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La radice semitica da cui proviene herem, anatema, significa «mettere a parte»,
«interdire all’uso profano». Le sue applicazioni bibliche designano
essenzialmente una consacrazione a Dio.
VECCHIO TESTAMENTO
Nei testi più antichi, l’usanza dell’anatema, che Israele condivide con
i suoi vicini, come Moab, non è il semplice massacro del nemico vinto, ma una
delle regole religiose della *guerra *santa. Al fine di ottenere la vittoria,
Israele, che conduce le guerre di Jahvè, vota il bottino all’anatema, cioè
rinuncia ad appropriarsene i profitti e si impegna per voto a consacrarlo a
Jahvè (Num 21, 2 s; Gios 6). Questa consacrazione implica la totale distruzione
del bottino, esseri viventi e oggetti materiali; la sua mancata esecuzione viene
castigata (1 Sam 15), così come la sua sacrilega violazione, che provoca la
sconfitta (Gios 7). Nella realtà, la sua applicazione sembra essere stata
piuttosto rara; la maggior parte delle città cananee sono state occupate da
Israele (Gios 24, 13; Giud 1, 27-35), come Gezer (Gios 16, 10; 1 Re 9, 16) o
Gerusalemme (Giud 1, 21; 2 Sam 5, 6 s). Alcune hanno persino concluso delle
alleanze, come Gabaon (Gios 9) e Sichem (Gen 34). Gli storici deuteronomici
sapevano che al momento della conquista l’anatema non era stato applicato (Giud
3, 1-6; 1 Re 9, 21). Ne hanno tuttavia formulato la legge generale per reagire
contro la seduzione esercitata dalla religione cananea su Israele e per
riaffermare la santità del popolo eletto (Deut 7, 1-6). Di qui una presentazione
rigidamente sistematica della storia della conquista: si è trasferita nel
passato una reazione religiosa la cui posta in gioco era la sovranità esclusiva
di Jahvè sulla *terra santa e i suoi abitanti. L’evoluzione del termine herem
sembra aver comportato la dissociazione dei suoi due elementi: da una parte la
distruzione e il castigo che colpiscono soprattutto l’infedeltà verso Jahvè (Deut
13, 13- 18; Ger 25, 9); dall’altra, nella letteratura sacerdotale, la
consacrazione a Dio di un essere umano o di un oggetto, senza possibilità di
riscatto (Lev 27, 28 s; Num 18, 14).
NUOVO TESTAMENTO
Nel NT non si tratta più di intraprendere una guerra santa, né di
votare dei *nemici all’anatema. Ma la parola sussiste per significare la
*maledizione (e, in Lc 21, 5, per le offerte votive nel tempio di Gerusalemme).
In bocca ai Giudei, nelle formule di *giuramento (Mc 14, 71 par.; Atti 23, 12)
designa la maledizione che si rivolge a se stessi nel caso si fosse spergiuri.
In Paolo, è una formula di maledizione che esprime il giudizio di Dio sugli
infedeli (Gal 1, 8 s; 1Cor 16, 22). È impossibile che un cristiano la pronunci
contro Gesù (1 Cor 12, 3). Quando l'apostolo afferma che desidererebbe ricadesse
su di lui l’anatema se, con questo mezzo, i suoi fratelli secondo la carne
potessero ottenere la salvezza, precisa che per lui questo significherebbe
essere separato da Cristo (Rom 9, 3). Questa formula paradossale definisce così
la maledizione per eccellenza.
P. SANDEVOIR
→ apostoli II 1 VT II – maledizione – puro VT I 1 – santo VT III
2.
Il nome degli angeli (ebr. mal’ak, gr. ànghelos), non è un nome di natura ma di
funzione: significa «messaggero». Gli angeli sono «spiriti destinati a servire,
inviati in missione per il bene di coloro che devono ereditare la salvezza» (Ebr
1, 14). Sfuggendo alla nostra percezione ordinaria, essi costituiscono un mondo
misterioso. La loro esistenza non costituisce mai un problema nella Bibbia; ma
fuori di questo punto la dottrina che li concerne presenta un indubbio sviluppo,
ed il modo in cui se ne parla e con cui vengono rappresentati suppone un ricorso
costante alle risorse del simbolismo religioso.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Gli angeli di Jahvè e l’Angelo di Jahvè.
- Riprendendo un elemento corrente nelle mitologie orientali, ma
adattandolo alla rivelazione del Dio unico, il VT rappresenta sovente Dio come
un sovrano orientale (1 Re 22, 19; Is 6, 1 ss). I membri della sua corte sono
pure i suoi *servi (Giob 4, 18); sono anche chiamati i *santi (Giob 5, 1; 15,
15; Sal 89, 6; Dan 4, 10) oppure i *figli di Dio (Sal 29, 1; 89, 7; Deut 32, 8).
Tra essi, i Cherubini (il cui nome è di origine mesopotamica) sostengono il suo
trono (Sal 80, 2; 99, 1), tirano il suo carro (Ez 10, 1 s), gli servono da
cavalcatura (Sal 18, 11) oppure custodiscono l’ingresso del suo dominio per
interdirlo ai profani (Gen 3, 24); i serafini (gli «ardenti») cantano la sua
gloria (Is 6, 2 s), ed uno di essi purifica le labbra di Isaia durante la sua
visione inaugurale (Is 6, 7). Si ritrovano i cherubini nella iconografia del
tempio, dove riparano l’arca con le loro ali (1 Re 6, 23-29; Es 25, 18 s). Tutto
un esercito celeste (1 Re 22, 19; Sal 148, 2; Neem 9, 6) fa così risaltare la
*gloria di Dio, ed è a sua disposizione per governare il mondo ed eseguire i
suoi ordini (Sal 103, 20); stabilisce un legame tra il cielo e la terra (Gen 28,
12). Tuttavia, a fianco di questi messaggeri enigmatici, gli antichi racconti
biblici conoscono pure un Angelo di Jahvè (Gen 16, 7; 22, 11; Es 3, 2; Giud 2,
1), che non è diverso da *Jahvè stesso, manifestato quaggiù in una forma
visibile (Gen 16, 13; Es 3, 2): abitando in una luce inaccessibile (1 Tim 6,
16), *Dio non può lasciar vedere la sua *faccia (Es 33, 20); gli uomini non ne
scorgono mai se non un misterioso riflesso. L’Angelo di Jahvè dei testi antichi
serve quindi ad esprimere una teologia ancora arcaica che, con l’appellativo
«Angelo del Signore» lascia tracce fin nel NT (Mt 1, 20. 24; 2, 13. 19; Lc 1,
11; 2, 9), e persino nella patristica. Tuttavia, a misura che la rivelazione
progredisce, la sua funzione è sempre più devoluta agli angeli, messaggeri
ordinari di Dio.
2. Sviluppo della dottrina degli angeli.
- In origine, agli angeli si attribuivano indistintamente compiti buoni o
cattivi (cfr. Giob 1, 12). Dio manda il suo buon angelo per vegliare su Israele
(Es 23, 20); ma per una *missione funesta, manda messaggeri di male (Sal 78,
49), come lo sterminatore (Es 12, 23; cfr. 2 Sam 24, 16 s; 2 Re 19, 35). Anche
il *Satana del libro di Giobbe fa ancora parte della corte divina (Giob 1, 6-12;
2, 1-10). Tuttavia, dopo l’esilio, i compiti angelici si specializzano
maggiormente e gli angeli acquistano una qualificazione morale in rapporto alla
loro funzione: angeli buoni da una parte, Satana e i *demoni dall’altra; tra gli
uni e gli altri c’è una costante opposizione (Zac 3, 1 s). Questa concezione di
un mondo spirituale diviso tradisce l’influenza indiretta della Mesopotamia e
della Persia: per meglio far fronte al sincretismo iranico-babilonese, il
pensiero giudaico sviluppa la sua dottrina anteriore; senza transigere sul suo
monoteismo rigoroso, si serve talvolta di un simbolismo preso a prestito e
sistematizza la sua rappresentazione del mondo angelico. Così il libro di Tobia
cita i sette angeli che stanno dinanzi a Dio (Tob 12, 15; cfr. Apoc 8, 2), che
hanno il loro riscontro nella angelologia della Persia. Ma la funzione
attribuita agli angeli non è mutata. Essi vegliano sugli uomini (Tob 3, 17; Sal
91, 11; Dan 3, 49 s) e presentano a Dio le loro preghiere (Tob 12, 12);
presiedono ai destini delle nazioni (Dan 10, 13-21). A partire da Ezechiele,
spiegano ai profeti il senso delle loro visioni (Ez 40, 3 s; Zac 1, 8 s); questo
diventa infine un elemento letterario caratteristico delle apocalissi (Dan 8,
15-19; 9, 21 ss). Ricevono *nomi in rapporto alle loro funzioni: Raffaele, «Dio
guarisce» (Tob 3, 17; 12, 15), Gabriele, «eroe di Dio» (Dan 8, 16; 9, 21),
Michele, «chi è come Dio?». A quest’ultimo, capo di tutti, è affidata la
comunità giudaica (Dan 10, 13. 21; 12, 1). Questi dati sono ancora amplificati
nella letteratura apocrifa (libro di Enoch) e rabbinica, che tenta di
organizzarli in sistemi più o meno coerenti. In tal modo la dottrina del VT
sull’esistenza dei mondo angelico e sulla sua presenza nel mondo degli uomini,
si afferma con costanza. Ma le rappresentazioni e le classificazioni di cui essa
si serve hanno necessariamente un carattere simbolico che ne rende molto
delicata la estimazione.
NUOVO TESTAMENTO
Il NT ricorre allo stesso linguaggio convenzionale, che attinge sia ai
libri sacri, sia alla tradizione giudaica contemporanea. Così enumera gli
arcangeli (1 Tess 4, 16; Giuda 9), i cherubini (Ebr 9, 5), i troni, le
dominazioni, i principati, le potestà (Col 1, 16), a cui altrove si aggiungono
le virtù (Ef 1, 21). Questa gerarchia, i cui gradi variano nella espressione,
non ha il carattere di una dottrina fissa, ma di un elemento secondario dai
contorni piuttosto fluttuanti. Ma, come nel VT, l’essenziale del pensiero è
altrove, e si riordina qui attorno alla rivelazione di Gesù Cristo.
1. Gli angeli e Cristo.
- Il mondo angelico trova posto nel pensiero di Gesù. Gli evangelisti
parlano talvolta dei suoi rapporti intimi con gli angeli (Mt 4, 11; Lc 22, 43);
Gesù menziona gli angeli come esseri reali ed attivi. Pur vegliando sugli
uomini, essi vedono la faccia del Padre (Mt 18, 10). La loro vita sfugge alle
esigenze cui è soggetta la condizione terrestre (cfr. Mt 22, 30 par.). Benché
ignorino la data del giudizio finale, che è un segreto del Padre solo (Mt 24, 36
par.), ne saranno gli esecutori (Mt 13, 39. 49; 24, 31). Fin d’ora essi
partecipano alla gioia di Dio quando i peccatori si convertono (Lc 15, 10).
Tutti questi elementi sono conformi alla dottrina tradizionale. Gesù inoltre
precisa la loro situazione in rapporto al *figlio dell’uomo, la figura
misteriosa che lo definisce, specialmente nella sua *gloria futura: gli angeli
lo accompagneranno nel giorno della sua parusia (Mt 25, 31); saliranno e
discenderanno su di lui (Gv 1, 51), come un tempo sulla scala di Giacobbe (Gen
28, 10...); egli li manderà per radunare gli eletti (Mt 24, 31 par.) e scartare
i dannati dal regno (Mt 13, 41 s). Fin dal tempo della passione Gesù avrebbe
potuto richiedere l’intervento degli angeli che sono al suo servizio (Mt 26,
53). Il pensiero cristiano primitivo non farà dunque altro che prolungare le
parole di Gesù quando affermerà che gli angeli gli sono inferiori. Abbassato al
di sotto di essi per la sua incarnazione (Ebr. 2, 7), egli non di meno meritava
la loro adorazione nella sua qualità di *Figlio di Dio (Ebr 1, 6 s; cfr. Sal 97,
7). Dopo la risurrezione è chiaro che Dio glieli ha sottomessi (Ef 1, 20 s),
essendo stati creati in lui, da lui e per lui (Col 1, 16). Essi riconoscono
attualmente la sua sovranità (cfr. *Signore; Apoc 5, 11 s; 7, 11 s), e
formeranno la sua scorta nell’ultimo *giorno (2 Tess 1, 7; Apoc 14, 14-16; cfr.
1 Tess 4, 16). Così il mondo angelico si subordina a Cristo, di cui ha
contemplato il mistero (1 Tim 3, 16; cfr. 1 Piet. 1, 12).
2. Gli angeli e gli uomini.
- In questa prospettiva gli angeli continuano a svolgere presso gli uomini i
compiti che già il VT attribuiva loro. Quando una comunicazione soprannaturale
perviene dal cielo alla terra, essi ne rimangono i misteriosi messaggeri:
Gabriele trasmette la duplice annunciazione (Lc 1, 19. 26); un esercito celeste
interviene nella notte della natività (Lc 2, 9-14); angeli ancora annunciano la
risurrezione (Mt 28, 5 ss par.) e fanno conoscere agli apostoli il senso della
ascensione (Atti 1, 10 s). Ausiliari di Cristo nell’opera della salvezza (Ebr 1,
14), essi assicurano la custodia degli uomini (Mt 18, 10; Atti 12, 15),
presentano a Dio le preghiere dei santi (Apoc 5, 8; 8, 3), conducono l’anima dei
giusti in paradiso (Lc 16, 22). Per proteggere la Chiesa, essi continuano
attorno a Michele, loro capo, la lotta contro Satana, che dura fin dalle origini
(Apoc 12, 1-9). Un legame intimo collega così il mondo terrestre al mondo
celeste; lassù gli angeli celebrano una liturgia perpetua (Apoc 4, 8-11), alla
quale quaggiù si unisce la liturgia della Chiesa (cfr. Gloria, Prefazio, Santo).
Presenze soprannaturali ci attorniano, che il veggente dell’Apocalisse
concretizza nel linguaggio convenzionale consacrato dall’uso. Ciò esige da parte
nostra una riverenza (cfr. Gios 5, 13 ss; Dan 10, 9; Tob 12, 16) che non è da
confondere con l’adorazione (Apoc 22, 8 s). Quindi è necessario proscrivere un
culto esagerato degli angeli che pregiudicherebbe quello di Gesù Cristo (Col 2,
18). Al di là di queste esplicite affermazioni della Bibbia, il critico può
chiedersi quale significato abbiano delle rappresentazioni che sono ampiamente
desunte dal mondo pagano circostante e che traducono elementi periferici del
messaggio biblico. Il problema non è facilmente risolvibile. Un punto è certo.
Qualunque siano la natura e la struttura dell’universo spirituale che circonda
Dio e mette in esecuzione i suoi disegni, esso è incorporato nel piano divino
della creazione e della redenzione per sottomissione a Cristo, signore del mondo
e salvatore. In questo modo entra nel campo della fede cristiana.
M. GALOPIN e P. GRELOT
→ apparizioni di Cristo 1 - astri 2.4 - cielo IV - demoni VT 1.3 - figlio di Dio
VT 0 - mediatore I 3, II 3 - Satana I 1.
A differenza della paura, provocata da esseri di questo mondo, a differenza
della *preoccupazione, che denota una cura particolare o un impegno eccessivo a
proposito di un lavoro ben preciso o di una missione attuale, l’angoscia traduce
una inquietudine che scaturisce dalle profondità dell’io, un’incertezza di
fronte alla morte o all’avvenire in genere. Nella Bibbia, per lo meno nella sua
traduzione greca, questo sentimento compare nel corso dei racconti che
comportano l’uno o l’altro dei seguenti termini. Gli assediati sono nell’agonìa
sull’esito del combattimento (2 Mac 3, 14 ss; cfr. 15, 19; Lc 22, 44). Il cuore
viene a mancare in un vicolo cieco, di fronte alla mancanza di una via d’uscita
(aporèo, aporìa: Os 13, 8; 2 Mac 8, 20; Sap 11, 5; Lc 21, 25). Il termine
synèchomai comporta l’idea di blocco, di sequestro (1 Sam 23, 8: 2 Sam 20, 3):
si è afferrati, stretti, soffocati, dominati dal timore (Lc 8, 37) o dalla
malattia (Mt 4, 24; Lc 4, 38); si è inoltre oppressi, immersi nell’angoscia (stenochorìa:
Deut 28, 53; 2 Cor 4, 8; 6, 4. 12 ...).
1. L’*alleanza di Jahvè con il suo popolo assicura la presenza
del Signore delle promesse; ma questa dipende dalla fedeltà dell’uomo
nell’osservare la *legge, sicché una tale sicurezza è incessantemente minacciata
dal pericolo di sbriciolarsi di fronte alla realtà. Giacobbe, giunto al guado di
Jabboq si trova in un vicolo chiuso (epòreito: Gen 32, 8). Ha tuttavia dietro di
sé le reiterate alleanze di Jahvè con suo padre (22, 16 ss) e con lui stesso
(28, 14). Ora, di fronte al fratello Esaù, sta per affrontare una situazione che
lo angoscia. Lotta con 1’angelo del Signore e, atterrato, ne ottiene la certezza
che Dio è con lui (32, 23-33). Elia, sdraiato sotto un ricino, è disperato:
preferisce morire (1 Re 19, 3 s). Constatando (a torto) l’apostasia generale del
popolo, non ha forse ragione di giudicare la propria vita un fallimento? Ma,
come più tardi Gesù al Getsemani, è confortato dall’angelo del Signore e può
continuare la sua strada, fino all’incontro con Jahvè che lo riporterà sulla
retta via (19, 5-18). L’intero popolo è immerso nelle tenebre: non è forse
nell’angoscia (stenochorìa: Is 8, 22 s; aporìa: 5, 30; 24, 19)? Geremia, dal
canto suo è accasciato, gli vien meno il cuore di fronte alla carestia che
affligge il popolo (aporìa: Ger 8, 18-21): si tratta in questo caso di colui che
deve mantenere l’alleanza. Ma quando si tratta solo di lui, la reazione è
diversa: se, davanti alla persecuzione, arriva a maledire il giorno in cui è
nato (15, 10; 20, 14), trova uno sfogo nel ricorso a colui che può vendicarlo e
proteggerlo (11, 20; 20, 12). Con Giobbe (secondo il solo testo greco:
synèchomai), passa attraverso l’ossessione della salvezza individuale. «Colto da
timore», piange (Giob 3, 24); «se ho paura di una cosa, questa mi capita, e ciò
che io temo sopravviene» (3, 25); parla, trascinato dall’amarezza del suo animo
(10, 1; cfr. 7, 11). «Il timore del Signore [l’] ha preso» (31, 23). Infine,
senza gli stessi termini, il giusto grida la sua angoscia a Dio che può salvarlo
da una situazione impossibile (thlìpsis) (Sal 22; 31; 35; 38; 57; 69; 88;
102...). In tutti questi casi, l’individuo occupa un posto centrale, perché è
braccato dalla morte; un’ambiguità plana sulla sua angoscia, perché la causa di
Dio è mescolata alla sua. Anche *Mosè fa appello in un primo tempo alla morte (Num
11, 11-15 [E]); ma, in seguito, se è angosciato, lo è esclusivamente a causa del
popolo che cede all’apostasia. Domandando a Dio di radiarlo dal *libro della
vita insieme al popolo, è solidale con i fratelli peccatori pur mantenendosi
certo dell’amore vittorioso di Dio (Es 32, 31 s).
2. Se un’angoscia del genere può essere avvertita dal cuore di
ogni uomo, il suo motivo varia con la venuta di Gesù. Questi ha preso su di sé
non soltanto i tremori di fronte alla morte, ma la terribile coscienza
dell’ambiguità, dell’incertezza. Nell’orto degli Olivi, è stato colto da pena,
da angoscia e spavento (Mc 14, 33 ss), ricapitolando nella sua persona
l’angoscia dei giusti di tutti i tempi (Sal 42, 6. 12; 43, 5...), prorompendo in
gemiti e versando lacrime, pregando colui che poteva salvarlo dalla morte (Ebr
5, 7) e facendo infine lentamente coincidere la propria volontà con quella del
Padre (Mc 14, 36). L’angelo è venuto, anche questa volta, a fortificare colui
che lotta fino a sudare sangue e che «si erge» in seguito, vittorioso, pronto ad
affrontare il proprio destino (Lc 22, 41-45). Scendendo nel profondo
dell’angoscia umana, Gesù diventa, «per tutti quelli che gli obbediscono,
principio di salvezza eterna» (Ebr. 5, 9); crea un tempo nuovo, irreversibile.
L’atto al quale il credente fa riferimento per accertare la qualità del presente
che sta vivendo ha certamente avuto luogo nel passato (7, 27), ma egli emerge al
di sopra del tempo e domina le fluttuazioni della storia (Apoc 1, 5). In Gesù,
l’angoscia non viene soppressa, ma inquadrata, perché la speranza ormai è
certezza, e la morte feconda.
3. Nel cuore del credente, l’angoscia può venir sperimentata a
due gradi di profondità e di ampiezza. Ecco Paolo di fronte alla propria morte:
«Disperando di conservare la vita, (egli) impara così a non ripone la fiducia in
(se stesso), ma in Dio che risuscita i morti» (2 Cor 1, 9; 5, 4). Sa infatti che
«nulla può separar(lo) dall’amore di Cristo, neppure la tribolazione né
l’angoscia» (Rom 8, 35-39). Questa è assorbita dalla radicale certezza che, in
Cristo, la morte è vinta (1 Cor 15, 54 s). Anche la *morte assume un
significato, un valore redentore, quando è unità all’agonia di Gesù: «La morte
compie la sua opera in noi, la vita in voi» (2 Cor 4, 12). Ma l’angoscia può
rinascere a un livello più profondo. Allora non riguarda semplicemente la morte
di un uomo, né la sua salvezza personale, che egli sa acquisita dalla speranza
(Rom 5, 1- 5; 8, 24). Sorge di fronte alla libertà degli altri, di fronte alla
salvezza degli altri. Questo è il grido di Paolo, quando desidera, come Mosè,
che su di lui ricada l’*anatema per i suoi fratelli secondo la carne (Rom 9, 3);
vuol soffrire, compatire (synpàschein) con Cristo (8, 17): il mondo infatti sta
gemendo fino alla fine (8, 18-23); allora la *speranza manifesta un’altra delle
sue dimensioni: non è soltanto certezza, ma anche attesa, costanza, grazie allo
Spirito (8, 24 ss). Ecco dunque l’apostolo, che l’amore di Cristo incalza (synècho),
proprio come Gesù era stato dominato (synèchomai) dalla prospettiva del proprio
sacrificio (Lc 12, 50); eccolo in balia delle strettezze e delle angosce (stenochorìa:
2 Cor 6, 4), senza tuttavia esserne schiacciato né privo di scampo (aporìa: 4,
8). L’agonia di Cristo dura fino alla fine del mondo. Se dunque il cristiano può
superare nella fede l’angoscia che lo attanaglia a proposito della morte e della
salvezza, può nello stesso tempo vivere un’angoscia indescrivibile comunicando
con la totalità dei membri del corpo di Cristo. Certezza e incertezza nel cuore
del credente non si collocano sullo stesso piano e non riguardano lo stesso
oggetto.
X. LÉON-DUFOUR
→ Gesù Cristo 1.3 - morte NT III 4 - preoccupazioni 2 - sofferenza - timore di
Dio 1; III.
Lungi dall’essere una «parte» che, assieme al *corpo, costituisce l’essere
umano, l’anima designa l’uomo tutto intero, in quanto animato da uno *spirito di
vita. Propriamente parlando essa non abita in un corpo, ma si esprime per mezzo
del corpo, che anch’esso, come la *carne, designa l’uomo tutto intero. Se, in
virtù della sua relazione con lo spirito, l’anima indica nell’uomo la sua
origine spirituale, questa «spiritualità» è profondamente radicata nel mondo
concreto, come lo dimostra l’estensione del termine utilizzato.
I. L’ANIMA E LA PERSONA VIVENTE
Nelle lingue bibliche, i termini che designano l’anima, nefeš (ebr.),
psýche (gr.), anima (lat.), si ricollegano più o meno direttamente all’immagine
del soffio.
1. L’uomo vivente.
- Di fatto il soffio, la respirazione, è per eccellenza il segno del vivente.
Essere vivo significa avere ancora in sé il soffio (2 Sam 1, 9; Atti 20, 10);
quando l’uomo muore, l’anima esce (Gen 35, 18), è esalata (Ger 15, 9) o versata
come un liquido (Is 53, 12); se risuscita, l’anima ritorna in lui (1 Re 17, 21).
In tal modo potrebbero esprimersi Greci o Semiti; ma, sotto questa identità di
espressione, si nasconde una diversità di prospettiva. Secondo una concezione
abbastanza frequente (nettamente affermata da certa filosofia greca), l’anima
tende a diventare un principio sussistente che esiste indipendentemente dal
corpo in cui si trova e dal quale esce: concezione «spiritualista» che si fonda
senza dubbio sul carattere quasi immateriale del soffio, in opposizione al corpo
materiale. Per i Semiti, invece, il soffio rimane inseparabile dal corpo che
anima; indica semplicemente il modo in cui la vita concreta si manifesta
nell’uomo, anzitutto per mezzo di ciò che si muove, anche quando egli dorme,
apparentemente immobile. Non è forse questa una delle ragioni profonde che hanno
portato ad identificare anima e *sangue (Sal 72, 14)? L’anima è nel sangue (Lev
17, 10 s), è il sangue stesso (Lev 17, 14; Deut 12, 23), è l’uomo vivente.
2. La vita.
- Dal senso di «vivente» il termine passa facilmente a quello di *vita, come
dimostra l’uso parallelo dei due termini: «Non abbandonare alla bestia l’anima
della tua tortorella, non dimenticare la vita dei tuoi miseri» (Sal 74, 19);
altrove, nella legge del taglione, «anima per anima» si può tradurre «vita per
vita» (Es 21, 23). Così «vita» e «anima» sono sovente assimilate, quantunque non
si tratti della sola vita «spirituale» in opposizione alla vita «corporale». Ma
d’altra parte questa vita, per lungo tempo limitata ad un orizzonte terrestre,
alla fine si rivela aperta ad una vita celeste, eterna. Bisogna quindi
interrogare volta per volta il contesto per conoscere il senso esatto della
parola. In taluni casi l’anima è considerata come il principio della vita
temporale. Si teme di perderla (Gios 9, 24; Atti 27, 22), si vorrebbe
preservarla dalla morte (1 Sam 19, 11; Sal 6, 5), metterla al sicuro (Lc 21, 19)
quando la si sente minacciata (Rom 11, 3 = 1 Re 19, 10; Mt 2, 20 = Es 4, 19; Sal
35, 4; 38, 13). Viceversa, non bisogna preoccuparsene eccessivamente (Mt 6, 25
par.), ma metterla a repentaglio (Fil 2, 30), donarla per le proprie pecorelle
(1 Tess 2, 8). Gesù la dona (Mt 20, 28 par.; Gv 10, 11. 15. 17) e sul suo
*esempio noi dobbiamo sacrificarla (Gv 13, 37 s; 15, 13; 1 Gv 3, 16). Se un
simile sacrificio della vita può essere fatto, non è semplicemente perché si sa
che Jahvè la può riscattare (Sal 34, 23; 72, 14), ma perché Gesù ha rivelato,
attraverso alla stessa parola, il dono della vita eterna. Così egli gioca sui
diversi sensi della parola: «Chi vuol salvare la sua anima, la perderà, ma chi
perde la sua anima per causa mia, la troverà» (Mt 16, 25 s par.; cfr. Mt 10, 39;
Lc 14, 26; 17, 33; Gv 12, 25). In queste condizioni la «salvezza dell’anima» è
in definitiva la vittoria della vita eterna seminata nell’anima (Giac 1, 21; 5,
20; 1 Piet 1, 9; Ebr 10, 39). 3. La persona umana. - Se la vita è il bene più
prezioso dell’uomo (1 Sam 26, 24), salvare la propria anima significa salvare se
stesso: l’anima finisce per designare la persona. Oggettivamente in primo luogo
si chiama «anima» ogni essere vivente, anche l’animale (Gen 1, 20 s. 24; 2, 19);
ma per lo più si tratta degli uomini; così si parla di «un paese di settanta
anime» (Gen 46, 27 = Atti 7, 14; cfr Deut. 10, 22; Atti 2, 41; 27, 37). Un’anima
è un uomo, è qualcuno (Lev 5, 1...; 24, 17; Mc 3, 4; Atti 2, 43; 1 Piet 3, 20;
Apoc 8, 9), ad es. in opposizione ad un carico (Atti 27, 10). All’ultimo grado
di oggettivazione un cadavere può anche essere designato, in ricordo di quel che
fu, come una «anima morta» (Num 6, 6). Soggettivamente l’anima corrisponde al
nostro io, precisamente come il *cuore o la *carne, ma con una sfumatura di
interiorità e di potenza vitale: «Com’è vero che la mia anima vive!» (Am 6, 8;
Ger 51, 14; 2 Cor 1, 23) significa l’impegno profondo di colui che presenta
*giuramento. Gionata amava David «come la propria anima» (1 Sam 18, 1.
3). Infine questo io si esprime in attività che non sono tutte
«spirituali».
Così il ricco: «Dirò alla mia anima: anima mia, riposati, mangia, bevi,
rallegrati! E Dio gli disse: Insensato, questa notte stessa ti sarà domandata la
tua anima (= la tua vita)» (Lc 12, 19 s). La menzione dell’anima sottolinea il
gusto e la volontà di vivere, ricordando un po’ il carattere imperioso che
prende la sete in una gola ardente (Sal 63, 2). L’anima avida, affamata, può
essere saziata (Sal 107, 9; Ger 31, 14). I suoi sentimenti vanno dal piacere (Sal
86, 4) al turbamento (Gv 12, 27) ed alla tristezza (Mt 26, 38 = Sal 42, 6), dal
sollievo (Fil 2, 19) alla stanchezza (Ebr 12, 3). Essa vuole fortificarsi per
poter trasmettere la benedizione paterna (Gen 27, 4) o sopportare la
persecuzione (Atti 14, 22). È fatta per amare (Gen 34, 3) od odiare (Sal 11, 5),
per compiacersi di qualcuno (Mt 12, 18 = Is 42, 2; Ebr 10, 38 = Ab 2, 4), per
cercare Dio senza riserva (Mt 22, 37 par. = Deut 6, 5; Ef 6, 6; Col 3, 23) e
benedire per sempre il Signore (Sal 103, 1). Con una simile pienezza di senso
talune formule possono ritrovare il loro vigore originale: le anime devono
essere santificate (1 Piet 1, 22). Per esse Paolo si spende (2 Cor 12, 15), su
di esse vegliano i capi spirituali (Ebr 13, 17), Gesù promette loro il riposo
(Mt 11, 29). Queste anime sono esseri di carne, ma in essi è stato posto un seme
di vita (1 Piet 1, 9).
II. L’ANIMA E LO SPIRITO DI VITA
1. L’anima e il principio di vita.
- Se l’anima è il segno della vita, non ne è tuttavia la sorgente. È
questa una seconda differenza che separa profondamente le due mentalità,
d’origine semitica o platonica. Per questa ultima, l’anima si identifica con lo
spirito, di cui è in qualche modo una emanazione, conferendo all’uomo una vera
autonomia. Per i Semiti non l’anima, ma Dio, per mezzo del suo spirito, è la
fonte della vita: «Dio soffiò nelle sue narici un alito (nešamah) di vita, e
l’uomo divenne anima (nefeš) vivente» (Gen 2, 7). In ogni essere vivente c’è «un
alito dello spirito [= del soffio] di vita» (Gen 7, 22), senza il quale
morrebbe. Questo soffio gli è prestato per tutto il tempo della sua vita
mortale: «Tu ritiri loro il soffio, ed essi spirano e ritornano alla loro
polvere; tu mandi il tuo soffio, ed essi sono creati» (Sal 104, 29 s). L’anima (psyche),
principio di vita, e lo spirito (pnèuma) che ne è la fonte, si distinguono così
l’una dall’altro al centro dell’essere umano, là dove soltanto la parola di Dio
può avere accesso (Ebr 4, 12). Trasferita nell’ordine cristiano, la distinzione
permette di parlare di «psichici senza spirito» (Giuda 19) o di vedere negli
«psichici» dei fedeli che dallo stato «pneumatico», al quale li aveva portati il
battesimo, sono ritornati allo stadio «terrestre» (1 Cor 2, 14; 15, 44; Giac 3,
15).
2. L’anima e la sopravvivenza.
- Conseguenza immediata: a differenza dello spirito, di cui non si dice mai che
muoia, ma di cui si afferma che ritorna a Jahvè (Giob 34, 14 s; Sal 31, 6; Eccle
12, 7), l’anima può morire (Num 23, 10; Giud 16, 30; Ez 13, 19), essere
consegnata alla morte (Sal 78, 50), precisamente come le ossa (Ez 37, 1-14) o la
carne (Sal 63, 2; 16, 9 s). Essa discende nello sheol per condurvi l’esistenza
misera delle *ombre e dei *morti, lontano dalla «terra dei viventi», di cui non
sa più nulla (Giob 14, 21 s; Eccle 9, 5. 10), lontano anche da Dio che non può
lodare (Sal 88, 11 ss), perché i morti abitano nel *silenzio (Sal 94, 17; 115,
17). In breve, essa «non è più» (Giob 7, 8. 21; Sal 39, 14). Tuttavia a
quest’anima, discesa nelle profondità dell’abisso (Sal 30, 4; 49, 16; Prov 23,
14), l’onnipotenza di Dio concederà di risorgerne (2 Mac 7, 9. 14. 23) e di
rianimare le ossa disperse: la fede ne è sicura.
3. L’anima ed il corpo.
- Se le anime vanno nello sheol, ciò non vuol dire che vi «vivano» senza corpo:
la loro «esistenza» non è tale, precisamente perché non possono esprimersi senza
il loro corpo. La dottrina della immortalità dell’uomo non si identifica dunque
con la concezione della spiritualità dell’anima. E neppure sembra che il libro
della Sapienza l’abbia introdotta nel patrimonio della rivelazione biblica.
L’autore del libro, certamente intinto di ellenismo, si serve all’occasione dei
termini derivati dalla antropologia greca, ma la sua mentalità è sempre diversa.
Senza dubbio «il corpo corruttibile pesa sull’anima, e la sua dimora terrestre
opprime lo spirito preso da mille pensieri» (Sap 9, 15), ma allora si tratta
della intelligenza dell’uomo, non dello spirito di vita; soprattutto non si
tratta di disprezzare né la materia (cfr. 13, 3) né il corpo: «Essendo buono,
ero venuto in un corpo incorrotto» dice l’autore (8, 19 s). Se esiste quindi una
distinzione tra l’anima e il corpo, essa non ha di mira una vera esistenza
dell’anima separata; come nelle apocalissi giudaiche di quest’epoca, le anime
vanno nell’Ade (Sap 16, 14). Dio, che le ha in mano sua (3, 1; 4, 14), le può
risuscitare perché ha creato l’uomo incorruttibile (2, 23). La Bibbia, che
attribuisce all’uomo intero ciò che più tardi sarà riservato all’anima in
seguito ad una distinzione tra l’anima e il corpo, non dimostra tuttavia di
credere meno nell’immortalità. Le anime, che aspettano sotto l’altare (Apoc 6,
9; 20, 4) la loro ricompensa (Sap 2, 22), non esistono qui se non come un
appello alla *risurrezione, opera dello spirito di vita, non d’una forza
immanente. Nell’anima Dio ha deposto un seme di eternità, che germoglierà a suo
tempo (Giac 1, 21; 5, 20). L’*uomo nella sua totalità diventerà «anima vivente»
e, come dice Paolo, «corpo spirituale»: *risusciterà nella sua integrità (1 Cor
15, 45; cfr. Gen 2, 7).
X. LÉON DUFOUR
→ carne - corpo - morte - risurrezione - sangue V - Spirito - uomo - vita II
3.
Il mondo animale costituisce la parte della natura più vicina all’uomo. Questa
parentela, che talvolta potrebbe sfuggirci, era particolarmente sentita dagli
Ebrei che, più di noi, vivevano a contatto permanente con gli animali. Perciò la
Bibbia, per illustrare le sue descrizioni, si serve sovente del comportamento
degli animali per esprimere taluni atteggiamenti dell’uomo: il nemico è chiamato
un cane (ad es. Sal 22, 17); una truppa d’invasione diventa una nuvola di
cavallette (ad es. Is 33, 4); ora Dio, ora il nemico sono descritti come un
leone (dietro l’ambivalenza di taluni simboli bisogna vedere l’ambiguità di
questo mondo animale del quale noi facciamo parte, capace sia del meglio che del
peggio); sovente il popolo è paragonato ad un gregge (ad es. la parabola di
Natan: 2 Sam 12, 1- 4; Ger 23, 1-8; Ez 34; Gv 10, 1-16); 1’*agnello serve
persino a rappresentare Cristo (Gv 1, 29; Apoc 5, 6...) e la *colomba lo Spirito
Santo (Mt 3, 16 par.). Ma, al di là di queste annotazioni sporadiche, bisogna
seguire nei racconti biblici lo sforzo di questi uomini posti di fronte alla
potenza del mondo animale e che prendono progressivamente coscienza della loro
superiorità. Più ancora, parlando di questo popolo animale al quale partecipano
e sul quale proiettano più o meno coscientemente la propria situazione, gli
autori sacri rivelano in definitiva il dramma degli uomini e della intera
creazione che aspira alla redenzione.
I. GLI ANIMALI E L’UOMO NELLA CREAZIONE
1. Gli animali superiori all’uomo?
- Il culto degli animali, checché ne sia del significato e dei diversi aspetti
della zoolatria, dimostra con quale rispetto sacro talune religioni primitive,
come quella degli Egiziani, consideravano questi esseri extra-umani. Israele
cede talvolta a questa tentazione di divinizzare gli animali o di adorare la
loro immagine (Es 32; 1 Re 12, 28-32). Tuttavia la legge di Mosè, le ammonizioni
dei profeti, i consigli della Sapienza distolgono gli Ebrei da questa via
degradante (ad es. Sap 15, 18 s; cfr. Rom 1, 23). Quanto ai nemici idolatri,
lungi dall’essere preservati dagli animali adorati, saranno castigati per mezzo
di essi (Sap 15 -16; Ez 39, 4. 17-20; Apoc 19, 17 s. 21).
2. Legame tra l’animale e l’uomo.
- La rassomiglianza dell’uomo con l’animale, specialmente la loro origine comune
dal fango ed il loro modo comune di finire nel nulla, è talvolta espressa
brutalmente (Eccle 3, 19 ss; Sal 49, 13). Più spesso e più discretamente queste
due creature, raccolte sotto la comune denominazione di «viventi», sono unite da
un legame fraterno. Ora è l’uomo che aiuta l’animale: *Noè salva dalle acque una
coppia di ogni specie vivente; ora è l’animale che aiuta l’uomo: l’asina
chiaroveggente salva Balaam (Num 22, 22-35); dei corvi nutrono Elia (1 Re 17,
6); un grande pesce salva Giona ricalcitrante e lo riporta sulla buona strada
(Giova 2). Mediante la loro perfezione gli animali portano Giobbe a riconoscere
la onnipotenza del creatore (Giob 38, 39 - 39, 30; 40, 15 - 41, 26). Infine essi
ricordano agli uomini che Dio non cessa di spargere i suoi benefici su tutti gli
esseri viventi (ad es. Sal 104, 27; 147, 9; Mt 6, 26). Essi sono talmente vicini
all’uomo da rientrare nella *alleanza conclusa tra Dio e Noè (Gen 9, 9 ss) e da
divenire essi stessi soggetti alla legge mosaica! Il *sabato vale per il bue
come per il servo (Es 23, 12; Deut 5, 14). E verso di essi è prescritto un
atteggiamento di umanità (Es 23, 5; Deut 22, 6 s; 25, 4; cfr. 1 Cor 9, 9; 1 Tim
5, 18). Quanto agli animali criminali, essi saranno castigati (Gen 9, 5; Lev 20,
15 s) ed in taluni casi saranno persino lapidati (Es 21, 28-32). Infine sono
associati sia alla penitenza degli uomini (Giona 3, 7), sia al loro castigo (Es
11, 5).
3. Superiorità dell’uomo sull’animale.
- Tuttavia, fin dal racconto delle origini, talune annotazioni chiarissime
indicano la netta percezione di una superiorità dell’uomo sull’animale.
Affermando il suo dominio, Adamo dà il *nome agli animali (Gen 2, 20).
D’altronde nessuno di essi può costituire per l’uomo «un aiuto simile a lui» (Gen
2, 18-23) e la bestialità è severamente punita (Es 22, 18; Deut 27, 21; Lev 18,
23). Di più, l’animale può essere ucciso dall’uomo e servirgli come cibo (Gen 9,
2 s). Infine la superiorità dell’uomo è affermata con un lirismo che echeggia
come il canto di vittoria di una trionfante presa di coscienza (Gen 1, 26-30;
Sal 8, 6-9). Viceversa, per punire la irragionevolezza di Nabuchodonosor «gli
sarà dato un cuore di *bestia» (Dan 4, 13), poiché la bestialità umana
simboleggia la rivolta contro lo spirito, in definitiva contro Dio. Tuttavia,
della credenza nella superiorità degli animali rimane forse qualcosa nella
immaginazione degli autori sacri, che non esitano a parlare di animali favolosi.
Questi, qualunque sia l’origine di tali rappresentazioni, caratterizzano un
oltre-natura, sia nel campo di una potenza sovrumana (Dan 7; Apoc 9, 3-11) che
confina col diabolico (Apoc 12; 13; 16, 13 s; 20, 1 s), sia nel campo del divino
(Ez 1, 4-24; Apoc 4, 6 ss).
II. GLI ANIMALI E L’UOMO NELLA REDENZIONE
1. La rivolta e la sottomissione degli animali.
- L’esistenza degli animali feroci concretizza e rappresenta la rivolta della
natura contro l’uomo, ed il disordine che si è introdotto nel mondo. Questa
situazione è il risultato del peccato dell’uomo. Di fatto, prima della
disobbedienza di Adamo, tutti gli animali, domestici o selvatici, sembrano
sottomettersi a colui che aveva dato loro il nome. Ma a causa del peccato tutta
la creazione, e quindi il mondo animale, è ora schiavo della corruzione (cfr.
Rom 8, 19-22). Tuttavia per anticipazione o per grazia messianica, in taluni
casi privilegiati, gli animali vinti ritrovano una docilità che evoca il
*paradiso (Dan 6, 17- 25; 14, 31-42; Sal 91, 13; Mc 1, 13; 16, 18; Atti 28,
3-6). Alla fine dei tempi, quando il mondo sarà interamente purificato dai suoi
peccati, gli animali selvatici spariranno (Lev 26, 6; Ez 34, 25) o diventeranno
pacifici (Os 2, 20; Is 11, 5 ss; 65, 25). Nell’universo riunificato la natura
non conoscerà più rivolta. Ed anche ciò che c’è nell’uomo di animalesco (cfr.
Giac 3, 1-8) sarà interamente sottomesso e trasformato (1 Cor 15, 44 ss).
2. Al di là della divisione tra puro ed impuro.
- Per quanto antica e misteriosa, la divisione degli animali in *puri
ed impuri ha integrato e favorito nel giudaismo la divisione dell’umanità in due
parti: gli Israeliti puri ed i pagani impuri. Tra questi due mondi
l’impossibilità di mangiare alla stessa tavola e di avere così contatti
familiari fu, se non creata, per lo meno rafforzata dalle prescrizioni
alimentari concerenti gli animali impuri. In queste prospettive si comprende
meglio la visione di Pietro a Joppe (Atti 10), nella quale l’abolizione della
divisione tra puro ed impuro negli animali significa che la stessa divisione non
esiste più negli uomini. Dietro questo simbolo animale erano in gioco l’unità
degli uomini e la cattolicità della Chiesa.
3. Gli animali ed il culto divino.
- Non soltanto tutti gli animali associati all’universo (Sal 148, 7. 10) o a
Israele (Is 43, 20) cantano le lodi del Creatore e del Salvatore, non soltanto
erano divenuti soggetti alla legge mosaica e partecipavano alla penitenza degli
uomini, ma furono anche giudicati degni di costituire ordinariamente la materia
dei *sacrifici e di prefigurare così la vittima divina della nuova alleanza (Gen
22, 13; Es 13,12 s). Tuttavia sarebbe stato necessario che, attraverso il segno
costituito da queste vittime animali, gli Israeliti si impegnassero con tutto il
loro essere ed aspirassero alla perfezione della realtà futura (Sal 40, 7 ss;
51, 18 s; Ebr 10, 1-18). Soltanto il sacrificio del servo Gesù, simile
all’agnello che si conduce al macello (Is 53, 7), poteva acquistare la
redenzione eterna (Ebr 9, 12). Così, prendendo spunto dagli animali della Bibbia
e attraverso di essi, tutto il dramma della salvezza viene ad essere
rappresentato e talvolta persino vissuto: rivolta; idolatria; distinzione tra
puro ed impuro; obbedienza alla legge mosaica; penitenza; offerte e sacrifici;
partecipazione alla salvezza nell’arca di Noè; sottomissione escatologica.
Sfigurata dal serpente diabolico, minacciata dal dragone satanico, la creazione
è salvata ed alla fine sarà trasformata grazie al sacrificio di colui che è
l’*agnello di Dio.
P. LA MARCHE
→ bestie e bestia – creazione VT II 1 – puro –VT I 1 – uomo I 1 b.
→ feste VT I; NT II – settimana 1 – tempo VT I.
→ figura – parola di Dio – predicare – vangelo.
→ Adamo I 3 - fecondità III 1 - generazione 1 - padri e Padre I 2, II - uomo I l.
→ nuovo - vecchiaia.
Il termine Anticristo (alla lettera: «contro-Cristo») si trova esclusivamente in
1 Gv 2, 18. 22; 4, 3; 2 Gv 7. Ma la stessa realtà, o una realtà analoga, è
intesa in diversi passi apocalittici del NT: Mc 13, 14 par.; 2 Tess 2, 3-12;
Apoc 13, 4-18. E poiché essa si inserisce in una cornice dualistica attestata
dal VT, qui bisogna anzitutto osservarne la prima rivelazione, imperfetta, ma
già suggestiva.
VECCHIO TESTAMENTO
Già nel VT si vede che l’azione di Dio urta quaggiù contro forze
avverse che, secondo i contesti, rivestono volti molto diversi.
1. Il simbolismo religioso dell’Oriente antico ha fornito alla
rivelazione una rappresentazione poetica della *creazione sotto la forma di una
lotta tra il Dio creatore e le forze del caos, *bestie mostruose personificanti
la potenza indomita del *mare (Is 51, 9 s; Sal 74, 13 s; 89, 10 ss). Lo stesso
linguaggio mitico, purificato dalle sue implicazioni politeistiche, serve ad
evocare gli «ultimi tempi» sotto i tratti d’una lotta di Jahvè contro il
serpente (Is 27, 1). Probabilmente lo si ritrova pure sullo sfondo del dramma
originale; in effetti nella Genesi l’avversario del disegno di Dio assume la
forma mitica del serpente (Gen 3). Così, attraverso i simboli, la figura di
*Satana si profila alle due estremità del disegno di salvezza; è l’avversario di
Dio per eccellenza.
2. Tuttavia, nella cornice della storia, Satana agisce quaggiù
servendosi delle potenze umane. I *nemici del popolo di Dio sono avversari di
Dio stesso, quando si oppongono al suo disegno provvidenziale. Così l’*Egitto al
momento dell’esodo; così ancora gli imperi di Assur e di *Babilonia, oppressori
di Israele e adoratori di falsi dei di cui si sforzano di estendere quaggiù il
dominio spirituale; così infine tutti i re pagani che la presunzione sacrilega
inclina ad uguagliarsi a Dio (Ez 28, 2 ss; Is 14, 13). La storia implica quindi
un continuo affrontarsi tra Jahvè e queste forze storiche, in attesa dello
scontro finale, in cui «Gog, re di Magog» sarà sconfitto per sempre (Ez 38 -
39); dopo di che verrà la salvezza escatologica.
3. L’azione di Antioco Epifane, nemico di Israele e nello
stesso tempo persecutore dei veri adoratori di Dio, permette al libro di Daniele
di fare la sintesi tra le due rappresentazioni precedenti. Egli è l’*empio che
pretende di prendere il posto di Dio (Dan 11, 36) e colloca nel luogo santo
l’abominazione della desolazione (9, 27). Egli è pure l’undicesimo corno che
spunta sulla quarta bestia dal volto satanico (7, 8). Quindi il suo giudizio e
la sua distruzione preludono alla instaurazione del regno di Dio (7, 11-27; 11,
40 -12, 2).
NUOVO TESTAMENTO
Tale prospettiva escatologica è ripresa nel NT nella persona di *Gesù Cristo.
L’anti-Dio del VT diventa quindi l’anti-Cristo già all’opera attraverso i suoi
seguaci, prima di palesarsi apertamente nel duello escatologico, in cui verrà
definitivamente sconfitto.
1. Già nell’Apocalisse sinottica, la «grande tribolazione»
annunciata da Gesù come preludio alla venuta gloriosa del figlio dell’uomo
implica l’apparizione di «falsi cristi», la cui seduzione trascina gli uomini
all’apostasia (Mc 13, 5 s. 21 s; Mt 24, 11 par.) ed ha come segno
«l’abominazione della desolazione» collocata nel luogo santo (Mc 13, 14 par.)
2. In Tess 2, 3-12 l’avversario degli ultimi tempi, l’essere
perduto, l’empio, prende l’aspetto di un vero anti-Dio (2, 4), analogo a quelli
del VT; ma è pure un anti-Cristo che imita i tratti del Signore, con la sua
parusia, il suo momento proprio fissato da Dio, la sua potenza soprannaturale
che opera falsi prodigi per la perdizione degli uomini (2, 8-10). Egli compirà
così l’opera di Satana quaggiù (2, 9). Ora il mistero della *empietà, di cui
egli sarà l’artefice per eccellenza, è già in azione (2, 7); per questo tanti
uomini si sviano ed aderiscono alla *menzogna invece di credere alla *verità (2,
11 s). Se l’empio non si manifesta ancora di persona, si è perché qualcosa o
qualcuno lo «ritiene» (2, 7), allusione enigmatica, sulla quale Paolo non si è
spiegato. In ogni caso la rivelazione dell’empio preluderà alla parusia di Gesù,
che lo annienterà con la manifestazione della sua venuta (2, 8; cfr. 1, 7-10).
3. L’Apocalisse evoca una prospettiva escatologica simile,
mediante il simbolo delle due *bestie mostruose. La prima è una potenza politica
che bestemmia Dio, si fa adorare e perseguita i veri credenti (Apoc. 13, 1-10).
La seconda è una realtà religiosa che scimmiotta l’*agnello (cioè Cristo),
compie falsi prodigi e seduce gli uomini per far loro adorare la prima bestia
(13, 11-18). Così si compie quaggiù l’opera di Satana, il dragone antico, che ha
trasmesso i suoi poteri alla prima bestia (13, 2). Evocazione simbolica
grandiosa che, pur riguardando gli «ultimi tempi»,ha non di meno velatamente di
mira la situazione presente in cui si dibatte la Chiesa di Gesù, perseguitata
dall’impero pagano di Roma.
4. Nelle lettere di S. Giovanni, sotto il nome di anti-Cristo è
designata una realtà assolutamente attuale: chiunque nega che Gesù sia il
Cristo, negando in tal modo il Padre ed il Figlio (1 Gv 2, 22), chiunque non
confessa Gesù Cristo venuta nella carne (1 Gv 4, 3; 2 Gv 7), è il seduttore,
1’anti-Cristo. Giovanni fa chiaramente allusione agli eretici ed agli apostati,
nei quali già si attua l’apostasia annunziata da Gesù ed intesa da Paolo.
L’escatologia è quindi attualizzata; ma il dramma presente della fede deve
essere compreso in funzione di una prospettiva più ampia, quella di cui
l’Apocalisse fornisce un’evocazione completa. La dottrina dell’anti-Cristo
rimane molto misteriosa. Non la si comprende se non in funzione della *guerra
secolare in cui Dio ed il suo Cristo affrontano Satana ed i suoi ministri
terreni. Per la duplice via della persecuzione temporale e della seduzione
religiosa questi tentano di far fallire il disegno di salvezza. Sarebbe errato
voler mettere dei nomi propri su ciascuno dei simboli che servono ad evocare la
loro presenza; ma chiunque agisce come essi partecipa in qualche misura allo
stesso mistero dell’anti-Cristo. Ora questa impresa continuerà senza respiro per
tutto il corso della storia, ponendo gli uomini al centro di una lotta in cui
nessun mezzo umano potrebbe trionfare. Ma dove avranno fallito gli uomini,
vincerà l’agnello (Apoc 17, 14), ed i suoi testimoni parteciperanno alla sua
vittoria (Apoc 3, 21).
B. RIGAUX e P. GRELOT
→ Babele-Babilonia 6 - bestie e Bestia 3 b. 4 - calamità 2 - empio NT 2 - errore
NT - giorno del Signore NT I 2 - guerra NT III - menzogna II 2 b - mondo NT I 2,
III 2 - Satana III.
→ Dio VT III 5 - idoli I - immagine I - parabole I 1.
→ ministero II 13.4 - pastore e gregge NT 2 - sacerdozio NT III 2 - tradizione VT II 2: NT I 1 - vecchiaia 2.
→ apparizioni del Cristo 3- giorno del Signore NT 0, I 1 - mistero-parabola II – rilevazione VT I 4; NT 0, IV.
→ anticristo NT - croce II 3- eresia 1- idoli - ipocrita 3- vegliare III.
Nel NT numerose persone ricevono il titolo di apostolo: i dodici discepoli,
scelti da Gesù per fondare la sua Chiesa (Mt 10, 2; Apoc 21, 14), e così pure
Paolo, apostolo delle *nazioni per eccellenza ( Rom 11, 13), son ben conosciuti.
Ma, secondo l’uso antico di Paolo, Silvano, Timoteo (1 Tess 2, 7) e Barnaba (1
Cor 9, 6) portano lo stesso titolo di Paolo; a fianco di Pietro e dei Dodici,
ecco «Giacomo e gli Apostoli» (1 Cor 15, 5 ss; cfr. Gal 1, 19), per non parlare
del *carisma dell’apostolato (1 Cor 12, 28; Ef 4, 11), né dei «falsi apostoli» e
degli «arciapostoli» che Paolo denuncia (2 Cor 11, 5. 13; 12, 11). Un uso così
esteso di questo titolo solleva un problema: quale rapporto c’è tra questi
diversi «apostoli»? Per risolverlo, in mancanza di una definizione
neotestamentaria dell’apostolato che convenga a tutti, bisogna collocare al loro
posto le diverse persone che portano questo titolo, dopo aver raccolto le
indicazioni concernenti il termine e la funzione non specificatamente cristiana.
Il sostantivo apòstolos è ignoto al greco letterario (salvo Erodoto e Giuseppe
che sembrano riflettere la lingua popolare), ma il verbo da cui deriva (apostello),
«inviare», ne esprime bene il contenuto, che è precisato dalle analogie del VT e
dagli usi giudaici. Il VT conosce l’ uso degli ambasciatori che devono essere
rispettati come il re che li manda (2 Sam 10); i *profeti esercitano *missioni
dello stesso ordine ( cfr. Is 6, 8; Ger 1, 7; Is 61, 1 ss), benché non ricevano
mai il titolo di apostolo. Ma il giudaismo rabbinico, dopo il 70, conosce
l’istituzione di inviati speciali (šelîhîm), il cui uso sembra molto anteriore,
secondo i testi stessi del NT. Paolo «domanda lettere per le sinagoghe di
Damasco» al fine di perseguitare i fedeli di Gesù (Atti 9, 2 par.): è un
delegato ufficiale munito di lettere ufficiali (cfr. Atti 28, 21 s). La Chiesa
eredita questo uso quando, da Antiochia e da Gerusalemme, manda Barnaba e Sila
con le loro lettere (Atti 15, 22), oppure fa di Barnaba e Paolo i suoi delegati
(Atti 11, 30; 13, 3; 14, 26; 15, 2); Paolo stesso manda due fratelli che sono
gli apòstoloi delle Chiese (2 Cor 8, 23). Secondo la frase di Gesù, che ha degli
antecedenti nella letteratura giudaica, l’apostolo rappresenta colui che lo
manda: «Il servo non è maggiore del suo padrone, né l’apòstolos maggiore di
colui che l’ha mandato» (Gv 13, 16). Così, a giudicare dall’uso dell’epoca,
l’apostolo non è in primo luogo un missionario, od un uomo dello spirito, e
neppure un testimone: è un emissario, un delegato, un plenipotenziario, un
ambasciatore.
I. I DODICI E L’ APOSTOLATO
Prima di dar diritto ad un titolo, l’apostolato fu una funzione. Di fatto
soltanto al termine di una lenta evoluzione alla cerchia ristretta dei Dodici fu
attribuito in modo privilegiato il titolo di apostolo (Mt 10, 2), messo poi, in
epoca tarda, sulle labbra di Gesù (Lc 6, 13). Ma se questo titolo di onore non
appartiene che ai Dodici, si vede pure che altri esercitano con essi una
funzione che può essere qualificata come «apostolica».
1. I dodici apostoli.
– Fin dall’inizio della sua vita pubblica Gesù volle moltiplicare la sua
presenza e diffondere il suo messaggio per mezzo di uomini che fossero altri se
stesso. Chiama i quattro primi discepoli perchè siano pescatori d’uomini (Mt 4,
18-22 par.); ne sceglie dodici perchè siano «con lui» e perchè, come lui,
annuncino il vangelo e scaccino i demoni ( Mc 3, 14 par. ); li manda in
*missione a parlare in suo nome (Mc 6, 6-13 par.), muniti della sua *autorità:
«Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha
mandato» (Mt 10, 40 par.); sono incaricati di distribuire i pani moltiplicati
nel deserto (Mt 14, 19 par), ricevono un’autorità speciale sulla comunità che
devono dirigere (Mt 16, 18; 18, 18). In una parola, essi costituiscono i
fondamenti del nuovo *Israele, di cui saranno i giudici nell’ultimo giorno (Mt
19, 28 par.); ed è questo che il *numero 12 del collegio apostolico simboleggia.
Ad essi il risorto, sempre presente con essi sino alla fine dei secoli, dà
l’incarico di ammaestrare e di battezzare tutte le nazioni (Mt 28, 18 ss).
L’elezione di un dodicesimo apostolo in sostituzione di Giuda appare quindi
indispensabile perchè la figura del nuovo Israele si ritrovi nella Chiesa
nascente (Atti 1, 15-26). Essi dovranno essere i *testimoni di Cristo, cioè
attestare che il Cristo risorto è quel medesimo Gesù con il quale sono vissuti
(1, 8. 21); testimonianza unica che conferisce al loro apostolato (inteso qui
nel senso più stretto del termine) un carattere unico. I Dodici sono per sempre
il fondamento della Chiesa: «Il muro della città poggia su dodici basamenti che
portano ciascuno il nome di uno dei dodici apostoli dell’ agnello» ( Apoc 21,
14).
2. L’apostolato della Chiesa nascente.
– Se i Dodici sono gli apostoli per eccellenza, nel senso che la Chiesa
è «apostolica», l’apostolato della Chiesa, inteso in un senso più largo, non si
limita tuttavia all’azione dei Dodici. Come Gesù, «apòstolos di Dio» (Ebr 3, 1),
ha voluto istituire un collegio privilegiato che moltiplichi la sua presenza e
la sua parola così i Dodici comunicano ad altri non già il privilegio
intrasmissibile che li costituisce per sempre corpo dei testimoni del risorto,
bensì l’esercizio della loro missione apostolica. Già nel VT Mosè aveva
trasmesso a Giosuè la pienezza dei suoi poteri (Num 27, 18), ed anche Gesù ha
voluto che l’ufficio pastorale affidato ai Dodici continui attraverso i secoli:
pur conservando un legame speciale con essi, la sua presenza di risorto
trascenderà infinitamente la loro cerchia ristretta. Del resto, già nella sua
vita supplica, Gesù stesso ha aperto la via a questa estensione della missione
apostolica. Accanto alla tradizione prevalente che raccontava la missione dei
Dodici, Luca ha conservato un’altra tradizione, secondo la quale Gesù «designò
ancora 72 altri [discepoli] e li mandò davanti a sé» (Lc 10, 1). Stesso oggetto
di missione che per i Dodici, stesso carattere ufficiale: «Chi ascolta voi,
ascolta me, chi rigetta voi rigetta me, e chi rigetta me, rigetta colui che mi
ha mandato» (Lc 10, 16; cfr. Mt. 10, 40 par.). Nel pensiero di Gesù la missione
apostolica non è quindi limitata a quella dei Dodici. I Dodici stessi agiscono
in questo spirito. Al momento della scelta di Mattia essi sanno che un buon
numero di discepoli possono soddisfare alle condizioni necessarie ( Atti 1, 21
ss): Dio non designa propriamente un apostolo della stessa fama di Paolo (14, 4.
14); e se i Sette non sono chiamati apostoli (6, 1-6), possono tuttavia fondare
una nuova Chiesa: così Filippo in Samaria, quantunque i suoi poteri siano
limitati da quelli dei Dodici (8, 14-25). L’apostolato, rappresentante ufficiale
del risorto nella Chiesa, rimane per sempre fondato sul collegio «apostolico»
dei Dodici, ma viene esercitato da tutti gli uomini ai quali questi confericono
autorità.
II. PAOLO, APOSTOLO DEI GENTILI
L’esistenza di Paolo conferma, a modo suo, ciò che Gesù aveva lasciato intendere
in terra. mandando i Settantadue oltre ai Dodici. Dal cielo il risorto manda
Paolo oltre ai Dodici; attraverso questa missione apostolica, la natura
dell’apostolato potrà essere precisata.
1. L’ambasciatore di Cristo.
- Quando ripete con insistenza di essere stato «chiamato» come apostolo
(Rom 1, 1; Gal 1, 15) in una visione apocalittica del risorto (Gal 1, 16; 1 Cor
9, 1; 15, 8; cfr. Atti 9, 5. 27), Paolo manifesta che una *vocazione particolare
fu all’origine della sua *missione. Apostolo, egli è un «inviato», non degli
uornini (anche se apostoli essi stessi!), ma di Gesù personalmente. Ricorda
soprattutto questo fatto quando rivendica la sua autorità apostolica: «Per
incarico di Cristo siamo ambasciatori; è come se Dio esortasse a mezzo nostro»
(2 Cor 5, 20); «la parola che vi abbiamo predicata non è parola d’uomo, ma
parola di Dio» (1 Tess 2, 13). Beati coloro che lo hanno «accolto come un angelo
di Dio, come il Cristo Gesù» (Gal 4, 14). Infatti gli apostoli sono i
«cooperatori di Dio» (1 Cor 3, 9; 1 Tess 3, 2). Più ancora: attraverso di essi
si compie il ministero della *gloria escatologica (2 Cor 3, 7-11). Ed affinché
l’ambasciatore non storni a suo profitto questa potenza divina e questa gloria,
l’apostolo è un uomo disprezzato dal mondo; eccolo perseguitato, consegnato alla
morte, affinché la vita sia data agli uomini (2 Cor 4, 7 - 6, 10; cfr. 1 Cor 4,
9-13). In concreto, 1’*autorità apostolica si esercita a proposito della
dottrina, del ministero e della giurisdizione. Paolo fa spesso appello alla sua
autorità dottrinale, che ritiene capace di lanciare l’*anatema su chiunque
annunciasse un *vangelo diverso dal suo (Gal 1, 8 s). Paolo sa di poter delegare
ad altri i suoi stessi poteri, come quando ordina Timoteo *imponendogli le mani
(1 Tim 4, 14; 2 Tim 1, 6), atto che questi potrà compiere a sua volta (1 Tim 5,
22). Infine questa autorità si esercita mediante una reale giurisdizione sulle
Chiese che Paolo ha fondato o che gli sono affidate: egli giudica e stabilisce
sanzioni (1 Cor 5, 3 ss; 1 Tim 1, 20), regola tutto al momento dei suoi passaggi
( 1 Cor 11, 34; 2 Cor 10, 13-16; 2 Tess 3, 4), sa esigere l’obbedienza della
comunità ( Rom 15, 18; 1 Cor 14, 37; 2 Cor 13, 3 ), al fine di mantenere la
comunione (1 Cor 5, 4). Questa autorità non è tirannica ( 2 Cor 1, 24), è un
servizio (1 Cor 9, 19), quello di un *pastore (Atti 20, 28; 1 Piet 5, 2-5) che
sa all’occorrenza rinunziare ai propri diritti (1 Cor 9, 12); lungi dal pesare
sui fedeli, egli ama teneramente come un padre, come una madre (1 Tess 2, 7-12)
e dà loro l’*esempio della fede (1 Tess 1, 6; 2 Tess 3, 9; 1 Cor 4, 16).
2. Il caso unico di Paolo.
- In questa descrizione ideale dell’apostolato Paolo riconoscerebbe volentieri
ciò che si attendeva dai suoi collaboratori, da Timoteo (cfr. 1 Tess 3, 2) e da
Silvano che egli, a quanto pare, qualifica come apostoli (2, 5 ss), od ancora da
Sostene e da Apollo (1 Cor 4, 9). Tuttavia Paolo si attribuiva un posto
particolare nell’apostolato della Chiesa: è l’apostolo delle nazioni pagane, ha
una speciale conoscenza del mistero di Cristo: questa funzione unica
nell’economia cristiana, legata alla sua persona, è di ordine *carismatico e non
può essere trasmessa.
a) L’apostolo delle *nazioni. - Paolo non è stato il
primo a portare il vangelo ai pagani: già Filippo ha evangelizzato i Samaritani
(Atti 8) e lo Spirito Santo è disceso sui pagani di Cesarea (Atti 10). Ma Dio ha
voluto che alla nascita della sua Chiesa un apostolo fosse in modo più
particolare incaricato della evangelizzazione dei Gentili, a fianco di quella
dei Giudei. Ecco ciò che Paolo fa riconoscere da *Pietro. Non già che egli
volesse in questo essere un inviato di Pietro: rimaneva l’inviato di Cristo,
direttamente; ma ci teneva a riferirne al capo dei Dodici, per non «correre
invano» e non portare divisioni nella Chiesa (Gal 1- 2).
b) Il mistero di Cristo, per Paolo, è «Cristo tra le
nazioni» (Col 1, 27); già Pietro aveva compreso in una visione che nessun
divieto alimentare separava più i Giudei dai Gentili (Atti l0, 10- 11, 18). Ma
Paolo, per grazia di Dio, ha una *conoscenza particolare di questo *mistero (Ef
3, 4) ed è stato incaricato di trasmetterlo agli uomini; soffre la persecuzione,
sopporta le sofferenze, è prigioniero in vista del compimento di questo mistero
(Col 1, 24- 29; Ef 3, 1-21). Questa è la grazia particolare di Paolo,
incomunicabile; ma l’aspetto di ambasciatore di Cristo ed anche, in certa
misura, la conoscenza spirituale che egli ha del suo apostolato può essere data
a tutti gli apostoli dal Signore dello Spirito (1 Cor 2, 6-16).
c) L’apostolato dei fedeli non è oggetto di un
insegnamento esplicito nel NT, ma trova un solido punto d’appoggio in taluni
fatti. Pur essendo per eccellenza la funzione dei Dodici e di Paolo,
l’apostolato fu esercitato fin dagli inizi dalla Chiesa intera: le Chiese di
Antiochia e di Roma, ad es., esistevano già quando vi giunsero i capi della
Chiesa. In senso largo l’apostolato è compito di ogni *discepolo di Cristo,
«luce del mondo e sale della terra» (Mt 5, 13 s. Secondo la sua posizione egli
deve partecipare all’apostolato della Chiesa, imitando Paolo, i Dodici ed i
primi apostoli nel loro *zelo apostolico.
X- LÉON-DUFOUR
→ addii NT 2 - autorità NT II - carismi II 2.4 - Chiesa III 2 - discepolo NT -
edificare III 2 - elezione NT II 1 - fecondità III 3 - insegnare NT II -
mediatore II 2 - ministero - missione NT II, III - nazioni NT II - Pietro (S.) -
potenza V 3 - predicare - rivelazione NT I 2, II 2, III 2 - sacerdozio NT III -
segno NT II 2 - testimonianza NT III 1 - tradizione NT I 2.3; II 2 - vangelo -
vocazione III.
APPARIZIONI DI CRISTO (inizio)
1. Le apparizioni nella Bibbia
Le apparizioni della Bibbia costituiscono uno dei modi della *rivelazione di
Dio. Attraverso esse si rendono presenti in modo visibile gli esseri che, per
natura, sono invisibili agli uomini. Nel VT, *Dio appare in persona
(«teofania»), manifesta la propria *gloria, o si rende presente tramite il suo
*angelo. A queste apparizioni si collegano su scala inferiore le apparizioni di
angeli o i *sogni. Il NT riferisce di apparizioni dell’angelo del Signore o
degli angeli, in occasione della nascita di Gesù (Mt 1 - 2; Lc 1, 11. 26; 2, 9)
o della sua risurrezione (Mt 28, 2 ss; Mc 16, 5; Lc 24, 4; Gv 20, 12), per
dimostrare che in questi momenti culminanti dell’esistenza di Cristo, il cielo è
presente sulla terra. In questo, il NT è il prolungamento del VT. Ma lo
oltrepassa in modo decisivo, quando si astiene dal riferire delle teofanie,
perché non è possibile definire con questo termine la *trasfigurazione (Mt 17,
1-9 par.) e neppure l’avanzata sul mare (14, 22-27 par.), sebbene allora
traspaia l’essenza misteriosa di Gesù. Infatti, è intervenuto un cambiamento
radicale, che Giovanni esprime in questo modo: «Dio, nessuno l’ha mai visto; il
Figlio unico che è nel seno del padre, è lui che l’ha fatto conoscere» (Gv 1,
18). Come? Con la sua sola esistenza. «Chi vede me ha visto il Padre» (14, 9;
cfr. 12, 45); Dio è apparso in Cristo. Il grande mistero si è così rivelato (efanèrothe)
(1 Tim 3, 16), «il giorno in cui apparvero (epèfane) la bontà di Dio nostro
salvatore e il suo amore per gli uomini» (Tito 3, 4). Noi attendiamo soltanto
«l’epifania della sua gloria» (2, 13), al momento della parusia. Quest’ultima
apparizione sarà come il lampo (Lc 17, 24). Allora, essa non avrà più come
oggetto il *testimone che Stefano vide «in piedi alla destra di Dio» (Atti 7,
55), ma il giudice «seduto alla destra della Potenza» (Mt 26, 64 par.).
Manifestatosi infine, Cristo renderà pure noi manifesti «con lui pieni di
gloria» (Col 3, 4), perché «apparirà una seconda volta.. a coloro che lo
attendono in vista della salvezza (Ebr 9, 28) e conferirà loro «la corona di
gloria immarcescibile» (1 Piet 5, 4). «Al momento di questa manifestazione noi
saremo simili a lui, perché lo vedremo qual è» (1 Gv 3, 2). Tra le teofanie del
VT e la parusia futura, si inseriscono le apparizioni di Gesù risorto che al
tempo stesso ricapitolano la esistenza anteriore di Gesù di Nazareth e ne
anticipano il ritorno.
2. Le diverse apparizioni di Cristo.
- L’elenco più antico è fornito da Paolo nell’anno 55, muovendo da una
tradizione che aveva ricevuto molto tempo prima e che in seguito (verso il 50)
aveva trasmesso ai Corinti (1 Cor 15, 3 ss). Secondo questa antica confessione
di fede, Cristo è apparso a Cefa, ai Dodici, a più di cinquecento confratelli, a
Giacomo, a tutti gli apostoli e infine a Paolo. Di questa lista, i vangeli
contemplano solo le prime due apparizioni: a Simone (Lc 24, 34), nonché agli
Undici (Mt 28, 16-20; Mc 16, 14-18; Gv 20, 19-29) ai quali si uniscono alcuni
altri discepoli (Lc 24, 33-50); in compenso, riferiscono delle apparizioni a dei
privati: Maria e le donne (Gv 20, 11-18; Mt 28, 9-10; Mc 16, 9-11), i discepoli
di Emmaus (Lc 24, 13- 35; Mc 16, 12 s), i Sette sulle rive del lago (Gv 21,
1-23). Queste diverse apparizioni possono essere riportate a due tipi, a seconda
che siano destinate al collegio apostolico o ai discepoli in generale: le
apparizioni ufficiali, i cui resoconti puntano soprattutto sulla *missione che
sta alla base della *Chiesa, e le apparizioni private la cui narrazione si
interessa innanzitutto al riconoscimento di colui che appare.
3. Né apocalisse, né cronaca.
- I racconti evangelici non consentono di venir catalogati nel genere
apocalittico: nessuna insistenza sulla *gloria, nessuna rivelazione di segreti,
niente messa in scena straordinaria, ma la vicinanza familiare e la missione.
Una novità del genere nella descrizione presuppone un’esperienza originale
unica, tale da trasformare quello che il linguaggio apocalittico, pur tuttavia
preoccupato di descrivere le cose celesti, si sforzava di esprimere. I narratori
non hanno inteso neppure redigere una cronaca biografica delle apparizioni del
risorto. È impossibile coordinare i racconti nel tempo e nello spazio. Il
concordismo, che vuole in ordine successivo le apparizioni a Gerusalemme nel
giorno di Pasqua (Lc, Gv) e l’ottavo giorno (Gv), poi in Galilea (Mt, Gv), e di
nuovo a Gerusalemme per l’ascensione, tenta un’armonizzazione inaccettabile,
perché sacrifica dei dati letterari sicuri. Secondo Lc 24, 49, i discepoli
devono restare a Gerusalemme fino al giorno della Pentecoste: il che esclude
ogni possibilità di apparizioni in Galilea. Viceversa, Mt e Mc dicono che
l’incontro è fissato in Galilea. Non è possibile far concordare queste
topografie divergenti; lo stesso vale per la cronologia: i «molti giorni» di cui
parla Atti 1, 3 sono in antitesi con Lc 24, che colloca chiaramente l’ascensione
al giorno di Pasqua, e in antitesi anche con Gv 20 che presenta il dono dello
Spirito nel giorno stesso di Pasqua, salvo riferire di una ulteriore apparizione
al lago di Tiberiade (Gv 21). Una costruzione letteraria artificiosa
caratterizza sia Luca (concentrazione a Gerusalemme in un giorno) che Giovanni
(distribuzione del racconto secondo lo schema di una settimana). Gli evangelisti
non hanno neppure voluto lasciarci delle «foto-ricordo»: i particolari (ad es.
porte chiuse, palpazione del corpo...) non devono venir considerati
indipendentemente dalla totalità del mistero di cui vogliono rendere un aspetto.
4. Iniziativa, riconoscimento, missione
Sono i tre aspetti comuni a tutti i racconti, che permettono di
penetrare concretamente nell’intendimento degli autori.
a) Mostrando che Gesù interviene personalmente presso o in
mezzo a gente che non se l’aspetta, gli evangelisti (salvo Lc 24, 34) vogliono
dimostrare che non si tratta di un’invenzione soggettiva degli interessati,
originata da una fede esasperata o da una fantasia sbrigliata. Questo tema
dell’iniziativa del risorto (che a suo modo esprime il verbo ofthe, «si è fatto
vedere», nella lista di 1 Cor 15) sta a significare che i racconti di
apparizioni descrivono esperienze realmente vissute dai discepoli. Questo
aspetto dei racconti corrisponde ai modi di vedere della predicazione primitiva:
Dio è intervenuto per risuscitare Gesù, gli ha concesso di mostrarsi vivo dopo
la morte. La *fede è una conseguenza di questo incontro.
b) Seconda caratteristica, il riconoscimento. I discepoli
scoprono l’identità dell’essere che si impone loro; è quel Gesù di Nazareth di
cui hanno conosciuto la vita e la morte. Lui che era morto è vivo. In lui, si
compie la profezia. In un certo qual modo, non hanno più nulla da «*vedere», in
futuro, perché è stato loro dato tutto nel risorto. Il modo in cui avviene
questo *riconoscimento è progressivo: nell’uomo che viene verso di loro, i
discepoli vedono in un primo tempo un personaggio comune, un viaggiatore (Lc 24,
15 s; Gv 21, 4 s), un giardiniere (Gv 20, 15); poi riconoscono il Signore.
Questo riconoscimento è libero, perché secondo il tema dell’incredulità, che fa
parte del complesso della tradizione (Mt 28, 17; Mc 16, 11. 13 s; Lc 24, 37. 41;
Gv 20, 25-29), essi avrebbero potuto rifiutarsi di credere. Infine, poiché il
Signore in genere appare ad un gruppo di persone, ne viene facilitata la
verifica. Per elaborare dal punto di vista letterario questo dato fondamentale,
i narratori hanno voluto mettere in evidenza contemporaneamente due aspetti. Il
risorto è sottratto alle normali condizioni della vita terrena come Dio nelle
teofanie del VT (Gen 18, 2; Num 12, 5; Gios 5, 13; 1 Cron 21, 15 s; Zac 2, 7; 3,
5; Dan 8, 15; 12, 5...) appare e scompare a suo piacere. D’altra parte, non è un
fantasma; di qui l’insistenza sui contatti sensibili. Questi due aspetti devono
essere presi in considerazione simultaneamente se non si vuole incorrere in
errore. Il *corpo del risorto è vero corpo, ma, per dirlo con S. Paolo in una
formula apparentemente paradossale, è un «corpo spirituale» (1 Cor 15, 44-49),
perché è un corpo trasformato dallo Spirito (cfr. Rom 1, 4).
c) Un terzo aspetto, di ordine uditivo, caratterizza il
racconto. Riconoscendo il Signore, i discepoli anticipano la visione che sarà
prerogativa del cielo; con l’ascolto della *parola, sono riportati alla
condizione terrena. Odono così la promessa di una *presenza eterna (Mt 28, 20) e
l’invito a continuare l’opera di Gesù in una *missione propriamente detta (Mt
28, 19; Mc 16, 15-18; Lc 24, 48 s; Gv 20, 22 s; cfr. Mt 28, 10; Gv 20, 17). La
presenza di Gesù non è statica, ma missionaria. Questi tre aspetti devono
rimanere in rapporto dinamico. Il presente è senza posa rinnovato
dall’iniziativa del risorto; il discepolo è invitato ad assumere il passato
nella persona di Gesù di Nazareth, che lo incita allora a costruire l’avvenire
che è la Chiesa.
5. L’apparizione a Paolo.
Essa ha un posto a parte (Gal 1, 12-17; Atti 9, 3-19 par.). Paolo la
colloca allo stesso livello delle altre apparizioni: come i discepoli, egli ha
visto il Signore vivo. Distingue così il fatto di Damasco dalle semplici visioni
(hòrama) che avrà in seguito (Atti 16, 9; 18, 9; 23, 11; 27, 23).
Quest’apparizione è interpretata come una missione affidata a Paolo (Gal 1, 16),
non con la mediazione di un uomo qualsivoglia (1, 1; cfr. Atti 9, 6; 22, 15), ma
in modo diretto (Atti 26, 16 ss). L’ha costituito *apostolo (1 Cor 9, 1), ma non
l’ha tuttavia assimilato ai Dodici. Questi, sotto i tratti del risorto, hanno
riconosciuto Gesù di Nazareth col quale avevano vissuto (cfr. Atti 2, 21 s), e,
sulla parola di Cristo, hanno costituito la Chiesa. Paolo, invece, non conosceva
Gesù se non attraverso la Chiesa che andava perseguitando; e questo significa
due cose. L’apparizione di cui beneficia non è all’origine della Chiesa; è
orientata non verso il Gesù pre-pasquale, ma verso la Chiesa già esistente. Per
tali motivi, e anche perché Luca lo colloca dopo l’ascensione, essa,
conformemente al linguaggio di Paolo (apokalýpsai: Gal 1, 16), viene presentata
in uno stile apocalittico: luce, voce, gloria, conferiscono alla scena un tono
sostanzialmente diverso da quello delle apparizioni familiari destinate agli
Undici. Tuttavia, malgrado queste differenze, Paolo ha catalogato questa
apparizione tra quelle che contrassegnarono i quaranta giorni.
6. Il fatto e il linguaggio.
- Per interpretare correttamente il linguaggio al quale gli evangelisti
ricorrono per riferire l’esperienza pasquale, devono essere rispettate due
condizioni. Alla base, si trova un avvenimento che deve essere definito
escatologico; poiché la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita terrena,
ma l’accesso alla vita che non conosce più la morte (Rom 6, 9), l’avvenimento
delle apparizioni trascende il quadro nel quale viviamo e le categorie per mezzo
delle quali ci esprimiamo: è di per sé indicibile. D’altra parte, si tratta
nello stesso tempo di un’esperienza reale dei discepoli, che ebbe luogo nel
nostro tempo e fa parte della conoscenza storica. Conviene perciò guardarsi da
due eccessi. Dal momento che la risurrezione non è un mito, non si deve
«mitizzare» il linguaggio delle apparizioni: questo equivarrebbe inevitabilmente
a ridurre la presenza di Cristo a quella di un qualsiasi eroe sopravvissuto
nella memoria dei suoi ammiratori. Per evitare un eccesso del genere, per non
ridurre le apparizioni a un’esperienza puramente soggettiva, non bisogna neppure
cadere nell’eccesso opposto e reputare necessario dichiarare che l’oggettività
dipende esclusivamente dall’ordine sensibile, spazio-temporale. Immaginare il
contatto stabilito dal risorto con i suoi discepoli sulla falsariga di quello
che avrebbe potuto essere il contatto di Lazzaro risuscitato che ritrova i suoi,
significherebbe misconoscere il carattere unico della risurrezione di Gesù; non
basta aggiungere qualche ritocco al concetto che ci si fa di un *corpo
rianimato: un confronto del genere porterebbe a conferire un valore indebito ai
particolari materiali dei racconti. In effetti, l’esperienza dei discepoli, non
esclusivamente soggettiva, ripetuta, condivisa, è stata comunicata tramite il
linguaggio ambientale e la tradizione religiosa, in particolare con l’aiuto
della loro *fede nella risurrezione collettiva alla fine dei tempi. Se si vuole
evitare di assimilare il contatto con il risorto con quello che si può avere
quaggiù con un uomo, basta far riferimento alla triplice dimensione che i
racconti manifestano. Per iniziativa del risorto, i discepoli sono preservati
dall’illusione che li porterebbe a dubitare dell’autenticità del loro incontro
con il vivente; «vedendolo», collegano questa esperienza al passato che hanno
vissuto; udendolo, fanno fronte all’avvenire. Nel rapporto tra queste tre
dimensioni, risiede appunto il segreto della presenza di Cristo vivente oggi.
7. «Beati quelli che credono senza vedere!» (Gv 20, 29).
- Attraverso l’incredulità di Tommaso, Giovanni ha presente i futuri credenti.
La loro situazione infatti non è paragonabile da tutti i punti di vista a quella
dei primi testimoni. Certo, i vangeli suggeriscono che anche i discepoli dal
canto loro non avrebbero dovuto aver bisogno delle apparizioni: sarebbe dovuto
bastare l’annuncio (Mc 16, 13), e la comprensione stessa delle Scritture avrebbe
dovuto avviare i discepoli alla fede nella risurrezione (Gv 20, 9). In un certo
senso, le apparizioni rispondono alle esigenze di una fede ancora imperfetta.
Tuttavia, in un altro senso, furono necessarie e hanno una portata unica, quella
che gli evangelisti hanno sottolineato descrivendo le apparizioni dei quaranta
giorni. Quelli che avevano vissuto con Gesù di Nazareth dovevano essere i
testimoni unici e privilegiati di *Gesù il Cristo. Occorreva radicare
storicamente il punto di partenza della fede cristiana e della Chiesa. Così si
può dire che i discepoli hanno visto il Signore vivente, in una esperienza
storica: senza dubbio nel corso di un pasto comunitario, di una passeggiata, di
una pesca... Di colpo sono stati a contatto con il Cristo vivente. Concedendo
loro di riconoscere Gesù, Dio ha donato loro la fede: questa fede è quindi, in
certo qual senso, conseguenza dell’aver visto. La situazione cambia per i
credenti che non sono dei testimoni privilegiati. Per quanto riguarda loro, non
hanno visto quel che hanno visto i discepoli, però sanno che questi l’hanno
visto. Il credente conosce il significato delle apparizioni solo attraverso la
predicazione attuale fatta dalla Chiesa, corpo di Cristo. Si ritrova la triplice
dimensione della presenza del risorto, ma trasposta. L’iniziativa proviene
sempre da Dio, e più precisamente dal risorto, ma oggi egli parla attraverso la
*predicazione attuale. Gesù di Nazareth si fa riconoscere, ma attraverso
l’esperienza storica dei primi testimoni. Il Signore invia in missione, questa
volta in diretta continuità con la missione apostolica. Il risorto è quindi oggi
ancora presente (Mt 28, 20), ma con la mediazione della Chiesa vivente, suo
corpo; e si fa sempre «riconoscere dalla frazione del pane» (Lc 24, 35).
X. LÉON-DUFOUR
→ addii NT 1 - ascensione II 3 - corpo di Cristo I 3 - fede NT II 1 - gloria IV
2 - incredulità II 2 – missione NT II 1 – pasqua III 1 – pasto III – presenza di
Dio NT I – risurrezione NT I 2 – rivelazione NT I 2 a – trasfigurazione 3 –
vedere NT I 2, II.
→ fiducia - fierezza - roccia 1.
→ ascoltare 1 - cielo V 4 - fede NT IV 2 - labbra 2 - libro III, IV - ospitalità 2 - porta.
La *presenza di Dio in Israele si manifesta in vari modi. L’arca ne è uno dei
segni visibili a duplice titolo: - in una cassetta di 125 x 75 x 75 cm. sono
racchiuse le dieci parole scritte dal dito di Dio sulla pietra (Deut 10, 1-5); -
questa cassetta, ricoperta da una lamina d’oro, il «propiziatorio», e sormontata
dai cherubini, è il trono e lo sgabello di Jahvè (Sal 132, 7; 1 Cron 28, 2).
Così Jahvè «che siede sui cherubini» (1 Sam 4, 4; Sal 80, 2) custodisce sotto i
suoi piedi la sua parola. L’arca, riparata sotto la tenda, è come il santuario
mobile che accompagna Israele dalle origini, alla partenza dal Sinai, fino alla
costruzione del *tempio dove sarà collocata. Da questo momento esso passa in
primo piano e l’arca perde importanza e non se ne parla più nei testi; senza
dubbio sparisce assieme al tempio al momento dell’esilio. Sembra che nel secondo
tempio il propiziatorio sia stato nel culto il sostituto dell’arca. Con l’arca
il Dio dell’alleanza manifesta la sua presenza in mezzo al popolo - per guidarlo
e proteggerlo, - per far conoscere la sua parola ed ascoltare la preghiera.
I. DIO PRESENTE MEDIANTE LA SUA AZIONE
L’arca è il segno concreto della presenza attiva di Dio durante l’esodo
e la conquista della terra promessa. L’annotazione più antica (Num 10, 33)
mostra Dio che in tal modo guida egli stesso le marce del suo popolo nel
deserto; lo spostamento dell’arca è accompagnato da un canto bellico (10, 35; 1
Sam 4, 5): essa è l’emblema della *guerra santa ed attesta la parte che Jahvè
stesso, «valente guerriero» (Es 15, 3; Sal 24, 8), prende alla realizzazione
della promessa: passaggio del Giordano, presa di Gerico, lotta contro i
Filistei. Nel santuario di Silo, in relazione con l’arca, appare l’espressione
Jahvè-sabaoth (1 Sam 1, 3; 4, 4; 2 Sam 6, 2). A motivo di questa storia di
guerre l’arca conserva un carattere sacro, ad un tempo terribile e benefico. La
si identifica con Dio, dandole il suo *nome (Num 10, 35; 1 Sam 4, 7). Essa è la
«gloria di Israele» (1 Sam 4, 22; cfr. Lam 2, 1), la forza del potente di
Giacobbe (Sal 132, 8; 78, 61), la presenza del Dio santo in mezzo al suo popolo;
esigenza di *santità in chi le si vuole accostare (1 Sam 6, 19 s; 2 Sam 6,
1-11), essa manifesta la libertà di Dio, che non si lascia annettere dal popolo,
pur continuando ad agire in suo favore (1 Sam 4 - 6). La storia dell’arca
conosce nello stesso tempo il suo coronamento ed il suo termine quando David la
fa entrare solennemente fra la gioia popolare in Gerusalemme (2 Sam 6, 12-19;
cfr. Sal 24, 7-10), dove trova il suo luogo di riposo (Sal 132; 2 Cron 6, 41 s),
e quando infine Salomone la colloca nel tempio (1 Re 8). Fino allora l’arca
mobile era in qualche modo a disposizione delle tribù; secondo la profezia di
Nathan (2 Sam 7) 1’*alleanza passa attraverso la famiglia di David, che ha fatto
l’unità del popolo: Gerusalemme ed il tempio erediteranno i caratteri propri
dell’arca.
II. DIO PRESENTE MEDIANTE LA SUA PAROLA
L’arca è nello stesso tempo il luogo della *parola di Dio. Anzitutto
perché, contenendo le due tavole della *legge, perpetua in Israele la
«*testimonianza» che Dio rende a se stesso, la rivelazione che fa della propria
volontà (Es 31, 18) e la risposta che Israele ha dato a questa parola (Deut 31,
26-27). Arca d’alleanza, arca della testimonianza, queste espressioni designano
l’arca in relazione alle clausole dell’*alleanza incise sulle tavole per le due
parti. L’arca prolunga in certo qual modo, l’incontro del Sinai. Durante le
marce nel deserto, Mosè, quando vuole consultare Jahvè, ottenere da lui una
parola per il popolo (Es 25, 22) o, viceversa, pregare in favore del popolo (Num
14), entra nella tenda; lì, al di sopra dell’arca, Jahvè gli parla e «conversa
con lui come con un suo amico» (Es 33, 7-11; 34, 34; Num 12, 4-8). Più tardi,
Amos presenterà la sua predicazione derivante dall’arca come da un nuovo Sinai
(Am 1, 2), e proprio mentre prega davanti all’arca, Isaia riceve la sua
vocazione profetica (Is 6). Analogamente «dinanzi» all’arca il fedele viene ad
incontrare Dio, sia per ascoltare la sua parola come Samuele (1 Sam 3), sia per
consultarlo tramite i sacerdoti, custodi e interpreti della *legge (Deut 31, 9
ss), sia per pregarlo come Anna (1 Sam 1, 9) o David (2 Sam 7, 18). Una specie
di «devozione» all’arca che passerà anch’essa al tempio (preghiere di Salomone 1
Re 8, 30, e di Ezechia 2 Re 19, 14).
III. L’ARCA NELLA SPERANZA DI ISRAELE E NEL NUOVO TESTAMENTO
Geremia, dopo il 587, invita a non rimpiangere l’arca sparita, perché
la nuova *Gerusalemme, divenuta il centro delle *nazioni, sarà essa stessa il
trono di Jahvè (Ger 3, 16 s), e sotto il regime della nuova alleanza la legge
sarà scritta nei *cuori (31, 31-34). Ezechiele si serve delle immagini
dell’arca, sede mobile di Jahvè, per mostrare che la «*gloria» lascia il tempio
contaminato per raggiungere gli esiliati: Dio oramai sarà presente nel *resto,
nella comunità santa (Ez 9 -11). Sembra che il giudaismo abbia sperato in una
riapparizione dell’arca alla fine dei tempi (2 Mac 2, 4- 8), il che è
rappresentato nell’Apocalisse (11, 19). Effettivamente il NT mostra che l’arca
ha trovato il suo *compimento in Cristo, Verbo di Dio che abita tra gli uomini (Gv
1, 14; Col 2, 9), che agisce per la loro salvezza (1 Tess 2, 13), si fa loro
guida (Gv 8, 12) e diviene il vero propiziatorio (Rom 3, 25; cfr. 1 Gv 2, 2; 4,
10).
J. BRIÈRE
→ alleanza VT I 3 - culto VT I; NT III 2 - gloria III 2 - manna 1 -
pellegrinaggio VT 1 - potenza I 1 - presenza di Dio VT II, III 1 - tempio VT -
testimonianza VT II 2.
→ diluvio –Noè.
→ guerra.
1. Lentamente, nel corso dei secoli, è andata stilizzandosi la
figura del capostipite della classe sacerdotale (Lev 1, 5), della «casa di
Aronne» (Sal 118, 3). Secondo le antiche tradizioni, Aronne, «il levita» (Es 4,
14), fratello di Maria (15, 20), è il portavoce di *Mosè (4, 14-17) presso gli
Israeliti (4, 27-31) o lo stesso faraone (5, 1-5). Spalleggia il fratello nella
battaglia contro gli Amaleciti (17, 10-13) e l’accompagna sul Sinai (19, 24)
dove è ammesso a «*vedere Dio» (24, 10-11). La sua memoria non è senza macchie:
ha avuto una grande responsabilità nella questione del vitello d’oro (Es 32;
cfr. Atti 7, 40) e si è ribellato a Mosè (Num 12, 1-15). Più tardi, secondo la
tradizione sacerdotale, che probabilmente riecheggia i conflitti che
contrapposero le caste *sacerdotali nel periodo del secondo tempio, Aronne
diventa lo specialista degli affari religiosi, l’eponimo della casta dei «figli
di Aronne» (Es 28, 1; cfr. Lc 1, 5). Viene rappresentato *unto come il grande
sacerdote (Es 29, 1-30), di cui porta le vesti e di cui inaugura i gesti (39,
1-31). Dio conferma questo privilegio con un giudizio (Num 16) e con il miracolo
della bacchetta che fiorisce (Num 17, 16-26) e che da quel momento viene
conservata nell’arca (Ebr 9, 4). Ormai è associato al fratello Mosè, quando Dio
impartisce gli ordini (Es 9, 8-10; 12,1...) o quando il popolo grida il suo
malcontento (Es 16, 2; Num 16, 3). Inoltre gli è associato in una comune
*incredulità a Meriba (Num 20, 1-21) e nel destino che lo fa morire prima di
entrare nella terra promessa (20, 22-29). Aronne rimane per sempre il grande
sacerdote per eccellenza (Eccli 45, 6-22), il mirabile intercessore che sviò la
collera divina (Sap 18, 20-25). Infine, presso gli Esseni del tempo di Gesù, non
si aspetta soltanto un *messia-re figlio di David, ma soprattutto il messia di
Aronne, messia-sommo sacerdote.
2. In tutto il NT, solo la Lettera agli Ebrei parla di Aronne.
Contempla due aspetti di questa straordinaria figura. Cristo non si è arrogato
le funzioni di grande sacerdote misericordioso, ma è stato «come Aronne chiamato
da Dio» (Ebr 5, 2-5; cfr. Es 28, l; Num 18, 1). D’altra parte, il sacerdozio di
Aronne, trasmesso per eredità, non annuncia quello di Cristo, a differenza del
sacerdozio di Melchisedech di cui non si può tracciare la genealogia (Ebr 7, 3.
15-21). Infine il sacerdozio di Aronne non può aspirare alla *perfezione che
caratterizza quello di Cristo (7, 11. 23-27).
X. LÉON-DUFOUR
→ Messia VT II 2 - sacerdozio VT I 3.4; NT I 3 - unzione III 3 -
vocazione I.
→ vergogna.
È di fede che Cristo risorto è entrato nella gloria, ma si tratta di un mistero
che trascende l’esperienza sensibile e non può essere racchiuso ad es. nella
sola scena del Monte degli Ulivi dove gli apostoli hanno visto il loro maestro
che li lasciava per ritornare presso Dio. Di fatto sul senso, sul momento, sul
modo dell’esaltazione celeste di Cristo i testi sacri si esprimono con una
varietà la cui ricchezza è istruttiva. Alla loro luce cercheremo di percepire la
realtà profonda del mistero attraverso la genesi della sua espressione
letteraria.
I. IL TRAGITTO TRA CIELO E TERRA
Secondo una concezione spontanea e universale ripresa dalla Bibbia, il
*cielo è la dimora della divinità, tanto che questo termine serve come metafora
per indicare *Dio. La *terra, suo sgabello (Is 66, 1), è la dimora degli uomini
(Sal 115, 16; Eccle 5, 1). Per visitarli Dio «discende» quindi dal cielo (Gen
11, 5; Es 19, 11 ss; Mi 1, 3; Sal 144, 5) e vi «risale» (Gen 17, 22). La *nube è
il suo veicolo (Num 11, 25; Sal 18, 10; Is 19, 1). Lo *Spirito che egli manda
deve anch’esso discendere (Is 32, 15; Mt 3, 16; 1 Piet 1, 12); e così pure la
*parola che, ad opera compiuta, a lui ritorna (ls 55, 10 s; Sap 18, 15). Gli
stessi *angeli, che abitano in cielo con Dio (1 Re 22, 19; Giob 1, 6; Tob 12,
15; Mt 18, 10), discendono per compiere le loro missioni (Dan 4, 10; Mt 28, 2;
Lc 22, 43) e poi risalgono (Giud 13, 20; Tob 12, 20); ascesa e discesa che
stabiliscono il legame tra cielo e terra (Gen 28, 12; Gv 1, 51). Per gli uomini
il tragitto è di per sé impossibile. Parlare di salire al cielo equivale ad
esprimere la ricerca dell’inaccessibile (Deut 30, 12; Sal 139, 8; Prov 30, 4;
Bar 3, 29), quando non si tratti della pretesa di un orgoglio insensato (Gen 11,
4; Is 14, 14; Ger 51, 53; Giob 20, 6; Mt 11, 23). È già molto che le preghiere
salgano al cielo (Tob 12, 12; Eccli 35, 16 s; Atti 10, 4) e che Dio dia
appuntamento agli uomini su *monti dov’egli discende mentre essi salgono, come
il Sinai (Es 19, 20) od il monte Sion (Is 2, 3; 4, 5). Soltanto gli eletti, come
Enoch (Gen 5, 24; Eccli 44, 16; 49, 14) od Elia (2 Re 2, 11; Eccli 48, 9-12; 1
Mac 2, 58), hanno avuto il privilegio di essere rapiti in cielo dalla potenza
divina. In Dan 7, 13 la venuta del *figlio dell’uomo si compie verso l’Antico
dei giorni, e ciò suggerisce pure una salita, benché il suo punto di partenza
sia misterioso e qui le nubi del cielo non siano forse un veicolo, ma soltanto
l’ornamento della dimora divina.
II. LA SALITA DI CRISTO AL CIELO
Secondo questa cosmologia biblica, Gesù esaltato dalla *risurrezione
alla *destra di Dio (Atti 2, 34; Rom 8, 34; Ef 1, 20 s; 1 Piet 3, 22; cfr. Mc
12, 35 ss par.; 14, 62 par.), dove siede in trono come *re (Apoc 1, 5; 3, 21; 5,
6; 7, 17), ha dovuto «salire» al cielo. Di fatto la sua ascensione nelle prime
affermazioni della fede non appare tanto come un fenomeno considerato per se
stesso, quanto come l’espressione indispensabile della esaltazione celeste di
Cristo (cfr. Atti 2, 34; Mc 16, 19; 1 Piet 3, 22). Ma, con il progresso della
rivelazione e la esplicitazione della fede, essa ha assunto una individualità
teologica e storica sempre più netta.
1. Discesa e risalita.
- Implicita all’aurora della fede, la preesistenza di Cristo è andata
esplicitandosi, in quanto la sua preesistenza enunciata dalle Scritture aiutava
a percepire la sua preesistenza ontologica. Prima di vivere sulla terra, Gesù
era presso Dio come Figlio, come Verbo, come Sapienza. Quindi la sua esaltazione
celeste non è stata soltanto il trionfo d’un uomo elevato alla dignità divina,
come poteva suggerire una cristologia primitiva (Atti 2, 22-36; 10, 36-42), ma
il ritorno al mondo celeste di dove era venuto. Giovanni ha espresso più
chiaramente di tutti questa discesa dal cielo (Gv 6, 33. 38. 41. s. 50 s. 58) ed
ha posto in relazione con essa la risalita dell’ascensione (Gv 3, 13; 6, 62).
Qui non si può invocare Rom 10, 6 s, perché il movimento che ivi segue la
discesa dell’incarnazione è la risalita dal regno dei morti piuttosto che
l’ascesa al cielo. Per contro Ef 4, 9 s espone una traiettoria più ampia, dove
la discesa nelle regioni inferiori della terra (od alla terra?) è seguita da una
risalita che porta Cristo al di sopra di tutti i cieli. La stessa traiettoria è
ancora supposta dall’inno di Fil 2, 6-11.
2. Trionfo d’ordine cosmico.
- Un altro motivo doveva concorrere a specificare l’ascensione come tappa
glorificante, distinta dalla *risurrezione e dalla sessione celeste: la
preoccupazione di esprimere meglio la supremazia cosmica di Cristo. Poiché
l’eresia colossese aveva minacciato di abbassare Cristo ad un rango subalterno
fra le gerarchie angeliche, Paolo riprende in modo più categorico quanto già
aveva detto del suo trionfo sulle potenze celesti (1 Cor 15, 24), affermando che
questo trionfo è già acquisito mediante la *croce (Col 2, 15), che fin d’ora il
Cristo siede in trono nei cieli al di sopra di queste potenze, quali che esse
siano (Ef 1, 20 s); ed è a questo punto che egli sfrutta il Sal 68, 19 per
mostrare che la salita di Cristo al di sopra di tutti i cieli è stata la sua
presa di possesso dell’universo, che egli «riempie» (Ef 4, 10) così come lo
«ricapitola» (Ef 1, 10) a titolo di capo. È lo stesso orizzonte cosmico che
appare nell’inno di 1 Tim 3, 16: l’elevazione nella gloria viene dopo la
manifestazione agli angeli ed al mondo. La lettera agli Ebrei ripensa a sua
volta la salita di Cristo in funzione della sua prospettiva di un mondo celeste,
in cui si trovano le realtà della salvezza e, verso il quale sono in
pellegrinaggio gli uomini. Per sedervi alla destra di Dio (Ebr. 1, 3; 8,1; 10,
12 s; 12, 2) al di sopra degli angeli (1, 4-13; 2, 7 ss), il Sommo Sacerdote è
salito per primo, attraversando i cieli (4, 14) e penetrando oltre il velo (6, 9
s) nel santuario dove intercede alla presenza di Dio (9, 24).
3. Momento dell’ascensione.
- Distinta dall’uscita dal sepolcro a titolo di manifestazione cosmica,
la salita di Cristo al cielo doveva ancora esserne staccata per la necessità
pedagogica di raccontare nel tempo degli uomini un avvenimento che lo trascende,
ed anche per tener conto del periodo delle *apparizioni. Certamente nulla
impedisce, anzi, tutto postula che Gesù, manifestandosi ai suoi discepoli, sia
ritornato per questo dal mondo della *gloria dove era entrato fin dal momento
della risurrezione; di fatto non si vede bene dove avrebbe potuto trovarsi
nell’intervallo tra queste manifestazioni, ed egli mostra loro appunto il suo
stato più glorificato. Effettivamente Mt sembra concepire le cose in questo
modo: non parla dell’ascensione, ma, con la dichiarazione di Gesù sul potere di
cui dispone in cielo e sulla terra (Mt 28, 18), lascia intendere che la presa di
possesso del trono celeste è già avvenuta al momento dell’apparizione sul monte
di Galilea. Giovanni insegna la stessa cosa in altro modo: se Gesù fa avvisare i
discepoli da Maria Maddalena che egli sale al Padre (Gv 20, 17), vuol dunque
dire che, quando apparirà loro la sera stessa (20, 19), sarà già salito e
ridisceso. Questo spazio di qualche ora tra la risurrezione e l’ascensione ha
intento pedagogico e permette a Gesù di inculcare a Maria Maddalena ch’egli
entra in uno stato nuovo, dove i contatti di un tempo (cfr. 20, 17 e 11, 2; 12,
3) saranno spiritualizzati (6, 58. 62). In altri testi il momento
dell’ascensione si distingue ancor più da quello della risurrezione: Lc 24, 50
s, venendo dopo i v. 13. 33. 36. 44, dà l’impressione che l’ascensione si debba
collocare alla sera della domenica di Pasqua dopo vari colloqui di Gesù con i
suoi discepoli. Nel finale di Mc 16, 19, che dipende in gran parte da Lc,
l’ascensione è raccontata dopo manifestazioni successive, che non si vede bene
se abbiano occupato un solo giorno oppure parecchi. Infine, secondo Atti 1,
3-11, Gesù ha lasciato i suoi per salire al cielo al termine di quaranta giorni
di apparizioni e di colloqui. L’ascensione raccontata da questi tre testi mira
manifestamente a chiudere il periodo delle apparizioni; non vuol descrivere,
dopo un intervallo variabile ed inesplicabile, il primo ingresso di Cristo nella
gloria, ma piuttosto l’ultima partenza che pone fine alla sua manifestazione in
terra. L’incertezza stessa dell’intervallo si spiega meglio in funzione di
questo momento contingente negli Atti il *numero 40 è scelto senza dubbio in
funzione dei 50 giorni della *Pentecoste: se Gesù risale definitivamente al
cielo, lo fa per mandare il suo Spirito, che ormai lo sostituirà presso i
discepoli. Il vario insegnamento dei testi sacri invita insomma a riconoscere in
questo mistero due aspetti connessi, ma distinti: da una parte la glorificazione
celeste di Cristo, che coincise con la risurrezione, dall’altra la sua ultima
partenza dopo un periodo di apparizioni, partenza e ritorno verso Dio, di cui
gli apostoli sono stati testimoni sul Monte degli Ulivi, e che la festa
liturgica dell’ancensione celebra in modo più particolare.
4. Modo dell’ascensione.
- Atti 1, 9 è il solo testo canonico che descriva in qualche modo la salita di
Gesù al cielo, e la sua estrema discrezione conferma che non è sua pretesa
ritrarre il primo ingresso di Cristo nella gloria. Questo quadro così sobrio non
ha nulla a che vedere con le ipotesi degli eroi pagani come Romolo o Mitra, e
neppure con il precedente biblico di *Elia. Facendo intervenire la nube
stereotipata delle teofanie ed una frase angelica che spiega la scena, esso
rinuncia a fornire del mistero una descrizione realistica di dubbio gusto, quale
sarà inventata da taluni apocrifi, e si limita ai dati essenziali che ne evocano
il senso. Non già che questa scena, localizzata in modo preciso sul Monte degli
Ulivi, non sia un ricordo storico, né che Gesù Cristo non abbia potuto concedere
ai suoi discepoli una certa esperienza sensibile del suo ritorno presso Dio, ma
l’intenzione del racconto non è certamente di descrivere un trionfo, che di
fatto è avvenuto già al momento della risurrezione; è soltanto di insegnare che,
dopo un certo periodo di colloqui familiari con i discepoli, il risorto ha
ritirato dal mondo la sua *presenza manifesta per non restituirla che alla fine
dei tempi.
III. L’ASCENSIONE, PRELUDIO DELLA PARUSIA
«Quel Gesù or ora salito al cielo ritornerà nello stesso apparato con
cui lo avete visto andarvi» (Atti 1, 11). Oltre a spiegare l’economia del
racconto dell’ascensione, questa frase angelica stabilisce un legame profondo
tra la salita di Cristo al cielo e il suo ritorno alla fine dei tempi. Poiché
questo si fa attendere, il soggiorno di Cristo in cielo, in sé definitivo per
quel che lo concerne, resta come una tappa transitoria nell’economia generale
della salvezza: vi rimane nascosto agli uomini in attesa della sua
manifestazione ultima (Col 3, 1-4) al momento della restaurazione universale
(Atti 3, 21; 1 Tess 1, 10). Allora egli ritornerà come è partito (Atti 1, 11),
discendendo dal cielo (1 Tess 4, 16; 2 Tess 1, 7) sulle nubi (Apoc 1, 7; cfr.
14, 14 ss), mentre i suoi eletti gli saliranno incontro, anch’essi sulle nubi (1
Tess 4, 17), come già i due testimoni dell’Apocalisse (Apoc 11, 12). È sempre la
stessa presentazione cosmologica, inerente alla nostra immaginazione umana e
d’altronde ridotta al minimo. L’affermazione profonda che emerge da tutti questi
temi è che Cristo, trionfando della morte, ha inaugurato un nuovo modo di vita
presso Dio. Vi è entrato per primo per preparare un posto ai suoi eletti, poi
ritornerà e ve li introdurrà affinché siano sempre con lui (Gv 14, 2 s).
IV. SPIRITUALITÀ CRISTIANA DELL’ASCENSIONE
In attesa di questo momento, i cristiani devono restare uniti, mediante la fede
e i sacramenti, al loro Signore glorificato. Fin d’ora *risuscitati e persino
assisi nei cieli con lui (Ef 2, 6), essi ricercano «le cose dell’alto», perché
la loro vera *vita è «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 1 ss). La loro città
si trova nei cieli (Fil 3, 20). La casa celeste che li attende, e di cui essi
aspirano a rivestirsi (2 Cor 5, 1 ss), non è altro che il Cristo stesso glorioso
(Fil 3, 21), l’«uomo celeste» (1 Cor 15, 45-49). Di qui sgorga tutta una
spiritualità di ascensione, che è a base di *speranza, perché fa vivere fin
d’ora il cristiano nella realtà del nuovo mondo dove Cristo regna. Egli non è
tuttavia strappato al vecchio mondo che ancora lo ritiene, ma, al contrario, ha
la missione ed il potere di vivervi in un modo nuovo, che solleva questo mondo
verso la trasformazione gloriosa a cui Dio lo chiama.
P. BENOIT
→ Elia VT 4; NT 2 - gloria IV 2 - monte III 1 - nube 4 -
risurrezione NT I 2.
→ abnegazione - digiuno - mondo NT III 1 - morte NT III 3 - penitenza-conversione VT I 2 - vegliare I 2, II 2 - vino I 2.
La *rivelazione biblica è essenzialmente *parola di Dio all’uomo. Ecco perché,
mentre nei misteri greci e nella gnosi orientale la relazione dell’uomo con Dio
si fonda soprattutto sulla *visione, secondo la Bibbia «la fede nasce
dall’ascolto» (Rom 10, 17).
1. L’uomo deve ascoltare Dio.
a) Ascoltate, grida il profeta con l’autorità di Dio (Am 3, 1;
Ger 7, 2). Ascoltate, ripete il sapiente in nome dell’esperienza e della
conoscenza della *legge (Prov 1, 8). Ascolta, Israele, ripete ogni giorno il pio
israelita per compenetrarsi della *volontà del suo Dio (Deut 6, 4; Mc 12, 29).
Ascoltate, riprende a sua volta Gesù stesso, parola di Dio (Mc 4, 3. 9 par.).
Ora, secondo il senso ebraico della parola *verità, ascoltare, accogliere la
parola di Dio, non significa soltanto prestarle attento orecchio, significa
aprirle il proprio *cuore (Atti 16, 14), metterla in pratica (Mt 7, 24 ss),
*obbedire. Questa è l’obbedienza della *fede richiesta dalla predicazione
ascoltata (Rom 1, 5; 10, 14 ss).
b) Ma l’uomo non vuole ascoltare (Deut 18, 16. 19), ed è questo
il suo dramma. È sordo agli appelli di Dio; il suo orecchio ed il suo cuore sono
incirconcisi (Ger 6, 10; 9, 25; Atti 7, 51). Ecco il peccato dei Giudei
denunziato da Gesù: «Voi non potete ascoltare la mia parola... Chi è da Dio
ascolta le parole di Dio; se voi non ascoltate, è perché non siete da Dio» (Gv
8, 43. 47). Di fatto Dio solo può aprire l’orecchio del suo *discepolo (Is 50,
5; cfr. 1 Sam 9, 15; Giob 36, 10), «forarglielo» perché obbedisca (Sal 40, 7 s).
Quindi, nei tempi messianici, i sordi sentiranno, ed i miracoli di Gesù
significano che infine il popolo sordo comprenderà la parola di Dio e gli
obbedirà (Is 29, 18; 35, 5; 42, 18 ss; 43, 8; Mt 11, 5). È quel che proclama ai
discepoli la voce dal cielo: «Questo è il mio Figlio diletto, ascoltatelo» (Mt
17, 5 par.). *Maria, abituata a conservare fedelmente le parole di Dio nel
proprio cuore (Lc 2, 19. 51), è stata proclamata beata dal figlio Gesù, quando
ha rivelato il senso profondo della sua maternità: «Beati coloro che ascoltano
la parola di Dio e la custodiscono» (Lc 11, 28).
2. Dio ascolta l’uomo.
- Nella sua *preghiera l’uomo domanda a Dio di ascoltarlo, cioè di
esaudirlo. Dio non ascoltà né gli ingiusti, né i peccatori (Is 1, 15; Mt 3, 4;
Gv 9, 31); ma ascolta il povero, la vedova e l’orfano, gli umili, i prigionieri
(Es 22, 22-26; Sal 10, 17; 102, 21; Giac 5, 4). Ascolta i giusti, coloro che
sono pii e fanno la sua volontà (Sal 34, 16. 18; Gv 9, 31; 1 Piet 3, 12), coloro
che domandano secondo la sua. *volontà (1 Gv 5, 14 s). E lo fa perché ascolta
«sempre» il suo Figlio Gesù (Gv 11, 41 s), attraverso il quale passa per sempre
la preghiera del cristiano.
C. AUGUSTIN
→ conoscere VT 2 - discepolo - fede VT I; NT I 2 - obbedienza - parola di Dio -
seguire - trasfigurazione 2 - vocazione.
→ Abele –cuore II 2 a - odio I 1 - sangue VT 1; NT 1 - vendetta 1 - violenza II.
→ Chiesa - culto - eresia 2 - fede VT IV - pellegrinaggio VT 1 - popolo A II 6; B II 6; C 0 - preghiera II - sabato VT 3 - scisma 0.
→addii - inferi e inferno NT III - presenza di Dio - silenzio 1.
→ angoscia 1 fede 0 - fiducia 3 - fierezza - liberazione-libertà III 3 a - miracolo III 3 a.
→ digiuno –vino I 2.
1. Gli astri nel paganesimo antico.
- Più di noi, l’uomo dell’Oriente antico era sensibile alla presenza degli
astri. Sole, luna, pianeti e stelle gli evocavano un mondo misterioso
completamente diverso dal nostro: quello del *cielo, che egli si raffigurava
sotto la forma di semisfere sovrapposte, in cui gli astri inserivano le loro
orbite. I loro cicli regolari gli permettevano di misurare il *tempo e di
stabilire il suo calendario; ma gli suggerivano pure che il mondo è governato
dalla legge del ritorno eterno e che, dall'alto, gli astri impongono alle cose
della terra certi ritmi sacri, che non hanno misura comune con i casi mobili
della storia. Questi corpi luminosi gli parevano quindi una manifestazione delle
potenze soprannaturali che dominano l’umanità e ne determinano il destino. A
queste potenze egli rendeva spontaneamente un culto per assicurarsene il favore.
Il sole, la luna, il pianeta Venere ecc., erano per lui altrettanti dèi o dee, e
le costellazioni stesse disegnavano nel cielo figure enigmatiche alle quali egli
dava nomi mitici. Questo interesse che egli portava agli astri lo induceva ad
osservarli metodicamente: Egiziani e Mesopotamici erano rinomati per le loro
conoscenze astronomiche; ma questa scienza embrionale era strettamente legata
alle pratiche divinatorie *magiche ed idolatriche. Così l’uomo dell’antichità
era come soggiogato da potenze terribili, che pesavano sul suo destino e gli
nascondevano il vero Dio.
2. Gli astri, servi di Dio.
- Se si apre la Bibbia, il clima cambia di colpo. Certamente gli astri non si
distinguono ancora bene dagli *angeli, che costituiscono la corte di Dio (Giob
38, 7; Sal 148, 2 s): questi «eserciti celesti» (Gen 2, 1) sono considerati come
esseri animati. Ma sono creature come tutto il resto dell’universo (Am 5, 8; Gen
1, 14 ss; Sal 33, 6; 136, 7 ss). All’appello di Jahvè essi brillano al loro
posto (Bar 3, 33 ss), per suo ordine intervengono per appoggiare i combattimenti
del suo popolo (Gios 10, 12 s; Giud 5, 20). Gli astri non sono quindi degli dèi,
ma i servi di Jahvè sabaot. Se regolano il tempo, se presiedono al giorno e alla
notte, si è perché Dio ha loro assegnato queste funzioni precise (Gen 1, 15 s).
Si può ammirare lo splendore del sole (Sal 19, 5 ss), la bellezza della luna (Cant
6, 10), l’ordine perfetto delle rivoluzioni celesti (Sap 7, 18 ss); ma tutto
questo canta la *gloria del Dio unico (Sal 19, 2), che ha determinato le «leggi
dei cieli» (Giob 38, 31 ss). Così gli astri non nascondono più il loro creatore,
ma lo rivelano (Sap 13, 5). Purificati del loro significato *idolatrico, essi
simboleggiano ora le realtà terrene che manifestano il disegno di Dio: la
moltitudine dei figli di Abramo (Gen 15, 5), la venuta del re davidico (Num 24,
17), la luce della salvezza futura (Is 60, 1 ss; Mal 3, 20) o la gloria eterna
dei giusti risuscitati (Dan 12, 3).
3. Seduzione del paganesimo.
- Nonostante questa fermezza della rivelazione biblica Israele non sfugge alla
tentazione dei culti astrali. Nei periodi di regresso religioso, il sole, la
luna e tutto l’esercito dei cieli conservano o ritrovano adoratori (2 Re 17, 16;
21, 3. 5; Ez 8, 16): per un *timore istintivo di queste potenze cosmiche si
cerca di conciliarsele. Si fanno offerte alla «regina del cielo», Ishtar, il
pianeta Venere (Ger 7, 18; 44, 17 ss); si osservano i «segni del cielo» (Ger 10,
2) per leggervi i destini (Is 47, 13). Ma la voce dei profeti si leva contro
questo ritorno offensivo del paganesimo; il Deuteronomio lo stigmatizza (Deut 4,
19; 17, 3); il re Giosia interviene brutalmente per estirparne le pratiche (2 Re
23, 4 s. 11); agli adoratori degli astri Geremia promette il peggiore dei
castighi (Ger 8, 1 s). Ma sarà necessaria la prova della dispersione e
dell’esilio perché Israele convertito si distacchi alla fine da questa forma di
idolatria (cfr. Giob 31, 26 ss), di cui la Sapienza alessandrina proclamerà
esplicitamente la vanità (Sap 13, 1-5).
4. Dagli astri agli angeli cattivi.
- Questa lotta secolare contro i culti astrali ha avuto ripercussioni
nel campo delle credenze. Se gli astri costituiscono in tal modo una insidia per
gli uomini distogliendoli dal vero Dio, non è forse segno che sono legati essi
stessi a potenze malvagie, ostili a Dio? Tra gli *angeli che formano l’esercito
del cielo non ce ne sono forse dei decaduti, che si studiano di trarre gli
uomini dietro di sé, facendosene adorare? II vecchio tema mitico della *guerra
degli dèi fornisce qui tutto un materiale, che permette di rappresentare
poeticamente la caduta delle potenze celesti in rivolta contro Dio (Lucifero: Is
14, 12-15). La figura di *Satana, nel NT, si arricchirà di questi elementi
simbolici (Apoc 8, 10; 9, 1; 12, 3 s. 7 ss). Nessuna meraviglia quindi nel veder
annunziare per il *giorno di Jahvè un *giudizio dell’esercito dei cieli, punito
con i suoi adoratori terreni (Is 24, 21 ss): qui gli astri appaiono in luogo dei
*demoni.
5. Nell’universo redento da Cristo.
Nell'universo redento da Cristo gli astri ritrovano tuttavia la loro funzione
provvidenziale. La croce ha liberato gli uomini dall’angoscia cosmica, quella
che terrorizzava i Colossesi: essi non sono più asserviti agli «elementi del
mondo», ora che Cristo ha «spogliato i Principati e le Potestà» per «trascinarli
nel suo corteo trionfale» (Col 2, 8. 15-18; Gal 4, 3). Non c’è più determinismo
astrale, non ci sono più destini scritti nel cielo: Cristo ha posto termine alle
superstizioni pagane. Si suppone che un astro annunzi la sua nascita (Mt 2, 2),
designando lui stesso come la stella del mattino per eccellenza (Apoc 2, 28; 22,
16), in attesa che questo stesso astro si levi nei nostri cuori (2 Piet 1, 19;
cfr. l’Exultet pasquale). Egli è il vero sole che illumina il mondo rinnovato (Lc
1, 78 s). E se è certo che l’oscuramento degli astri preluderà come un *segno
alla sua parusia gloriosa (Mt 24, 29 par.; Is 13, 9 s; 34, 4; Gioe 4, 15) come
ha segnato il momento della sua morte (Mt 27, 45 par.), si è perché nel mondo
futuro queste luci create diventeranno inutili: la gloria di Dio illuminerà essa
stessa la nuova Gerusalemme e l’agnello sarà la sua lucerna (Apoc 21, 23).
A. DARRIEUTORT e P. GRELOT
cielo I - demoni VT 3 - idoli II 2 - luce e tenebre VT I - magia 1 - segno VT II
2 -tempo VT I 1.
→ calamità 2 - cielo IV - desiderio - giorno del Signore VT II; NT II - memoria 3 - Messia VT; NT 1 - pazienza - regno VT III - salvezza NT II 3 - speranza - vegliare I.
→ fiducia - fierezza - liberazione-libertà III 3 a.
→amen 0 –benedizione II 3 - desiderio - maledizione IV.
VECCHIO TESTAMENTO
I. OGNI AUTORITÀ VIENE DA DIO
Questo principio, che Paolo formulerà (Rom 13, 1), è costantemente
supposto nel VT: ma in esso tutto l’esercizio di questa autorità appare soggetto
alle esigenze imperiose della volontà divina.
1. Aspetti dell’autorità terrena.
- Nella creazione fatta da Dio, da lui procede ogni potere: quello dell’uomo
sulla natura (Gen 1, 28), del marito sulla moglie (Gen 3, 16), dei genitori sui
figli (Lev 19, 3). Quando si considerano le strutture più complesse della
società umana, ancora da Dio coloro che comandano hanno la responsabilità del
bene comune per il gruppo che è loro soggetto: Jahvè ordina ad Agar l’obbedienza
alla padrona (Gen 16, 9) e conferisce ad Hazael il governo di Damasco (1 Re 19,
15; 2 Re 8, 9-13) ed a Nabuchodonosor quello di tutto l’Oriente (Ger 27, 6). Se
così è presso gli stessi pagani (cfr. Eccli 10, 4), a più forte ragione nel
popolo di Dio. Ma qui il problema posto dall’autorità terrena riveste un
carattere speciale, che merita uno studio particolare.
2. Condizioni per l’esercizio dell’autorità.
- L’autorità affidata da Dio non è assoluta, ma limitata da obblighi morali. La
*legge ne tempera l’esercizio, precisando persino i *diritti degli *schiavi (Es
21, 1-6. 26 s; Deut 15, 12-18; Eccli 33, 30...). Quanto ai figli, l’autorità del
padre su di essi deve avere per scopo la loro buona *educazione (Prov 23, 13 s;
Eccli 7, 23 s; 30, 1...). Ma dove l’uomo è più portato ad oltrepassare i limiti
del suo potere è in materia di autorità politica. Inebriato della sua *potenza,
egli se ne attribuisce il merito, come l’Assiria vittoriosa (Is 10, 7- 11. 13
s); divinizza se stesso (Ez 28, 2-5) e si leva contro il Signore sovrano (Is 14,
13 s), sino ad affrontarlo in modo blasfemo (Dan 11, 36). Quando giunge a questo
punto, egli si assimila alle *bestie sataniche che Daniele vedeva salire dal
mare ed a cui Dio dava potere per un certo tempo (Dan 7, 3-8. 19-25). Ma un’autorítà
così pervertita si vota da sola al *giudizio divino, che non mancherà di
abbatterla nel giorno fissato (Dan 7, 11 s. 26): avendo legato la sua causa a
quella delle potenze malvagie, essa alla fine cadrà con esse.
II. L’AUTORITÀ NEL POPOLO DI DIO
L’uomo non ha dunque saputo rispettare l’ordine e le condizioni di
esercizio concernenti l’autorità terrena. Per restaurarlo Dio inaugura nella
storia del suo popolo un disegno di *salvezza, in cui l’autorità terrena
assumerà un senso nuovo, nella prospettiva della redenzione.
1. I due poteri.
- A capo del suo popolo Dio colloca dei procuratori. Non si tratta da prima di
personaggi poetici, ma di inviati religiosi, di *mediatori, che hanno come
*missione di fare di Israele «un regno sacerdotale ed una nazione santa» (Es 19,
6). *Mosè, i *profeti, i *sacerdoti sono in tal modo i depositari di un potere
di natura spirituale, che esercitano in modo visibile per delegazione divina.
Tuttavia Israele è anche una comunità nazionale, uno stato dotato di
organizzazione politica. Questa è teocratica perché il potere vi si esercita
sempre in nome di Dio, qualunque ne sia la forma: potere degli anziani che
assistono Mosè (Es 18, 21 ss; Num 11, 24 s), dei capi *carismatici come Giosuè e
i Giudici, e infine dei *re. La dottrina dell’alleanza suppone così una stretta
associazione dei due poteri e la subordinazione del politico allo spirituale,
conformemente alla vocazione nazionale. Di qui, in pratica, conflitti
inevitabili: di Saul con Samuele (1 Sam 13, 7-15; 15), di Achab con Elia (1 Re
21, 17-24), e di tanti re con i *profeti contemporanei. Così, nel popolo di Dio,
l’autorità umana è minacciata dagli stessi abusi che si riscontrano dappertutto.
Ragione di più perché sia sottomessa al giudizio divino: il potere politico
della monarchia israelitica finirà per scomparire nella catastrofe dell’esilio.
2. Di fronte agli imperi pagani.
- Quando il giudaismo si ricostruisce dopo l’esilio, le sue strutture ritrovano
le forme della teocrazia originale. La distinzione del potere spirituale e del
potere poetico vi si afferma tanto meglio, in quanto quest’ultimo è nelle mani
degli imperi stranieri, di cui ora i Giudei sono i sudditi. In questa nuova
situazione il popolo di Dio adotta, secondo i casi, due atteggiamenti. Il primo
è una franca accettazione: da Dio Ciro e i suoi successori hanno ricevuto
l’impero (Is 45, 1 ss); poiché essi favoriscono la restaurazione del culto
sacro, bisogna servire lealmente e pregare per essi (Ger 29, 7; Bar 1, 10 s). Il
secondo, quando l’impero pagano diventa persecutore, è un appello alla *vendetta
divina ed infine alla rivolta contro di esso (Giudit; 1 Mac 2, 15-28). Ma la
restaurazione monarchica dell’epoca maccabaica riporta una concentrazione
equivoca dei poteri, che precipita rapidamente nella peggiore decadenza. Con
l’intervento di Roma nel 63 il popolo di Dio si trova sotto il giogo dei
detestati pagani.
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ
1. Gesù depositario dell’autorità.
- Durante la sua vita pubblica Gesù appare come il depositario di
un’autorità (exousìa) singolare: predica con autorità (Mt 7, 29 par.), ha il
potere di rimettere i peccati (Mt 9, 6 ss), è padrone del sabato (Mc 2, 28
par.). Potere completamente religioso d’un inviato divino, dinanzi al quale i
Giudei si pongono la domanda essenziale: con quale autorità fa queste cose (Mt
21, 23 par.)? A tale domanda Gesù non risponde direttamente (Mt 21, 27 par.). Ma
i *segni che compie spingono gli spiriti verso una risposta: egli ha potere (exousìa)
sulla malattia (Mt 8, 8 s par.), sugli elementi (Mc 4, 41 par.), sui demoni (Mt
12, 28 par.). La sua autorità si estende dunque fino alle cose politiche; in
questo campo il potere che egli ha rifiutato di avere da *Satana (Lc 4, 5 ss),
lo ha ricevuto in realtà da Dio. Tuttavia di questo potere egli non approfitta
tra gli uomini. Mentre i capi di questo mondo dimostrano il loro potere
esercitando il dominio, egli sta in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc 22,
25 ss). Egli è maestro e signore (Gv 13, 13); ma è venuto per *servire e per
dare la propria vita (Mc 10, 42 ss par.). E perché egli assume in tal modo la
condizione di *schiavo, ogni *ginocchio si piegherà alla fine dinanzi a lui (Fil
2, 5-11). Per questo, una volta risuscitato, potrà dire ai suoi che «gli è stato
dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28, 18).
2. Gesù dinanzi alle autorità terrene.
- L’atteggiamento di Gesù nei confronti delle autorità terrene è tanto più
significativo. Dinanzi alle autorità giudaiche egli rivendica la sua qualità di
*figlio dell’uomo (Mt 26, 63 s par.), base d’un potere attestato dalle Scritture
(Dan 7, 14). Dinanzi all’autorità politica la sua posizione è più sfumata. Egli
riconosce la competenza propria di Cesare (Mt 22, 21 par.); ma ciò non gli
impedisce di vedere l’ingiustizia dei rappresentanti dell’autorità (Mt 20, 25;
Lc 13, 32). Quando compare dinanzi a Pilato, non ne discute il potere, di cui
conosce l’origine divina; ma mette in rilievo l’iniquità di cui è vittima (Gv
19, 11), e rivendica a se stesso il regno che non è di questo mondo (Gv 18, 36).
Se dunque lo spirituale e il temporale, ciascuno a modo suo, derivano per
principio da lui, egli nondimeno consacra la loro netta distinzione e fa capire
che, per il momento, il temporale conserva nel suo ordine una vera consistenza;
questo stato di cose durerà fino al suo ritorno in gloria. I due poteri si
confondevano nella teocrazia ebraica; non sarà più così nella Chiesa.
II. GLI APOSTOLI
1. I depositari dell’autorità di Gesù.
- Inviando i suoi *discepoli in *missione, Gesù ha delegato loro la sua
autorità («chi ascolta voi, ascolta me»: Lc 10, 16 s) ed affidato loro i suoi
poteri (cfr. Mc 3, 14 s par.; Lc 10, 19). Ma ha pure insegnato loro che
l’esercizio di questi poteri era in realtà un *servizio (Lc 22, 26 par.; Gv 13,
14 s). Effettivamente, in seguito si vede che gli *apostoli usano le loro
prerogative, ad es. per escludere dalla comunità i membri indegni (1 Cor 5, 4
s). Tuttavia, lungi dal far sentire il peso della loro autorità, essi si
preoccupano anzitutto di servire Cristo egli uomini (1 Tess 2, 6-10). Perché
questa autorità, pur essendo esercitata in modo visibile, non cessa di essere di
ordine spirituale: concerne esclusivamente il governo della Chiesa. C’è qui una
innovazione importante: contrariamente alle città antiche, la distinzione tra lo
spirituale ed il politico è ora effettiva.
2. L’esercizio dell’autorità umana.
- Per quanto concerne il valore dell’autorità umana e le sue condizioni
di esercizio, gli scritti apostolici confermano la dottrina del VT, ma le danno
una nuova base. La *moglie deve essere soggetta al marito come la Chiesa a
Cristo; ma a sua volta il marito deve amare la propria moglie come Cristo ha
amato la Chiesa (Ef 5, 22-33). I figli devono obbedire ai genitori (Col 3, 20;
Ef 6, 1 ss) perché ogni *paternità prende nome da Dio (Ef 3, 15); ma i genitori
devono guardarsi, nell’*educarli, dall’esasperarli (Ef 6, 4; Col 3, 21). Gli
*schiavi devono obbedire ai loro padroni, anche se duri e molesti (1 Piet 2,
18), come a Cristo stesso (Col 3, 22; Ef 6, 5...); ma i padroni devono
ricordarsi che hanno anch’essi un padrone in cielo (Ef 6, 9) ed imparare a
trattare i loro schiavi come *fratelli (Filem 16). Non è sufficiente dire che
questa morale sociale salvaguarda una giusta concezione dell’autorità nella
società; essa le dà come base e come ideale il servizio degli altri compiuto
nella carità.
3. I rapporti della Chiesa con le autorità umane.
- Gli apostoli, depositari dell’autorità di Gesù, si trovano di fronte
autorità umane, con le quali devono entrare in rapporto. Tra esse, le autorità
ebraiche non sono come le altre: hanno un potere di ordine religioso e traggono
la loro origine da una istituzione divina; gli apostoli quindi le trattano con
rispetto (Atti 4, 9; 23, 1-5), finché la loro opposizione a Cristo non è
manifesta. Ma queste autorità sono incorse in una grave responsabilità
disconoscendo Cristo e facendolo condannare (Atti 3, 13 ss; 13, 27 s). E
l’aggravano ancora opponendosi alla predicazione del vangelo; gli apostoli
quindi non tengono conto delle loro proibizioni, ritenendo che bisogna obbedire
a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5, 29). Rifiutando l’autorità di Cristo i
capi ebrei hanno perduto il loro potere spirituale. I rapporti con l’autorità
politica pongono un problema diverso. Di fronte all’impero romano Paolo professa
una completa lealtà; rivendica la sua qualità di cittadino romano (Atti 16, 37;
22, 25...) e fa appello a Cesare per ottenere giustizia (Atti 25, 12). Proclama
che ogni autorità viene da Dio ed è data in vista del bene comune; la
sottomissione ai poteri civili è quindi un dovere di *coscienza, perché essi
sono i ministri della giustizia divina (Rom 13, 1-7), e si deve pregare per i re
e per i depositari dell’autorità (1 Tim 2, 2). La stessa dottrina si trova nella
prima lettera di Pietro (1 Piet 2, 13-17). Ciò suppone che le autorità civili si
sottomettano anche esse alla legge di Dio. Ma in nessun passo viene rivendicato
alle autorità spirituali della Chiesa un potere diretto sulle cose politiche. Se
invece l’autorità politica, come aveva fatto l’impero siro persecutore dei
Giudei, si leva a sua volta contro Dio e contro il suo Cristo, allora la
profezia cristiana ne annuncia solennemente il giudizio e la caduta: così fa
l’Apocalisse dinanzi alla Roma di Nerone e di Domiziano (Apoc. 17, 1-19, 10).
Nell’Impero totalitario che pretende di incarnare l’autorità divina,il potere
politico non è più se non una caricatura satanica, dinanzi alla quale nessun
credente potrebbe curvare il capo.
F. AMIOT e P. GRELOT
→ apostoli - ascoltare 1 a - carismi II 4 - Chiesa III 2 b c - coscienza 2 b -
deserto NT II - diritto VT 1 - giuramento NT 1 - insegnare - legge C I -
ministero II 1.3 - missione - obbedienza - padri e Padre I 1, III 2.3, V 3 -
parola di Dio NT I 1 - pastore e gregge - perdono II 3 - Pietro (S.) 2.3 b -
potenza - re - sigillo 1 - Signore - timor di Dio III - tradizione VT II 2; NT
II 1 - vecchiaia 2.
→ cupidigia - orgoglio 3 - peccato IV 3 a - ricchezza II, III.
→ culto VT II; NT III 0.3 –feste VT II 2 - speranza - tempo.
→ compiere NT 1 –giorno del Signore - vegliare I - visita.
→ anticristo –guerra –nemico - odio - Satana.
→ braccio e mano –cuore –I 1 –frutto - grazia V - opere - lavoro.
→ feste VT I - pane II 3 - Pasqua I 3, III 2 - puro NT II 3.