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→ guerra VT III 2 - nemico II 2 - vergogna I 1 - vittoria VT 2.
→ insegnare VT I 4; NT I, II 2 - legge C I - sacerdozio VT II 2 - tradizione VT III; NT 1 1.
I. IL
VALORE DELLA SCRITTURA
In Babilonia o in Egitto, dove il materiale per scrivere è caro e ingombrante,
ed il sistema di scrittura è estremamente complicato, la scienza della scrittura
è il privilegio di una casta, quella degli scribi, e passa per una invenzione
degli dèi Nebo e Thot. Essere iniziati al suo segreto significa essere ammessi
nel settore misterioso dove si fissano i destini del mondo. Taluni re di Assiria
si faranno gloria di avervi avuto accesso. Ancora ai giorni nostri, imparando a
scrivere, il bambino, e soprattutto l’adulto, varcano una soglia. In Palestina,
tra il Sinai e la Fenicia, precisamente là dove il genio dell’uomo inventò
l’alfabeto, Israele trova fin dalla nascita una scrittura alla portata di tutti,
che gli fa prendere un vantaggio decisivo in rapporto alle antiche civiltà di
Egitto e di Mesopotamia, prigioniere delle loro scritture arcaiche. Al tempo di
Gedeone, molto prima di David, un giovane di Succot è capace di fornire per
iscritto una lista degli anziani della sua piccola città (Giud 8, 14). Fin dai
primi tempi la scrittura è, se non diffusa, almeno conosciuta in Israele, e
diventa uno degli strumenti essenziali della sua religione. Molto prima che
Samuele metta per iscritto «il diritto del regno» (1 Sam 10, 25), non è
anacronistico che Giosuè abbia potuto scrivere le clausole dell’alleanza di
Sichem (Gios 24, 26), oppure Mosè le leggi del Sinai (Es 24, 4) ed il ricordo
della vittoria su Amalec (17, 14).
II. L'IMPORTANZA DELLO SCRITTO
«Ciò che ho scritto è scritto» (Gv 19, 22), risponde Pilato ai sommi sacerdoti
venuti a lagnarsi della iscrizione posta sulla croce di Gesù. Il romano, i
giudei e l’evangelista sono d'accordo nel vedere in questo cartello un segno:
nella cosa scritta c’è qualcosa di irrevocabile; è un’espressione solenne e
definitiva della *parola e quindi si presta naturalmente ad esprimere il
carattere infallibile ed intangibile della parola divina, quella che rimane in
eterno (Sal 119, 89). Guai a chi la altera (Apoc 22, 18 s)! Stolto chi si
immagina di renderla vana distruggendola (cfr. Ger 36, 23)! Se il rito delle
«acque amare» (Num 5, 23), nonostante il progresso che rappresenta in rapporto
alle ordalie primitive, suppone ancora un pensiero arcaico, l’iscrizione delle
parole divine, prescritta sugli stipiti delle porte di ogni casa (Deut 6, 9; 11,
20), sul rotolo affidato al re in occasione del suo innalzamento al trono (17,
18), sul diadema del sommo sacerdote (Es 39, 30), esprime in modo purissimo la
sovranità su Israele della parola di Jahvè, l’esigenza irrevocabile della sua
*volontà. È del tutto naturale che i *profeti affidino alla scrittura il testo
dei loro oracoli. Forma solenne ed irrevocabile della parola, lo scritto è
costantemente usato in Oriente da coloro che pretendono di fissare il destino. I
profeti di Israele, come hanno coscienza di ricevere la parola di Jahvè, così
attestano che, affidandola alla scrittura, lo fanno ancora per ordine di Dio (Is
8, 1; Ger 36, 1-4; Ab 2, 2; Apoc 14, 13; 19, 9) affinché questa *testimonianza
suggellata pubblicamente (Is 8, 16) attesti, quando gli avvenimenti si
verificheranno, che soltanto Jahvè li aveva già rivelati (Is 41, 26). Così la
scrittura rende testimonianza alla *fedeltà di Dio.
III. LE SACRE SCRITTURE
Espressione permanente e ufficiale dell’azione di Dio, delle sue esigenze e
delle sue promesse, la trascrizione della parola divina è sacra al pari di essa:
le Scritture di Israele sono «le Scritture Sante». La parola non si trova ancora
nel VT, ma già le tavole di pietra che contengono l’essenziale della legge (Es
24, 12) son considerate come «scritte dal dito di Dio» (31, 18), onuste della
sua *santità. Il NT usa all’occasione l’espressione rabbinica «le Scritture
Sante» (Rom 1, 2; cfr. «le Sacre Lettere», 2 Tim 3, 15), ma parla generalmente
delle Scritture od anche della Scrittura al singolare, sia per riportare od
indicare un testo preciso (Mc 12, 10; Lc 4, 21), sia anche per designare
l’insieme del VT (Gv 2, 22; 10, 35; Atti 8, 32; Gal 3, 22). Così si esprime la
coscienza viva dell’unità profonda dei diversi scritti del VT, che sarà resa in
modo ancora più suggestivo dal nome cristiano tradizionale di «Bibbia» per
designare la raccolta dei libri sacri. Ma la formula più frequente è il semplice
«sta scritto», dove il passivo designa Dio senza nominarlo, e che in tal modo
afferma nello stesso tempo la santità inaccessibile di Dio, la certezza
infallibile del suo sguardo e l’incrollabile fedeltà delle sue *promesse.
IV. IL COMPIMENTO DELLE SCRITTURE
«Bisogna che si *compia tutto ciò che è scritto di me» (Lc 24, 44); bisogna che
si compiano le Scritture (cfr. Mt 26, 54). Dio non parla invano (Ez 6, 10) e la
sua Scrittura «non può essere abolita» (Gv 10, 35). Gesù, che una volta sola
vediamo in atto di scrivere - sulla sabbia (Gv 8, 6) -, non ha lasciato scritti,
ma ha consacrato solennemente il valore della Scrittura fino al segno grafico
più piccolo: «un solo accento» (Mt 5, 18), e ne ha definito il significato: non
può sparire, ma rimane. Ma non può rimanere se non compiendosi; nella Scrittura
c’è la permanenza viva della parola eterna di Dio, ma può esservi pure la
sopravvivenza di condizioni antiche destinate a passare; c’è uno *spirito che
vivifica, e una lettera che uccide (2 Cor 3, 6). Cristo fa passare dalla lettera
allo spirito (3, 14); riconoscendo Cristo attraverso le Scritture di Israele, si
attinge da esse la vita eterna (Gv 5, 39), e coloro che rifiutano di credere
alle parole di Gesù dimostrano con ciò che, se mettono la loro speranza in Mosè
e la loro fierezza nei suoi scritti, non gli credono e non lo prendono sul serio
(5, 45 ss).
V. LA LEGGE SCRITTA NEI CUORI
La nuova alleanza non è più quella della lettera, ma quella dello spirito (2 Cor
3, 6); la nuova *legge è «scritta nei cuori» del nuovo popolo (Ger 31, 33), che
non ha più bisogno di essere ammaestrato (cfr. *insegnare) da un testo imposto
dall’esterno (Ez 36, 27; Is 54, 13; Gv 6, 45). Tuttavia il NT comporta ancora
degli scritti, ai quali ben presto la Chiesa riconobbe la stessa autorità e
diede lo stesso nome delle Scritture (cfr. 2 Piet 3, 16), ritrovandovi la stessa
parola di Dio (cfr. Lc 1, 2) e lo stesso spirito. Di fatto, non soltanto questi
scritti sono nella linea delle Scritture di Israele, ma ne illuminano il senso e
la portata. Senza di esse gli scritti del NT sarebbero inintelligibili,
parlerebbero un linguaggio di cui nessuno avrebbe la chiave; ma senza di questi
i libri giudaici non conterrebbero che miti: una legge divina rimasta lettera
morta, una promessa incapace di rispondere alla speranza che suscita,
un’avventura senza esito. Ci sono ancora Scritture nella nuova alleanza: di
fatto il tempo non è ancora abolito, bisogna fissare nella *memoria delle
*generazioni il ricordo di ciò che Gesù Cristo è e di ciò che fa. Ma le
Scritture non sono più per il cristiano un libro che egli decifra una pagina per
volta, sono il *libro totalmente aperto, con tutte le pagine abbracciate d'un
solo sguardo e che cedono il loro mistero, Cristo, alfa e omega, inizio e fine
di ogni scrittura.
M.L. RAMLOT e J. GUILLET
→ 3 compiere - libro I - memoria 1 b - profeta NT I - rivelazione VT I 3 -
tradizione - vangelo IV 2 b.
→ mondo NT - tempo VT III 2; NT II 2, III 1.
→ anticristo - eresia - errore – prova-tentazione - Satana.
Si chiama segno
ciò che, per rapporto naturale o per convenzione, fa conoscere il pensiero o la
volontà di una persona, l’esistenza o la veridicità di una cosa. La Bibbia
conosce diverse varietà di segni utilizzati nei rapporti tra gli uomini: segnali
ad uso dei guerrieri (Gios 2, 18; Giud 20, 38; Is 13, 2; 18, 3), segnale
liturgico delle trombe (1 Mac 4, 40), segno convenuto per svelare un’identità (Tob
5, 2), marchio qualunque (Ez 39, 15), scrittura caratteristica (2 Tess 3, 17),
indizio di virtù (Sap 5, 11. 13), ecc. Adattandosi alla nostra natura, anche
Dio, per salvare gli uomini, fa loro dei segni (ebr. 'ôtôt; gr. semèia). Spesso
vengono chiamati prodigi simbolici (ebr. moftîm; gr. tèrata) e meraviglie (ebr.
nifla’ôt, gr. thaumasìa), perché Dio «significa» la propria potenza e il proprio
amore innanzitutto attraverso la trascendenza della sua azione salvifica. Per
questo i *miracoli, per la loro efficacia e il loro carattere straordinario,
occupano un posto privilegiato tra i segni divini relativi alla storia della
salvezza (gli unici di cui si tratterà qui). Tuttavia, i miracoli non sono gli
unici segni divini, e il grande segno sarà in definitiva Gesù stesso, che ci
fornisce la prova suprema dell’amore del Padre.
VECCHIO TESTAMENTO
Dio alimenta la fede del suo popolo con il ricordo dei segni passati e il dono
dei segni presenti. Ne suscita la speranza con l’annuncio dei segni futuri.
I. I SEGNI PASSATI
Le meraviglie delle feste mosaiche (Es 3, 20; 15, 11; 34, 10; Giud 6, 13; Sal
77, 12. 15; 78, 11 s. 32; Ger 21, 2; Neem 9, 17) e della storia di Giosuè (Gios
3, 5), fino al possesso della terra incluso (ad es. Sal 78, 4; 105, 2. 5) sono
considerate nel VT come i grandi segni divini ('ôtôt: ad es. Es 4, 9. 17. 28.
30; 10, 1 s; Num 14, 11. 22; Gios 24, 17): con i prodigi che si sono abbattuti
sull’Egitto (Es 11, 9) e con gli eventi successivi (Sal 105, 5), Dio non
soltanto ha convinto gli Israeliti della missione di suoi inviati (Es 4, 1-9.
29. 31; 14, 31), ma ha dato una fragorosa dimostrazione della propria potenza e
del proprio amore (Sal 86, 10; 106, 7; 107, 8), liberando il suo popolo. Il
Deuteronomio (4, 34; 6, 22; 7, 19 ...) e altri testi dopo di esso (Es 7, 3; Sal
78, 43; 105, 27; 135, 9; Ger 32, 20 s; Neem 9, 10; Est 10, 3f; Bar 2, 11; Sap
10, 16), ricorrono di preferenza all’espressione ridondante «i segni e i
prodigi». I loro lettori non sono più i testimoni di questi fatti; ma per
restare fedeli al Dio dell’alleanza, devono ricordarsene costantemente (Deut 4,
9; 8, 14 ss; Sal 105, 5): i segni-avvenimenti delle origini devono restare
scolpiti nella *memoria di Israele.
II. I SEGNI PRESENTI
1. I ricordi di cui si nutre la fede di Israele sono alimentati
dalla liturgia, nella celebrazione delle feste, «memoriale delle meraviglie» di
Jahvè (Sal 111, 4), soprattutto da certi riti (Es 13, 9. 16; cfr. Deut 6, 8; 11,
18) e da certi oggetti (Num 17, 3-25; cfr. Gios 4, 6).
2. La memoria della fede risale anche oltre Mosè, fino
all’elezione di Abramo, e di lì fino alla creazione universale, attaccandosi a
delle realtà che la tradizione sacerdotale interpreta come segni divini sempre
attuali: il *sabato (Es 31, 16 s; Ez 20, 12), la *circoncisione (Gen 17, 9-13),
l’arcobaleno (Gen 9, 8-17), destinati a ricordare le prime alleanze, adamica,
noachica e abramica. Perché il Dio che ha realizzato le meraviglie dell’esodo è
lo stesso che ha creato anche le meraviglie dell’universo (Sal 89, 6; 136, 4;
Giob 37, 14). E i segni del cielo, cioè gli *astri, sono nello stesso tempo un
richiamo costante del Creatore e un mezzo per suddividere il tempo, scandito
dalle feste liturgiche che commemorano gli avvenimenti della storia mosaica (Gen
1, 14; Sal 65, 9; Ger 10, 2; Eccli 42, 18 s; cfr. 43, 1-10).
3. D’altra parte, la storia sacra non si conclude con
l’ingresso nella terra promessa, e Jahvè continua a dar prova della propria
potenza salvifica mediante segni miracolosi (1 Re 13, 3. 5; 2Re 19, 29; 20, 8 s;
storie di Elia, Eliseo, Isaia), di cui può prendere personalmente l’iniziativa (Is
7, 11) o che può accordare alla preghiera dell’uomo (Giud 6, 17. 37; 2 Re 20, 8
s; 2 Cron 32, 24). Sta di fatto però che ci possono essere dei falsi profeti in
grado, per *magia, di annunciare e compiere anch'essi dei segni realmente
prodigiosi, di interpretare *sogni veri o presunti (cfr. Ger 23, 26 ss). Per
questo motivo, saranno riconosciuti come segni divini solo i fatti compiuti da
uomini la cui predicazione sia conforme alla pura fede jahvista (Deut 13, 2-6).
4. Certe circostanze fortuite vengono interpretate come
l’espressione di una volontà divina (1 Sam 14, 10; cfr. Gen 24, 12 ss). Più
spesso avviene che un evento naturale imprevedibile sia annunciato da un profeta
come opera di Dio. Nella sua realizzazione, si intravvede allora il segno che
Dio mette in opera la missione annunciata nel passato (1 Sam 10, 1. 7) o che
interverrà in modo più decisivo in futuro (2, 34; Ger 44, 29 s; cfr. Ger 20, 6;
28, 15 ss); i testimoni sono in tal modo spinti alla fiducia (Es 14, 13 s; Is 7,
1-9) o alla conversione (2 Sam 12, 13 s; Ger 36, 3 s). La realizzazione di
queste predizioni a breve scadenza è inoltre uno dei criteri di discernimento
tra veri e falsi profeti (Deut 18, 22).
5. Le azioni simboliche dei profeti, scaturite da predizioni in
atto (Is 20, 3; Ez 4, 3; 12, 6. 11; 24, 24. 27; Os 1 - 3), esprimono l’efficacia
immediata della parola di cui questi uomini sono portatori. I figli di Osea (Os
1, 4-8; 2, 1. 3-25) e di Isaia (Is 8, 1. 4. 18) sono a loro volta dei segni,
perché la loro origine e i loro nomi simbolici contengono una parola
annunciatrice di certi eventi guidati da Dio. Nel caso della nascita predetta di
Emmanuel (Dio con noi), che è l’erede dinastico, il segno ha già di per sé una
portata salvifica (Is 7, 14).
6. Si possono associare a questi, certi segni esteriori di
protezione (Gen 4, 15; Es 12, 13; Ez 9, 4. 6) che, con l’appoggio della parola
di Jahvè, contribuiscono a proclamare e realizzare la sua sovrana volontà. Tutti
i segni presenti hanno d'altronde la funzione di rivelare, in un modo o
nell’altro, l’amore e la trascendenza di Dio. Per questo sono concessi agli
uomini aperti alla parola di Dio (cfr. Es 7, 13; Is 7, 10 ss), per farli vivere
di fede.
III. I SEGNI FUTURI
La cessazione dei segni - miracoli e annunci profetici (Sal 74, 9) - aveva
intensificato l’angoscia dell’assenza di Dio, provocata dalla rovina del tempio.
Ma ecco che in esilio si leva una voce ad annunciare «un segno eterno,
infrangibile» (Is 55, 13): il ritorno prossimo, dipinto come un nuovo *esodo
(43, 16-20). Più tardi, avendo questo ritorno deluso, si nutre la speranza di un
intervento più decisivo: «Rinnova i segni e compi altre meraviglie» (Eccli 36, 5
s). Certi ispirati non lo riservano d'altra parte ad Israele: secondo Is 66, 19,
Jahvè, dispiegando un’azione vendicativa contro le nazioni, darà un segno che ne
avvierà la conversione. Con questi annunci e queste speranze, il resto santo è
preparato alla venuta del Salvatore.
NUOVO TESTAMENTO
All’epoca del NT, i Giudei attendevano per i giorni del messia dei prodigi per
lo meno pari a quelli dell’esodo, e connessi a sogni di vittoria sui pagani
(cfr. 1 Cor 1, 22). Gesù delude quest’attesa nel suo aspetto carnale. Ma
l’appaga spiritualmente, inaugurando la vera salvezza con i suoi miracoli, e
apportandola con il suo «esodo» (Lc 9, 31), con il grande segno (Gv 12, 33)
della sua elevazione in croce e in gloria. Contraddetto da certuni, Gesù,
attraverso tutta la sua missione di servo che assume su di sé le nostre
infermità (Mt 8, 17 = Is 53, 4), è il segno efficace che fa sì che la
moltitudine si risollevi (Lc 2, 34), lo stendardo (Is 11, 10 ss: ebr. nes; gr.
semèion) eretto per il raduno dei dispersi (Gv 11, 52).
I. I SEGNI NELLA VITA DI GESÙ
1. Fedele alla promessa divina di un rinnovamento delle antiche
meraviglie (Mt 11, 4 s = Is 35, 5 s; 26, 19), Gesù moltiplica i miracoli che,
pur accreditandone la parola, rientrano nello stesso tempo nei segni-avvenimenti
salvifici e nella mimica profetica (cfr. Mc 8, 23 ss): sono soprattutto questi
miracoli, uniti alla sua autorità personale e a tutta la sua attività, a
costituire «i segni dei tempi» (Mt 16, 3), cioè gli indizi dell’inizio dell’era
messianica. Ma all’opposto di Israele nel deserto (Es 17, 2. 7; Num 14, 22),
egli si rifiuta di *tentare Dio, esigendo da lui dei segni a proprio vantaggio
(Mt 4, 7 = Deut 6, 16), e di soddisfare quelli che, avidi di prodigi
spettacolari, gli domandano un segno per tentarlo (Mt 16, 1 ss). Così i
Sinottici, eco della sua riservatezza, evitano a proposito dei miracoli di usare
la parola «segni», a cui ricorrono i suoi avversari (Mt 12, 38 par.; Lc 23, 8).
Certo Dio, fornisce dei segni dell’avvento della salvezza ai poveri, come Maria
(Lc 1, 36 ss), o i pastori (2, 12). Però non può offrire ai Giudei i segni che
essi si aspettano: ciò significherebbe pervertire la sua missione. Questi ciechi
dovrebbero cominciare a prestare attenzione al «segno di Giona» secondo Lc 11,
29-32, cioè alla predicazione di penitenza di Gesù. Sarebbero allora in grado di
decifrare i «segni dei tempi», senza pretenderne altri per convenienza, e
sarebbero preparati a ricevere la testimonianza del più decisivo di essi, il
«segno di Giona» secondo Mt 12, 40, cioè la risurrezione di Cristo.
2. Ogni riserbo concernente l’uso della parola semèion scompare
nella narrazione giovannea (salvo Gv 4, 48), sia negli Atti che nelle lettere.
Per Giovanni, la visione dei segni avrebbe dovuto indurre i contemporanei di
Gesù a credere in lui (Gv 12, 37-38): questi segni rendevano manifesta la sua
gloria (2, 11) a uomini provati (6, 6), come Jahvè aveva manifestato la propria
(Num 14, 22), imponendo al popolo la prova del deserto (Deut 8, 2). Essi li
preparavano così a *vedere (Gv 19, 37 = Zac 12, 10), grazie alla fede, il segno
del Trafitto elevato sulla croce fonte di vita (12, 33), che realizza la figura
del serpente guaritore eretta da Mosè su uno «stendardo» (Num 21, 8: ebr. nes;
gr. semèion; Gv 3, 14), per la salvezza del popolo dell’esodo. Ai cristiani
convertiti da questo sguardo di fede (cfr. Gv 20, 29) e raffigurati dai Greci
che chiesero di vedere Gesù (12, 21. 32 s), il sangue e l’acqua che sgorgano dal
Trafitto (19, 34) appaiono allora i simboli della vita dello Spirito e della
realtà del sacrificio che ce ne apre l’accesso grazie ai sacramenti del
battesimo, della penitenza, dell’eucaristia. E di questi gesti salvifici del
Risorto, vero tempio da cui scaturisce l’acqua viva (2, 19; 7, 37 ss; 19, 34;
cfr. Zac 14, 8; Ez 47, 1 s), i segni anteriori di Gesù (5, 14; 6; 9; 13, 1-10)
appariranno a loro volta le prefigurazioni.
II. I SEGNI DEL TEMPO DELLA CHIESA
1. I segni che inaugurano gli ultimi tempi.
- Con la risurrezione, di cui il *battesimo applicherà agli uomini
l’efficacia salvifica, rendendo caduco il segno della *circoncisione carnale
(Col 2, 11 ss) e di cui la domenica, *giorno del Signore, rappresenterà il
memoriale, rendendo caduco il segno del *sabato (cfr. Ebr 4, 1-11; Col 2, 16),
il mondo entra negli «ultimi giorni» (Atti 2, 17). Questi hanno inizio con
l’effusione dello Spirito della Pentecoste, che conclude la Pasqua e inaugura il
tempo della predicazione apostolica. A questo proposito, S. Luca evoca i
«prodigi» celesti dell’apocalisse di Gioele (Gioe 3, 1-5), ma introducendo la
citazione parallela dei «segni» terreni, per applicare il testo agli avvenimenti
della Pentecoste, come inaugurazione «quaggiù» della tappa decisiva della storia
della salvezza (Atti 2, 19).
2. I segni del vero apostolo.
- La Pentecoste è il preludio di una nuova serie di «segni e prodigi» (Atti 2,
43; 4, 30; 5, 12; 6, 8; 14, 3; 15,12; Ebr 2, 4) che, come i miracoli di Gesù
(Atti 2, 22) «accreditano» gli apostoli «confermandone la parola» (Mc 16, 20).
Paolo quindi, «per virtù dei segni e dei prodigi, per virtù dello Spirito di
Dio» (Rom 15, 19), vede la propria parola accolta come parola di Dio (1 Tess 2,
13) e può far nascere nei cuori una fede fondata sulla potenza divina (1 Cor 2,
4 s). Questi segni apostolici sono quindi molto diversi dal *carisma della
glossolalia che, accordato a certi cristiani, assomiglia al linguaggio
incomprensibile un tempo imposto agli increduli (1 Cor 14, 21 s; cfr. Is 28, 11
s). D’altra parte, i miracoli non sarebbero sufficienti a distinguere il vero
apostolo dalle sue caricature, senza le altre vittorie dello Spirito, che sono
la sua «perfetta costanza» (2 Cor 12, 12) e il suo disinteresse (1 Tess 2, 2-12;
cfr. 2 Piet 2, 3. 14; Tito 1, 11; 2 Tim 3, 2), uniti all’ortodossia del suo
messaggio (cfr. Gal 1, 8; 2 Cor 11, 13 ss; 1 Gv 4, 1-6; Atti 13, 6 ss), che
permane per i fedeli il criterio decisivo.
3. I segni della donna vestita di sole.
- Nelle persecuzioni scatenate contro i fedeli e nei tentativi perpetrati dai
falsi messia e dai falsi profeti per fuorviarli con segni ingannevoli (Apoc 13,
13 s; 16, 14; 19, 20), quello che conduce il gioco è *Satana. Per incoraggiare i
provati, l’autore dell’Apocalisse traccia nel cielo delle sue visioni, in mezzo
a segni astrali, una figura simbolica, un «gran segno» (Apoc 12, 1): una donna
che rappresenta la Chiesa, e contro la quale un «secondo segno» (12, 3), il
drago-Satana, si rivela infine impotente. Succedendo alla figlia di Sion che
partorì il messia (12, 5), la *Chiesa, come Israele, viene provata nel deserto
(12, 6. 14; cfr. Es 19, 4; Deut 32, 11; Is 40, 31), ma nutrita di una manna
accessibile solo alla fede (Apoc 12, 6. 14; cfr. 2, 17; Gv 6, 34 s. 47-51); essa
conduce così gli uomini a possedere la vera vita, adorando l’unico vero Dio (Apoc
22, 1 ss).
4. I segni della fine dei tempi.
- Il NT, paragonato all’abbondante letteratura apocalittica, originata
nel giudaismo dalla curiosità per la fine dei tempi, si caratterizza per la
propria sobrietà. È mantenuto il linguaggio comune, però subordinato alle ultime
realtà introdotte dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Certo, si annuncia
che in quegli «ultimi giorni» vi saranno «segni e prodigi menzogneri» (2 Tess 2,
9), operati da *maghi e da falsi profeti che scimmiotteranno i veri apostoli (Mt
24, 24 par.). Certo, il discorso escatologico, che in Mt parla del «segno della
parusia di Gesù e della fine del mondo» (24, 3) evoca ancora questi eventi
rappresentandoli sotto segni cosmici (24, 29 s; Lc 21, 25). Però tutti questi
segni, in ultima analisi, si cancellano davanti a quello del Figlio dell’uomo
(Mt 24, 30), cioè probabilmente davanti alla realtà del suo trionfo.
P. TERNANT
→ astri 2 - calamità 2 - carismi 1 1 - circoncisione VT 1.2 - croce
I 4 - culto VT II - donna NT 3 - fede - figura - malattia-guarigione NT I 2, II
1 - miracolo - mistero - nome VT 1 - parabola I 1 - Pentecoste II 2 - presenza
di Dio VT II - profeta VT II 2, IV 4 - risurrezione NT I 1 - rivelazione VT II;
NT I 3 - sabato NT 2 - sogni VT - tempio - vedere VT II; NT I 2.
→ Dio NT II 3.4 - disegno di Dio VT II; NT II - mistero - rivelazione - sigillo.
Seguire Dio,
significa camminare nelle *vie di Dio, quelle attraverso le quali egli ha
guidato il suo popolo al tempo dell’*esodo, quelle che il Figlio suo traccerà
per portare tutti gli uomini al termine del nuovo e vero esodo.
1. La vocazione di Israele.
- Uscendo dall’Egitto, il popolo rispondeva a Jahvè che lo chiamava a seguirlo
(cfr. Os 11, 1). Nel deserto, Israele cammina dietro a Jahvè, che lo guida nella
colonna di nube e nella colonna di fuoco (Es 13, 21), che manda il suo angelo
per aprire una via al suo popolo (Es 23, 20. 23). Israele sente continuamente
questo appello a seguire Jahvè, come la fidanzata segue il fidanzato (Ger 2, 2),
come il gregge segue il *pastore (Sal 80, 2), come il popolo segue il *re (2 Sam
15,13; 17, 9), come il fedele segue il suo *Dio (1 Re 18, 21). Di fatto seguire
esprime adesione totale e sottomissione assoluta, cioè *fede ed *obbedienza.
L'uomo quindi che non ha mai dubitato, Caleb, è ricompensato per avere «seguito
pienamente Jahvè» (Deut 1, 36); David, che ha osservato i comandamenti, rimane
il modello di coloro che seguono Dio con tutto il loro cuore (1 Re 14, 8).
Quando il re Giosia e tutto il popolo prendono l’impegno di vivere secondo
l’alleanza, decidono di «seguire Jahvè». Ormai l’ideale del fedele sarà sempre
di seguire «le *vie del Signore» (Sal 18, 22; 25, 4...).Seguire Jahvè è quindi
un'esigenza di *fedeltà. Di fatto Jahvè è un Dio geloso: proibisce di seguire
altri dèi, cioè di rendere loro un culto e di imitare le pratiche dei loro
fedeli (Deut 6, 14). Ora Israele presta orecchio agli appelli degli dèi locali;
appena giunto in Canaan, i Baal ne disputano il cuore al Dio del Sinai (Deut 4,
3). Eccolo che «zoppica dai due piedi», fino a che risuoni con violenza la voce
profetica: «Se il Dio è Jahvè, seguitelo; se è Baal, seguitelo» (1 Re 18, 21).
Sull’esempio di Elia, i profeti rimproverano continuamente a Israele di
«prostituirsi allontanandosi da Jahvè» (Os 1, 2) e di «seguire dèi stranieri» (Ger
7, 6. 9; 9, 13; 11, 10). Predicando la conversione, essi invitano a riprendere
la strada seguita da Israele al tempo dell’esodo (Os 2, 17), a ritornare a Jahvè.
2. Al seguito di Cristo.
a) I primi passi. - «Seguitemi», dice Gesù a Simone ed
Andrea, a Giacomo e Giovanni, a Matteo, e la sua parola, piena di autorità,
strappa loro l’adesione (Mc 1, 17-20; 2, 14). Divenuti *discepoli di Gesù, essi
saranno progressivamente iniziati al segreto della sua missione e al mistero
della sua persona. Di fatto, seguire Gesù non significa soltanto aderire ad un
insegnamento morale e spirituale, ma condividere il suo destino. Ora i discepoli
sono indubbiamente pronti a condividere la sua gloria: «Noi abbiamo lasciato
tutto per seguirti; che ci toccherà?» (Mt 19, 27) - ma devono imparare che
occorre loro prima condividere le sue prove, la sua passione. Gesù esige il
distacco totale: rinunzia alle ricchezze ed alla sicurezza, abbandono dei
congiunti (Mt 8, 19-22; 10, 37; 19, 16-22), in modo totale ed irrevocabile (Lc
9, 61 s). Esigenza alla quale tutti possono essere chiamati; ma non tutti vi
rispondono, come il giovane ricco (Mt 19, 22 ss).
b) Fino al sacrificio. - Avendo così rinunciato ai
beni ed ai legami del mondo, il discepolo si sente dire che deve seguire Gesù
fino alla *croce. «Chi mi vuol seguire, rinneghi se stesso, prenda la sua croce
e mi segua» (Mt 16, 24 par.). Esigendo dai suoi discepoli un simile sacrificio,
non soltanto dei loro beni, ma anche della loro persona, Gesù si rivela come Dio
e manifesta definitivamente fin dove giungono le esigenze di Dio. Ma i discepoli
non potranno soddisfare a queste esigenze se non quando Gesù, per primo, avrà
compiuto l’atto del *sacrificio. Ecco ciò che Pietro, pronto di spirito nel
voler seguire Gesù dovunque egli vada, e non meno pronto ad abbandonarlo come
gli altri discepoli (Mt 26, 35. 56), non può comprendere se non «più tardi» (Gv
13, 36 ss), quando Gesù avrà aperto la via mediante la sua morte e la sua
risurrezione: allora Pietro andrà dove non pensava (Gv 21, 18 s).
c) Credere e imitare. - I teologi del NT hanno
trasferito la metafora. Per Paolo, seguire Cristo significa conformarsi a lui
nel suo mistero di morte e di risurrezione. Questa conformità, alla quale Dio ci
ha predestinati da tutta l’eternità (Rom 8, 29), si inaugura nel battesimo (Rom
6, 3 ss) e deve approfondirsi con l’imitazione (1 Cor 11, 1), con l’unione
volontaria nella sofferenza, in mezzo alla quale si manifesta la potenza della
risurrezione (2 Cor 4, 10 s; 13, 4; Fil 3, 10 s; cfr. 1 Piet 2, 21). Con
Giovanni, seguire Cristo significa accordargli la propria *fede, una fede
intera, fondata sulla sua sola parola e non su segni esterni (Gv 4, 42), fede
che fa superare le esitazioni della sapienza umana (Gv 6, 2. 66-69); significa
seguire la luce del mondo prendendola per guida (Gv 8, 12); significa prender
posto tra le pecore che l’unico pastore raccoglie in un solo gregge (Gv 10,
1-16). Infine il credente che segue gli *apostoli (Atti 13, 43) incomincia così
a seguire Cristo «dovunque vada» (Apoc 14, 4; cfr. Gv 8, 21 s), in attesa di
penetrare al suo seguito «oltre il velo, dov’egli è entrato come precursore» (Ebr
6, 20). Allora si realizzerà la promessa di Gesù: «chi mi serve, mi segua, e
dove io sono, ivi sarà pure il mio servo» (Gv 12, 26).
C. AUGRAIN
→ amore I NT 2 a - croce II 1 - discepolo NT 2 b - esempio - fede NT I, II -
fedeltà NT - Gesù Cristo I 2.3 - perfezione NT 3 - via - vocazione III.
Corso della
natura, storia delle generazioni umane, atto creativo e redentore, tutto si
svolge secondo un identico ciclo: semina, *crescita, *frutti ed infine messe.
C’è perfetta corrispondenza tra il senso figurato ed il senso proprio della
parola seminare.
I. SEMINE TERRESTRI
1. L'azione divina.
- Nel giorno della *creazione Dio ha dato alla terra il potere di produrre una
vegetazione capace di riprodursi, di «seminare un seme» (Gen 1, 11 s. 29); colui
che continuamente «fornisce al seminatore la semente... la fornirà a voi pure»
(2 Cor 9, 10). Regolando il tempo delle semine e della messe (Gen 8, 22), egli
benedice le semine del giusto cento volte tanto (Gen 26, 12) o, al contrario,
delude l’attesa dei malvagi (Is 5, 10; Mi 6, 15), che hanno «seminato frumento»
e «mietono spine» (Ger 12, 13; cfr. Gen 3, 18). Ma se l’uomo si converte, Dio
«darà la pioggia per la semente seminata in terra» (Is 30, 23), le terre
potranno essere seminate (Ez 36, 9). La benedizione divina, che si realizza
nella riuscita delle semine, nella Bibbia è sempre legata alla fedeltà del
popolo all’alleanza.
2. Il compito dell’uomo.
- Infatti, se Dio benedice le semine, spetta all’uomo seminare.
a) La sua *responsabilità. - Dio ha dato all’uomo
l’incarico di perpetuare sulla terra ogni seme e di salvarlo dal diluvio (Gen 7,
3); in caso di carestia, egli deve cercare questa semente (Gen 47, 19),
proteggerla contro ogni contatto impuro (Lev 11, 37 s). «Al mattino, semina il
tuo grano; alla sera, non restare inattivo!» (Eccle 11, 6). Spetta parimenti
all’uomo il duro lavoro che, secondo l’uso palestinese, ha luogo in genere dopo
la semina. Nello stesso modo si deve forse coltivare la sapienza: «penerai
qualche tempo a coltivarla, ma ben presto mangerai i suoi prodotti» (Eccli 6,
19)? In senso metaforico questa *responsabilità si estende nella scelta del seme
e del terreno. Infatti «si raccoglie quel che si è seminato» (Gal 6, 7).
Seminare germogli stranieri (idolatrici), significa ottenere forse una fioritura
rapida, ma non una messe (Is 17, 10 s). Seminando l’ingiustizia o l’iniquità, si
può raccogliere sette volte tanto di sciagura (Prov 22, 8; Giob 4, 8; Eccli 7,
3); «chi semina vento raccoglie tempesta» (Os 8, 7). Ci si rammenti sempre
dell’esperienza: «chi semina scarsamente, mieterà scarsamente; chi semina con
larghezza mieterà con larghezza» (2 Cor 9, 6). Invece di seminare nella *carne,
dobbiamo seminare nello spirito (Gal 6, 8), - non nelle spine (Ger 4, 3), ma
nella pace (Giac 3, 18) e nella giustizia (Os 10, 12; Prov 11, 18).
b) Atto di speranza. - Se è vero che l’agricoltore
deve avere la sua parte del prodotto (1 Cor 9, 10) e che l’ideale è di
raccogliere quel che si è seminato, rimane spesso valido il proverbio: «altri è
colui che semina, altri colui che miete» (Gv 4, 37). Il seminatore deve quindi
aver fiducia nella terra feconda, sperare nell’acqua del cielo, senza avere la
pretesa di sottomettere questi elementi. Semini quindi senza spiare il vento (Eccle
11, 4), altrimenti non farà nulla. Il più piccolo dei semi può diventare un
grande albero (Mc 4, 31 s), il granello fecondo dà fino al cento per uno (Mt 13,
8 par.). L'uomo, agente attivo nelle semine, non deve dimenticare che una volta
gettato nella terra «il seme germina e cresce da solo (gr. automatè)». L'obbligo
di osservare l’anno sabbatico, in cui cessava il dovere di seminare il suolo (Lev
25, 4), esigeva un atto di assoluta fiducia in Dio, che l’anno precedente aveva
concesso un raccolto doppio. Per insegnare ai discepoli il totale abbandono alla
*provvidenza del Padre celeste, Gesù porta loro ad esempio gli uccelli del cielo
che non seminano né mietono (Mt 6, 26 par.). Questa speranza incoraggia a
nascondere nel suolo il seme, a lasciarlo morire perché porti frutto (Gv 12,
24); se colui che porta la semente «se ne va piangendo», sa che «canterà recando
i manipoli» (Sal 126, 5 s). Questa immagine dipinge il servizio «in favore dei
santi» (Gal 6, 7-10; 2 Cor 9, 6-13) e la fatica apostolica (Gv 4, 38; 1 Cor 3,
8; 2 Cor 9, 10 ss). Infine, se il seme deve morire per riprendere vita (1 Cor
15, 36), altrettanto è dell’uomo mortale che deve *risorgere: «si semina un
corpo preda della corruzione, risorge dotato di incorruttibilità... si semina un
corpo psichico, risorge un corpo spirituale» (15, 42 ss): affidato alla terra,
il corpo risorgerà nella gloria di Cristo.
II. SEMINE DIVINE
Il Creatore, il cui atto potrebbe essere paragonato a quello del seminatore, si
è tuttavia presentato sotto le sembianze del Seminatore solo in contesto
escatologico. Il cristiano, consapevole che il Figlio è nello stesso tempo la
parola di Dio e il germe divino, può vedere in Dio colui che semina la propria
parola nel cuore degli uomini e semina in terra il Germe, la sua vera
discendenza.
1. La semente divina.
- Dio benedice Adamo rendendolo *fecondo. Il termine «seme» (gr. spèrma) serve a
designare la posterità, la discendenza, la stirpe, la razza. Fin dalle origini è
stabilito un contrasto tra il seme dell’uomo che si trasmette nelle *generazioni
e la stirpe che deve trionfare del serpente (Gen 3, 15). Questa vittoria sarà
realizzata da Gesù, rampollo sorto dall’incrocio di due stirpi: figlio di Dio,
figlio di Adamo, di Abramo e di David. Da un lato, c'è la benedizione assicurata
alla posterità di Noè (Gen 9, 9), di Abramo (Gen 12, 7), di Isacco (26, 4), di
Giacobbe (32, 13), che sarà numerosa come la polvere della terra (13, 15 s),
come la sabbia del mare (22, 17) o le stelle del cielo (15, 5; 26, 4). L’albero
di Jesse deve essere tagliato, ma dal suo ceppo germoglierà allora un «seme
santo» (Is 6, 13). Infatti Dio sarà nuovamente il seminatore (Os 2, 25; Ger 31,
27) che ripopolerà Giuda, razza malefica (Is 1, 4) decimata dal *castigo. Più
precisamente, questo seme si concentrerà in un germoglio, che diventa uno dei
*nomi del *Messia. «Ecco un uomo il cui nome è germoglio; dov'egli è, qualcosa
germoglierà; egli ricostruirà il santuario» (Zac 6, 12 s).
2. La parola di Dio.
- Secondo una linea direttamente metaforica, il seme è la *parola di Dio. Già il
consolatore di Israele annunziava l’azione efficace della parola divina,
paragonandola alla pioggia che rende fecondo il seme (Is 55, 10 s). Annunciando
la parabola del seminatore, Gesù associa il dovere di portare *frutto, non alla
*messe, ma alle semine; opera così una retrospettiva sull’inaugurazione degli
ultimi tempi (cfr. Os 2, 25) che ha luogo nel momento in cui sta parlando.
Questa è la storia vissuta dell’incontro tra il Germe divino e il popolo di Dio.
Bisogna essere una buona terra, proprio perché la semente è gettata con la
parola stessa di Dio. E allora, che splendido raccolto! E tuttavia, accanto al
buon seme seminato dal figlio dell’uomo, c'è anche la zizzania seminata dal
maligno (Mt 13, 24-30. 36-43). Questa parola è Cristo in persona, che ha voluto
morire in terra per portare *frutto (Gv 12, 24. 32). E la Chiesa ha riconosciuto
la sua propria storia attraverso le parabole di Gesù. Ha fortificato la sua fede
presentendo, attraverso gli umili inizi del regno dei cieli, la gloria finale:
il granello di senapa diventa un grande albero (Mt 13, 31s; cfr. Ez 17, 23; Dan
4, 7-19), secondo la promessa fatta un tempo ad Abramo di un «seme» innumerevole
come le stelle del cielo. Infine la Chiesa, «seme» di Gesù (Apoc 12, 17),
resiste vittoriosamente al dragone, perché Cristo dimora in essa (1 Gv 3, 9).
X. LÉON-DUFOUR
→ crescita - fecondità - frutto – messe II, III 2 a - nascita (nuova) -
parola di Dio NT I 2.
La semplicità che
caratterizza il *bambino (ebr. petî; gr. nèpios; Vg. parvulus, innocens) ha
aspetti diversi: mancanza di esperienza e di prudenza, docilità, assenza di
calcolo, rettitudine del cuore che provoca la sincerità del linguaggio e che
esclude la malevolenza dello sguardo e dell’azione. Si oppone così o al
discernimento o alla doppiezza.
1. Semplicità e sapienza.
- La semplicità può quindi essere un difetto; se consiste in una ignoranza (Prov
14, 18) che fa agire imprudentemente (Prov 22, 3), credere al primo venuto (Prov
14, 15), cedere alle seduzioni del piacere cattivo (Prov 7, 7; 9, 16; Rom 16,
18), è una leggerezza mortale (Prov 1, 32), indegna del cristiano (1 Cor 14,
20). La sapienza ne libera coloro che, dietro il suo appello (Prov 1, 22; 8, 5;
9, 4 ss), ascoltano le sue parabole (Prov 1, 4). Essa li rende sapienti (Sal 19,
8), se si aprono alla luce della parola di Dio (Sal 119, 130 s) con quella
semplicità che mancò ad Eva (2 Cor 11, 3) e di cui sono privi coloro che
confidano nella propria sapienza (Mt 11, 25). Questa *fede umile, condizione
della salvezza (Mc 10, 15; 1 Piet 2, 2), è il primo aspetto della semplicità dei
figli di Dio, che non è infantilismo; essa implica al contrario la rettitudine e
l’integrità (Fil 2, 15) di cui Giobbe rimane il modello (Giob 1, 8; 2, 3).
2. Semplicità e rettitudine.
- Colui che cerca Dio deve fuggire ogni doppiezza (Sap 1, 1): nulla divida il
suo cuore (Sal 119, 113; Giac 4, 8), ne falsi l’intenzione (1 Re 9, 4; Eccli 1,
28 ss), freni una generosità che giunge fino a mettere a repentaglio la propria
vita (1 Cron 29, 17; 1 Mac 2, 37. 60), renda esitante la sua fiducia (Giac 1,
8). Nessuna tortuosità nella sua condotta (Prov 10, 9; 28, 6; Eccli 2, 12), né
nelle sue parole (Eccli 5, 9). Egli accetta con semplicità i doni di Dio (Atti
2, 46) e dà senza calcolare, con un amore sincero (Rom 12, 8 s; 1 Piet 1, 22). E
questo perché il suo sguardo è semplice; incapace di male, egli non ha di mira
che la volontà di Dio e di Cristo quando deve obbedire agli uomini (Col 3, 22 s;
Ef 6, 5 ss). Questa intenzione unica illumina la sua vita (Mt 6, 22; Lc 11, 34);
lo rende più prudente del serpente; questa purità d'intenzione è simboleggiata
dalla semplicità della *colomba (Mt 10, 16).
C SPICQ e M.-F. LACAN
→ bambino II - ipocrita 1.3 - menzogna - puro NT I 3.
→ - cuore 0 - reni 2.
→ anatema - dispersione - santo - scisma - solitudine – unità.
Fin dalla
preistoria, si constata la sollecitudine con cui anche gli uomini più primitivi
provvedono alla sepoltura dei morti. Questa sollecitudine, nelle sue varie
forme, attesta la credenza in una certa sopravvivenza dell’uomo oltre la *morte.
1. In Israele.
- In Israele, come presso i suoi vicini, l’essere privo di sepoltura
viene considerato una spaventosa sciagura (Sal 79, 3). È uno dei più terribili
castighi di cui i profeti minaccino gli empi (1 Re 14, 11 ss: Ger 22, 18-19).
L’Israelita perciò ha gran cura di preparare la propria sepoltura, sull’esempio
di Abramo (Gen 23, racconto della fondazione della tomba dei patriarchi).
Seppellire la salma rappresenta il dovere per eccellenza dei figli del defunto (Gv
25, 8 ss; 35, 29; 50, 12 s; Tob 4, 3 s; 6, 15; 14, 10 ss). È un’opera di pietà
che in tempo di guerra spetta all’esercito assolvere (l Re 11, 15) così come ad
ogni Israelita fedele (il libro di Tobia insiste su questo dovere: l, 17-20; 12,
12 s). I riti del lutto sono molto complessi, e li si ritrova anche nei popoli
vicini: digiuno (1 Sam 31, 13; 2 Sam 1, 12; 3, 35), lacerazione delle vesti (Gen
37, 34; 2 Sam 1, 11; 3, 31; 13, 31), adozione di una veste di sacco (Gen 37, 34;
2 Sam 3, 31; 14, 2; Ez 7, 18), tonsura e incisioni (Am 8, 10; Mi 1, 16; Is 22,
12; Ger 7, 29; 16, 6; 48, 37; 49, 3; questa pratica sarà interdetta da Deut 14,
1 e Lev 19, 27 s, senza dubbio perché ricorreva nel culto di Baal), lamento (2
Sam 1, 12. 17-27; 3, 33 s; 13, 36; 1 Re 13, 30; Am 5, 16; Ger 22, 18; 34, 5).
Queste diverse usanze non sono solo manifestazioni di dolore; hanno un aspetto
rituale di cui ignoriamo il significato originale (culto dei morti, protezione
contro i loro malefici...). In Israele, dove la fede jahvista esclude qualsiasi
culto dei morti, questi riti mirano innanzitutto a procurare al defunto una
condizione di pace, «riunendolo al popolo» (Gen 25, 8; 35, 29), quando «si
corica con i suoi padri» (1 Re 2, 10; 11, 43).
2. Nei Vangeli.
- Nei vangeli, i contemporanei di Gesù osservano le stesse usanze del
VT riguardo alla sepoltura (Mc 5, 38; Gv 11, 38-44). Gesù non biasima queste
consuetudini, anche quando dichiara che la chiamata a seguirlo deve avere la
precedenza sul sacro dovere di seppellire il proprio padre (Mt 8, 21 s). Avverte
in anticipo l’ignominia della sua morte di condannato, privo di onoranze funebri
(Mc 14, 8). In realtà, queste onoranze gli verranno rese da Giuseppe d'Arimatea,
in tutta fretta, per via dell’approssimarsi della festa (Mc 15, 46 s) Ma quando,
al mattino di Pasqua, verranno le donne a completare con un’*unzione di profumi
questa precipitosa sepoltura (Mc 16, 1 s; in Gv 19, 39 s, il corpo di Gesù ha
già ricevuto quest’unzione la sera della morte), udranno l’angelo proclamare
loro: «Egli è risorto, non è qui». L'usanza tradizionale della sepoltura
cristiana dei defunti nelle catacombe e nei cimiteri («dormitori»: cfr. 1 Tess
4, 13) trova la propria origine in questi racconti. Si ispira alle onoranze rese
al corpo consacrato dall’azione dello Spirito, e ancor di più alla speranza
inaugurata il giorno di Pasqua.
A. GEORGE
→ digiuno 1 - morte VT I 3 - unzione I 2.
→ battesimo IV 1 - morte VT I 3; NT III 1 - sepoltura.
→ angeli VT 1.
→ animali - anticristo VT 1 - bestie e Bestia - croce I 4 - deserto VT I 3 - Maria V 2 - Satana I - segno NT I 2 - semplice 2.
La parola
servizio assume due sensi opposti nella Bibbia, secondo che designa la
soggezione dell’uomo a Dio, oppure l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo,
cioè la schiavitù. La storia della salvezza insegna che la liberazione dell’uomo
dipende dalla sua soggezione a Dio e che «servire Dio è regnare» (Liturgia
romana).
I. SERVIZIO E SCHIAVITÙ
Già nelle relazioni umane, servire designa due situazioni concrete
profondamente diverse: quella dello *schiavo, quale appare nel mondo pagano, in
cui l’uomo in schiavitù è posto al livello degli animali e delle cose, e quella
del *servo, quale è definita dalla legge del popolo di Dio: lo schiavo rimane
uomo che, vero servo, vi può diventare l’uomo di fiducia e l’erede (Gen 24, 2;
15, 3). Anche il vocabolario rimane ambiguo: 'avad (ebr.) e doulèuein (gr.) si
applicano alle due situazioni. Tuttavia ci sono parole che designano servizi in
cui la dipendenza ha un carattere onorifico, sia il servizio del re da parte dei
suoi ufficiali (ebr. šerat), sia i servizi ufficiali tra cui in primo piano il
servizio cultuale (gr. leitourghèin).
II. VT: SERVIZIO CULTUALE ED OBBEDIENZA
Servire Dio è un onore per il popolo con il quale egli ha stipulato
alleanza. Ma nobiltà obbliga. Jahvè è un Dio geloso che non può tollerare
divisioni (Deut 6, 15), come dice una Scrittura che Cristo citerà: «Adorerai il
Signore Dio tuo e servirai a lui solo» (Mt 4, 10; cfr. Deut 6, 13). Questa
fedeltà deve manifestarsi nel culto e nella condotta. Tale è il senso del
precetto in cui si accumulano i sinonimi del servizio di Dio: «Seguirete Jahvè,
lo temerete, osserverete i suoi comandamenti, gli obbedirete, lo servirete ed
aderirete a lui» (Deut 13, 5).
1. Servizio cultuale.
- Servire Dio significa innanzitutto offrirgli doni e sacrifici ed assicurare il
funzionamento del tempio. A questo titolo i sacerdoti ed i leviti sono «coloro
che servono Jahvè» (Num 18; 1 Sam 2, 11. 18; 3, 1; Ger 33, 21 s). Il *sacerdote
di fatto viene definito come il custode del santuario, il servo del dio che vi
abita, e l’interprete degli oracoli che egli vi dà (Giud 17, 5 s). A sua volta
il fedele che compie un atto di culto «viene a servire Jahvè» (2 Sam 15, 8).
Infine l’espressione designa il *culto abituale di Dio e diventa all’incirca
sinonimo di *adorare (Gios 24, 22).
2. Obbedienza.
- Il servizio che Jahvè esige non si limita al culto rituale; si estende a tutta
la vita mediante l’*obbedienza ai comandamenti. Ecco ciò che i profeti ed il
Deuteronomio non cessano di ripetere: «L’obbedienza è preferibile al miglior
sacrificio» (1 Sam 15, 22; cfr. Deut 5, 29 ss), rivelando la profondità esigente
di questa obbedienza: «Io voglio l’amore, e non i sacrifici» (Os 6, 6; cfr. Ger
7).
III. NT: SERVIRE DIO SERVENDO GLI UOMINI
Gesù ricorre agli stessi termini della legge e dei profeti (Mt 4, 10;
9, 13) per ricordare che il servizio di Dio esclude ogni altro culto e che, in
ragione dell’amore che lo ispira, dev’essere integrale. Precisa il nome del
rivale che può creare ostacolo a questo servizio: il denaro, il cui servizio
rende ingiusti (Lc 16, 9), ed il cui amore l’apostolo, eco del maestro, dirà che
è un culto *idolatrico (Ef 5, 5). Bisogna scegliere: «Nessuno può servire a due
padroni... non potete servire a Dio e al denaro» (Mt 6, 24 par.). Se si ama
l’uno, si avrà odio e disprezzo per l’altro. Perciò la rinuncia alle *ricchezze
è necessaria a chi vuole *seguire Gesù, *servo di Dio (Mt 19, 21).
1. Il servizio di Gesù.
- Inviato da Dio per coronare l’opera dei servi del VT (Mt 21, 33...
par.), il Figlio diletto viene a servire. Fin dall’infanzia afferma che deve
occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2, 49). Il corso di tutta la sua vita sta
sotto il segno di un «bisogna» che esprime la sua dipendenza ineluttabile dalla
*volontà del Padre (Mt 16, 21 par.; Lc 24, 26); ma, dietro questa necessità del
servizio che lo conduce alla croce, Gesù rivela l’*amore che, solo, gli dà la
sua dignità ed il suo valore: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e
che agisco come il Padre mi ha ordinato» (Gv 14, 30). Servendo Dio, Gesù salva
gli uomini di cui ripara il rifiuto di servire, e rivela loro come il Padre
vuole essere servito: vuole che essi si dedichino al servizio dei loro fratelli
come ha fatto Gesù stesso, loro Signore e maestro: «Il figlio dell’uomo non è
venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita» (Mc 10, 45 par.);
«Io vi ho dato l’esempio... il servo non è maggiore del padrone» (Gv 13, 15 s);
«Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27).
2. La grandezza del servizio cristiano.
- I servi di Cristo sono anzitutto i servi della *parola (Atti 6, 4; Lc
1, 2), coloro che annunciano il *vangelo, compiendo così un servizio sacro (Rom
15, 16; Col l, 23; Fil 2, 22), «in tutta *umiltà», e, se occorre, «nelle lacrime
ed in mezzo alle *prove» (Atti 20, 19). Quanto a coloro che servono la comunità,
su immagine dei Sette scelti dagli apostoli (Atti 6, 1-4), Paolo insegna loro a
quali condizioni questo servizio sarà degno del Signore (Rom 12, 7. 9-13).
D’altronde, tutti i cristiani per mezzo del battesimo sono passati dal servizio
del peccato e della legge, che era una schiavitù, al servizio della giustizia e
di Cristo, che è la libertà (Gv 8, 31-36; Rom 6 - 7; cfr. 1 Cor 7, 22; Ef 6, 6).
Essi servono Dio come figli e non come schiavi (Gal 4), perché lo servono nella
novità dello spirito (Rom 7, 6). La grazia, che li ha fatti passare dalla
condizione di servi a quelli di *amici di Cristo (Gv 15, 15), permette loro di
servire così fedelmente il loro Signore da essere certi di partecipare alla sua
gioia (Mt 25, 14- 23; Gv 15, 10 s).
C. AUGRAIN e M. F. LACAN
→ adorazione I 3 - amico 2 - angeli - autorità NT I 1, NT 1 - culto
- liberazione-libertà III 3 c - Maria III 1 - ministero I - obbedienza -
ospitalità 2 - parola di Dio VT III 1; NT II 1 - pasto V - poveri NT III 3 -
retribuzione I - sacerdozio - schiavo - servo di Dio. 65
Nella Bibbia il
nome di «servo di Dio» è un titolo di onore. Jahvè dà il nome di «mio servo» a
colui che chiama a collaborare al suo *disegno. Per *compierlo, egli manda il
suo Figlio, servo di Dio per eccellenza; anzi, questo titolo esprime l’aspetto
più misterioso della sua missione redentrice: di fatto Cristo, mediante il suo
sacrificio, *espia il rifiuto di *servire costituito dal peccato ed unisce tutti
gli uomini nello stesso servizio di Dio.
I. I SERVI DI DIO ED IL POPOLO DELL'ALLEANZA
Il titolo di servo di Dio è dato a uomini la cui missione concerne
sempre il popolo eletto; dato sovente a Mosè, *mediatore dell’alleanza (Es 14,
31; Num 12, 7; Deut 34, 5; 1 Re 8, 56), ed a David, tipo del re messianico (2
Sam 7, 8; 1 Re 8, 24 s; Sal 78, 70; Ger 33, 26), designa pure i patriarchi:
Abramo (Gen 26, 24), Isacco (Gen 24, 14), Giacobbe (Es 32, 13; Ez 37, 25), poi
Giosuè che guida il popolo nella terra promessa (Gios 24, 29); è applicato ai
*profeti che hanno la missione di conservare l’alleanza (Elia: 1 Re 18, 36; «i
miei servi, i profeti»: Am 3, 7; Ger 7, 25; 2 Re 17, 23), nonché ai sacerdoti
che celebrano il culto divino in nome del popolo-sacerdote (Sal 134, 1; cfr. Es
19, 5 s). La scelta di tutti questi servi è destinata in definitiva a rendere il
popolo fedele al servizio che Dio si attende da esso (cfr. Sal 105, 66 ss. 26.
45), come sono fedeli gli *angeli, servi della volontà divina (Sal 103, 20 s).
II. DAI SERVI INFEDELI AL SERVO FEDELE
Ora il popolo eletto, fin dai primi tempi, è infedele alla sua *vocazione di
servo, indocile ai servi di Dio (Deut 9, 24; Ger 7, 25); quindi è castigato con
l’esilio ad opera di un re pagano, Nabuchodonosor, che, a questo titolo, è servo
di Dio (Ger 27, 6). Ma Dio, che non vuole la morte ma la vita del peccatore, si
sceglie un *resto che diventerà fedele sotto il regno del suo servo, il nuovo
*David (Ez 34, 23 s; 37, 24 s). A questo resto sono rivolti gli oracoli del
Libro della consolazione (Is 40-55).
1. Il servo infedele.
- Il profeta che in questo libro svolge il tema di Israele, servo di Dio, vi
intreccia il tema di Sion, *sposa di Dio. Questa sposa è stata abbandonata
soltanto perché i suoi figli sono stati infedeli (Is 50, 1); Israele, ribelle
fin dal seno materno (48, 8), è, per colpa sua, un servo pigro, sordo e cieco
(42, 18 s. 24; 43, 8. 22 ss; cfr. 30, 9 ss); tuttavia, lungi dal dimenticare
questo servo eletto, Dio gli perdona (44, 21 s) e lo salverà gratuitamente (41,
8 ss) per mezzo del re pagano Ciro, suo pastore, suo unto, suo amico (44, 28;
45, 1; 48, 14). Sembra persino che il re-liberatore sia il servo di cui si fa
l’elogio in 42, 1-7; più tardi questo canto, riletto senza tener conto del
contesto, è stato applicato al servo Israele, la cui vocazione, missione e
sacrificio formano l’oggetto di tre altri canti (49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13 - 53,
12). Questa è già l’interpretazione dei LXX, che sarà seguita da Matteo (12,
18-21). In ogni caso, grazie a Ciro, Israele, servo infedele e liberato, attesta
tra le *nazioni l’impotenza degli idoli di Babilonia di fronte al solo Dio vero
e salvatore (43, 10 ss; 45).
2. Il servo fedele.
- Ora Dio, di questo testimone passivo, vuol fare un servo fedele che, con la
sua testimonianza, apporti alle nazioni la *luce della *salvezza. La seconda
metà del libro della consolazione (Is 49 - 55) è dominata dal volto misterioso
di un profeta che Dio chiama suo servo (49, 3. 6; 52, 13). Come il patriarca
Giacobbe è inseparabile dal popolo che porta il suo nome e nel quale continua a
vivere, così questo servo che ha i lineamenti, purificati, di Geremia (49, 1;
50, 7; 53, 7; cfr. Ger 1, 5; 15, 20; 11, 19) è inseparabile da questo resto «nel
quale Dio manifesterà la sua gloria» (Is 49, 3); egli tuttavia è distinto da
questo Israele nella misura in cui ha la missione di raccoglierlo (49, 5 s) e di
istruirlo (50, 4-10). La sua *pazienza (50, 6) e la sua *umiltà (53, 7) lo
rendono capace di offrire la sua vita e di compiere, mediante la sua
*sofferenza, il disegno di Jahvè (53, 4 ss. 10): *giustificare i peccatori di
tutte le nazioni (53, 8.11 ss). Mediante questo sacrificio Sion è *consolata, la
*sposa *sterile è nuovamente unita a Dio per mezzo di un’alleanza eterna e
diventa la *madre feconda di tutti i servi di Dio (Is 54, 1 - 55, 4). Al ritorno
dall’esilio Israele sembra aver dimenticato le prospettive universalistiche
della salvezza di cui il servo doveva essere l’artefice mediante la sua
sofferenza. Ed il profeta, la cui vocazione è di annunciare agli esiliati la
gloria della nuova Gerusalemme, non fa più allusione alla espiazione del servo (Is
61, 1 ss). Il titolo di «servo» è dato allora da Dio a Zorobabele (Agg 2, 23),
«germoglio» che egli suscita nella stirpe di David (Zac 3, 8; cfr. Ger 23, 5).
Quanto ai servi di Dio, la gioia che essi attendono (Is 65, 13 s. 17 s) sarà
bensì la fine delle loro sofferenze; ma non è più come il frutto di un’offerta
che trasforma la morte in *sacrificio e ne fa sgorgare la vita (cfr. 53, 10 s).
III. IL VERO SERVO, SALVATORE DEGLI UOMINI
1. Gesù.
- Gesù fa sua la missione del servo; maestro mite ed umile di cuore (Mt 11, 29)
che annunzia la salvezza ai *poveri (cfr. Lc 4, 18 s), egli è in mezzo ai suoi
discepoli «come colui che serve» (Lc 22, 27), pur essendo il loro Signore ed il
loro maestro (Gv 13, 12-15), e giunge fino al colmo delle esigenze dell’amore
che ispira questo servizio (Gv 13, 1; 15, 13), dando la sua vita per la
redenzione della moltitudine dei peccatori (Mc 10, 43 ss.; Mt 20, 26 ss);
perciò, trattato come uno scellerato (Lc 22, 37), muore sulla croce (Mc 14, 24;
Mt 26, 28), sapendo che risorgerà, secondo quanto è scritto del figlio dell’uomo
(Mc 8, 31 par.; 9, 31 par.; Lc 18, 31 ss par.; 24, 44; cfr. Is 53, 10 ss). Se
dunque è il *Messia atteso, il *figlio dell’uomo non viene a ristabilire un
regno temporale, ma per entrare nella sua gloria ed introdurvi il suo popolo,
passando attraverso la morte del servo.
2. La predicazione apostolica.
- La predicazione apostolica ha applicato a *Gesù il titolo di servo per
annunciare il mistero della sua morte (Atti 3, 13 s. 18; 4, 27 s), fonte di
benedizione e di luce per le nazioni (Atti 3, 25 s; 26, 23). *Agnello immolato
ingiustamente come il servo (Atti 8, 32 s), Gesù ha salvato le sue pecore
sviate; le piaghe del suo corpo hanno guarito le anime dei peccatori (1 Piet 2,
21-25). Per Matteo, Gesù è il servo che annuncia la giustizia alle nazioni ed il
cui *nome è la loro speranza (Mt 12, 18-21 = Is 42, 1-4). Infine un inno
permette a Paolo di presentare il mistero di Cristo e della sua carità in una
sintesi potente: esso proclama che Cristo è entrato nella gloria assumendo la
condizione di servo e morendo sulla croce per obbedire a Dio suo Padre (Fil 2,
5-11); la profezia del servo annunziava quindi il *sacrificio redentore del
Figlio di Dio fatto uomo. Perciò il nome del santo servo di Dio, Gesù,
crocifisso e risorto, è la sola fonte della *salvezza (Atti 4, 10 ss. 29 ss).
3. I servi di Dio.
- I servi di Dio sono ormai i servi di Cristo (Rom 1, 1; Gal 1, 10; Fil 1, 1;
cfr. Tito 1, 1). Come il Signore ha preso per madre colei che si chiamava la sua
serva (Lc 1, 38. 43. 48), così fa dei suoi servi i suoi *amici (Gv 15, 15) ed i
figli del Padre suo (20, 17). Essi d'altronde, come il loro maestro, devono
passare per la stessa via della *sofferenza (15, 20); trionfando della *prova i
servi di Dio entreranno nella gloria del *regno (Apoc 7, 3. 14 s; 22, 3 ss).
C. AUGRAIN e M.-F. LACAN
→ agnello di Dio 1 - alleanza VT III 2; NT I - amico 2 - eiezione
VT III 2; NT I - espiazione - eucaristia IV 1 - fierezza VT 3 - figlio dell’uomo
NT I 1 b - Gesù Cristo I 3, II 1 b - giustizia A I VT 2 - mediatore 1 2 - messia
VT II 3; NT I 2, II 2 - missione VT III l; NT II 2 - Mosè 1.3 - obbedienza III -
profeta - resto VT 3 - sacrificio VT III 3; NT I - servire II, III - sofferenza
VT III - Spirito di Dio VT III; NT I 2 - uomo II 2 - violenza I 2, III 3, IV 2 -
vittoria VT 3 a; NT 1.
Benché parecchie
voci parlino sommariamente della sessualità, è utile riunire qui i diversi dati
biblici che vi si riferiscono. La parola nella Bibbia non compare, però la
differenza dei sessi è frequentemente evocata per chiarire il mistero dei
rapporti tra l’uomo e la donna. Pur rispettando gli apporti specifici del VT e
del NT, appare preferibile non trattarli nel loro ordine cronologico; sono
infatti molti i dati del VT che assumono il loro pieno significato solo con la
venuta di Gesù Cristo.
I. SESSUALITÀ E CONDIZIONE UMANA
Di fronte all’affermazione della Genesi: «Uomo e donna li creò» (Gen 1, 27),
Paolo dichiara: «Non c’è né uomo né donna; voi tutti siete uno in Cristo Gesù»
(Gal 3, 28). Si intravvede una tensione tra queste due affermazioni, che
tuttavia non si contraddicono, ma anzi si chiariscono e si condizionano
reciprocamente.
1. «Uomo e donna li creò» (Gen 1, 27).
- Nel VT, la differenza sessuale è inizialmente connessa alla convinzione che
l’uomo sia stato creato «ad *immagine di Dio». Il contesto immediato di questo
passo, dovuto al redattore sacerdotale (P), si limita a collegare la differenza
sessuale tra l’uomo e la donna alla *fecondità di Dio che trasmette la *vita e
domina l’universo (Gen 1, 28). Il punto di vista Jahvista (J) è più completo. Ai
suoi occhi, quel che sta alla base della differenza sessuale, è la necessità per
l’uomo di vivere in società: «Non è bene che l’uomo sia solo. Bisogna che gli
dia un aiuto simile a lui» (Gen 2, 18). Alla fecondità, non trascurata da questo
autore, si associa il rapporto di alterità dei sessi. Queste due motivazioni
inseriscono l’individuo in un contesto sociale. Idealmente, nel clima
paradisiaco, l’incontro dei sessi ha luogo nella semplicità: «Benché fossero
nudi, Adamo ed Eva non avevano vergogna l’uno dell’altro» (2, 15). Ma il
peccato, separazione da Dio, introduce a questo punto distanza e paura. Ormai la
relazione sessuale è diventata ambigua. Non cessa di essere fondamentalmente
buona, però è caduta sotto l’influsso della forza di divisione rappresentata dal
peccato. Alla gioia di fronte alla irriducibile differenza dell’altro, nei
partner si è sostituito il *desiderio di possesso egoistico (3, 16). L'impulso
sessuale, caratterizzato dall’estroversione, è perturbato da un moto di
introversione: anziché volgere verso l’altro, ripiega su di sé. La bontà e il
valore della relazione sessuale nel *matrimonio non vengono mai messi in dubbio
nella Bibbia. Non solo nel Cantico dei cantici (Cant 4, 1; 5, 9; 6, 4) ma anche
negli altri libri, a proposito del matrimonio si rileva l’accento posto su
questi due aspetti, di alterità e di fecondità: «Trova dunque la gioia nella
donna della tua giovinezza» (Prov 5, 18; cfr. Ez 24, 15; Eccli 26, 16 ss; Eccle
9, 9). Che cosa ricerca l’essere unico formato da Dio a partire dall’uomo e
dalla donna? «Una posterità concessa da Dio» (Mal 2, 14 ss). Gesù, riprendendo
le parole stesse della Genesi, sottolinea l’indissolubilità della coppia così
costituita: «Essi non sono più due, ma una sola carne» (Mt 19, 4 ss). Paolo,
infine, talvolta a torto definito asceta ostile alla vita sessuale, dà agli
sposi degli orientamenti tuttora validi per i nostri contemporanei (1 Cor 7,
1-6). Contro gli illusori desideri di continenza manifestati dai Corinzi, egli
ricorda la via normale del matrimonio, il dovere dei rapporti sessuali: «Non
rifiutatevi l’uno all’altro, se non di comune accordo (“sinfonicamente”), per un
certo periodo di tempo, per accudire alla preghiera; poi riprendete la vita
comune» (7, 5; cfr. 1 Tim 4, 3; 5, 14). La situazione sorta dalla creazione
viene quindi mantenuta e anche valorizzata. La comunione degli sposi si estende
ormai fino al campo privilegiato della preghiera.
2. «Non c'è né uomo né donna, perché voi tutti non fate che uno in
Cristo Gesù» (Gal 3, 28).
- Quest’affermazione non contraddice nessuna delle prospettive precedenti, ma la
venuta di Gesù ha determinato, nella rispettiva situazione dell’uomo e della
donna, un mutamento che conferisce alla condizione sessuale la sua vera
dimensione. Gesù non ne ha elaborato la teoria, ma personalmente ha adottato un
particolare comportamento e rivolto agli uomini un appello Gesù, infatti, non è
vissuto come i rabbi giudei che, secondo l’usanza, dovevano essere sposati. La
probabile pratica del celibato presso gli Esseni (Qumrân) ha forse contribuito a
neutralizzare lo stupore o lo scandalo che questa situazione poteva provocare.
Ma in Gesù, non si tratta di un ascetismo ostile alla donna. Se ne comprende la
motivazione in questa dichiarazione che è una velata confidenza: «Vi sono degli
eunuchi che si sono resi tali in vista del regno dei cieli» (Mt 19, 12). Queste
parole rappresentano un invito per «chi è in grado di capirle»; trovano in Luca
un parallelo altrettanto rude: per essere discepolo di Gesù, bisogna rinunciare
alla propria moglie (Lc 18, 29). Un simile programma di vita è comprensibile
solo in funzione di una realtà nuova, che si rivela con Gesù: la venuta del
regno di Dio, in cui si entra «camminando dietro di lui». L'accesso a questo
nuovo ordine di cose può invitare a superare il comandamento della creazione,
dando un senso alla continenza volontaria. Sulle orme di Gesù, Paolo che, forse,
era stato sposato, si fa l’avvocato della *verginità. Ci sono due ragioni per
questo nuovo comportamento: il *carisma di una particolare chiamata, simile a
quello che ha sentito (1 Cor 7, 7), e la situazione creata dalla fine dei *tempi
inauguratasi in Gesù. Il fatto di trovarsi negli «ultimi tempi» porta infatti
con sé la distinzione tra due nuove categorie dell’umanità: all’antica antinomia
uomo-donna viene ad aggiungersi l’opposizione coniugato-vergine. Questi due tipi
di uomini o di donne sono necessari a costituire ed esprimere in modo
complementare la pienezza del regno dei cieli. Sarebbe quindi errato affermare,
tenendo conto esclusivamente delle affermazioni del VT, che l’uomo e la donna
non possono trovare la propria piena estrinsecazione se non nell’effettiva
unione con il partner sessuale. In realtà, nella comunità umana globale
ricapitolata in Cristo Gesù, è possibile comunicare con un Tu, pur rinunciando
all’esercizio carnale della sessualità.
II. SESSUALITÀ, SACRO E SANTITÀ
1. Le religioni dei popoli che circondavano Israele avevano
trasposto la sessualità anche nel mondo divino. Si vedono pullulare le divinità
padri e madri, gli dèi dell’amore che si sposano tra loro o con gli esseri
umani, e le prostitute sacre che raffiguravano la divinità. Israele ha
conosciuto i Baal e le Astarte, i pioli infissi nella terra per simboleggiare
l’unione tra il cielo e la terra; in certa misura è venuto persino a patti con
questi falsi dèi e ha fuso un «vitello d'oro» (Es 32, 4), simbolo della potenza
virile. Tuttavia, la lotta contro queste religioni straniere si concluse con la
vittoria del jahvismo, anche se, malgrado l’interdizione formulata in Deut 23,
18, è ancora segnalata l’esistenza di prostitute sacre (1 Re 14, 24; 15, 12; 22,
47; 2 Re 23, 7; Os 4, 4; Mi 1, 7). Anche dopo aver depurato queste usanze
pagane, Israele continua a mantenere un certo legame tra il sessuale e il sacro.
Ma la fonte di questa sacralizzazione si è spostata. Non si tratta più di
imitare la sessualità divinizzata, ma di compiere una funzione suscitata dalla
parola di Dio, partecipando alla sua stessa potenza creativa. Eva, che è appena
diventata madre, esclama: «Ho procreato un uomo grazie a Jahvè» (Gen 4, 1). Una
prima conseguenza di questa nuova forma di sacralizzazione appare nell’uso del
simbolismo sessuale (parentale o coniugale) per esprimere l’*alleanza con Jahvè
(Gen 17, 9-14; Lev 12, 3). Un altro aspetto di questa sacralizzazíone della
sessualità concerne i riti del *puro e dell’impuro, che Israele ha ereditato
dagli antichi riti orientali. Alla nascita di un bambino, la donna viene
dichiarata impura e non può recarsi al santuario (Lev 12, 6); lo stesso vale per
il periodo del flusso mensile (15, 19-30), o, per l’uomo, in occasione di una
polluzione notturna (15, 1-17; Deut 23, 11). Persino i rapporti sessuali rendono
inidoneo al culto (Lev 15, 18; Es 19, 15; 1 Sam 21, 5 s; 2 Sam 11, 11) e questo
vale soprattutto per i sacerdoti (Es 20, 26; 28, 42; Deut 23, 2). Queste
prescrizioni non derivano affatto da un disprezzo della sessualità, bensì dalla
sacralizzazione di essa, o piuttosto risultano dall’ambiguità del sacro in
questo campo e dall’ambiguità della purità cultuale. Infine non c'è forse
conflitto tra un atto che è partecipazione fisica alla potenza creativa di Dio e
un atto cultuale che mima il rapporto con la divinità?
2. Tutti questi tabù sono scomparsi con la fede cristiana. O
piuttosto si è operato un passaggio dall’antica sacralizzazione a una nuova
concezione della *santità. Possono spiegarsi in questo modo certe affermazioni
di Paolo: «Il marito non credente viene ad essere santificato dalla moglie. Se
così non fosse, i vostri figli sarebbero impuri, mentre sono santi» (1 Cor 7,
14). Questo stato oggettivo non deriva più dal carattere sacro della relazione
sessuale, ma dall’inserimento in un popolo santo, e in ultima analisi, dalla
presenza dello Spirito Santo. Con questo dono dello Spirito, bisogna appunto
mettere in relazione le raccomandazioni di Paolo, senza dubbio sulla scia della
catechesi primitiva, a proposito delle esigenze di purezza sessuale che
caratterizzano la vita cristiana. «La volontà di Dio è la vostra santificazione:
è che voi vi asteniate dall’impudicizia. Ciascuno di voi sappia usare del corpo
che gli appartiene con santità e rispetto, senza lasciarsi trasportare dalla
passione, come fanno i pagani che non conoscono Dio» (1 Tess 4, 3 ss). Ormai, in
virtù del dono dello Spirito, il *corpo è santificato e «non è per la
fornicazione, ma per il Signore» (1 Cor 6, 13). Quanto al simbolismo sessuale,
viene trasposto su Cristo e la Chiesa. «Mariti, amate le vostre mogli come
Cristo ha amato la Chiesa» (Ef 5, 25). Richiamando il comando del creatore:
«L'uomo... si unirà alla donna e i due faranno una sola carne», Paolo aggiunge:
«Questo mistero è di grande portata, voglio dire che si applica a Cristo e alla
Chiesa» (Ef 5, 31 s). Lo stesso simbolismo esprime il rapporto d'amore che
unisce il fedele a Dio. È una Prostituta quella che cavalca la Bestia (Apoc 17),
mentre gli autentici credenti seguono l’agnello perché sono «vergini» (14, 4).
III. LA PRATICA E L'INTENZIONE
1. La morale sessuale nel VT costituisce oggetto di una massa
di prescrizioni. Questo non deriva da un desiderio di condannare la sessualità e
neppure da un’eccessiva attenzione morale per questo particolare campo, ma dalla
sacralizzazione di cui abbiamo parlato prima. Inoltre, è presente una reazione
di difesa contro un mondo pervertito che dissimulava spesso il proprio erotismo
ammantandolo sotto il velo della religione. Infine non bisogna dimenticare la
funzione educativa della legge che si preoccupava dell’igiene del popolo di Dio.
Sarebbe noioso enumerare singolarmente queste prescrizioni. Ci limitiamo a
notare il catalogo di Lev 20, 10-21, in cui vengono condannati la fornicazione
(cfr. Deut 22, 23-29), i rapporti sessuali con una donna durante le
mestruazioni, l’*adulterio (cfr. Deut 5, 18; 22, 22; con accenno alla cupidigia
in Es 20, 17 e Prov 2, 16; 6, 25; 7, 55 ss; Eccli 9, 9), l’incesto (cfr. Deut
23, 1), l’omossessualità (cfr. Gen 28, 20; 19, 5), la bestialità (cfr. Es 22,
18). Per contro, la condanna di quello che noi chiamiamo onanismo non trova
fondamento nella colpa di Onan, che consistette nel rifiutarsi di generare una
posterità al fratello defunto (Gen 38, 9 s). Esistono inoltre speciali
prescrizioni per i sacerdoti; non possono sposare una prostituta né una donna
ripudiata (Lev 21, 7. 13 s). Da notare infine che, al di fuori dei casi di
prostituzione sacra, la prostituzione non viene particolarmente riprovata (Gen
38, 15-23; Giud 16, 1...) sebbene la letteratura sapienziale, dimostrando un
evidente progresso rispetto agli antichi racconti, metta in guardia contro i
pericoli che essa rappresenta (Prov 23, 27; Eccli 9, 3 s; l9, 2).
2. Gesù non dice nulla delle precedenti prescrizioni rituali.
Non indugia a condannare la colpa commessa, per esempio quella della moglie
sorpresa in flagrante delitto d'adulterio (Gv 8, 11), o quando dichiara che le
prostitute, in virtù della loro fede, entreranno più facilmente dei Farisei nel
regno dei cieli (Mt 21, 31 s; cfr. Ebr 11, 31). Tuttavia radicalizza le
prescrizioni del VT, colpendo il peccato che ne è alla radice, nel desiderio e
nello sguardo (Mt 5, 28; 15, 19 par.). Gesù viveva tra i Giudei. Paolo, dal
canto suo, si trova lanciato nell’ambiente dissoluto del grande porto di
Corinto. Così si erge con forza contro tutte le forme del male: «Né impudichi,
né idolatri, né adulteri, né depravati, né gente di costumi abbietti, né ladri,
né cupidi, e neppure ubriaconi, insolenti o rapaci erediteranno il regno di Dio»
(1 Cor 6, 9; cfr. Rom 1, 24-27); mette continuamente in guardia contro la
prostituzione (1 Cor 6, 13 ss; 10, 8; 2 Cor 12, 21; Col 3, 5); realista,
proibisce i rapporti con i fratelli impudichi di questo mondo, «se no, dovreste
uscire dal mondo» (1 Cor 5, 10). Perché questo vigore nell’esortazione? Per
proteggere i cristiani di origine non giudaica contro le deviazioni della carne.
Paolo non dispone più del baluardo della legge giudaica con le sue minuziose
prescrizioni certo, non teme di affermare «Tutto è permesso» (1 Cor 6, 12)
perché sa che la morale non dipende più da questa o da quella prescrizione
scritta, sempre condizionata dalla cultura del tempo; ma dipende in modo ben più
intimo dal rapporto che ormai intercorre tra il *corpo e il Signore. Il corpo è
tempio dello Spirito Santo e membro di Cristo; «e andrò forse a prendere le
membra di Cristo per farne delle membra di prostituta?... Non sapete che colui
che si unisce alla prostituta è un solo corpo con lei?» (1 Cor 6, 12-20). «Non
preoccupatevi dunque della *carne per soddisfarne tutte le concupiscenze» (Rom
13, 14; cfr. Gal 5, 16-19). Con la venuta di Gesù e l’insegnamento di Paolo, la
sessualità viene quindi progressivamente sottratta alla sfera del sacro Questo
movimento può e deve essere portato avanti, a una condizione: mantenere la
dimensione di santità che trasforma la corporeità dell’uomo e la rende
incessantemente presente ad un mondo divino che l’investe da ogni parte.
XAVIER LÉON-DUFOUR
→ adulterio 1 - carne II - corpo I - cupidigia NT 1 - desiderio II
- digiuno 0.1 - donna VT 1; NT 2 - fecondità I - matrimonio - opere VT II 2 -
peccato IV 3 a - puro VT I 1, II 2 - Sposo-sposa VT 0.1 - sterilità - uomo VT II
2 - verginità VT 1; NT 3 - veste I 1, II 1.
SETE (inizio)
→ fame e sete.
→ eresie - farisei - Giovanni Battista - legge B III 5 - sacerdozio VT III 1 - tradizione VT II 2 - zelo II.
→ apostoli I 2 - ministero II 2 – numeri.
1. La
settimana nella vita sociale e nella liturgia.
- Il problema dell’origine della settimana rimane difficile.
Strettamente legata al *sabato e forse al ciclo lunare, essa ha assunto per tal
fatto, fin dall’inizio, un carattere religioso specifico che la distingue
nettamente dai periodi di sette giorni attestati altrove nel Medio Oriente (cfr
Gen 8, 10 ed il poema babilonese di Gilgamesh; Gen 29, 27; Giud 14, 12; 2 Re 3,
9). Probabilmente anteriore alla legislazione mosaica, essa vi figura in buon
posto già nei testi più antichi (Es 20, 8 ss; 23, 12; 34, 21). Così Dio dà al
suo popolo il ritmo del suo *lavoro e del suo *riposo. La settimana ha una parte
importante nei costumi e nelle pratiche religiose del VT. Le *feste degli azzimi
e dei tabernacoli durano una settimana (Deut 16, 4; Lev 23, 8. 34). La
*Pentecoste, o festa delle settimane, ha luogo sette settimane dopo il sabato
della Pasqua (Es 34, 22; Lev 23, 15). Inoltre, dopo l’esilio, sacerdoti e leviti
facevano un turno settimanale nel tempio per compiervi il servizio cultuale.
Accanto al calendario che divenne ufficiale e fu conservato dai cristiani, un
calendario sacerdotale arcaico armonizzava l’anno solare di 364 giorni con un
ciclo completo di 52 settimane. Ogni settimana di anni terminava con un anno
sabbatico, in cui si dovevano liberare gli schiavi ed i debitori, e lasciar
riposare la terra (Es 21, 2; 23, 10 ss; Deut 15, 1 ss; Lev 25, 3 s). Al termine
di sette settimane di anni era previsto un anno giubilare, anno per eccellenza
della liberazione (Lev 25, 8...). La profezia delle settanta settimane (Dan 9,
24), che annunzia la liberazione finale di Israele, è costruita sulla cifra
convenzionale di dieci periodi giubilari, mentre il testo di Geremia che ne
costituisce il punto di partenza (Ger 25, 11 s) pone la salvezza al termine di
dieci periodi sabbatici.
2. Significato teologico.
- Secondo la teologia sacerdotale, la settimana che ritma l’attività dell’uomo
ha come prototipo sacro l’attività creatrice di Dio stesso (Gen 1, 1 - 2, 3; Es
20, 9 ss; 31, 17). La legge ebdomadaria è così considerata come un'istituzione
divina di valore universale. Nel NT la settimana acquista un nuovo valore
religioso. Parte ormai dalla domenica, giorno del Signore, celebrazione
ebdomadaria della sua vittoria (Apoc 1, 10; Atti 20, 7; 1 Cor 16, 2). Il
*lavoro, che il cristiano vi svolge in seguito, si compie così sotto la guida di
Cristo redentore che domina il tempo. Ma continua a tendere verso un ottavo
*giorno che, al di là del ciclo delle settimane, introdurrà il popolo di Dio nel
grande *riposo divino (Ebr 4, 1-11); il riposo nella domenica ne annunzia già la
venuta.
C. THOMAS
→ creazione VT II 2 - feste - numeri I 1, II 1 - Pentecoste I 1 -
sabato - tempo VT I 1; NT II 3.
→ Dio VT II 1 - monte - nome VT 2.
→ anima II 2 - inferi e inferno - luce e tenebre VT II 3 - mare 2 - morte - ombra I 2 – risurrezione.
→ amen - beatitudine NT I 1 - compiere NT 1 - promesse III 1 - verità NT 1.
→ fede 0 - pace - porta VT I.
1.
Significato ed uso del sigillo.
- Il sigillo non è soltanto un gioiello inciso con arte (Eccli 32, 5 s), ma un
simbolo della persona (Gen 38, 18) e della sua *autorità (Gen 41, 42; 1 Mac 6,
15); quindi è fissato sovente ad un anello dal quale non ci si separa senza
grave motivo (Agg 2, 23; cfr. Ger 22, 24). L'apposizione del sigillo da parte di
una persona attesta che un oggetto le appartiene (Deut 32, 34), che un atto
emana da essa (1 Re 21, 8), che l’accesso ad una delle sue proprietà è vietato
(Dan 14, 11). Il sigillo è quindi una firma; garantisce la validità di un
documento (Ger 32, 10); ne indica pure la fine (cfr. Rom 15, 28); talvolta gli
conferisce un carattere segreto, come nel caso di un rotolo sigillato che
nessuno può leggere, salvo colui che ha diritto di rompere il sigillo (Is 29,
11).
2. Il sigillo di Dio
a) Il sigillo di Dio è un simbolo poetico della sua sovranità
sulle sue creature e sulla storia; egli può sigillare le stelle (Giob 9, 7), ed
ecco la notte nera; sigilla il *libro dei suoi *disegni (Apoc 5, 1 - 8, 1), e
nessuno ne decifra il segreto, salvo l’*agnello che li *compie. Dio sigilla i
peccati, nel senso che vi pone termine, peccati individuali (Giob 14, 17) o
collettivi (Dan 9, 24); in quest'ultimo caso sigilla nello stesso tempo la
«*profezia», cioè vi pone termine realizzandola.
b) Il simbolismo assume un nuovo valore quando Cristo dice di
essere segnato col sigillo di Dio, suo Padre (Gv 6, 27); infatti questo sigillo
del Padre sul figlio dell’uomo non è semplicemente il potere che egli gli
conferisce di compiere la sua opera (cfr. Gv 5, 32. 36), ma è anche la
consacrazione che fa di lui il *Figlio di Dio (Gv 10, 36). A questa
consacrazione il cristiano partecipa quando Dio lo segna col suo sigillo
donandogli lo *Spirito (2 Cor 1, 22; Ef 1, 13 s), dono che è esigenza di fedeltà
allo Spirito (Ef 4, 30). Questo sigillo è il segno dei servi di Dio e loro
salvaguardia al tempo della prova escatologica (Apoc 7, 2-4; 9, 4). In grazia
sua essi potranno rimanere fedeli alle parole divine, parole di cui Paolo dice
che sono un sigillo; con esse infatti, Dio attesta in modo irrevocabile a quali
condizioni si pervenga alla salvezza (2 Tim 2, 19).
C. LESQUIVIT e M. F. LACAN
→ battesimo IV 4 - libro IV - unzione III 6.
Nella liturgia la
Chiesa rivolge ogni sua preghiera a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore. Il titolo di Signore fu attribuito a Gesù fin dall’origine, per
testimonianza di Paolo che ricorda il simbolo primitivo della fede cristiana:
«Gesù è Signore» (Rom 10, 9); questo nome esprime quindi il mistero di Cristo,
Figlio di Dio e figlio dell’uomo; il VT mostra in effetti che Signore (Adonaj =
Kyrios) non è soltanto un titolo regale, ma un *nome divino.
VECCHIO TESTAMENTO
La sovranità di Jahvè non si limita al popolo da lui eletto e di cui è
il re (1 Sam 8, 7 s; 12, 12); Jahvè è il «Signore dei signori», perché è il *Dio
degli dèi (Deut 10, 17; Sal 136, 3). La sua sovranità non è quella di una
divinità cananea, legata alla terra di cui è il Baal (termine che designa il
possessore, e per estensione il marito, padrone e signore della propria moglie);
il nome di Baal non può quindi convenire al Dio di Israele (Os 2, 18; è usato in
Is 54, 5, ma, per designare Dio come sposo, non di una terra, ma del suo
popolo). Signore universale, Dio esercita il suo dominio in ogni luogo in favore
del suo popolo (Deut 10, 14- 18). Due nomi esprimono la sua *autorità: melek e
adôn. Il primo significa *re (Is 6, 5; Sal 95, 3): la regalità del Dio di
Israele si estende a tutta la sua creazione (Sal 97, 5), quindi agli stessi
pagani (Sal 96, 10). Il secondo nome significa signore: Dio è signore di tutta
la terra (Gios 3, 11; Mi 4, 13; Sal 97, 5). Si invoca Dio chiamandolo «mio
Signore»; è questo un titolo regio (Adonî), che assume ufficialmente la forma
Adonaj (plurale di intensità) quando lo si rivolge a Dio; questa invocazione,
già presente nei testi antichi (Gen 15, 2. 8), esprime la fiducia che i servi di
Dio pongono nella sua sovranità assoluta (Am 7, 2; Deut 9, 26; Gios 7, 7; Sal
140, 8). D’altronde questo titolo, usato frequentemente, finì col diventare un
nome proprio di *Dio. Quando, per rispetto, non si pronunziò più il nome di *Jahvè
nelle letture liturgiche, lo si sostituì con Adonaj. Di qui deriva senza dubbio
l’uso da parte dei LXX di Kyrios, equivalente greco di Adonaj, per tradurre
Jahvè. Il titolo Kyrios può dunque per tal fatto avere due sensi: designa ora la
sovranità di Jahvè, ora il *nome incomunicabile dell’unico vero Dio.
NUOVO TESTAMENTO
Il NT trasferisce a *Gesù Cristo il titolo Kyrios. Spiegare questa
traslazione significa definire la fede cristiana. 1. La fede della Chiesa
nascente. - Partendo dal termine che si trova nel Sal 110,
1. Gesù aveva voluto far capire che, pur essendo figlio di
David, gli era superiore ed anteriore (Mt 22, 43 ss; cfr. Lc 1, 43; 2, 11).
Fondandosi sullo stesso salmo, la Chiesa nascente nella sua predicazione
proclama la sovranità di Cristo, attuata dalla sua risurrezione (Atti 2, 34 ss).
Nella sua preghiera essa conserva a lungo l’invocazione aramaica primitiva:
Marana tha, «Signor nostro, vieni!» (1 Cor 16, 22; Apoc 22, 20). La luce di
Pasqua, la riflessione sulla Scrittura, sono le fonti della prima *confessione
cristiana: «Gesù è Signore» (Rom 10, 9; 1 Cor 12, 3; Col 2, 6). Gesù merita il
titolo supremo di Marana e di Kyrios, in quanto *Messia intronizzato in cielo,
che inaugura il suo *regno col dono dello *Spirito (Atti 2, 33), ed è sempre
presente alla sua Chiesa nell’assemblea liturgica, in attesa del *giudizio (10,
42). Ora questa sovranità di Cristo, in primo piano nel titolo Kyrios, è quella
di Dio stesso, cosicché si trasferisce al «Signore di tutti» (10, 36) ciò che
conveniva a Jahvè solo, ad esempio l’invocazione del *nome (2, 20 s), o i gesti
e le formule dell’*adorazione (Fil 2, 10 = Is 45, 23; Gv 9, 38; Apoc 15, 4).
2. Paolo trasmette a Corinto il Marana tha del cristianesimo
palestinese, mostrando con ciò che deve a quest’ultimo la sua concezione di
Gesù-Signore, e non all’ellenismo che dava questo titolo agli dèi ed
all’imperatore (cfr. Atti 25, 26). Al pari di Pietro nella sua predicazione,
egli si fonda sul Sal 110 (1 Cor 15, 25; Col 3, 1; Ef 1, 20) e dà a Kyrios un
duplice valore, regale e divino. *Re, Gesù è Signore di tutti gli uomini (Rom
14, 9), di tutti i suoi nemici, le potestà (cfr. *potenza (Col 2, 10. 15) o la
*morte (1 Cor 15, 24 ss. 57; cfr. 1 Piet 3, 22), dei padroni umani che
rappresentano il solo vero padrone presso i loro schiavi (Col 3, 22 - 4, 1; Ef
6, 5-9); Signore infine della *Chiesa, suo proprio *corpo che egli domina e
nutre (Col 3, 18; Ef l, 20 ss; 4, 15; 5, 22-32). Quindi tutto l’universo, cieli,
terra, inferi, proclama che Gesù è Signore (Fil 2, 10 s). Quest’ultimo testo
assicura il valore divino del titolo: dopo essersi fatto schiavo, pur essendo di
«condizione divina», Gesù è esaltato da Dio e ne riceve «il *nome al di sopra di
ogni nome», riflesso della divinità sulla sua umanità glorificata che fonda la
sua sovranità universale. In base a questo duplice valore, regale e divino, la
formula di fede «Gesù è Signore» assume una sfumatura di protesta contro le
pretese imperiali alla divinità: ci sono dei kyrioi tra i «cosiddetti dèi», ma
Gesù è il solo Kyrios assoluto (1 Cor 8, 5 s), al quale gli altri sono soggetti.
L’Apocalisse fa quindi comprendere che il titolo «Signore dei signori» attestato
da moltissimo tempo in Oriente (verso il 1100 a. C.), non conviene
all’imperatore divinizzato, ma al solo Cristo, come al Padre (Apoc 17, 14; 19,
16; cfr. Deut 10, 17; 1 Tim 6, 16). Proiettando la luce di Pasqua sugli
avvenimenti della vita di Cristo, Luca ama designare Gesù col suo titolo di
Signore (Lc 7, 13; 10, 39. 41 ...); Giovanni lo usa meno frequentemente (Gv 11,
2), ma ricorda che il discepolo amato da Gesù, che scopre il Signore in colui
che stava sulla riva (21, 7); che soprattutto Tommaso, portavoce di tutta la
Chiesa, ha pienamente riconosciuto la divinità di Gesù risorto nella sua
signoria sui credenti: «Mio Signore e mio Dio» (20, 28).
P. TERNANT
→ adorazione II 2 - autorità NT I - corpo II - David 3 - Dio - Gesù
(nome di) III - Gesù Cristo II - gloria - Jahvè 3 - messia NT II 2 - nome VT 4;
NT 3 - re NT II 1 - regno NT III 2 uomo I 1 d. 2 b.
Precedendo,
interrompendo o prolungando la *parola, il silenzio illumina a modo suo il
dialogo avviato tra Dio e l’uomo.
1. Il silenzio di Dio.
- Prima che l’uomo senta la parola, «la parola era in Dio» (Gv 1, 1); ma come un
«*mistero avvolto di silenzio nei secoli eterni» (Rom 16, 25) finché si rivela
all’uomo. Questa maturazione segreta della parola si esprime nel tempo con la
*predestinazione degli *eletti: ancor prima di parlare loro, Dio li *conosce fin
dal seno materno (Ger 1, 5; cfr. Rom 8, 29). C’è tuttavia un altro silenzio di
Dio, che non sembra più onusto di un mistero di amore, ma carico dell’*ira
divina. Per inquietare il suo popolo peccatore, Dio non parla più per mezzo dei
suoi profeti (Ez 3, 26). Perché, dopo aver parlato così spesso e con tanta
*potenza, Dio tace dinanzi al trionfo dell’empietà (Ab 1, 13), e non risponde
più alla *preghiera di Giobbe (Giob 30, 20) né a quella dei salmisti (Sal 83, 2;
109, 1)? Per Israele che vuole *ascoltare il suo Dio, questo silenzio è *castigo
(Is 64, 11); significa l’allontanamento dal suo Signore (Sal 35, 22); equivale
ad un decreto di morte (cfr. Sal 28, 1); annunzia il «silenzio» dello sheol,
dove Dio e l’uomo non si parlano più (Sal 94, 17; 115, 17). Tuttavia il dialogo
non è definitivamente interrotto, perché il silenzio di Dio può essere anche un
riflesso della sua *pazienza nei giorni di infedeltà degli uomini (Is 57, 11).
2. Il silenzio dell’uomo.
- «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Eccle 3, 7). Questa
massima può essere intesa in diversi gradi di profondità. Secondo i momenti il
silenzio può significare l’indecisione (Gen 24, 21), l’approvazione (Num 30,
5-16), la confusione (Neem 5, 8), la paura (Est 4, 14); l’uomo dimostra la sua
libertà tenendo a freno la *lingua per evitare la colpa (Prov 10, 19),
soprattutto in mezzo a chiacchiere od a giudizi avventati (Prov 11, 12 s; 17,
28; cfr. Gv 8, 6). Al di là di questa sapienza che potrebbe restare puramente
umana, è Dio che crea nell’uomo i tempi del silenzio e della parola. Il silenzio
dinanzi a Dio manifesta la *vergogna dopo il peccato (Giob 40, 4; 42, 6; cfr. 6,
24; Rom 3, 19; Mt 22, 12) oppure la *fiducia nella salvezza (Lam 3, 26; Es 14,
14); significa che dinanzi all’ingiustizia degli uomini, Cristo, da *servo
*fedele (Is 53, 7), ha rimesso la sua causa a Dio (Mt 26, 63 par.; 27, 12. 14
par.). Ma in altre circostanze non parlare sarebbe mancare di *fierezza e non
*confessare Dio (Mt 26, 64 par.; Atti 18, 9; 2 Cor 4, 13): allora non si può
tacere (Ger 4, 19; 20, 9; Is 62, 6; Lc 19, 40). Infine, quando Dio *visita
l’uomo, la terra osserva il silenzio (Ab 2, 20; Sof 1, 7; Is 41, 1; Zac 2, 17;
Sal 76, 9; Apoc 8, l); e quando egli è venuto, un silenzio di timore o di
rispetto significa l’*adorazione dell’uomo (Lam 2, 18; Es 15, 16; Lc 9, 36).
Quest’umile silenzio, per colui che medita nel proprio cuore (Lc 2, 19. 51),
rappresenta non soltanto l’accesso al riposo (Sal 131, 2), ma anche l’apertura
alla *rivelazione che il Signore ha promesso ai piccolissimi (Mt 11, 25).
A. RIDOUARD
→ agnello di Dio 1 - labbra - lingua 1 - parola di Dio - parola umana.
→ angeli VT 2 - animali 0 - anticristo VT 1 - figura - mistero - numeri - parabola I 1 - rivelazione VT I 2, II 2 - segno.