO NELLA VITA QUOTIDIANA
1. Nella vita profana.
- Attribuendo a Noè l’invenzione della coltura della vite, poi mostrandolo
sorpreso dagli effetti del vino (Gen 9, 20 s), la tradizione jahvista sottolinea
ad un tempo il carattere benefico e pericoloso del vino. Segno di prosperità (Gen
49, 11 s; Prov 3, 10), il vino è un bene prezioso che rende la vita piacevole (Eccli
32, 6; 40, 20), a condizione che se ne usi con sobrietà. Questa fa parte
dell’equilibrio umano che gli scritti sapienziali non cessano di predicare.
L’assioma di Ben Sira: «Il vino è la vita per l’uomo quando se ne beve
moderatamente» (Eccli 31, 27), ne è l’illustrazione più chiara (cfr. 2 Mac 15,
39). Nelle lettere pastorali abbondano i consigli di sobrietà (1 Tim 3, 3. 8;
Tito 2, 3), ma l’uso del vino, fatto con senno, vi è pure raccomandato (1 Tim 5,
23). Gesù stesso ha voluto bere vino, con pericolo di essere mal giudicato (Mt
11, 19 par.). Colui che si allontana da questa sobrietà è votato ad ogni specie
di pericoli. I profeti hanno invettive violente contro i capi che amano bere
troppo, perché dimenticano Dio e le loro vere responsabilità nei confronti di un
popolo sfruttato e trascinato al male (Am 2, 8; Os 7, 5; Is 5, 11 s; 28, 1; 56,
12). I sapienti rivolgono maggiormente la loro attenzione alle conseguenze
personali di questi eccessi: il bevitore è votato alla povertà (Prov 21, 17),
alla violenza (Eccli 31, 30 s), alla dissolutezza (19, 2), all’ingiustizia nelle
parole (Prov 23, 30-35). S. Paolo sottolinea che l’ubriachezza porta alla
dissolutezza e nuoce alla vita dello Spirito nel cristiano (Ef 5, 18).
2. Nella vita cultuale.
- Il vino, venendo da Dio come tutti i prodotti della terra, troverà
posto nei sacrifici. Già nel vecchio santuario di Silo si portavano offerte di
vino (1 Sam 1, 24), che permettevano di versare le libagioni prescritte in
occasione dei sacrifici (Os 9, 4; Es 29, 40; Num 15, 5. 10). Il vino fa pure
parte delle primizie che spettano ai sacerdoti (Deut 18, 4; Num 18, 12; 2 Cron
31, 5). Avrà infine un posto nel sacrificio della nuova alleanza che porrà
termine a questo rituale. D’altra parte un’intenzione religiosa motiva per
taluni l’astensione dal vino. Se i sacerdoti sono tenuti a privarsene durante
l’esercizio delle loro funzioni, si è perché queste richiedono la piena
padronanza di sé, specialmente per insegnare e giudicare (Ez 44, 21 ss; Lev 10,
9 s). L’astensione dal vino può anche essere un ricordo del tempo in cui, nel
deserto, Israele ne era privo e si avvicinava al suo Dio con una vita austera (Deut
29, 5). Molto tempo dopo lo stanziamento in Canaan, un clan volle conservare
questa fedeltà al nomadismo che ignorava il vino: i Recabiti (Ger 35, 6-11).
Nello stesso senso, un’usanza di carattere ascetico consisteva nell’astenersi da
ogni prodotto della vite come segno di consacrazione a Dio: è quel che si chiama
il nazireato (cfr. Am 2, 12). Ancor prima di nascere Sansone fu in tal modo
consacrato dalla volontà divina (Giud 13, 4 s); analoghi sono i casi di Samuele
(1 Sam 1, 11) e di Giovanni Battista (Lc 1, 15; cfr. 7, 33). Codificato nella
legislazione sacerdotale, il nazireato poteva pure essere l’effetto di un voto
temporaneo (Num 6, 3-20), che si trova ancora praticato nella comunità
giudeo-cristiana (cfr. Atti 21, 23 s). Infine i fedeli erano spesso invitati a
rinunziare al vino per evitare ogni pericolo di compromesso con il paganesimo:
ne fa testimonianza il giudaismo postesilico (Dan 1, 8; cfr. Giudit 10, 5). A
motivare le privazioni che taluni cristiani si imponevano sembra essere
piuttosto una preoccupazione di ascetismo (1 Tim 5, 23); Paolo ricorda
semplicemente che prudenza e carità devono regolare questo ascetismo (Rom 14,
21; cfr. 1 Cor 10, 31).
II. IL SIMBOLISMO DEL VINO
1. Da un punto di vista culturale.
- Da un punto di vista profano il vino simboleggia tutto ciò che la vita può
avere di piacevole: l’amicizia (Eccli 9, 10), l’amore umano (Cant 1, 4; 4, 10)
ed in generale tutta la *gioia che si coglie in terra con la sua ambiguità (Eccle
10, 19; Zac 10, 7; Giudit 12; 13; Giob 1, 18). Può quindi evocare l’*ubriachezza
malsana dei culti idolatrici (Ger 51, 7; Apoc 18, 3) e la felicità del discepolo
della *sapienza (Prov 9, 2).
2. Da un punto di vista religioso.
- Da un punto di vista religioso, il simbolismo del vino è collocato in un
contesto escatologico.
a) Nel VT, per annunziare i grandi castighi al suo popolo che
lo offende, Dio parla della privazione del vino (Am 5, 11; Mi 6, 15; Sof 1, 13;
Deut 28, 39). Il solo vino da bere è allora quello dell’*ira divina, il *calice
che stordisce (Is 51, 17; cfr. Apoc 14, 8; 16, 19). Per contro, la felicità
promessa da Dio ai suoi fedeli è espressa sovente sotto la forma di una grande
abbondanza di vino, come si vede negli oracoli di consolazione dei profeti (Am
9, 14; Os 2, 24; Ger 31, 12; Is 25, 6; Gioe 2, 19; Zac 9, 17).
b) Nel NT, il «vino nuovo» è il simbolo dei tempi messianici.
Di fatto Gesù dichiara che la nuova alleanza istituita nella sua persona è un
vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi (Mc 2, 22 par.). La stessa idea
risalta dal racconto giovanneo del miracolo di Cana: il vino delle nozze, questo
buon vino atteso «fino ad ora» , è il dono della carità di Cristo, il segno
della gioia che la venuta del Messia realizza (Gv 2, 10; cfr. 4, 23; 5, 25). II
termine «vino nuovo» si ritrova infine in Mc 26, 29 per evocare il banchetto
escatologico riservato da Gesù ai suoi fedeli nel regno del Padre suo: significa
allora il compimento dei tempi messianici. La menzione del vino non appartiene
all’ordine del puro simbolo; è richiamata dal racconto della istituzione della
*eucaristia. Prima di bere il vino nuovo nel regno del Padre, il cristiano,
durante la vita, si nutrirà del vino diventato il *sangue versato del suo
Signore (cfr. 1 Cor 10, 16). Per il cristiano l’uso del vino non è quindi
soltanto un motivo di rendere grazie (Col 3, 17; cfr. 2, 20 ss), ma un’occasione
per richiamare alla memoria il sacrificio che è la fonte della salvezza e della
gioia eterna (1 Cor 11, 25 s).
D. SESBOÜÉ
→ calice - eucaristia - fame e sete VT 1 c - gioia VT I - ira B VT I 1;
NT I 1, III 2 - Noè 1 - pasto - ubriachezza - vendemmia - vite-vigna.
→ adulterio - alleanza VT III 1 - giuramento VT 3 - peccato III 2 c - Sposo-sposa VT 1 - violenza I.
Nella violenza,
in cui innanzitutto non si vede che brutale distruzione, stupro, violazione,
bisogna anche riconoscere la forza vitale che è all’origine di essa e che, per
mantenersi tale, tende a distruggere la vita stessa. Il termine che la designa
deriva, come quello di forza vitale, da una radice indo-europea che sta ad
indicare la vita (bìos-bìazomai, vivo-vis). E la Bibbia descrive senza illusioni
lo stato violento in cui si trova l’umanità: le forze vitali e le potenze di
morte si mantengono in un equilibrio provvisorio, il cui ordine apparente è
spesso una caricatura. Rivela anche e soprattutto che in Gesù Cristo può
divenire realtà l’ideale escatologico di un tempo in cui la vita fiorirà senza
violenza (cfr. Is 11, 6-9; Apoc 21, 4). Per orientare nell’argomento, due
termini evocano con una certa approssimazione l’ideale di violenza, l’ebraico (hms)
nitidamente, il greco (biàzomai) con una semplice sfumatura di costrizione
(forzare, insistere per).
I. DESCRIZIONE
1. L’idea di trasgressione di una norma consente di qualificare
quel certo atto come violento; così l’hanno interpretato i traduttori greci del
VT che in genere hanno reso hms con una parola affine ad adikìa, che significa
ingiustizia. Secondo le consuetudini dell’epoca, Simeone e Levi dovevano
infallibilmente vendicare la sorella Dina violentata (Gen 34, 2), ma poiché si
sono spinti troppo oltre nella loro *vendetta, i coltelli di cui si sono serviti
vengono definiti dal padre «strumenti di violenza» (49, 5). Il popolo, i
sacerdoti, hanno violato la legge (Ez 22, 26; Sof 3, 4), si viola la giustizia
sociale con la frode (Sof 1, 9), si viola il diritto (Ez 45, 9). In genere la
violenza è accompagnata da una certa premeditazione o dalla violazione delle
leggi del linguaggio: trappole e imboscate (Sal 140, 2), buco scavato davanti al
prossimo (Sal 7, 17), astuzia (Sal 72, 14), detrazione (Sal 140, 12), furberia
(Mal 2, 16), ma soprattutto falsa *testimonianza (Es 23, 1; Deut 19, 16; Sal 27,
12; 35, 11), da cui si astiene il *giusto che ha la preghiera pura (Giob 16,
17).
2. La violenza viene inoltre colta nel suo effetto più
drammatico, la distruzione della vita fisica o sociale; in questo caso, il
termine è spesso associato ad un altro che significa sfruttamento, oppressione,
devastazione, rovina. I profeti si lamentano dello stato di violenza in cui è
immerso il popolo (Am 3, 10; Ger 6, 7; 20, 8; Is 60, 18) e fanno appello a Jahvè
che è l’unico a poter porre rimedio a questo stato di ingiustizia (Ab 1, 3).
Dio, infatti, ha orrore degli uomini violenti (Sal 11, 5; Mal 2, 16): non ha
forse provocato il diluvio perché «la terra era piena di violenza» (Gen 6, 11.
13)? Si odono così incessantemente le grida degli oppressi che vogliono essere
liberati dagli uomini violenti (2 Sam 22, 3. 49; Sal 18, 49; 140, 2. 5). Queste
vittime ripongono la propria speranza in una rimbeccata della stessa natura:
«Che il male dia la caccia all’uomo violento, rendendogli colpo su colpo!» (Sal
140, 12). Un ideale di perfetto abbandono è tuttavia presentato nel ritratto del
*servo di Dio che è sepolto con i malvagi, «mentre non ha commesso violenza né
inganno» (Is 53, 9).
3. Questa rapida panoramica sulle utilizzazioni di hms
autorizza alcune osservazioni. La violenza non si identifica né con la forza, né
con la vendetta, né con l’ira, né con lo zelo: in realtà, queste diverse
espressioni della forza vitale portano spesso alla distruzione della vita; ma
non implicano necessariamente quello che, agli occhi del VT, caratterizza la
violenza, e cioè la trasgressione di una norma. Bisogna tuttavia rilevare che
questa norma non è determinata, come per lo spirito greco, da un qualche «ordine
naturale» imperituro. Si definisce secondo una data epoca con la *giustizia,
cioè con il Dio dell’*alleanza, che è il fine e il giudice di ogni azione. È
appunto in un contesto del genere, temporale e teologico, che bisogna
considerare la violenza nel VT.
II. SITUAZIONI
Valendosi dei criteri precedenti, è possibile evocare delle situazioni,
nella cui descrizione hms non compare. Caino, uccidendo *Abele, ha commesso un
atto di violenza: «La voce del sangue di tuo fratello grida verso di me dalla
terra» (Gv 4, 10), dice Dio. Senza senso della misura, Lamech «uccide un uomo
per una ferita» (4, 23). Israele è oppresso (‘innah, da ‘anah, stessa radice di
‘anawîm, i *poveri) in Egitto (Es 1, 12; Deut 26, 6; cfr. 2 Sam 7, 10).
Condannando la violenza perpetrata a una donna, atto che distrugge i rapporti
sociali in quanto trascura il consenso del partner, la legge condanna una
violenza ingiustificabile (Deut 22, 24. 29; cfr. Gen 34, 2; Giud 19, 24; 20, 5;
2 Sam 13, 12. 14; Lam 5, 11: in greco, tapeinòo). David fa uccidere Uria, marito
di Betsabea, valendosi fraudolentemente della *guerra santa (2 Sam 11, 15);
d’altra parte, malgrado la maledizione di Shimei (16, 7 s; 19, 19-24) non si è
comportato da sanguinario nei confronti della casa di Saul, perché a due riprese
ha risparmiato Saul (1 Sam 24; 26), che pure aveva continuato a tendergli
imboscate (18, 10 s; 19, 9-17). Ancora violenza quando Achab si impadronisce
della vigna di Nabot, perché questi è stato lapidato a causa della falsa
testimonianza ordita da Gezabele (1 Re 21, 8-16): Bisognerebbe infine citare le
innumerevoli situazioni di *cupidigia o di *persecuzione, massacri e sommosse,
che fanno del racconto biblico una lunga storia della violenza degli uomini fino
al tempo di Gesù (Lc 13, 1; Mc 15, 7; cfr. Mt 2, 16).
III. JAHVÈ E LA VIOLENZA
Il comportamento di Jahvè in apparenza è ambiguo: senza dubbio respinge ogni
forma di violazione della giustizia, ma a volte sembra tollerare, approvare e
persino praticare atti che noi qualifichiamo violenti. Che cosa se ne deve
pensare?
1. Non c’è dubbio che Dio condanna ogni ingiustizia violenta.
Ma lo fa per gradi, tenendo conto dell’epoca in cui vive il suo popolo.
Rivendica quindi la legge del taglione (Es 21, 24), che rappresenta un
considerevole progresso rispetto ai tempi di Lamech (Gen 4, 15. 24); stigmatizza
i crimini che non devono essere commessi, come quelli descritti da Amos secondo
le norme del suo tempo e che rappresentano altrettante ingiustificabili
violenze: deportate intere popolazioni senza riguardo per la fraternità del
sangue, sventrare le donne incinte, incenerire i cadaveri, respingere la legge,
schiacciare i piccoli (Am 1, 1-2, 8). Jahvè si è schierato dalla parte di
Israele oppresso in Egitto (Es 3, 9); esige da lui un analogo comportamento nei
confronti del debole: «Non opprimerai lo straniero. Voi avete imparato ciò che
prova lo straniero, poiché voi stessi risiedeste come tali in terra d’Egitto»
(23, 9). Dio si fa quindi il difensore delle vittime dell’ingiustizia umana, e
in particolare dell’orfano, della *vedova, del *povero (Es 21-23; Deut 24, 20).
2. D’altra parte, *educando Israele in mezzo a nazioni
idolatriche, fino alla nascita del Messia, il Dio dell’alleanza prende sul serio
la condizione nella quale vive il suo popolo, e in nome appunto dell’alleanza,
si presenta come un terribile Dio guerriero. Stermina i primogeniti d’Egitto (Es
12), esige I’*anatema (Gios 7), e si mette a capo del combattimento (ad es. 2
Sam 5, 24). Approva la *forza vendicatrice e distruttiva di Sansone (Giud 15-16)
e lo *zelo che si spinge fino ad uccidere il trasgressore dell’alleanza (Num 15,
11). Con ciò, Dio non è violento agli occhi della Bibbia, perché non
trasgredisce l’alleanza di cui è l’autore e il garante. Ma rende palese che un
bene superiore può comportare la distruzione della *vita terrena; esprime
inoltre la *guerra escatologica e lo sterminio spietato del male che è nel
mondo. Tuttavia non ci si può far forti di questo atteggiamento per prendere
posizione nelle situazioni politiche contemporanee, perché significherebbe
misconoscere ingenuamente la congiuntura nella quale Dio si è rivelato.
3. L’aspetto paradossale del comportamento di Jahvè si riflette
nella presentazione del Dio vivente, che va a poco a poco epurandosi, nel corso
della rivelazione biblica. Inizialmente, *Dio si manifesta violando quello che
viene chiamato il corso normale della creazione, per esempio al Sinai (Es 19).
Più tardi, Elia si rende conto che egli non agisce come il temporale, l’uragano
o il terremoto, ma come un leggero sussurro (l Re 19, 11 s). Il *Messia,
inizialmente concepito ad immagine del re guerriero che frantuma le teste
ribelli (Sal 110, 5 s; cfr. Ger 17, 25; 22, 4), giungerà sotto le sembianze di
un «re umile e pacifico in groppa ad un asino» (Zac 9, 9; cfr. Gen 49, 11; Giud
5, 10). Il *servo di Dio, infine, nel quale i cristiani vedranno una *figura
profetica di Gesù, confida (cfr. *fiducia) radicalmente in Dio e trionfa della
violenza subendola volontariamente; non resiste al malvagio (Is 50, 5 s) e non
commette né inganno né violenza (53, 9).
IV. GESÙ E LA VIOLENZA
È venuto Gesù, sconcertando i contemporanei e tutti gli uomini con la
complessità del suo comportamento; perciò, per interpretarne correttamente le
parole e gli atti, non bisogna scegliere arbitrariamente tra gli uni e gli
altri, in base a preferenze del tutto soggettive, ma bisogna mettersi nella
prospettiva nella quale si colloca Gesù.
1. Il regno di Dio.
Il regno di Dio ha fatto irruzione con Gesù e, contrariamente
all’aspettativa dei Giudei, suscita la violenza. «Dai giorni di Giovanni
Battista ad ora, il regno dei cieli è assalito con violenza (biàzetai) e sono
dei violenti (biastài), quelli che se ne impadroniscono» (Mt 11, 12). Secondo
l’interpretazione più probabile (biastài designa sempre gli attaccanti, i
nemici), Gesù ha in mente gli avversari che impediscono agli uomini di entrare
nel regno. Ma la sua frase è stata interpretata dal Luca nel senso di Lc 13, 24,
dove il discepolo è invitato a «compiere uno sforzo (agonìzesthe) per entrare
attraverso la porta angusta»: «La legge e i profeti arrivano fino a Giovanni; da
allora, è annunciata la buona novella del regno di Dio e ogni uomo lotta (biàzetai)
per entrarvi» (16, 16). Con la sua venuta, il regno di Dio scatena una violenza
che la mancanza di termini adeguati rende difficile caratterizzare, ma che Gesù
non tenta di dissimulare.
2. Di fronte ad un ordine ingiusto.
- Di fronte ad un ordine ingiusto che frappone ostacolo al regno di
Dio, nella misura in cui non lo accoglie, Gesù protesta, sulla scia dei
*profeti, con atti e parole che i conservatori di quest’ordine così stabilito si
sentono in dovere di giudicare violenti: essi li turbano, non perché siano
eccessivi, ma perché in apparenza violano la legge. Gesù elimina quindi
l’equivoco della rassegnazione cristiana all’ingiustizia e sottolinea le
esigenze della carità. Scaccia i mercanti dal tempio (Mt 21, 12 s par.; Gv 2,
13-22). Viola le concezioni della religione, della società e del linguaggio. È
il padrone del *sabato (Mc 2, 28). Venuto non per apportare 1’ingannevole pace
che già stigmatizzavano i profeti (cfr. Ger 6, 14), ma la spada (Mt 10, 34; cfr.
Lc 12, 51), semina il dissenso anche nell’istituzione più sacra, la famiglia,
dividendo genitori e figli, fratelli e sorelle, a causa della chiamata che
rivolge loro (Mt 10, 35 ss par.). Bruscamente, insorge contro il sacro dovere
del rispetto verso i genitori: «Lasciate che i morti sotterrino i loro morti» (Lc
9, 60 par.). Sovverte la normale preoccupazione per l’integrità fisica:
«Strappati l’occhio o la mano, se essi sono per te ragione di scandalo» (5, 29 s
par.)! In tutto questo, l’ordine viene violato perché ingiusto, non in se
stesso, ma in riferimento a una realtà che Gesù reputa superiore, il regno di
Dio. Quanto ai cultori di quest’ordine, eccoli cacciati da ipocriti, da sepolcri
imbiancati (23, 13-36). Agli occhi dei fautori di un ordine stabilito, che si
rifiuta di aprirsi a un valore superiore, Gesù, come un tempo *Elia (1 Re 19, 17
s), appare come un violento guastafeste, un rivoluzionario che fuorvia il popolo
dal sentiero tracciato dai cultori dell’ordine (Lc 23, 2). Agli occhi di Dio,
invece, Gesù restaura dinamicamente gli autentici valori che l’istituzione aveva
finito per soffocare. A seconda del punto di vista in cui ci si colloca, si
potrà, con l’Apocalisse, dipingere Gesù come un violento (Apoc 6, 4-8; 8, 5
...), che, alla fine, apporta la pace (2, 14). Si potrà inoltre tener valido il
ritratto che Gesù fa di se stesso, e vedere in lui il Maestro mite e umile di
cuore che, sopportando la violenza, trionfa di essa (1 Piet 2, 21-24) e offre il
*riposo che prevale sull’ingiustizia (Mt 11, 29). Il cristiano, gli occhi fissi
su quest’ideale vissuto, si sforza di adattarvi la propria condotta (1 Piet 2,
18-21; 3, 14; Lc 5, 9 s; Apoc 14, 12). Sul piano delle strutture sociali, il
vangelo è rivoluzione nella misura in cui queste paralizzano la giustizia e la
carità, senza le quali un figlio di Dio non può vivere. «Ricercate il regno di
Dio e la sua giustizia!» (Mt 6, 33).
3. Di fronte alla violenza.
- Di fronte alla violenza che regna nel mondo, Gesù si dimostra più radicale del
VT. La legge del taglione richiedeva l’equità nella vendetta restauratrice della
giustizia lesa; Gesù esige il *perdono (Mt 6, 12. 14 s; Mc 11, 25) fino a
settantasette volte (Mt 18, 22). A tutti, impone: «Amate i vostri nemici e
pregate per coloro che vi perseguitano» (Mt 5, 44; Lc 6, 27). Ad ogni discepolo,
dichiara: «Non resistere al malvagio» (o al «male» presente nel mondo) (Mt 5,
39). Nei tre esempi che illustrano il suo precetto (5, 39-41), Gesù non emette
giudizi sull’atto di violenza sociale (schiaffeggiare, portar via la tunica,
requisire), la cui causa può essere valida, ma neppure autorizza a imitare
l’economo infedele (Lc 16, 1-8) o il giudice iniquo (18, 1-5). Gesù assume qui
il punto di vista dell’individuo leso e dichiara che bisogna saper essere
vittime del violento. Gesù lo è stato per primo. Resiste alla tentazione di
instaurare il regno di Dio con mezzi violenti, non vuole trasformare per *magia
le pietre in pane, sia pur per placare la fame del mondo (Mt 4, 3 ss), né
dominare gli uomini con la *forza (4, 8 ss); si rifiuta di essere un politicante
rivoluzionario (Gv 6, 15) e di ottenere la gloria senza passare attraverso il
sacrificio della *croce (Mt 16, 22 s). Infine, dopo aver sudato sangue nell’orto
degli Olivi, declina la lotta che i suoi compagni hanno ingaggiato per
difenderlo dalla violenza: «Smettete, basta!». E arriva al punto di guarire il
suo avversario (Lc 22, 49 ss; cfr. 22, 36 ss). Gesù non ha versato il sangue
degli uomini, ma il proprio. Perché dunque non resistere al malvagio? Non per
una determinata tecnica di non-violenza, ma per spirito d’amore e di sacrificio,
l’unico mezzo per operare la riconciliazione tra il violento e la sua vittima
(cfr. Gen 33; 45; 1 Sam 26). Il regno di Dio non si instaura con la brutalità,
ma con la forza divina, che si è dimostrata capace di trionfare della morte
risuscitando Gesù. Da quel momento, «tutti coloro che brandiscono la spada, di
spada periranno» (Mt 26, 52). Agli antipodi dello spirito di Gesù, si trova
colui che vuol controbattere i Samaritani inospitali facendo scendere il fuoco
dal cielo (Lc 9, 54): i *miti saranno quelli che erediteranno la *terra (Mt 5,
4). A differenza dei «capi delle nazioni che fanno pesare su di esse il proprio
potere e dominio», il discepolo di Gesù deve «farsi servo» degli altri (Mt 20,
25 s). Quando Gesù batte in ritirata, come il *servo di Dio, di fronte alla
malvagità dei suoi nemici (Mt 12, 15. 18-21; 14, 13; 16, 4), si rimette a Dio e
realizza la beatitudine dei perseguitati (Mt 5, 10 ss), profetizzata nei canti
del servo (Is 50, 5; 53, 9). Ma quando perdona a coloro che lo crocifiggono
ingiustamente (Lc 23, 34; 1 Piet 2, 23 s), quando chiede al discepolo di tendere
l’altra guancia, Gesù trascende l’ideale del VT; non si limita ad un passivo
abbandono nelle mani di Dio, a difesa degli oppressi: fa violenza al violento,
perché in questo scontro è la riconciliazione l’obbiettivo, riconciliazione che
può essere già ottenuta sulla terra.
X. LÉON-DUFOUR
→ anatema VT - cupidigia VT 1 - giustizia A I VT 1; NT 1 - guerra - ira A 1 -
odio - persecuzione - potenza III 0.1 - sangue VT 1 - zelo.
VIRTÙ E VIZI (inizio)
La Bibbia nomina
parecchie virtù e vizi, cioè abitudini la cui acquisizione perfeziona l’uomo o
lo degrada. Il suo vocabolario è invece povero a proposito della virtù o del
vizio in generale. Infatti, a differenza dell’umanesimo greco, non li considera
tanto dal punto di vista dell’uomo e del suo perfezionamento, quanto dal punto
di vista di Dio e del suo disegno sull’uomo; Dio vuole unire gli uomini a sé e
tra loro, e questa comunione esige il loro progresso morale.
1. Natura della virtù e del vizio
- L’uomo perfetto non è colui che si impegna a diventare tale, ma colui che
*cerca Dio e che, per pervenirvi, segue la *via che Dio gli traccia e che è
anche l’unica in cui troverà la piena realizzazione personale: «camminare con
Dio» (Gen 5, 22. 24; 6, 9). Appunto questo atteggiamento è quello che fa di *Noè
un uomo integro, all’opposto dei malvagi che lo circondano e il cui cuore
formula solo disegni perversi (6, 5). La virtù consiste in una relazione viva
con Dio, in una conformità alle sue parole, in un’*obbedienza ai suoi voleri, in
un orientamento profondo e stabile verso di lui; questa relazione rende giusto
l’uomo; questa *fedeltà nel percorrere la via del Signore è la virtù
fondamentale che *Abramo dovrà insegnare ai suoi figli (18, 19) e la cui pratica
è condizione dell’alleanza (Es 19, 5. 8). Viceversa, il vizio fondamentale è
seguire un dio che non sia l’unico vero (Deut 6, 14; cfr. 4, 35), è dimostrarsi
infedele all’alleanza allontanandosi dalla via di Dio (Es 32, 8). Ma questa
conformità all’ordine divino, che costituisce la virtù e che la Bibbia chiama il
più delle volte *giustizia, non è ottenuta esclusivamente con il compimento
degli atti prescritti da Dio; questi atti devono manifestare una docilità e una
fedeltà che vengano dal *cuore e siano l’espressione dell’*amore. Questa è la
legge fondamentale dell’alleanza (Deut 6, 5 s; 10, 16; 11, 1; 30, 20). Nel cuore
sta la radice della virtù o del vizio. Nel cuore devono essere riposte, anzi
inscritte, le parole di Dio, per esservi principio di quella amorosa fedeltà che
è l’anima di ogni virtù. Appunto perché il loro cuore è integralmente dedito a
Dio, David è così grande malgrado le sue colpe e Giosafat progredisce sulle vie
di Dio (1 Re 15, 3; 2 Cron 17, 6); se Ezechia compie quello che è buono, giusto
e leale agli occhi di Dio, è perché cerca Dio con tutto il cuore (2 Cron 31, 20
s). La sapienza dei salmisti caratterizza l’uomo virtuoso dicendo che il suo
cuore è pieno della legge di Dio e si compiace in essa (Sal 1, 2; 37, 31),
mentre quello del perverso è privo di Dio, che considera inesistente (14, 1).
Colui che la Sapienza forma a tutte le virtù utili all’uomo: temperanza e
prudenza, giustizia e forza d’animo, è colui che ama la giustizia (Sap 8, 7, in
cui giustizia è intesa una volta nel suo significato ebraico di virtù
fondamentale, e un’altra volta nel significato greco di virtù particolare dei
rapporti sociali). Infine la perfetta giustizia, che Gesù predica (Mt 5, 20) e
che tutto il discorso della montagna descrive, è quella di un cuore scevro da
ogni *desiderio malvagio e pieno di un amore misericordioso, esteso anche ai
nemici (5, 7 s. 28- 44 s). Quel che contamina l’uomo, sono i vizi del suo cuore
(15, 18 s).
2. La fonte della virtù e del vizio.
- Non è necessario cercare altra fonte del vizio all’infuori dell’uomo stesso;
separandosi da Dio col peccato, egli è divenuto incapace di dominare le proprie
concupiscenze e di mantenersi padrone di se stesso; anziché perfezionare il
mondo, l’ha corrotto (l Gv 2, 16 s). Da questo momento, non può più trovare in
sé la forza di resistere alle passioni (Eccli 1, 22; 18, 30) e di ritornare ad
essere puro. Sarà la *forza del Signore la fonte della sua potenza (Deut 8, 17
s; Ef 6, 10); senza di essa, resterà stanco e svogliato (Eccli 2, 12 s). Perché
il suo cuore sia puro, bisogna che Dio lo ricrei e gli infonda uno spirito nuovo
che lo renda saldo (Sal 51, 12 ss); questo è appunto il dono annunciato dai
profeti, dono che si realizzerà nella nuova alleanza; allora verrà dato agli
uomini un cuore nuovo e vi sarà inscritta la legge di Dio; essi riceveranno lo
*Spirito di Dio che li renderà fedeli (Ger 31, 33; Ez 36, 26 s). Questo Spirito,
colmando il messia, gli conferirà tutte le virtù richieste dalla sua missione
regale: sapienza per governare, pietà per restare unito a Dio, di cui è il
rappresentante (Is 11, 2- 5). Questo Spirito, in cui Cristo rivela ai discepoli
la funzione di maestro interiore (Gv 14, 26; 16, 13), conferirà loro la sapienza
e la forza necessarie ad essere dei testimoni invincibili (Mt 10, 20 par.; Lc
21, 14 s; 24, 48 s; Atti 1, 8). Sarà lui a liberare il credente da tutte le
concupiscenze carnali che rendono l’uomo vizioso (Gal 5, 19 ss) effondendogli
nel cuore la carità divina e facendogli produrre il *frutto, rappresentato da
tutte le virtù animate da questa carità (Rom 5, 5; Gal 5, 22); questo Spirito
rende così saldo l’uomo interiore (Ef 3, 16).
3. Nesso tra le virtù e cataloghi dei vizi.
- La Bibbia non si limita a tracciare la via all’uomo virtuoso e a minacciare il
vizioso del giudizio di Dio (Sal 1); come fanno anche i moralisti pagani, ha
cura di radunare, in liste istruttive, i tratti caratteristici delle une e degli
altri. Le liste dei vizi vengono presentate dai profeti (Os 4, 1 s; Ger 7, 9),
dai sapienti (Prov 6, 16-19; Eccli 25, 2; 26, 5 s), da Cristo (Mc 7, 21 s par.)
e dagli apostoli (1 Cor 6, 9 s; Rom 1, 29 ss; Col 3, 5-9; 1 Tim 1, 9 s; 2 Tim 3,
1-5; 1 Piet 2, 1; 4, 3); Paolo in particolare ha sottolineato che la causa
profonda dei vizi è il misconoscimento del vero Dio, al quale si preferiscono
gli idoli. I vizi hanno a volte l’effetto di dividere gli uomini; talvolta si
oppongono gli uni agli altri. Un’opposizione del genere, non esiste tra le
virtù, che al contrario si completano e le cui liste mettono in evidenza il
motivo per cui il giusto è unificato e principio di *unità. Ecco per esempio il
compendio del profeta Michea: «Camminare umilmente con Dio realizzando la
giustizia e amando con tenerezza» (Mi 6, 8). Quanto a Gesù, si caratterizza con
l’*umile *mitezza (Mt 11, 29), di cui dà l’esempio (Gv 13, 15) e con l’amore che
gli fa donare la vita (15, 13), amore che deve essere il modello di quello dei
discepoli tra loro (13, 34; 15, 17), amore che sarà il loro segno distintivo
(13, 35). Paolo quindi, che aderisce all’ideale greco della virtù, raccomandando
di fare tutto ciò che merita elogio (Fil 4, 8), ma che insiste spesso sulle «tre
che restano» : fede, speranza e carità (1 Tess 1, 3; Rom 5, 1-5; Col 1, 4 s...),
proclama che la maggiore virtù è la carità (1 Cor 13, 13). Certo sono
raccomandate altre virtù (1 Tess 5, 14- 18; Rom 12, 9-21; Ef 4, 2; 1 Tim 4, 12;
6, 11; 1 Piet 3, 8; 2 Piet 1, 5 ss); ma la carità è il legame della perfezione;
instaura il regno della *pace di Cristo in cui gli uomini sono un solo corpo
(Col 3, 12-15).
M. F. LACAN
→ amore II - bene e male I - carne II 2 - cercare I - coscienza - cuore -
cupidigia - desiderio II, III - fedeltà VT 2; NT 2 - forza II - giustizia -
idoli II 3 - indurimento - mitezza 2.3 - obbedienza II 3, IV - orgoglio -
peccato - perfezione - pietà - puro VT II, NT I, II 3 - sapienza VT III 4; NT
III 2 - sessualità III 1 - Spirito di Dio NT V 3 - timore di Dio - via II.
→ madre I 1, II 1 - misericordia - tenerezza.
→ carismi I - profeta VT I 1 - rivelazione VT I 2 - sogni - vedere VT I.
La storia della
*salvezza è presentata sovente nella Bibbia come una successione di «visite» di
Jahvè al suo popolo od a qualche persona privilegiata; Dio, che ha preso
l’iniziativa dell’*alleanza e rimane segretamente presente allo svolgimento del
suo *disegno, interviene sovente in modo straordinario nella vita del suo
popolo, per benedirlo o punirlo, ma sempre per salvarlo; questo sguardo del
Signore, questi interventi personali, visibili, sono altrettanti segni della sua
*presenza, della sua azione, della continuità del suo disegno salvifico e delle
sue esigenze attraverso la fedeltà e l’infedeltà dei suoi. Preparano e
annunziano il *giorno del Signore per eccellenza, la venuta di Dio stesso in
Gesù, ed il suo ritorno nella gloria, per un ultimo *giudizio ed una salvezza
definitiva.
VECCHIO TESTAMENTO
1. «Dio vi visiterà e vi farà risalire da questo paese nel paese che ha
promesso con giuramento ad Abramo, ad Isacco e Giacobbe» (Gen 50, 24 s). Il Dio
che ha chiamato Abramo per farne il padre di una moltitudine e che, a tale
scopo, ha «visitato» Sara rendendola feconda (21, 1 s), interviene in un modo
unico liberando il suo popolo dall’Egitto. Queste visite di Dio che ama e che
salva il suo popolo si rinnoveranno nel corso della storia di Israele,
formandone la trama essenziale e manifestando la *fedeltà di Jahvè alle sue
*promesse. Se gli Israeliti si dimostrano infedeli all’alleanza, l’intervento
del Dio geloso prenderà la forma di un *castigo, che però rimarrà ordinato alla
salvezza del popolo. Tutti i profeti, e specialmente Geremia, riprendono ed
orchestrano questo tema degli interventi di Jahvè. Se le *vittorie sono visite
di Dio che benedice i suoi fedeli (Sof 2, 7), le sventure del popolo sono
parimenti visite di Dio che viene a correggere gli Israeliti ed i loro capi, ed
a ricondurli a sé: «Io non ho conosciuto che voi tra tutte le famiglie della
terra, perciò vi visiterò per tutte le vostre iniquità» (Am 3, 2; Os 4, 9; Is
10, 3; Ger 6, 15; 23, 2. 34). Questa visita, descritta da Ezechiele come la
ispezione del *pastore che passa in rivista il suo gregge (Ez 34), è sempre
dettata dall’amore di Dio ed orientata verso la salvezza del popolo. Le *nazioni
vicine: Moab, l’Egitto e soprattutto Babilonia, che si oppongono al compimento
del disegno divino di salvezza, saranno anch’esse «visitate» da Dio che le
giudicherà e le castigherà (Ger 46, 21...; 48, 44; 50, 18. 27. 31), ma infine le
salverà (Ger 12, 14-17; 16, 19 ss). Al pari della liberazione dall’Egitto,
l’esilio è opera di Jahvè: «Soltanto al compiersi dei 70 anni accordati a
Babilonia io vi visiterò e realizzerò per voi la mia promessa di ricondurvi qua»
(Ger 29, 10; cfr. 32, 5; Sal 80, 15; Zac 10, 3).
2. Allora ogni giudeo prenderà maggior coscienza di essere
oggetto di un’attenzione particolare, personale, di Dio: «Ricordati di me, o
Jahvè, per amore del tuo popolo, visitami con la tua salvezza, che io veda la
felicità dei tuoi eletti» (Sal 106, 4). Queste visite individuali non si
limitano al campo cultuale: Dio illumina lo spirito dei sapienti esaminando la
loro condotta (Giob 7, 18; Sal 17, 3) od inviando loro dei *sogni (Eccli 34, 6;
cfr. già Gen 20, 3).
3. E soprattutto, a partire dall’esilio, il movimento stesso
della rivelazione apre gli spiriti all’annunzio di una visita definitiva di Dio
che verrà a *giudicare il popolo e le nazioni: questo *giorno di Jahvè, già
annunziato dai profeti preesilici, sarà il giorno di trionfo degli eletti,
salvati dalla venuta, dalla visita e dal *regno di Dio, e si estenderà di
diritto a tutti i popoli: «Nel giorno della visita, i *giusti splenderanno... ed
il Signore regnerà su di essi per sempre» (Sap 3, 7; Eccli 2, 14). Di questa
speranza vivranno i Giudei del sec. I (ad es. Qumrân); la venuta di Gesù e la
sua predicazione del regno realizzeranno questa visita divina promessa ed
attesa.
NUOVO TESTAMENTO
1. «Benedetto il Signore, Dio di Israele, perché ha visitato e
liberato il suo popolo» (Lc 1, 68). In Gesù, Dio, spinto dal suo amore (1, 78) e
volendo realizzare le sue *promesse, è venuto a salvare i suoi, portando così a
termine la loro attesa e rispondendo alla loro preghiera. Questo tema permea
tutto il vangelo. Alla luce degli oracoli dei profeti, il precursore è
presentato come colui che viene a preparare i cuori alla venuta, alla
manifestazione di Dio in Gesù. Egli annunzia il giudizio escatologico e proclama
la venuta del *regno. Gesù insisterà sul carattere anzitutto salvifico di questa
visita e sul suo aspetto universale. Ma, pur essendo offerta ad ogni *carne (Lc
3, 6; cfr. 1 Piet 2, 12), questa visita non sarà accolta se non dai *cuori puri
che la riconosceranno: «un grande profeta è sorto fra noi, e Dio ha visitato il
suo popolo» (Lc 7, 16). Non tutti la comprendono così. Infatti, nonostante i
*miracoli, la visita di Dio in Gesù non è sfolgorante, accecante: può essere
rifiutata. Questo è l’aspetto drammatico della visita, che gli evangelisti
sottolineano, soprattutto S. Giovanni: «Egli è venuto tra i suoi ed i suoi non
l’hanno ricevuto» (Gv 1, 11). Questo disconoscimento colpevole trasformerà la
grazia in minaccia di *castigo. Guai a coloro che non sanno riconoscere il
«tempo della visita», guai a Gerusalemme (Lc 19, 43 s), guai alle città del
lago! Questo rifiuto dei Giudei, contrario all’atteggiamento dei pagani (Mt 8,
10 ss), è presentato come il coronamento tragico di una lunga serie di rigetti,
di disprezzi delle visite di Jahvè durante tutto il VT: il castigo sarà
terribile per coloro che non avranno accolto il figlio del re, inviato dal Padre
suo per «percepire i frutti» della vigna (Mt 21, 33-46). La rovina di
Gerusalemme, fine del mondo giudaico e segno splendido del *giudizio di Dio, ne
sarà il prodromo visibile, visita terribile del figlio dell’uomo che annunzia la
sua ultima venuta nella gloria (cfr. Mt 25, 31-46).
2. Prima di quest’ultima visita, anticipata nell’«ingresso
festoso» di Gesù nella domenica delle palme, l’azione di Gesù continua nella
Chiesa con la *missione degli apostoli e con l’invio dello Spirito in mezzo ai
credenti. Il Signore stesso interviene sempre nella vita della Chiesa:
l’Apocalisse lo mostra pronto a castigare le comunità di Asia se non si
convertono (Apoc 2-3). Ma se dobbiamo andare insieme incontro a Cristo «che
viene» (1 Tess 4, 17; cfr. Mt 25, 6), ogni discepolo è invitato personalmente ad
accogliere la visita di Gesù: «Ecco che sto alla porta e busso...» (Apoc 3, 20),
dovrà quindi *vegliare (Mt 24, 42 ss; 25, 1-13) e *pregare fino al *giorno,
ignoto a tutti, in cui Gesù «comparirà una seconda volta, a coloro che lo
attendono, per dar loro la salvezza» (Ebr 9, 28).
R. DEVILLE
→ calamità 2 - castighi 3 - giorno del Signore - giudizio - ira B VT
III 3; NT III 2 - ora 1 - Provvidenza - retribuzione I - salvezza - sonno I 2 -
speranza NT II - sterilità II, III - vegliare I.
Dio è vivente,
Dio ci chiama alla vita eterna. Da un capo all’altro della Bibbia, un senso
profondo della vita in tutte le sue forme, ed un senso purissimo di Dio, ci
rivelano nella vita, che l’uomo persegue con una speranza instancabile, un dono
sacro in cui Dio fa risplendere il suo mistero e la sua generosità.
I. IL DIO VIVENTE
Invocare «il Dio vivente» (Gios 3, 10; Sal 42, 3...), presentarsi come «servo
del Dio vivente» (Dan 6, 21; 1 Re 18, 10. 15), giurare «per il Dio vivente» (Giud
8, 19; 1 Sam 19, 6...), non significa soltanto proclamare che il Dio di Israele
è un *Dio potente ed attivo, significa dargli uno dei *nomi ai quali egli tiene
maggiormente (Num 14, 21; Ger 22, 24; cfr. Ez 5, 11...), significa evocare la
sua vitalità straordinaria, il suo ardore divorante «che non si stanca e non si
affanna» (Is 40, 28), «il re eterno... dall’*ira insostenibile» (Ger 10, 10),
colui «che rimane in eterno... che salva e libera, opera segni e meraviglie in
cielo e sulla terra» (Dan 6, 27 s). Il valore che la Bibbia annette a questo
nome è il segno del valore che ha per essa la vita.
II. VALORE DELLA VITA
1. La vita è cosa preziosa.
- La vita compare nelle ultime tappe della *creazione, come suo coronamento. Nel
quinto giorno nascono «i grandi cetacei, gli esseri viventi che guizzano e
pullulano nelle acque» (Gen l, 21) e gli uccelli. A sua volta la terra produce
altri esseri viventi (1, 24). Infine Dio crea, a sua immagine, il più perfetto
dei viventi, 1’*uomo. E, per assicurare a questa vita *nascente la continuità e
la *crescita, Dio le fa dono della sua *benedizione (1, 22. 28). Perciò l’uomo,
benché la vita sia un tempo di servizio penoso (Giob 7, 1), è pronto a
sacrificare tutto per salvarla (2, 4). La sorte dell’*anima negli inferi appare
così lacrimevole che desiderare la *morte non può essere che il contraccolpo di
una disgrazia inaudita e sconvolgente (Giob 7, 15; Giona 4, 3). L’ideale è di
fruire a lungo dell’esistenza presente (cfr. Eccle 10, 7; 11, 8 s) sulla «terra
dei viventi» (Sal 27, 13) e di morire, come Abramo, «in una *vecchiaia felice,
ricco di anni e sazio di giorni» (Gen 25, 8; 35, 29; Giob 42, 17). Se una
posterità è ardentemente desiderata (cfr. Gen 15, 1-6; 2 Re 4, 12-17), si è
perché i figli sono il sostegno dei genitori (cfr. Sal 127; 128) e prolungano in
qualche modo la loro vita. Si ama quindi vedere numerosi, sulle piazze
pubbliche, i vegliardi di età avanzata ed i giovanetti (cfr. Zac 8, 4 s).
2. La vita è cosa fragile.
- Tutti gli esseri viventi, e l’uomo stesso, non posseggono la vita che a titolo
precario. Essi sono, per natura, soggetti alla morte. Questa vita di fatto è
dipendente dal respiro, cioè da un soffio fragile, indipendente dalla volontà e
che un nulla basta a spegnere (cfr. *spirito). Dono di Dio (Is 42, 5), questo
soffio non cessa di dipendere da lui (Sal 104, 28 ss), «che fa morire e che fa
vivere» (Deut 32, 39). Effettivamente la vita è breve (Giob 14, 1; Sal. 37, 36),
un semplice vapore (Sap 2, 2), un’*ombra (Sal 144, 4), un nulla (Sal 39, 6).
Sembra persino che essa non abbia cessato di diminuire dalle origini (cfr. Gen
47, 8 s). 120 o 100 anni, ed anche 70 od 80, sono diventati un massimo (cfr. Gen
6, 3; Eccli 18, 9; Sal 90, 10).
3. La vita è cosa sacra.
- Ogni vita viene da Dio, ma il soffio dell’uomo ne viene in un modo
tutto speciale: per farne un’anima vivente, Dio ha soffiato nelle sue narici un
alito di vita (Gen 2, 7; Sap 15, 11) che ritira all’istante della morte (Giob
34, 14 s; Eccle 12, 7, dopo l’esitazione di 3, 19 ss). Perciò Dio prende sotto
la sua protezione la vita dell’uomo e vieta l’uccisione (Gen 9, 5 s; Es 20, 13),
anche quella di Caino (Gen 4, 11-15). Persino la vita dell’*animale ha qualcosa
di sacro; l’uomo si può nutrire della sua *carne, a condizione che ne sia stato
fatto uscire tutto il *sangue, perché «la vita della carne è nel sangue» (Lev
17, 11), sede dell’anima vivente che respira (Gen 9, 4); e proprio mediante
questo sangue l’uomo entra in contatto con Dio nei sacrifici.
III. LE PROMESSE DI VITA
1. La legge della vita.
- Dio, «che non si compiace nella morte di alcuno» (Ez 18, 32), non
aveva creato l’uomo per lasciarlo morire, ma perché vivesse (Sap 1, 13 s; 2,
23); gli aveva quindi destinato il *paradiso terrestre e 1’*albero della vita,
il cui frutto doveva farlo «vivere per sempre» (Gen 3, 22). Anche dopo aver
dovuto vietare all’uomo peccatore, che pensava di trovarlo mediante le sue
proprie vie, l’accesso all’albero della vita, Dio non rinunzia ad assicurare
all’uomo la vita. In attesa di dargliela mediante la morte del suo Figlio, egli
propone al suo popolo «le *vie della vita» (Prov 2, 19...; Sal 16, 11; Deut 30,
15; Ger 21, 8). Queste vie sono «le *leggi ed usanze» di Jahvè; «chi le
osserverà vi troverà la vita» (Lev 18, 5; Deut 4, l; cfr. Es 15, 26); vedrà
«giungere a pienezza il numero dei suoi giorni» (Es 23, 26); troverà «lunghezza
di giorni e di vita, luce degli occhi e pace» (Bar 3, 14). Infatti queste vie
sono quelle della *giustizia, e «la giustizia conduce alla vita» (Prov 11, 19;
cfr. 2, 19 s...), «il giusto vivrà per la sua *fedeltà» (Ab 2, 4), mentre gli
empi saranno cancellati dal *libro della vita (cfr. Sal 69, 29). Per lungo tempo
nella speranza di Israele questa vita non è che una vita sulla terra, ma, poiché
la sua *terra è quella di cui Jahvè ha fatto dono al suo popolo, «la vita ed i
lunghi giorni» che Dio gli riserva se è fedele (Deut 4, 40...; cfr. Es 20, 12)
rappresentano una felicità unica al mondo, «superiore a quella di tutte le
nazioni della terra» (Deut 28, 1).
2. Dio, fonte di vita.
- D’altronde questa vita, benché sia vissuta tutta sulla terra, non trova
*nutrimento in primo luogo nei beni della terra, ma nell’attaccamento a Dio.
Egli è «la fonte di acqua viva» (Gen 2, 13; 17, 13), «la fonte di vita» (Sal 36,
10; cfr. Prov 14, 27) ed «il suo amore val più della vita» (Sal 63, 4). I
migliori quindi giungono a preferire ad ogni altro bene la felicità di abitare
per tutta la vita nel suo tempio, dove un sol giorno trascorso dinanzi alla sua
*faccia e consacrato a celebrarla «val più di mille» (Sal 84, 11; cfr. 23, 6;
27, 4). Per i profeti la vita è «*cercare Jahvè» (Am 5, 4 s; Os 6, 1 s).
3. Vita oltre la morte.
- Più che non della vita felice nella sua terra, Israele peccatore fa
l’esperienza della *morte, ma, dal seno stesso della morte, scopre che Dio
persiste nel chiamarlo alla vita. Dal fondo dell’esilio Ezechiele proclama che
Dio «non si compiace nella morte del malvagio» , ma lo chiama a «convertirsi ed
a vivere» (Ez 33, 11); egli sa che Israele è come un popolo di cadaveri, ma
annunzia che, in queste ossa aride, Dio immetterà il suo *spirito ed esse
rivivranno (37, 11-14). Sempre dall’esilio il Deutero Isaia contempla il *servo
di Jahvè: «Tolto dalla terra dei viventi... per l’iniquità del suo popolo» (Is
53, 8), «egli offre la sua vita in *sacrificio di espiazione» e, al di là della
morte, «vede una discendenza e prolunga i suoi giorni» (53, 10). Sussiste quindi
una frattura nell’associazione fatale peccato/morte: si può morire per i propri
*peccati, ed attendere ancora qualcosa dalla vita, si può morire per altra cosa
che i propri peccati e trovare, morendo, la vita. Le persecuzioni di Antioco
Epifane vennero a confermare queste idee profetiche facendo vedere che si poteva
morire per essere *fedeli a Dio. Questa morte accettata per Dio non poteva
separare da lui, non poteva portare che alla vita mediante la *risurrezione:
«Dio renderà loro lo spirito e la vita... essi bevono alla vita che non si
esaurisce» (2 Mac 7, 23. 36). Dalla polvere in cui dormono «essi si
risveglieranno... brilleranno come lo splendore del firmamento», mentre i loro
persecutori sprofonderanno «nell’orrore eterno» (Dan 12, 2 s). Nel libro della
Sapienza questa speranza si amplia e trasforma tutta la vita dei giusti: mentre
gli empi, «appena nati, cessano di essere» (Sap 5, 13), morti viventi, i giusti
sono fin d’ora «nella mano di Dio» (3, 1) e riceveranno da essa «la vita
eterna... la corona regale di *gloria» (5, 15 s).
IV. GESÙ CRISTO: IO SONO LA VITA
Con la venuta del Salvatore, le promesse diventano realtà.
1. Gesù annunzia la vita.
- Per Gesù, la vita è una cosa preziosa, «più del cibo» (Mt 6, 25);
«salvare una vita» è più importante anche del *sabato (Mc 3, 4 par.), perché
«Dio non è un Dio di morti, ma di viventi» (Mc 12, 27 par.). Egli stesso
guarisce e restituisce la vita, come se non potesse tollerare la presenza della
morte: se egli fosse stato presente, Lazzaro non sarebbe morto (Gv 11, 15. 21).
Questo potere di dare la vita è il segno che egli ha potere sul peccato (Mt 9,
6) e che apporta la vita che non muore, la «vita eterna» (19, 16 par.; 19, 29
par.). È la vera vita; si può persino dire, senz’altro, che è «la vita» (7, 14;
18, 8 s par. ...). Per entrarvi e possederla bisogna quindi prendere la *via
stretta, sacrificare tutte le proprie *ricchezze, persino le proprie membra e la
vita presente (cfr. Mt 16, 25 s).
2. In Gesù è la vita.
- Verbo eterno, Cristo possedeva da tutta l’eternità la vita (Gv l, 4).
Incarnato, egli è «il Verbo di vita» (1 Gv 1, 1); dispone della vita con
proprietà assoluta (Gv 5, 26) e la dona in sovrabbondanza (10, 10) a tutti
coloro che il Padre suo gli ha dato (17, 2). Egli è «la via, la verità e la
vita» (14, 6), «la risurrezione e la vita» (11, 25). «*Luce della vita» (8, 12),
egli dà un’*acqua viva, che, in colui che la riceve, diventa «una fonte che
zampilla per la vita eterna» (4, 14). «*Pane di vita» , egli dà a colui che
mangia il suo *corpo di vivere per mezzo suo, come egli vive per mezzo del Padre
(6, 27-58). Ciò suppone la *fede: «chi vive e crede in lui, non morrà» (11, 25
s), diversamente «non vedrà mai la vita» (3, 36); una fede che riceve le sue
parole e le mette in pratica, com’egli stesso obbedisce al Padre suo, perché «il
suo comando è vita eterna» (12, 47-50).
3. Gesù Cristo, principe della vita.
- Ciò che esige, Gesù lo fa per primo; ciò che annunzia, lo dà. Liberamente, per
amore verso il Padre e verso i suoi, come il buon *pastore per le sue pecore,
«egli dà la sua vita» (= «la sua *anima» , Gv 10, 11. 15. 17 s; 1 Gv 3, 16). Ma
lo fa «per riprenderla» (Gv 10, 17 s) e, dopo averla ripresa, divenuto «spirito
vivificatore» (1 Cor 15, 45), far dono della vita a tutti coloro che credono in
lui. Gesù Cristo, morto e risorto, è «il principe della vita» (Atti 3, 15), la
Chiesa ha la missione «di annunziare arditamente al popolo... questa vita» (Atti
5, 20): tale è la prima esperienza cristiana.
4. Vivere in Cristo.
- Questo passaggio dalla morte alla vita si ripete in colui che crede in Cristo
(Gv 5, 24) e, «*battezzato nella sua morte» (Rom 6, 3), «risorto dalla morte»
(6, 13), «vive ormai per Dio in Cristo Gesù» (6, 10 s). Egli ora *conosce, di
una conoscenza viva, il Padre ed il Figlio che egli ha mandato, e questo
costituisce la vita eterna (Gv 17, 3; cfr. 10, 14). La sua «vita è nascosta con
Cristo in Dio» (Col 3, 3), il Dio vivente di cui egli è il tempio (2 Cor 6, 16).
Partecipa in tal modo alla vita di Dio, dalla quale un tempo era escluso (cfr.
*straniero) (cfr. Ef 4, 18), e quindi alla sua natura (2 Piet 1, 4). Avendo
ricevuto da Cristo lo *Spirito di Dio, il suo stesso spirito è vita (Rom 8, 10).
Egli non è più soggetto alle costrizioni della *carne; può passare indenne
attraverso la morte e vivere per sempre (cfr. 8, 11. 38), non più per se stesso,
«ma per colui che è morto e risorto per lui» (2 Cor 5, 15); per lui, «la vita è
Cristo» (Fil 1, 21).
5. La morte assorbita dalla vita.
- Già in questa terra il cristiano, quanto più partecipa alla *morte di
Cristo e porta le sue *sofferenze, tanto più manifesta la sua vita sin nel
proprio *corpo (2 Cor 4, 10). Di fatto bisogna che ciò che è mortale sia
assorbito dalla vita (2 Cor 5, 4); ciò che è corruttibile deve rivestirsi
dell’immortalità, cambiamento che, per quasi tutti, suppone la morte corporale
(cfr. 1 Cor 15, 35-55). Questa, lungi dall’indicare una sconfitta della vita, la
rende stabile e la fa fiorire in Dio, ingoiando la morte nella sua *vittoria
(15, 54 s). L’Apocalisse vede già le anime dei martiri in cielo (Apoc 6, 9) e
Paolo desidera morire per «essere con Cristo» (Fil 1, 23; cfr. 2 Cor 5, 8). La
vita con Cristo, che si attende dalla *risurrezione (cfr. 1 Tess 5, 10), è
quindi possibile subito dopo la morte. Si può allora essere simili a Dio e
*vederlo com’egli è (1 Gv 3, 2), *faccia a faccia (1 Cor 13, 12), il che
costituisce l’essenza della vita eterna. Tuttavia questa vita non avrà tutta la
sua perfezione se non nel giorno in cui il corpo stesso, risuscitato e
glorificato, vi avrà parte, quando si manifesterà «la nostra vita, Cristo» (Col
3, 4), nella Gerusalemme celeste, «dimora di Dio con gli uomini» (Apoc 21, 3),
dove scaturirà il fiume di vita, dove crescerà l’*albero di vita (22, 1 s; 22,
14. 19). «Allora non ci sarà più morte» (21, 4), essa sarà «gettata nel lago di
fuoco» (20, 14). Tutto sarà pienamente soggetto a Dio, che «sarà tutto in tutti»
(1 Cor 15, 28). Sarà un nuovo *paradiso, dove i santi *gusteranno per sempre la
vita stessa di Dio, in Cristo Gesù.
A. A. VIARD e J. GUILLET
→ acqua - albero 1 - anima I 1.2 - battesimo IV 2.4 - beatitudine - benedizione
- bianco 0 - correre 2 - creazione - crescita - desiderio I - Dio VT III 1 -
dono NT 3 - donna VT 1.2 - fecondità - forza - frutto - gioia VT I - grazia II
1, V - lampada 2 - luce e tenebre VT II 1; NT I 2 - madre I 1, II 1 - morte -
nascita (nuova) - paradiso - risurrezione - salvezza - sangue - sapienza VT II 1
- sessualità I 1 - Spirito di Dio NT V 3 - uomo I 1 a - vecchiaia 1 - violenza 0
- vittoria NT 1.
VITE - VIGNA (inizio)
Poche colture
dipendono, come la vite, sia dal lavoro attento ed ingegnoso dell’uomo, sia dal
ritmo delle stagioni. La Palestina, terra di vigneti, insegna ad Israele a
gustare i frutti della terra, a dedicarsi totalmente ad un lavoro promettente,
ma anche ad aspettarsi tutto dalla generosità divina. D’altra parte la vite,
così preziosa, ha qualcosa di misterioso. Non ha valore che per il suo *frutto.
Il suo legno è senza valore (Ez 15, 2-5) ed i suoi tralci sterili non sono buoni
che per il fuoco (Gv 15, 6); ma il suo frutto rallegra «dèi e uomini» (Giud 9,
13); la vite nasconde quindi un mistero più profondo; se apporta la gioia nel
cuore dell’uomo (Sal 104, 15), è una vite il cui frutto è la *gioia di Dio.
1. La vite, gioia dell’uomo.
- *Noè, il giusto, pianta la vite su una terra che Dio ha promesso di non più
maledire (Gen 8, 21; 9, 20). E la presenza di vigneti sulla nostra terra è il
segno che la *benedizione di Dio non è stata completamente distrutta dal peccato
di Adamo (Gen 5, 29). Dio promette e dà al suo popolo una terra ricca di vigne (Num
13, 23 s; Deut 8, 8). Ma coloro che opprimono il povero (Am 5, 11) o sono
infedeli a Jahvè (Sof 1, 13) non berranno il *vino delle loro vigne (Deut 28,
30. 39); esse saranno divorate dalle locuste (Gioe l, 7) o faran posto ai rovi (Is
7, 23). Gravemente ingiusto è il re che prende le vigne dei suoi sudditi; di
questo abuso predetto da Samuele (1 Sam 8, 14 s) si rende colpevole Achab (1 Re
21, 1-16). Ma, sotto un buon re, ognuno vive nella *pace, sotto la sua vite ed
il suo fico (1 Re 5, 5; 1 Mac 14, 12). Questo ideale si realizzerà nei tempi
messianici (Mi 4, 4; Zac 3, 10); allora la vigna sarà feconda (Am 9, 14; Zac 8,
12). Immagine della *sapienza (Eccli 24, 17), immagine della *sposa feconda del
giusto (Sal 128, 3), la vite che mette le gemme simboleggia la speranza degli
sposi che, nel Cantico, cantano il mistero dell’amore (Cant 6, 11; 7, 13; 2, 13.
15; cfr. 1, 14).
2. Israele, vigna infedele a Dio.
- Sposo e vignaiolo, il Dio di Israele ha la sua vigna, che è il suo *popolo.
Per Osea, Israele è una vigna feconda che rende grazie della sua *fecondità ad
altri che a Dio, quel Dio che, mediante l’alleanza, è il suo *sposo (Os 10, 1;
3, 1). Per Isaia, Dio ama la sua vigna, ha fatto tutto per essa, ma invece del
*frutto di giustizia che attendeva, essa gli ha dato l’acerba *vendemmia del
sangue versato; egli l’abbandonerà ai devastatori (Is 5, 1-7). Per Geremia,
Israele è una vigna scelta, inselvatichita e divenuta sterile (Ger 2, 21; 8,
13), che sarà divelta e calpestata (Ger 5, 10; 12, 10). Ezechiele infine
paragona ad una vigna feconda, poi inaridita e bruciata, ora Israele infedele al
suo Dio (Ez 19, 10-14; 15, 6 ss), ora il re infedele ad un’alleanza giurata (17,
5-19). Verrà un giorno in cui la vigna fiorirà sotto la custodia vigilante di
Dio (Is 27, 2 s). A tale scopo Israele invoca l’amore *fedele di Dio: possa egli
salvare questa vigna che ha trapiantato dall’Egitto nella sua terra e che ha
dovuto abbandonare allo sterminio ed al fuoco! Ormai essa gli sarà fedele (Sal
80, 9-17). Ma non sarà Israele a mantenere questa promessa. Riprendendo la
parabola di Isaia, così Gesù riassume la storia del popolo eletto: Dio non ha
cessato di aspettare i frutti della sua vigna; ma invece di ascoltare i profeti
da lui mandati, i vignaioli li hanno maltrattati (Mc 12, 1-5). Colmo dell’amore:
egli manda ora il suo Figlio diletto (12, 6); in risposta i capi del popolo
porteranno al colmo la loro infedeltà, uccidendo il Figlio di cui la vigna è
l’eredità. Perciò i colpevoli saranno castigati, ma la morte del Figlio aprirà
una nuova tappa del *disegno di Dio: affidata a vignaioli fedeli, la vigna darà
finalmente il suo frutto (12, 7 ss; Mt 21, 41 ss). Quali saranno questi
vignaioli fedeli? Le proteste platoniche non servono a nulla: occorre un *lavoro
effettivo, il solo che renda (Mt 21, 28-32). Per fare la sua *vendemmia, Dio
accoglierà tutti gli operai: lavorando fin dal mattino, od assoldati all’ultima
ora, tutti riceveranno la stessa ricompensa. Infatti la chiamata al lavoro e
l’offerta del salario sono doni gratuiti e non diritti che l’uomo possa
rivendicare: tutto è *grazia (Mt 20, 1-15).
3. La vera vigna, gloria e gioia di Dio.
- Ciò che Israele non ha potuto dare a Dio, glielo dà Gesù. Egli è la
vigna che rende, la vite autentica, degna del suo nome. È il vero *Israele. È
stato piantato dal Padre suo, è stato circondato di cure e mondato affinché
porti un frutto abbondante (Gv 15, 1 s; Mt 15, 13). E di fatto porta il suo
frutto dando la propria vita, versando il proprio sangue, prova suprema d’amore
(Gv 15, 9. 13; cfr. 10, 10 s. 17); ed il *vino, frutto della vite, sarà, nel
mistero eucaristico, il segno sacramentale di questo *sangue versato per
suggellare la nuova alleanza; sarà il mezzo per partecipare all’amore di Gesù,
per *rimanere in lui (Mt 26, 27 ss par.; cfr. Gv 6, 56; 15, 4-9 s). Egli è la
vite e noi i tralci, come egli è il *corpo e noi le membra. La vera vite è lui,
ma è anche la sua *Chiesa, i cui membri sono in comunione con lui. Senza questa.
*comunione noi non possiamo fare nulla: Gesù solo, vera vite, può portare un
frutto che glorifichi il vignaiolo, il Padre suo. Senza la comunione con lui,
noi siamo tralci staccati dalla vite privi di linfa, sterili, buoni per il fuoco
Gv 15, 4 ss). A questa comunione tutti gli uomini sono chiamati dall’amore del
Padre e del Figlio; chiamata gratuita, perché è Gesù a scegliere coloro che
diventano suoi tralci, suoi *discepoli; non sono essi a sceglierlo (15, 16).
Mediante questa comunione, l’uomo diventa tralcio della vera vite. Vivificato
dall’amore che unisce Gesù ed il Padre suo, egli porta frutto, e ciò glorifica
il Padre. Partecipa così alla gioia del Figlio che è glorificare il Padre suo
(15; 8-11). Tale è il mistero della vera vite: esprime l’unione feconda di
Cristo e della Chiesa, e la gioia che rimane, perfetta ed eterna (cfr. 17, 23).
M. F. LACAN
→ Chiesa II 2, V 2 - frutto - vendemmia – vino.
→ agnello di Dio - altare - eucaristia IV - redenzione NT 2 - sacrificio - sangue VT 3.
La vittoria
suppone lotta e rischio di sconfitta. E di fatto su una sconfitta si apre nella
Bibbia il dramma dell’umanità, vinta da *Satana, dal peccato, dalla *morte. Ma
già in questa sconfitta si delinea la promessa di una vittoria futura sul male (Gen
3, 15). La storia della *salvezza è quella del cammino verso la vittoria
definitiva.
VECCHIO TESTAMENTO
Il popolo di Dio fa l’esperienza della vittoria e della sconfitta anzitutto
nella sua storia temporale. Ma la sconfitta ha come risultato di indirizzare
finalmente la sua fede verso l’attesa di un’altra vittoria, realizzata su un
altro piano.
1. Le vittorie del popolo di Dio.
- Gli Israeliti misurano da prima la *forza del loro Dio ad un livello molto
imperfetto: quello dei loro successi militari. Ai loro occhi il trionfo di Dio
sul male si confonde con le vittorie che riportano. Quando sono in *guerra, non
costituiscono essi forse «gli eserciti di Jahvè» (Es 12, 41; Giud 5, 13; 1 Sam
17, 26)? Egli dunque combatte per essi ed assicura i loro successi: sotto Mosè (Es
14, 14; 15, 1-21; 17, 8-16), sotto Giosuè (Gios 6, 16; 10, 10), sotto i giudici
(Giud 7, 15), sotto i re (1 Sam 14, 6; 2 Cron 14, 10 s; 20, 15- 29). Bisogna
combattere, ma bisogna pure ricevere da Dio la vittoria come una *grazia e come
un *dono (Sal 18, 32-49; 20, 7-10; 118, 10-27). Nell’epoca tarda dei Maccabei,
questi non esiteranno ad attribuire a Dio il successo delle loro armi (1 Mac 3,
19; 2 Mac 10, 38; 13, 15; 15, 8-24). Dio appare quindi come l’alleato
invincibile (Giudit 16, 13; Deut 32, 22-43; Is 30, 27-33; Nah 1, 2-8; Ab 3; 1
Cron 29, 11 s). Come alle origini egli ha dominato le forze del caos (Gen 1, 2),
personificate dalle sue *bestie mostruose (Sal 74, 13), così nella storia
continua a trionfare sui popoli pagani che incarnano queste forze e si oppongono
al suo *disegno di salvezza. Per questo gli Israeliti possono prevalere sui loro
nemici; esperienza il cui contenuto religioso è innegabile, ma che rimane
ambigua: non saranno essi tentati di pensare che la vittoria di Dio coincida
necessariamente con la loro potenza temporale? Un’esperienza complementare li
preserverà da questo errore.
2. Le sconfitte del popolo di Dio.
- Già al momento del successo i profeti ricordano agli Israeliti che la vittoria
data da Dio non è necessariamente una ricompensa della buona condotta (Deut 9, 4
ss). Ma i rovesci sono loro necessari perché prendano veramente coscienza della
loro miseria morale. Le prove dell’esodo (Num 14, 42 s; Deut 8, 19 s), le
lungaggini nella conquista di Canaan (Gios 7, l-12; Giud 2, 10-23), le sconfitte
subite dalla monarchia (2 Cron 21, 14; 24, 20; 25, 8-20) e soprattutto la
catastrofe dell’esilio (Ger 15, 1-9; 27, 6; Ez 22) fanno veder loro che Dio non
esita a combattere contro di essi quando lo tradiscono. Queste sconfitte sono un
*castigo della *infedeltà (Sal 78; 106). Lungi dal significare una sconfitta di
Dio, padrone degli imperi, esse rivelano che la vittoria di Dio è di ordine
diverso da quello del successo temporale. Esse portano in tal modo Israele a
comprendere ed a preparare la sola vera vittoria.
3. Verso un’altra vittoria.
- Di fatto gli oracoli profetici annunziano per gli «ultimi tempi» una vittoria
divina che supererà in tutti i modi quelle del passato, ed i sapienti pongono in
evidenza una vittoria spirituale che non si riporta con le armi.
a) La vittoria escatologica. - I profeti postesilici
amano rappresentare la crisi finale della storia come una *guerra gigantesca in
cui Dio affronterà i suoi *nemici collegati. E li schiaccerà sicuramente (cfr.
Is 63, 1-6), come schiacciò i mostri primordiali (Is 27, 1). Questa vittoria
sarà preludio al suo *regno finale (Zac 14; cfr. Ez 38 - 39). Altri testi
presentano colui che sarà l’artefice di questo trionfo definitivo. Ora egli
assume i tratti del *messia regale (Sal 2, 1-9; 110, 5 ss); ora è personificato
nel *Figlio dell’uomo trascendente, dinanzi al quale Dio annienta le *bestie
(Dan 7). Più paradossale è la vittoria del *servo di Jahvè, che trionfa con il
suo sacrificio (Is 52, 13 ss; 53, 11 s) e porta a realizzazione il *disegno di
Dio. Se la vittoria del figlio dell’uomo superava il piano temporale perché era
posta al di là della storia, quella del servo è posta di colpo sul piano
spirituale, il solo che infine abbia importanza.
b) La vittoria dei giusti. - Questa vittoria può già
essere acquistata dai giusti che trionfano del peccato. L’idea sta sullo sfondo
di tutto l’insegnamento dei sapienti. Ma prende corpo al termine del VT, nel
libro della Sapienza: avendo vinto nelle lotte immacolate, i giusti cingeranno
nell’eternità la corona dei vincitori (Sap 4, 1 s); il Signore darà loro questa
ricompensa meritata, nel momento stesso in cui lancerà un ultimo assalto contro
i malvagi (Sap 5, 15-23). Questa è pure la vittoria che riporterà Cristo, e dopo
di lui i cristiani.
NUOVO TESTAMENTO
1. Vittoria di Cristo.
- Con Cristo il piano delle lotte temporali è definitivamente superato.
La lotta reale che egli conduce è di altro ordine. Già nella sua vita pubblica
egli si dichiara come il «più forte» che trionfa del forte (Lc 11, 14-22), cioè
di *Satana, principe di questo mondo. Alla vigilia della morte, egli ammonisce i
suoi di non temere il *mondo malvagio che li perseguiterà col suo odio: «Abbiate
fiducia! Io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33). Questa vittoria riprende i tratti
paradossali di quella del servo di Jahvè, che realizza alla lettera. Ma si
afferma come una realtà concreta e definitiva con la *risurrezione. Qui Cristo
ha trionfato del peccato e della morte; ha trascinato le *potenze vinte dietro
il suo carro di vincitore (Col 2, 15). Meglio che gli antichi re di Israele,
egli ha vinto, questo leone di Giuda (Apoc 5, 5), questo *agnello immolato (5,
12), divenuto signore della storia umana. E la sua vittoria si manifesterà
infine con splendore quand’egli prevarrà su tutte le forze avverse (17, 14; 19,
11-21) e vincerà per sempre la *morte, ultimo nemico (1 Cor 15, 24 ss). La
*croce, sconfitta apparente, ha assicurato la vittoria del santo sul peccato,
del *vivente sulla morte.
2. Vittoria del nuovo popolo.
- Tale è la vittoria di Cristo, tale quella del nuovo popolo che egli trascina
dietro di sé. Non è neppure essa una vittoria temporale; su questo piano può
comportare una sconfitta apparente. Così *martiri, schiacciati dalla *bestia (Apoc
11, 7; 13, 7; cfr. 6, 2), l’hanno nondimeno già vinta, grazie al *sangue
dell’agnello (12, 10 s; 15, 2). Così gli *apostoli, che Cristo ha condotto con
sé nel suo trionfo (2 Cor 2, 14), ma che le prove dell’apostolato possono
abbattere (4, 7-16). Così, infine, tutti i cristiani. Avendo riconosciuto il
loro Padre ed essendosi nutriti della sua *parola, essi hanno vinto il maligno
(1 Gv 2, 13 s). Nati da Dio, hanno vinto il *mondo (5, 4). La loro vittoria è la
loro *fede nel Figlio di Dio (5, 5), grazie alla quale essi vincono pure gli
*anticristi (4, 4). Questa vittoria resta da consolidare mediante una lotta
spirituale: invece di essere vinti dal male, essi devono vincere il male
mediante il bene (Rom 12, 21). Ma sanno che, con la forza dello *Spirito,
possono trionfare ormai di tutti gli ostacoli: nulla più li separerà dall’amore
di Cristo (8, 35 ss). Condividendo la vittoria del loro capo, essi
condivideranno pure la sua *gloria. Il NT evoca questa ricompensa dei vincitori
mediante varie immagini. E’una corona preparata loro lassù; corona di vita (Giac
1, 12; Apoc 2, 10), di gloria (1 Piet 5, 4), di giustizia (2 Tim 4, 8); corona
incorruttibile, a differenza di quelle che si ottengono in terra (1 Cor 9, 25);
corona vivente fatta di coloro che gli apostoli hanno portato alla fede (Fil 4,
1; 1 Tess 2, 19). Soprattutto l’Apocalisse, così attenta alla situazione dei
cristiani in *guerra contro la bestia, descrive la sorte riservata ai vincitori:
saranno *figli di Dio (Apoc 21, 7), prenderanno posto sul trono di Cristo (3,
21) e governeranno con lui le *nazioni (2, 26); riceveranno un *nome nuovo (2,
17), mangeranno all’*albero di vita (2, 7), diventeranno colonne nel *tempio del
loro Dio (3, 12): entrati nella *vita eterna, non avranno più da temere la
seconda *morte (2, 11), a differenza dei vinti, dei vili e dei rinnegati (21,
8). Il NT si chiude con questa vittoria radiosa. Per i vincitori si realizza
così, al di là di ogni speranza, la promessa originale: l’uomo, vinto un tempo
da Satana, dal peccato e dalla morte, ne ha trionfato grazie a Cristo Gesù.
P. É. BONNARD
→ agnello di Dio 3 - ascensione II 2 - bene e male III - bestie e Bestia 3 -
carne II 2 c - creazione VT II 2 - demoni NT - forza - giorno del Signore -
guerra - liberazione-libertà - mondo NT II 1 - morte NT II 3 - nemico II 2, III
2 - pace - peccato IV 2 d e - prigionia II - processo III 3 - redenzione NT 3.6
- salvezza - visita VT 1.
→ virtù e vizi.
Le scene di
vocazione sono tra le pagine più impressionanti della Bibbia. La vocazione di
Mosè al roveto ardente (Es 3), quella di Isaia nel tempio (Is 6), il dialogo tra
Jahvè ed il giovane Geremia (Ger 1), mettono in presenza Dio nella sua maestà e
nel suo mistero, e l’uomo in tutta la sua verità, nella sua paura e nella sua
generosità, nelle sue potenze di resistenza e di accettazione. Perché questi
racconti occupino un simile posto nella Bibbia, bisogna che la vocazione sia,
nella rivelazione di Dio e nella salvezza dell’uomo, un momento importante.
I. LE VOCAZIONI E LE MISSIONI NEL VT
Tutte le vocazioni nel VT hanno come oggetto delle *missioni: Dio
chiama per mandare; ad Abramo (Gen 12, 1), a Mosè (Es 3, 10. 16), ad Amos (Am 7,
15), ad Isaia (Is 6, 9), a Geremia (Ger 1, 7), ad Ezechiele (Ez 3, 1. 4), egli
ripete lo stesso ordine: Va’! La vocazione è la chiamata che Dio fa sentire
all’uomo che si è scelto e che destina ad un’opera particolare nel suo disegno
di salvezza e nel destino del suo popolo. All’origine della vocazione c’è dunque
un’*elezione divina; al suo termine, una *volontà divina da compiere. Tuttavia
la vocazione aggiunge qualcosa alla elezione ed alla missione: una chiamata
personale rivolta alla *coscienza più profonda dell’individuo, che ne sconvolge
l’esistenza, non soltanto nelle sue condizioni esterne, ma sin nel cuore,
facendone un altro uomo. Questo aspetto personale della vocazione è reso nei
testi: sovente si sente Dio pronunciare il nome di colui che egli chiama (Gen
15, 1; 22, 1; Es 3, 4; Ger 1, 11; Am 7, 8; 8, 2). Talora, per meglio indicare la
sua presa di possesso ed il cambiamento di esistenza che essa significa, Dio dà
un *nome nuovo al suo eletto (Gen 17, 1; 32, 29; cfr. Is 62, 2). E Dio si
aspetta una risposta alla sua chiamata, una adesione cosciente, di fede e di
obbedienza. Talora questa adesione è istantanea (Ger 12, 4; Is 6, 8), ma spesso
l’uomo è preso da paura e tenta di sottrarsi (Es 4, 10 ss; Ger 1, 6; 20, 7). E
questo perché normalmente la vocazione isola, e fa del chiamato un estraneo tra
i suoi (Gen 12, 1; Is 8, 11; Ger 12, 6; 15, 10; 16, 1-9; cfr. 1 Re 19, 4).
Questa chiamata non è rivolta a tutti coloro che Dio sceglie come suoi
strumenti: i *re, ad esempio, pur essendo gli unti del Signore, non sentono
questo appello, ed è Samuele ad informarne Saul (1 Sam 10, 1) e David (16, 12).
Neppure i sacerdoti hanno il loro *sacerdozio da una chiamata ricevuta da Dio,
bensì dalla nascita. Aronne stesso, quantunque Ebr 5, 4 lo dica «chiamato da
Dio» , non ha ricevuto questa chiamata se non per mezzo di Mosè (Es 28, 1) e non
si dice nulla dell’accoglienza interna che egli vi fece. Senza che la lettera
agli Ebrei lo dica esplicitamente, non costituisce infedeltà al suo pensiero il
vedere nel carattere mediato di questa chiamata un segno della inferiorità,
persino di Aronne, del *sacerdozio levitico nei confronti del sacerdozio di
colui al quale, di fatto, Dio rivolge direttamente la sua parola: «Tu sei il mio
Figlio... Tu sei sacerdote... secondo l’ordine di Melchisedec» (Ebr 5, 5 s).
II. VOCAZIONE DI ISRAELE E VOCAZIONE DI GESÙ CRISTO
Israele ha ricevuto una vocazione? Nel senso corrente della parola, è evidente.
Nel senso preciso della Bibbia, quantunque un *popolo non possa evidentemente
essere trattato come una persona singola ed avere le sue reazioni, Dio nondimeno
agisce nei suoi confronti come nei confronti di coloro che chiama. Certamente
gli parla per mezzo di intermediari, particolarmente per mezzo di Mosè, ma, a
parte questa differenza imposta dalla natura delle cose, Israele ha tutti gli
elementi di una vocazione. L’*alleanza è anzitutto una chiamata di Dio, una
parola rivolta al cuore; la *legge ed i profeti sono pieni di questo appello:
«Ascolta Israele» (Deut 4, 1; 5, 1; 6, 4; 9, 1; Sal 50, 7; Is 1, 10; 7, 13; Ger
2, 4; cfr. Os 2, 16; 4, 1). Questa parola impegna il popolo in una esistenza
separata, di cui Dio si fa il garante (Es 19, 4 ss; Deut 7, 6), e gli proibisce
di appoggiarsi su altri che non sia Dio (Is 7, 4-9; cfr. Ger 2, 11 ss). Questa
chiamata, infine, aspetta una risposta, un impegno del cuore (Es 19, 8; Gios 24,
24) e di tutta la vita. Sono tutti i tratti della vocazione. In un senso, è vero
che questi elementi si ritrovano pienamente nella persona di Gesù Cristo, il
perfetto *servo di Dio, colui che *ascolta sempre la voce del Padre e gli presta
*obbedienza. Tuttavia il linguaggio proprio della vocazione non è praticamente
usato dal NT a proposito del Signore. Se Gesù evoca costantemente la *missione
che ha ricevuto dal Padre, non si dice mai che Dio l’abbia chiamato, e questa
assenza è significativa. La vocazione suppone un mutamento di esistenza; la
chiamata di Dio sorprende l’uomo nel suo compito abituale, in mezzo ai suoi, e
lo impegna verso un punto di cui Dio si riserva il segreto, verso «la terra che
ti indicherò» (Gen 22, 1). Ora nulla indica in Gesù Cristo la presa di coscienza
di una chiamata; il suo *battesimo è ad un tempo una scena di investitura
regale: «Tu sei il mio Figlio» (Mc 1, 11) e la presentazione da parte di Dio del
servo nel quale si compiace in modo perfetto; ma nulla evoca qui le scene di
vocazione: da un capo all’altro dei vangeli Gesù sa donde viene e dove va (Gv 8,
14) e se va dove non lo si può seguire, se il suo destino è di tipo unico, ciò
non è in virtù di una vocazione, ma del suo stesso essere.
III. VOCAZIONE DEI DISCEPOLI E VOCAZIONE DEI CRISTIANI
Se Gesù, per suo conto, non sente la chiamata di Dio, in compenso moltiplica le
chiamate a seguirlo; la vocazione è il mezzo mediante il quale egli raggruppa
attorno a sé i Dodici (Mc 3, 13), ma fa sentire anche ad altri un’analoga
chiamata (Mc 10, 21; Lc 9, 59-62); e tutta la sua predicazione ha qualcosa che
comporta una vocazione; una chiamata a seguirlo in una via nuova di cui egli
possiede il segreto: «Chi vuol venire dietro di me...» (Mt 16, 24; cfr. Gv 7,
17). E se «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», si è perché l’invito al
regno è una chiamata personale, alla quale taluni rimangono sordi (Mt 22, 1-14).
La Chiesa nascente ha subito inteso la condizione cristiana come una vocazione.
La prima predicazione di Pietro a Gerusalemme è un appello ad Israele, simile a
quello dei profeti, e cerca di suscitare un passo personale: «Salvatevi da
questa *generazione perversa!» (Atti 2, 40). Per Paolo c’è un parallelismo reale
tra lui, «*apostolo per vocazione», e i cristiani di Roma o di Corinto «*santi
per vocazione» (Rom 1, 1. 7; 1 Cor 1, 1 s). Per rimettere i Corinzi nella
verità, egli li riporta alla loro chiamata, perché essa costituisce la comunità
di Corinto così com’è: «Considerate la vostra chiamata, non ci sono molti
sapienti secondo la carne» (1 Cor 1, 26). Per dar loro una regola di condotta in
questo mondo la cui figura passa, li impegna a rimanere ciascuno «nella
condizione in cui l’ha trovato la sua chiamata» (7, 24). La vita cristiana è una
vocazione perché è una vita nello *Spirito, perché lo Spirito è un nuovo
universo, perché «si unisce al nostro spirito» (Rom 8, 16) per farci sentire la
*parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale. Poiché la vocazione
cristiana è nata dallo Spirito, e poiché lo Spirito è uno solo che anima tutto
il Corpo di Cristo, in seno a quest’unica vocazione c’è «diversità di doni... di
*ministeri... di operazioni...», ma in questa varietà di *carismi non c’è infine
che un solo *corpo ed un solo Spirito (1 Cor 12, 4-13). Poiché la *Chiesa, la
comunità dei chiamati, è essa stessa la Ekklesìa, «la chiamata» , come è la
Eklektè, «l’eletta» (2 Gv 1), tutti coloro che in essa sentono la chiamata di
Dio rispondono, ognuno al suo posto, all’unica vocazione della Chiesa che sente
la voce dello sposo e gli risponde: «Vieni, o Signore Gesù!» (Apoc 22, 20).
J. GUILLET
→ Abramo 1 - apostoli II 1 - carismi II 2 - cercare III - David 1 - discepolo NT
2 a - elezione - grazia IV - matrimonio NT II - missione - Mosè 1 - nome VT l;
NT 4 - Pietro (S.) 1 - popolo A I 1 - predestinare 2 - profeta VT II 1 - seguire
- volontà di Dio 0.
Nel suo oggetto
essenziale, la volontà di Dio coincide con il suo *disegno. «Dio vuole che tutti
gli uomini siano salvi» (1 Tim 2, 4), scrive S. Paolo, ricapitolando gli oracoli
profetici ed il messaggio di Gesù. Tutte le manifestazioni della volontà divina
nel corso della storia sono allora raccolte in un piano complessivo che le
coordina, in un disegno di sapienza; tuttavia ognuna di esse concerne un
avvenimento particolare, ed appunto per accettare il dominio di Dio su questo
l’uomo prega: «Sia fatta la tua volontà!». Così la storia già passata rivela il
disegno di Dio che prima dei secoli aveva *predestinato tutto; così pure, se si
sottomette alla volontà di Dio, l’uomo si rivolge all’avvenire con fiducia,
perché lo sa guidato in anticipo dalla divina* provvidenza. Questa volontà di
Dio assume una forma particolare quando si manifesta nei confronti dell’uomo,
perché questi vi si deve conformare internamente, compierla liberamente. Essa
gli si presenta non come una fatalità, ma come una chiamata, un comando,
un’esigenza; Ia *legge raggruppa l’insieme delle volontà divine chiaramente
espresse. Tuttavia la legge ha un aspetto statico, perché prende forma di
istituzione. Occorre fare uno sforzo per ritrovare dietro di essa quella volontà
personale che, ad ogni istante, rimane un evento, suscita da parte dell’uomo una
risposta, inizia un dialogo. Vista sotto questo aspetto, la volontà di Dio è
vicinissima alla sua *parola, che è sia atto che enunciato. La volontà di Dio è
anzitutto un atto che rivela il suo beneplacito. come tale, essa non si
identifica semplicemente con il disegno di Dio, che la ricapitola in un piano
complessivo, né con la sua legge, che la manifesta in modo pratico. Anziché
presentare qui nei particolari le diverse manifestazioni della volontà divina:
*predestinazione, *elezione, *vocazione, *liberazione, *promesse, *castighi,
*salvezza, conviene far vedere come la volontà di Dio, che si compie in cielo,
deve compiersi anche in terra (Mt 6, 10); volontà di salvezza, per sé efficace,
essa incontra la volontà dell’uomo che non intende soppiantare, ma rendere
perfetta: per giungere a questo, bisogna che Dio trionfi della malvagità
dell’uomo ed ottenga la comunione delle volontà.
VECCHIO TESTAMENTO
Fin dalle origini la volontà del creatore appare agli occhi di *Adamo sotto un
duplice aspetto. Da una parte è una *benedizione generosa accompagnata dalla
sovranità sugli animali e dalla presenza di una compagna ideale; dall’altra
parte è una limitazione apportata alla libertà umana: «Non mangiare...» (Gen 2,
17). Allora si inizia il dramma: invece di riconoscere in questo divieto una
*prova *educatrice destinata a conservare la sua dipendenza entro una reale
libertà, Adamo l’attribuisce ad una volontà gelosa della sua supremazia, e
disobbedisce (3, 5 ss). Quando il dialogo riprende per iniziativa di Dio (3, 9),
la volontà divina è diventata, per il serpente, *maledizione (3, 14), per l’uomo
e la donna, annunzio di *castigo, illuminato da una prospettiva di *vittoria
finale (3, 15-19). Questo è lo sfondo su cui si pone il problema della volontà
di Dio nel VT.
I. DIO RIVELA LA SUA VOLONTÀ
Ormai la volontà di Dio non si manifesta più all’umanità peccatrice in
modo immediato ed universale. È comunicata in particolare ad un popolo eletto,
mediante interventi di Dio nella storia e mediante il dono della legge.
1. Nel corso della storia.
- Israele impara a *conoscere la volontà misericordiosa ed amorevole di
Jahvè anzitutto attraverso le grandi azioni di Dio. Jahvè è deciso a liberare
Israele schiavo in Egitto (Es 3, 8), portandolo su ali di aquila (Es 19, 4),
perché si è compiaciuto di farne il suo proprio popolo (1 Sam 12, 22). Così
pure, dopo la prova dell’esilio, vuole ricostruire Gerusalemme e riedificate il
tempio, sia pure per mezzo di un pagano (Is 44, 28); Israele deve dunque
riconoscere che Dio non vuole la morte ma la *vita (Ez 18, 32), non vuole la
sventura ma la *pace (Ger 29, 11). Una volontà espressa in tal modo è segno di
*amore. Il dono della *legge è parimenti segno di amore, perché essa permette ad
Israele di comprendere che ad ogni istante la *parola, espressione della volontà
di Dio, è «vicinissima a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu la
metta in pratica» (Deut 30, 14). I salmisti hanno cantato l’esperienza di questo
contatto con la volontà divina, fonte di delizie incomparabili (Sam 1, 2). Nella
letteratura postesilica, si farà vedere in Tobia colui che è stato benedetto
dalla «volontà di Dio» (Tob 12, 18); e la preghiera sale, fervida: «Insegnami a
fare le tue volontà» (Sam 143, 10).
2. Nella riflessione ispirata.
- Per meglio adorare questa volontà, di cui sentono la trascendenza,
profeti, sapienti e salmisti ne accentuano di volta in volta l’uno o l’altro
aspetto.
a) Anzitutto indipendenza sovrana. - «Dio decide, chi
lo smuoverà? Ciò che egli ha progettato, lo compie» (Giob 23, 13). La *parola
che egli manda in terra «fa tutto ciò che egli vuole» (Is 55, 11), anche se si
tratta di distruggere (Is 10, 23). Dio agisce secondo la sua volontà, e non
secondo qualche consigliere umano (Is 40, 13). Tali affermazioni, costanti nella
Bibbia, esprimono ad un tempo l’onni*potenza di Dio e la sua piena indipendenza.
Creatore, egli ha ogni potere in cielo ed in terra, e le forze della natura
stanno ai suoi ordini (Sam 135, 6; Giob 37, 12; Eccli 43, 13-17); padrone della
sua *opera, egli dirige financo il movimento del cuore dell’uomo (Prov 21, 1) e
dà i regni a chi gli piace (Dan 4, 14. 22. 29); esalta od abbassa chi vuole (Tob
4, 19). Dinanzi alla sovrana indipendenza di una volontà che talora gli pare
arbitraria (Ez 18, 25), l’uomo potrebbe essere tentato di ribellarsi, come
Adamo. Allora la Scrittura, riprendendo l’immagine tradizionale del vasaio che
dispone a piacere suo della creta, ricorda all’uomo la sua radicale dipendenza
di creatura: «Chi resiste alla volontà di Dio? Chi sei tu dunque, o uomo, per
disputare con Dio?» (Rom 9, 19 ss; cfr. Ger 18, 1-6; Is 29, 16; 45, 9; Eccli 33,
13; Sap 12, 12). La. creatura deve *adorare umilmente la volontà del suo
creatore dovunque essa si manifesti.
b) Sapienza della volontà divina. - L’adorazione del
mistero non si fonda su un’abdicazione dell’intelligenza, ma su una *fede
profonda nella *giustizia di Dio, su una *conoscenza del consiglio, del
*disegno, della *sapienza che presiedono all’esecuzione della sua volontà.
Nessun intelletto umano la può concepire (Sap 9, 13), ma la sapienza ne dà
l’intelligenza a chi la prega (9, 17). Allora si riconosce che «il disegno di
Dio, i pensieri del suo cuore, perdurano d’età in età» (Sam 33, 11), a
differenza di quelli dell’uomo (Prov 19, 21).
c) Infine volontà benevola, espressa dai termini di
benevolenza, di compiacenza, di favore grazioso. «Volere uno», in ebraico come
in altre lingue, significa amarlo. In questo senso Dio «vuole» il suo servo (Is
42, 1), il suo popolo (Sal 44, 4), i giusti (Sal 22, 9). Nei suoi eletti egli
ama, vuole la misericordia, il perdono, la bontà (Os 6, 6; Mi 6, 8; Ger 9, 23;
Is 58, 5 ss).
II. ALLE PRESE CON IL RIFIUTO DELL’UOMO
Ma la volontà d’amore di Dio urta contro la volontà peccatrice dell’uomo: la
storia di Adamo è sempre attuale. Ascoltiamo ad esempio il profeta Amos. Per
Israele infedele, la volontà di benedizione diventa volontà di *castigo (ad es.
Am 1, 3. 6...), è la penale dell’elezione (3, 2); se l’uomo non riconosce ancora
il suo Signore (4, 6-11), si prepari al castigo definitivo (4, 12)! La minaccia
dell’*indurimento pesa allora su di lui. Dio invece non si ostina nella sua
volontà di castigo, è sempre pronto a «convertirsi» dalla sua decisione, a
mutare volontà (Ger 18, 1-12; Ez 18; cfr. Es 32, 14; Giona 3, 9 s); egli
annuncia che almeno un *resto sopravvivrà (Is 6, 13; 10, 21). Si compiace nel
vedere «il peccatore abbandonare la sua condotta e vivere» (Ez 18, 23). Questa
volontà sarebbe soltanto un’intenzione senza efficacia, se Dio stesso non
prendesse in mano la causa del peccatore. Egli solleciterà quindi dall’interno
la volontà della sua sposa infedele (Os 2, 16), farà sì che Israele cammini
secondo le sue volontà dandogli un *cuore nuovo (Ez 36, 26 s; cfr. Ger 31, 33).
A tal fine suscita un *servo, di cui ogni mattino apre l’orecchio (Is 50, 5),
per farlo capace di *obbedire alla sua volontà (Sal 40, 8 s); perciò, grazie al
servo, «quel che piace a Jahvè si compirà» (Is 53, 10). Del resto, ciò non sarà
a prezzo di altra costrizione che quella dell’amore: il diletto non sveglia la
sposa prima che essa lo voglia (Cant 2, 7; 3, 5; 8, 4). Ma quand’essa avrà
voluto ritornare allo sposo (Os 2, 17 s), meriterà di essere chiamata da Dio
stesso: «Mio compiacimento in essa» (Is 62, 4).
NUOVO TESTAMENTO
Già all’alba del NT Maria, ancella del Signore ripiena di grazia, accoglie la
volontà divina con umile sottomissione (Lc 1, 28. 38). Quanto a Gesù, il giusto
per eccellenza, egli viene nel mondo «per fare la tua volontà, o Dio» (Ebr 10,
7. 9); più ancora di David, egli è «l’uomo secondo il cuore di Dio che compirà
tutte le sue volontà» (Atti 13, 22).
I. CRISTO E LA VOLONTÀ DI DIO
1. Gesù rivela le preferenze del Padre suo.
- Contro gli spiriti gretti dei *Farisei che vorrebbero restringere il cuore di
Dio, Gesù proclama l’assoluta libertà di Dio nei suoi doni. Questa libertà di
amore è espressa nella parabola del padrone della vigna: «Voglio dare a
quest’ultimo quanto a te. Non mi è forse permesso fare ciò che voglio di quel
che mi appartiene? Oppure bisogna che tu sia invidioso perché io sono buono?»
(Mt 20, 14 s). Così, nel suo beneplacito, Dio ha riservato ai piccolissimi la
rivelazione messianica (11, 25) ed ha accordato al piccolo gregge il dono del
regno (Lc 12, 32). Ma vi entreranno soltanto coloro che fanno la volontà del
Padre suo (Mt 7, 21), perché essi soli costituiscono la sua famiglia (12, 50).
2. Gesù compie la volontà del Padre suo.
- Nel quarto vangelo Gesù non parla della volontà del Padre suo (come
in Mt), ma della volontà «di colui che mi ha mandato» . Questa volontà di Dio
costituisce una *missione. Gesù ne fa il suo cibo (Gv 4, 34); questa sola
ricerca (5, 30), perché egli fa tutto ciò che piace a colui che lo ha mandato
(8, 29). Ora questa volontà è che egli dia a tutti coloro che vengono a lui la
risurrezione e la vita eterna (6, 38 ss). Se questa volontà si presenta a lui
sotto la forma di un «comando» (10, 18), egli vi vede anzitutto il segno che «il
Padre lo ama» (10, 17). L’*obbedienza del Figlio è comunione di volontà con il
Padre (15, 10). Questa adesione perfetta di Gesù alla volontà divina non
sopprime, ma rende comprensibile l’accordo doloroso che, secondo i sinottici, si
manifesta nel corso della passione. Nel Getsemani, Gesù percepisce
successivamente nella loro apparente contraddizione «ciò che io voglio» è «ciò
che tu vuoi» (Mc 14, 36); ma supera il conflitto pregando istantemente il Padre
suo: «Non sia fatta la mia volontà, ma la tua!» (Lc 22, 42). Da quel momento,
nell’apparente abbandono del Padre, egli continuerà a sentirsi «amato» (Mt 27,
43 = Sal 22, 9). Durante la sua vita terrena Gesù non è riuscito a fare ciò che
avrebbe voluto fare: radunare i figli di Gerusalemme (23, 37), ma con la sua
volontà di sacrificio ha acceso il *fuoco sulla terra (Lc 12, 49).
II. «SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ!»
Dopo che in Gesù la volontà di Dio si è realizzata sulla terra come in cielo, il
cristiano può essere sicuro di essere esaudito nella sua orazione domenicale (Mt
6, 10). Deve quindi, da discepolo autentico, riconoscere e praticare questa
volontà.
1. Discernere la volontà di Dio.
- Il discernimento e la pratica della volontà divina si condizionano a
vicenda: bisogna compiere la volontà di Dio per apprezzare la dottrina di Gesù (Gv
7, 17), ma d’altra parte bisogna riconoscere in Gesù e nei suoi comandamenti i
comandamenti stessi di Dio (14, 23 s). Ciò rientra nel mistero dell’incontro
delle due volontà, quella dell’uomo peccatore e quella di Dio: per andare a
Gesù, bisogna essere «attratti» dal Padre (6, 44), attrazione che, secondo la
parola greca, è ad un tempo costrizione e dilettazione (giustificando
l’espressione di S. Agostino: «Dio che mi è più intimo di me stesso»). Per
discernere la volontà di Dio non basta conoscere la lettera della legge (Rom 2,
18), ma occorre aderire ad una persona, e ciò può avvenire solo per mezzo dello
Spirito Santo che Gesù dona (Gv 14, 26). Allora il giudizio rinnovato permette
di «discernere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli piace, ciò
che è perfetto» (Rom 12, 2). Questo discernimento non riguarda soltanto la vita
quotidiana; perviene alla «piena conoscenza della sua volontà, sapienza ed
intelligenza spirituale» (Col 1, 9): questa è la condizione di una vita che
piaccia al Signore (1, 10; cfr. Ef 5, 17). Anche la preghiera non può più essere
che una preghiera «secondo la sua volontà» (1 Gv 5, 14), e la formula classica
«se Dio lo vuole» assume una risonanza totalmente diversa (Atti 18, 21; 1 Cor 4,
19; Giac 4, 15), perché suppone un riferimento costante al «mistero della
volontà di Dio» (Ef 1, 3-14).
2. Praticare la volontà di Dio.
- A che pro conoscere ciò che il padrone vuole, se non lo si mette in
pratica (Lc 12, 47; Mt 7, 21; 21, 31)? Questa «pratica» costituisce propriamente
la vita cristiana (Ebr 13, 21), in opposizione alla vita secondo le passioni
umane (1 Piet 4, 2; Ef 6, 6). Più precisamente, la volontà di Dio a nostro
riguardo è santità 1 Tess 4, 3), ringraziamento (5, 18); pazienza (1 Piet 3, 17)
e buona condotta (2, 15). Questa pratica è passibile, perché «è Dio che suscita
in noi e il volere e l’operare per l’esecuzione del suo beneplacito» (Fil 2,
13). Allora c’è comunione delle volontà, accordo della grazia e della libertà.
E. JACQUEMIN e X. LÉON-DUFOUR
→ autorità - VT I - bene e male I 3.4 - coscienza 2 c - Dio - disegno di Dio -
elezione - indurimento 1 2 a - legge - liberazione-libertà - obbedienza - opere
VT II 1 - predestinare - promesse II 2 - via I - vocazione.
VOLTO (inizio)
→ faccia.