RABBI - RUGIADA - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

Vai ai contenuti

Menu principale:

R
R: RABBI - RUGIADA

CERCA NELLA PAGINA

Il termine cercato viene evidenziato in giallo in tutta la pagina
 jQuery: cercare ed evidenziare parole nel testo


  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

R

    ____________________________________________________________

    RABBI (inizio)

    → Gesù (nome di) III - Gesù Cristo II 1 a - insegnare NT I l.

    RACCOLTO (inizio)

    → elemosina VT 2 - frutto - messe - seminare - vendemmia.

    RADUNARE (inizio)

    → Chiesa I, II 1 - comunione VT 5; NT - corpo di Cristo III - dispersione - pasto - Pentecoste II 1 c – unità.

    RAHAB (inizio)

    → bestie e Bestia l.2.

    RAZZA (inizio)

    → fecondità - generazione - nazioni - padri e Padre I, II – popolo.

    RE (inizio)

    Nell’Oriente antico l’istituto monarchico è sempre intimamente collegato alla concezione mitica della regalità divina, comune alle diverse civiltà del tempo. Per tale fatto, è una istituzione sacra che, in gradi diversi, appartiene alla sfera del divino. In Egitto il faraone regnante è considerato come una incarnazione di Oro; tutti i suoi atti sono quindi divini per natura e le funzioni cultuali gli spettano di diritto. A Babilonia il re è l’eletto di Marduk, delegato da lui al governo delle «quattro regioni», cioè di tutta la terra; capo civile e militare, egli è pure il sommo sacerdote della città. Nei due casi la funzione regale fa del suo titolare il *mediatore nato tra gli dèi e gli uomini. Non soltanto egli deve assicurare a questi la giustizia, la vittoria, la pace; ma attraverso la sua mediazione giungono tutte le benedizioni divine, compresa la fertilità della terra e la fecondità umana ed animale. Così l’istituzione monarchica fa corpo con le mitologie ed i culti politeistici. In epoca più tarda l’impero greco e l’impero romano ne riprenderanno le idee fondamentali, quando divinizzeranno i loro sovrani. Questo è lo sfondo su cui spicca, in tutta la sua originalità, la rivelazione biblica. Il tema del *regno di Dio occupa nei due Testamenti un posto capitale; quello della regalità umana si sviluppa in base all’esperienza israelitica e serve infine a definire la regalità di Gesù Cristo. Ma da una parte e dall’altra, l’ideologia subisce una purificazione radicale che la pone in armonia con la rivelazione del *Dio unico. Sul secondo punto essa è perfino completamente trasformata: da una parte, fin dall’origine, la monarchia come istituzione temporale si distacca dalla sfera del divino; dall’altra parte, al termine dello sviluppo dottrinale, la regalità di Cristo è di ordine diverso da quello del mondo politico.
    VECCHIO TESTAMENTO
    La monarchia non appartiene alle istituzioni più fondamentali del *popolo di Dio, confederazione di tribù legate dall’*alleanza. Tuttavia esisteva in Canaan fin dall’epoca dei patriarchi (Gen 20), e nei piccoli popoli vicini fin dall’epoca dell’esodo e dei giudici (Gen 35, 31-39; Num 20, 14; 21, 21.33; 22, 4; Gios 10-11; Giud 4, 2; 8, 5). Ma quando Israele adotta la rappresentazione regale per applicarla al suo Dio, non ne trae alcuna conseguenza per le sue istituzioni politiche: *Jahvè regna su Israele (cfr. Giud 8, 23; 1 Sam 8, 7; Es 19, 6) in virtù dell’alleanza, ma nessun re umano incarna la sua presenza in mezzo al suo popolo.
    I. L’ESPERIENZA MONARCHICA
    1. Istituzione della monarchia.

    - Al tempo dei giudici, Abimelech tenta di instaurare a Sichem una monarchia di tipo cananeo (Giud 9, 1-7); l’istituzione urta contro una forte resistenza ideologica (9, 8-20) e fallisce miseramente (9, 22-57). Dinanzi al pericolo filisteo gli anziani di Israele incominciano a desiderare un re «che li giudichi e conduca le loro guerre» (1 Sam 8, 19). Istituzione ambigua, che minaccia di assimilare Israele alle «altre nazioni» (8, 5. 20); quindi uno dei racconti del fatto attribuisce a Samuele un atteggiamento di opposizione (8, 6; 10, 17 ss; 12, 12). Ad ogni modo, Samuele consacra religiosamente l’istituzione nuova, conferendo l’*unzione a Saul (9, 16 s; 10, 1) e presiedendo alla sua intronizzazione (10, 20-24; 11, 12-15). Ma la monarchia si inserisce in una cornice più ampia, di cui il patto di alleanza fissa sempre i tratti fondamentali: Saul è, al pari dei giudici, un capo carismatico guidato dallo *spirito di Jahvè (10, 6 ss), che conduce la *guerra santa (11). Gli succede, anch’esso come capo carismatico di provato valore, David, dapprima in Giuda (2 Sam 2, 1-4), poi in Israele (5, 1 ss). Tuttavia, con lui, la monarchia fa un passo avanti: il regno si organizza politicamente sul modello degli stati vicini, e soprattutto la profezia di Natan fa della dinastia davidica una istituzione permanente del popolo di Dio, depositaria delle promesse divine (7, 5-16). La speranza del popolo di Dio sarà quindi legata ormai alla regalità davidica, almeno nel Sud del paese (cfr. Num 24, 17; Gen 49, 8-12) dove l’istituzione conserverà sempre la sua forma dinastica. Al Nord, invece, gli ambienti religiosi tenderanno a conservarle una forma carismatica, e si vedranno profeti suscitare vocazioni regali (1 Re 11, 26-40; 2 Re 9).
    2. Le funzioni regali.
    - In Israele il re non appartiene, come nelle civiltà circostanti, alla sfera del divino. Rimane sottomesso, al pari degli altri uomini, alle esigenze dell’alleanza e della legge, come i profeti, all’occasione, non mancano di ricordare (cfr. 1 Sam 13, 8-15; 15, 10-30; 2 Sam 12, 1-2; 1 Re 11, 31-39; 21, 17-24). Egli tuttavia è una persona sacra, di cui bisogna rispettare l’*unzione (1 Sam 24, 11; 26, 9). A partire da David, la sua situazione in rapporto a Dio si precisa: Dio fa di lui il suo *figlio adottivo (2 Sam 7, 14; Sal 2, 7; 89, 27 s), depositario dei suoi poteri e posto virtualmente a capo di tutti i re della terra (Sal 89, 28; cfr. 2, 8-12; 18, 44 ss). Se è fedele, Dio gli promette la sua protezione. Con le *vittorie sul nemico esterno, dovrà assicurare la prosperità del suo popolo (cfr. Sal 20; 21) e, all’interno, far regnare la *giustizia (Sal 45, 4-8; 72, 1-7. 12 ss; Prov 16, 12; 25, 4 s; 29, 4. 14). Le sue funzioni temporali si collegano così allo scopo fondamentale dell’alleanza e della *legge. Inoltre, come capo del popolo di Dio, egli esercita all’occasione talune funzioni cultuali (2 Sam 6, 17 s; 1 Re 8, 14. 62 s), che permettono di parlare di un *sacerdozio regale (Sal 110, 4). L’ideale del re fedele (Sal 101), giusto, pacifico, corona così in qualche modo tutto l’ideale nazionale: l’esercizio del potere regale deve far entrare questo ideale nei fatti.
    3. Ambiguità dell’esperienza monarchica.
    - Tuttavia i libri storici e profetici mettono in rilievo l’ambiguità dell’esperienza monarchica. In tutta la misura in cui i re rispondono all’ideale che è loro assegnato, i profeti li sostengono e gli storici non mancano di farne l’elogio; così per David (Sal 78, 70; 89, 20-24), Asa (1 Re 15, 11-15), Josafat (1 Re 22, 43), Ezechia (2 Re 18, 3-7), Giosia (2 Re 23, 25). Ma la gloria di Salomone è già più equivoca (1 Re 11, 1-13). Infine i re cattivi sono numerosi, sia in Israele (1 Re 16, 25 ss. 30-33) che in Giuda (2 Re 16, 2 ss; 21, 1-9). Di fatto la monarchia israelitica è costantemente tentata, soprattutto nel Nord, di allinearsi sull’esempio dei monarchi pagani circostanti, non soltanto copiando il loro dispotismo (già denunciato da 1 Sam 8, 10-18), ma cadendo di un’*idolatria favorita d’altronde dalla concezione mitica della regalità divina. Perciò il movimento profetico denuncia continuamente i suoi abusi e mostra nelle calamità nazionali il castigo meritato dai re (cfr. Is 7, 10 ss; Ger 21- 22; 36 - 38; 2 Re 23, 26 s). Osea condanna la stessa istituzione monarchica (Os 8, 4). Il Deuteronomio, sforzandosi di disciplinarla, pone i monarchi in guardia contro l’imitazione dei re pagani (Deut 17, 14-20).
    4. I re pagani.
    - Nei confronti dei re pagani l’atteggiamento dei libri sacri presenta delle sfumature. Come ogni *autorità terrena, essi hanno il loro potere da Dio; Eliseo interviene persino in nome di Dio per suscitare a Damasco la rivolta di Hazael (2 Re 8, 7-15; cfr. 1 Re 19, 15). Possono avere *missioni provvidenziali nei confronti del popolo di Dio: a Nabuchodonosor Dio dà il dominio su tutto l’Oriente, compreso Israele (Ger 27), poi suscita Ciro per abbassare Babilonia e liberare i Giudei (Is 41, 1-4; 45, 1-6). Ma tutti restano soggetti alle sue esigenze, ed egli pronunzia i suoi giudizi per castigare il loro *orgoglio sacrilego (Is 14, 3-21; Ez 28, l-19) e le loro *bestemmie (Is 37, 21-29). Anch’essi dovranno piegarsi, quando sarà giunta l’ora, dinanzi alla sua regalità suprema e dinanzi al potere del suo unto (Sal 2; 72, 9 ss).
    II. VERSO LA REGALITÀ FUTURA
    1. Le promesse profetiche.
    - Giudicando la esperienza monarchica da un punto di vista puramente religioso, parecchi profeti l’hanno ritenuta in definitiva disastrosa. Osea ne ha annunziato la fine (Os 3, 4 s). Geremia ha preso lucidamente in considerazione l’abbassamento della dinastia davidica (cfr. Ger 21-22), alla quale Isaia mostrava ancora tanto attaccamento. Nella prospettiva degli «ultimi tempi» l’insieme dei profeti lascia intravvedere la realizzazione perfetta del disegno divino manifestato dalla vocazione di David ed abbozzato in *figura in qualche raro successo. Nel sec. VIII Isaia volge gli occhi verso il re futuro di cui saluta la nascita (Is 9, 1-6): egli darà al popolo di Dio la *gioia, la *vittoria, la *pace e la *giustizia. Questo rampollo di Jesse, animato dallo *spirito di Jahvè, farà regnare la *giustizia (cfr. 32, 1-5) così bene, che il paese tornerà ad essere un *paradiso terrestre (11, 1-9). Michea professa la stessa fiducia nella sua venuta (Mi 5, 1-5). Geremia, nel momento stesso in cui avviene la caduta della dinastia, annunzia il regno futuro del germoglio giusto di David (Ger 23, 5 s). Ezechiele, pur professando la stessa fede fondamentale, segna tuttavia una svolta. Al nuovo David, *pastore di Israele, egli non accorda che il titolo meno splendido di principe (Ez 34, 23 s; 45, 7 s); risalendo oltre l’epoca regia, il profeta cerca quindi l’ideale di Israele nella teocrazia dei tempi mosaici. Ponendo quindi al centro della sua speranza questa teocrazia (cfr. Is 52, 7), il messaggio di consolazione non esclude tuttavia il compimento delle promesse fatte a David (Is 55, 3; cfr. Sal 89, 35-38).
    2. Nell’attesa delle promesse.
    - L’esperienza della monarchia ebbe termine nel 587. Tutto sommato, non era stata che una parentesi nella storia di Israele; ma aveva segnato profondamente gli spiriti. Durante l’esilio si soffre per 1’umiliazione della dinastia (Lam 4, 20; Sal 89, 39-52) e si prega per la sua restaurazione (Sal 80, 18). Per un momento la missione di Zorobabele (Esd 3) fa sperare che questo «germoglio di David» ristabilirà la monarchia nazionale (Zac 3, 8 ss; 6, 9-14); ma la speranza dura poco. Il giudaismo postesilico, riorganizzato sotto una forma teocratica, è sottomesso all’autorità dei re pagani, che proteggono liberamente la sua autonomia (cfr. Esd 7, 1-26) e per i quali esso prega ufficialmente (6, 10; 1 Mac 7, 33). A misura che la durata della prova nazionale si prolunga, gli occhi si rivolgono piuttosto verso gli «ultimi tempi» annunziati dai profeti. L’attesa del *regno di Dio costituisce il punto centrale della speranza escatologica. Ma in questa cornice l’attesa del re futuro occupa sempre un posto importante. Gli antichi salmi regali sono riferiti ad esso (Sal 2; 45; 72; 110), ed alla loro luce ci si raffigura il suo regno. L’immagine di un re giusto, vittorioso e pacifico (Zac 9, 9 s) si profila all’orizzonte. Quanto ai re pagani, ora vengono dipinti come soggetti al suo potere e partecipi del culto del vero Dio (cfr. Is 60, 16), ora si annunzia il loro giudizio e la loro condanna (Is 24, 21 s) se si sono levati contro il regno di Jahvè (Dan 7, 17-27).
    3. Alle soglie del NT.
    - La restaurazione della monarchia da parte della dinastia asmonea, nel momento in cui la corrente apocalittica si rifugia nell’attesa di un intervento miracoloso di Dio (cfr. Dan 2, 44 s; 12, 1), non è nella linea della speranza tradizionale. Come la rivolta di Giuda si collega alla ideologia delle antiche *guerre sante (cfr. 1 Mac 3), così la concentrazione dei poteri nelle mani di Simone (1 Mac 14) appare in seguito come una innovazione. Inoltre la monarchia asmonea adotta rapidamente costumi e metodi di governo in onore presso i re pagani. Perciò i *Farisei la rifiutano, per fedeltà alla regalità davidica, nella quale deve nascere il *Messia (cfr. Salmi di Salomone). Parallelamente, la corrente essenica si oppone ad un *sacerdozio che ritiene illegittimo, ed aspetta la venuta dei «due messia di Aronne e di Israele» (il sommo sacerdote ed il re davidico che gli sarà subordinato). Dopo gli Asmonei il potere d’altronde passa alla dinastia di Erode, che agisce sotto controllo romano. Accantonata dai Sadducei, che si adattano a questo stato di cose, l’attesa del re escatologico è ardente in tutto il popolo giudaico. Ma pur conservando il suo obiettivo religioso - il regno finale di Dio -, essa riveste generalmente un carattere politico molto accentuato: si aspetta dal re-messia la liberazione di Israele dalla oppressione straniera. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    Il messaggio del NT ha come centro il tema, essenzialmente religioso, del *regno di Dio. Quello della regalità messianica, radicarlo nell’esperienza di Israele e fondato sulle promesse profetiche, serve ancora a definire la funzione di Gesù, artefice umano del regno. Ma per trovare il suo posto nella rivelazione completa della *salvezza, esso si spoglia totalmente delle sue risonanze politiche.
    I. LA REGALITÀ DI GESÙ DURANTE LA SUA VITA TERRENA
    1. Gesù è re?
    - Durante il suo ministero pubblico Gesù non cede mai all’entusiasmo *messianico delle folle, troppo intriso di elementi umani e di speranze temporali. Non si oppone né all’*autorità del tetrarca Erode, che tuttavia sospetta in lui un concorrente (Lc 13, 31 ss; cfr. 9, 7 s), né a quella dell’imperatore romano, al quale è dovuto il tributo (Mc 12, 13-17 par.): la sua *missione è di altro ordine! Egli non rifiuta l’atto di fede messianica di Natanaele («Tu sei il re di Israele», Gv 1, 49); ma indirizza i suoi sguardi verso la parusia del *figlio dell’uomo. Quando, dopo la moltiplicazione dei pani, la folla vuole rapirlo per farlo re, egli si sottrae (Gv 6, 15). Si presta tuttavia una volta ad una manifestazione pubblica in occasione del suo ingresso trionfale a Gerusalemme: mostrandosi in umile pompa, conforme all’oracolo di Zaccaria (Mt 21, 5; cfr Zac 9, 9), si lascia acclamare come il re di Israele (Lc 19, 38; Gv 12, 13). Ma quello stesso successo affretterà l’ora della sua passione. Infine, egli parla ai suoi del suo regno in una prospettiva puramente escatologica, nel momento in cui sta per iniziarsi la passione (Lc 22, 29 s).
    2. La passione e la regalità di Gesù.
    - L’interrogatorio di Gesù durante il suo *processo religioso verte sulla sua qualità di *messia e di *Figlio di Dio. In compenso, nel suo processo civile dinanzi a Pilato, è in causa la sua regalità; gli evangelisti ne approfittano per far vedere che la sua passione ne è la rivelazione paradossale. Interrogato da Pilato («Sei tu il re dei Giudei?», Mc 15, 2 par.; Gv 18, 33. 37), Gesù non rinnega questo titolo (Gv 18, 37), ma precisa che il suo «*regno non è di questo mondo» (Gv 18, 36), per modo che egli non può fare concorrenza a Cesare (cfr. Lc 23, 2). Nell’accecamento della loro incredulità, le autorità giudaiche giungono allora a riconoscere a Cesare un potere politico esclusivo per meglio respingere la regalità di Gesù (Gv 19, 12-15). Ma questa si manifesta attraverso gli stessi atti che la scherniscono: dopo la flagellazione i soldati lo salutano con il titolo di re dei Giudei (Mc 15, 18 par ); la iscrizione della croce porta: «Gesù di Nazaret, re dei Giudei» (Gv 19, 19 ss par.); i presenti si accaniscono nello schernire questa regalità da burla (Mt 27, 42 par.; Lc 23, 37); ma il buon ladrone, riconoscendone la vera natura, prega Gesù di «ricordarsi di lui quando verrà nel suo regno» (Lc 23, 42). Di fatto Gesù conoscerà la gloria regale, ma ciò avverrà per mezzo della sua *risurrezione e della sua parusia nell’ultimo giorno. Venuto, come il pretendente della parabola, per ricevere il regno, e rinnegato dai suoi concittadini, egli sarà nondimeno investito e ritornerà per domandare i conti e *vendicarsi dei suoi *nemici (Lc 19, 12-15. 27). Sulla *croce questa regalità sfolgora per chi sa vedere le cose con uno sguardo di fede: Vexilla regis prodeunt, fulget crucis mysterium, «Gli stendardi del Re avanzano, il mistero della croce risplende» (Inno del tempo della Passione).
    II. LA REGALITÀ DI CRISTO RISORTO
    1. La regalità attuale del Signore.
    - *Gesù Cristo risorto è entrato nel suo regno. Ma prima deve far comprendere ai suoi *testimoni la natura di questo regno messianico, così diverso da quello che i Giudei si aspettano: non si tratta di restaurare la monarchia a vantaggio di Israele (Atti 1, 6); il suo regno si stabilirà mediante l’annunzio del suo *vangelo (Atti 1, 8). Egli, tuttavia, è re, come proclama la *predicazione cristiana, che gli applica le Scritture profetiche: il re di giustizia del Sal 45, 7 (Ebr 1, 8), il re-sacerdote del Sal 110, 4 (Ebr 7, 1). Lo era misteriosamente fin dall’inizio della sua vita terrena, come sottolineano gli evangelisti raccontando la sua infanzia (Lc 1, 33; Mt 2, 2). Ma la sua regalità, «che non è di questo *mondo» (Gv 18, 36) e che non vi è rappresentata da nessuna monarchia umana cui Gesù abbia delegato i suoi poteri, non fa in alcun modo concorrenza a quella dei re terreni. I cristiani ne diventano sudditi quando Dio li «strappa al potere delle tenebre per trasferirli nel regno del Figlio suo, nel quale hanno la redenzione» (Col l, 13). ciò non impedisce loro di sottomettersi poi ai re di questo mondo e di onorarli (1 Piet 2, 13. 17), anche se questi re sono pagani: depositari dell’*autorità, basta che essi non la oppongano all’autorità spirituale di Gesù. Il dramma sta nel fatto che talvolta si levano contro di essa, realizzando la profezia del Sal 2, 2. Ciò avvenne già al momento della passione (Atti 4, 25 ss). Ciò avviene nel corso della storia quando questi re terreni, fornicando con *Babilonia (Apoc 17, 2) e lasciandola regnare su di sé (17, 18), per ciò stesso partecipano alla regalità satanica della *bestia (17, 12): allora, inebriati del loro potere, diventano i persecutori della Chiesa e dei suoi figli, come la stessa Babilonia che si ubriaca del sangue dei *martiri di Gesù (17, 6).
    2. Il regno di Cristo alla parusia.
    - Nel quadro simbolico degli ultimi tempi tracciato dall’Apocalisse, la crisi finale si aprirà quindi con una campagna di tutti questi re contro 1’*agnello: avendo rimesso il loro potere alla *bestia (Apoc 17, 13), essi si raduneranno in vista del grande *giorno (16, 14), ma l’agnello li vincerà (cfr. 19, 18 s), «perché è il re dei re ed il *Signore dei signori» (17, 14; 19, 1 ss; cfr. 1, 5). La sua parusia sarà la manifestazione folgorante del suo regno e nello stesso tempo del regno di Dio (11, 15; 2 Tim 4, 1): secondo l’oracolo di Is 11, 4, il re figlio di *David annienterà allora l’*anticristo mediante la manifestazione della sua parusia (2 Tess 2, 9). Egli poi rimetterà il regno al *Padre suo, perché, secondo il testo del Sal 110, 1, bisogna che egli regni «fino a quando Dio abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi» (l Cor 15, 24 s). Al termine della *guerra escatologica, che egli condurrà come Verbo di Dio, governerà i suoi nemici, secondo il Sal 2, 9, con uno scettro di ferro (Apoc 19, 15 s). Allora, in compartecipazione al suo regno (cfr. 1 Cor 15, 24), tutti i martiri, decapitati perché hanno rifiutato di adorare la *bestia, risusciteranno per regnare con lui e con Dio (Apoc 20, 4 ss; cfr. 5, 10). Parteciperanno così, secondo la promessa di Dan 7, 22. 27, al regno eterno del *figlio dell’uomo. Non è forse questo ciò che Gesù stesso aveva promesso ai Dodici nell’ultima cena: «Io dispongo per voi del regno, e voi siederete su troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Lc 22, 29 s; cfr. Apoc 7, 4-8. 15)?
    P. GRELOT
    → ascensi
    one II 0 - autorità VT Il 1 - David - elezione VT I 3 c - figlio di Dio VT II - Gesù Cristo II 1 c - gloria I, III 2 - madre I 3 - mediatore I 1 - Melchisedech 2 - Messia - olio 2 - ombra II 1 - padri e Padre I 1, III 4 - pastore e gregge 0 - preghiera I 2 - profeta VT I 3 - regno - sacerdozio VT I 3, III 2 - Signore VT; NT 2 - veste I 2 - vacazione I.

    REDENZIONE (inizio)

    La nozione di «redenzione» (gr. lýtrosis o apolýtrosis) in virtù della quale Dio «libera» o «riscatta» (gr. lytroùsthai) il suo popolo, e quella, molto affine, di «acquisizione» (gr. peripòiesis), in virtù della quale egli l’«acquista» (gr. agoràzein), sono strettamente collegate nella Bibbia all’idea di «*salvezza»: designano il mezzo privilegiato scelto da Dio per salvare Israele liberandolo dalla schiavitù egiziana (Es 12, 27; 14, 13; cfr. Is 63, 9) e costituendolo suo «popolo particolare» (Es 19, 5; Deut 26, 18); nel NT, un testo come Tito 2, 13 s, riflesso visibile di una catechesi primitiva, rivela chiaramente la fonte a cui si riferisce l’autore per descrivere l’opera di Cristo: Gesù è «salvatore» in quanto ci «redime da ogni iniquità» e «purifica un popolo che è sua proprietà». Appare così la continuità del disegno salvifico, senza che sia tuttavia negato ciò che offre di nuovo e di imprevedibile il compimento di ogni vera profezia. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    1. Esodo ed Alleanza.
    - Il VT parla per lo più di «redenzione» a proposito dell’*esodo: l’esperienza religiosa, che allora fece Israele, permette di afferrare nel miglior modo il contenuto di questa nozione. Infatti nella coscienza ebraica l’esodo non si può dissociare dall’*alleanza: Dio non strappa il suo popolo alla *schiavitù se non per legarlo a sé: «Io sono Jahvè,... io vi salverò dalla schiavitù... e vi libererò (“redimerò”) colpendo forte... Io vi adotterò come mio popolo e sarò il vostro Dio» (Es 6, 6 s; cfr. 2 Sam 7, 23 s). In virtù dell’alleanza, Israele diventa un popolo «santo», «consacrato a Jahvè», il «popolo particolare» di Dio (Es 19, 5 s). «Popolo santo» e «redenti da Jahvè» sono due equivalenti (Is 62, 11 s) e Geremia può datare l’alleanza dal giorno in cui «Dio ha preso per mano il suo popolo per farlo uscire dall’Egitto» (Ger 31, 32). La nozione di redenzione è quindi essenzialmente positiva: l’unione con Dio non vi è affermata meno della *liberazione dalla schiavitù del peccato. Tale è d’altronde il senso etimologico del termine latino redemptio: designa innanzitutto una «compera» (emere) che non ci «libera» (cfr. red-) se non per «acquistarci» a Dio; la stessa cosa vale della parola inglese «atonement», che lo traduce abitualmente, ed il cui senso originale è «riunione», «riconciliazione» («at - one - ment»).
    2. La redenzione messianica.
    - I profeti riprendono intenzionalmente le stesse formule a proposito della liberazione dall’*esilio, ed il «redentore» diventa allora uno dei titoli preferiti di Jahvè, specialmente nel Deutero-Isaia. Nessuno si stupirà che l’oggetto della grande speranza messianica sia ancora espresso in termini di «redenzione»: «Presso Jahvè è la grazia, presso di lui l’abbondanza del “riscatto”, egli “riscatterà” Israele da tutte le sue colpe» (Sal 130, 7 s). Più di tutti Ezechiele sottolinea l’assoluta gratuità di una simile «redenzione» accordata a dei peccatori (Ez 16, 60-63; 36, 21 ss); precisa inoltre la natura di questa «nuova alleanza», e mentre in Ger 31, 33, Jahvè aveva detto: «Porrò la mia legge nel loro intimo», in Ez 36, 27 dichiara: «Porrò il mio *Spirito nel vostro intimo». La redenzione consisterà nella comunicazione dello Spirito stesso di Jahvè, a guisa di legge (cfr. Gv 1, 17. 29. 33; 7, 37 ss; Rom 8, 2-4).
    NUOVO TESTAMENTO
    1. La continuità con il VT.

    - Il riferimento a questo contesto messianico è talvolta esplicito: Zaccaria celebra il Dio che «ha redento il suo popolo» e la profetessa Anna parla del bambino a «tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 1, 68; 2, 38). Il termine «redenzione», come la maggior parte delle nozioni messianiche derivate dal VT, che possono applicarsi sia al primo che al secondo avvento di Cristo, non serve quindi soltanto a designare l’opera compiuta da Cristo sul Calvario (Rom 3, 24; col 1, 14; Ef 1, 7), ma anche quella che egli compirà alla fine dei tempi al momento della parusia e della risurrezione gloriosa dei corpi (Lc21, 28; Rom 8, 23; Ef 1, 14; 4, 30; 1 Cor 1, 30 [?]); e nei due casi si tratta di una liberazione, ma più ancora forse di una «acquisizione», di una «presa di possesso da parte di Dio», dapprima iniziale, poi definitiva, quando l’uomo, corpo ed anima, e con lui l’universo, «entreranno nella pienezza di Dio» (Ef 3, 19): allora Dio sarà «tutto in tutti» (l Cor 15, 28), anzi «tutto in tutto» (Ef l, 23). Questa, d’altronde, è la ragione per cui il NT ha potuto esprimere la stessa nozione mediante il verbo «comperare» (gr. agorà-ein, 1 Cor 6, 20; 7, 23; cfr. Gal 3, 13; 4, 5). Non già che esso abbia voluto assimilare la redenzione ad una transazione commerciale regolata dalla legge della equivalenza o della compensazione, in cui il carceriere non accetta di consegnare il suo prigioniero oppure il venditore la sua mercanzia, se non alla condizione di non perderci nulla! Esso intendeva senza dubbio significare che noi siamo diventati la proprietà di Dio in virtù di un contratto, le cui condizioni sono state tutte adempiute, specialmente quella che non si mancava di segnalare: la somma è stata versata (1 Cor 6, 20; 7, 23; cfr. 1 Piet 1, 18). Ma bisogna notare che qui si ferma la metafora; non si fa mai questione di una persona che reclami oppure riceva il prezzo della compera. Di fatto anche qui il NT sembra riferirsi alla nozione di acquisizione quale era conosciuta dal VT; in ogni caso con lo stesso verbo «comperare» l’Apocalisse si riferisce esplicitamente al fatto del Sinai: nel *sangue dell’agnello gli uomini di tutte le nazioni sono diventati proprietà particolare di Dio, come già Israele lo era diventato in virtù dell’alleanza suggellata anch’essa nel sangue (Apoc 5, 9); mentre Atti 20, 28, per evocare la stessa realtà, conserva il termine proprio del VT e parla della «Chiesa di Dio che egli si è acquistata con il proprio sangue» (cfr. 1 Piet 2, 9; Tito 2, 14). D’altronde l’interpretazione risale a Cristo in persona: la cornice pasquale scelta deliberatamente ed il ricordo esplicito del sangue dell’alleanza erano abbastanza chiari perché nessuno potesse essere tratto in inganno (Mt 26, 28 par.; 1 Cor 11, 25).
    2. La morte volontaria di *Gesù Cristo.
    - Ma il NT sottolinea non meno nettamente la distanza che separa la *figura dal suo *compimento. La nuova alleanza, come l’antica, è suggellata nel sangue; ma questo sangue è quello del Figlio stesso di Dio (1 Piet 1, 18 s; Ebr 9, 12; cfr. Atti 20, 28; Rom 3, 25). Redenzione «costosa»: alla immolazione di vittime senza ragione succede il *sacrificio personale e volontario del *servo di Jahvè che «ha dato la propria vita alla morte» (Is 53, 12) e «ha ben servito la comunità» (53, 11 LXX). Gesù «non è venuto per essere servito, ma per *servire e per dare la sua vita in riscatto per la comunità» (Mt 20, 28; Mc 10, 45): il suo sacrificio sarà lo strumento della nostra liberazione (lytron). Il racconto giovanneo della passione vuol mettere in rilievo appunto questo carattere volontario della morte di Cristo (ad es. Gv 18, 4-8), come lo fa ancora più chiaramente, se è possibile, nei sinottici, il racconto della cena *eucaristica, in cui Cristo si vota letteralmente in anticipo alla morte.
    3. La vittoria di Cristo sulla morte.
    - Per i discepoli questa *morte era stata uno *scandalo, la prova che Cristo non era il «redentore» atteso (Lc 24, 21). Illuminati dalla esperienza di Pasqua e da quella della Pentecoste, divenuti testimoni della *risurrezione (Atti 1, 8; 2, 31 s; ecc.), essi comprendono che la passione e la morte del loro maestro, lungi dal costituire un fallimento del disegno salvifico di Dio, lo compivano «secondo le Scritture» (1 Cor 15, 4); la *pietra rigettata dai costruttori è diventata la pietra d’angolo (Mt 21, 42 par.; Atti 4, 11 = Sal 118, 22; 1 Piet 2, 7), fondamento del nuovo *tempio; il *servo è stato veramente «esaltato» (Atti 2, 33; 5, 31) e «glorificato» (3, 13), secondo i due termini desunti da Is 52, 13; più ancora, egli lo è stato «per aver dato la sua *anima alla morte» (Is 53, 12; Fil 2, 9). Sconfitta apparente, la morte di Cristo era in realtà una *vittoria sulla morte e su *Satana, autore della morte (cfr. Gv 12, 31 s; Ebr 2, 14).
    4. Morte e risurrezione.
    -
    Nella prima predicazione del mistero redentore la *risurrezione ha una parte tale che talvolta viene ricordata da sola (ad es. 1 Piet 1, 3) con la parusia (1 Tess 1, 10). Ma gli apostoli, guidati dallo Spirito Santo, distingueranno sempre più nettamente nella passione e nella risurrezione due avvenimenti non soltanto ordinati l’uno all’altro (ad es. Fil 2, 9), ma che si compenetrano vicendevolmente al punto da costituire due aspetti indissociabili di un unico mistero di *salvezza. Così Luca ha cura di collocare sotto il segno della *ascensione (Lc 9, 51) tutto il lungo racconto della salita di Gesù a Gerusalemme e, in cambio, quando descrive la vita «gloriosa» di Cristo, di ricordare con una voluta insistenza la sua passione e la sua morte (24, 7. 26. 39. 46; cfr. 9, 31). Similmente Paolo, anche là dove non ricorda che la morte, non cessa di pensare anche alla risurrezione: la vita, alla quale fa così spesso allusione, è sempre concepita come una partecipazione a quella del risorto (ad es. Gal 2, 20; 6, 14 s; Rom 6, 4. 11; 8, 2. 5). Infine, in Giovanni, l’unità del mistero è così profonda che i termini, i quali nella catechesi primitiva designavano la risurrezione di Gesù, hanno potuto essere usati per designare nello stesso tempo la passione e la glorificazione di Cristo (Gv 12, 23. 32. 34); così pure l’agnello dell’Apocalisse appare al veggente di Patmos «in piedi», in segno di risurrezione, e nello stesso tempo «come sgozzato», in segno di immolazione (Apoc 5, 6).
    5. Mistero d’amore.
    a)
    S. Giovanni. - Per Giovanni, infatti, il mistero redentore è essenzialmente un mistero di amore e, per conseguenza, di vita divina, poiché «Dio è amore» (1 Gv 4, 8). Amore del Padre, certamente, che ha «tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio unico» (Gv 3, 16; 17, 23; 1 Gv 4, 9); ma parimenti amore del Figlio per il Padre (Gv 14, 31) e per gli uomini (10, 11; 1 Gv 3, 16; Apoc 1, 5); amore che egli riceve dal Padre suo da cui dipende in tutto e, pertanto, amore «obbediente» (Gv 14, 31); amore, infine, del quale non ne esiste uno maggiore (15, 13). Infatti, se tutta la vita di Cristo fu «amore per i suoi», la passione è il momento in cui egli «li amò fino alla fine», fino alla «consumazione» (gr. telos) dell’amore (13, 1): il che significa, in concreto, fino ad accettare di essere tradito da uno dei Dodici (18, 2 s), rinnegato dal loro capo (18, 25 ss), condannato come bestemmiatore in nome della stessa legge (19, 7), e di morire del supplizio più infamante, quello della croce, come uno scellerato il cui cadavere appeso al patibolo contaminava la terra di Israele (19, 31). In quel momento preciso egli può dichiarare in tutta verità che «è compiuto» (19, 30: gr. tetèlestai) - ha raggiunto la sua «attuazione» suprema - l’amore del Padre quale era rivelato nelle Scritture e si era incarnato nel cuore umano di Gesù. E se egli muore per amore, lo fa per comunicate questo amore agli uomini, suoi fratelli: dal costato «trafitto» (19, 37; Zac 12, 10), Giovanni vede scaturire «la sorgente aperta alla casa di David ed agli abitanti di Gerusalemme, per il peccato e l’impurità» (Zac 13, 1; Ez 47, 1 ss), preludio della effusione di quello *spirito (Gv 20, 22) che Giovanni Battista aveva visto discendere al *battesimo e fermarsi sul Messia (1, 32 s).
    b) S. Paolo - Ora questo aspetto non presenta minor rilievo in Paolo. Anche egli vede anzitutto nella morte di Cristo un mistero di amore: amore del Padre (Rom 5, 5-8; 8, 39; Ef 1, 3-6; 2, 4; cfr. Col 1, 13), «quando ancora noi eravamo peccatori» (Rom 5, 8), suoi «nemici» (5, 10); amore del Figlio sia per il Padre, sotto la forma di *obbedienza che ripara in tal modo la disobbedienza del primo Adamo (5, 19; Fil 2, 6), sia per gli uomini (Rom 5, 7 s; 8, 34). A questo proposito non soltanto Paolo riprende la formula della catechesi primitiva (cfr. Mc 10, 45), che si ispirava verosimilmente ad Is 53, 10. 12, e dichiara che «Cristo si è dato per noi» o «per i nostri peccati» (Gal 1, 4; 1 Tim 2, 6; Tito 2, 14), ma ci tiene a precisare che lo ha fatto «perché mi ha amato» (Gal 2, 20; Ef 5, 2. 25). Al pari di Giovanni egli sa che non c’è amore maggiore del morire per coloro che si amano (Gv 15, 13); in altre parole, che ogni amore umano è condizionato, «influenzato» dalle circostanze in cui si attua. A circostanze eccezionali corrisponde necessariamente un amore eccezionale; più precisamente, ricevendo questo amore dal Padre suo, Cristo lo ha ricevuto in grado supremo in funzione delle circostanze stesse in cui il Padre lo collocò. Paolo, quindi, nell’affermazione che «Dio non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti» (Rom 8, 32), vede la prova per eccellenza della «carità di Cristo» (8, 35), meglio, della «carità di Dio in Cristo nostro Signore» (8, 39). Tra tutte queste circostanze Paolo, al pari di Giovanni, evoca specialmente l’infamia del supplizio della *croce, di cui i primi cristiani sembrano aver sentito in modo particolare l’obbrobrio (cfr. Atti 5, 30; 10, 39): come già il *servo, che «era considerato come un colpito da Dio» (Is 53, 4), il «giusto» ha accettato di apparire agli occhi del mondo come un «*maledetto», violatore della legge (Gal 3, 13). Per Cristo non si poteva concepire umiliazione più profonda (Fil 2, 8), ma anche, per ciò stesso, atto di obbedienza e di amore più sublime, dal momento che una simile morte era accettata, voluta. Proprio con ciò Cristo «redime» l’umanità, «l’acquista al Padre suo».
    6. Vittoria sul peccato nella carne.
    - D’altra parte, poiché si tratta dell’atto di un membro della nostra umanità, che condivide pienamente la nostra condizione mortale, pur superandola con la sua divinità, l’umanità viene ad essere «redenta», «acquistata a Dio», mediante una trasformazione che si compie nel suo interno. Secondo Giovanni, sulla croce, «il principe di questo mondo è stato condannato» (Gv 16, 11), cioè «cacciato fuori» (12, 31; cfr. Apoc 12, 9 s), privato del suo dominio. Dichiarando che «Dio ha condannato il peccato nella carne» (Rom 8, 3), come nella «lotta escatologica» predetta da Ez 38-39 (cfr. 38, 22 s; 39, 21 s, preludio all’instaurazione dei tempi messianici (40-42), Paolo precisa che questa vittoria di Dio per mezzo del suo Cristo sul *peccato, si è compiuta proprio là dove Satana credeva di regnare per sempre, «nella carne»; spiega che a questo fine «Dio mandò il suo Figlio nella rassomiglianza di una carne di peccato», cioè una condizione in cui la *carne di Cristo, senza essere come la nostra «strumento di peccato», era nondimeno, come la nostra, passibile e mortale a motivo del peccato; ed il contesto mostra che, per l’apostolo, Dio ha trionfato del peccato nella carne, comunicando la vita dello spirito (8, 2. 4) a questa carne stessa, a quella di Cristo divenuto, attraverso la sua morte e la sua risurrezione, «spirito vivificatore» (1 Cor 15, 45), ed anche alla nostra, perché ormai «noi non siamo più nella carne, ma nello spirito» (Rom 8, 9; cfr. 8, 4). Il «ritorno a Dio», la «redenzione» si è effettuata in quanto Cristo è passato dallo stato «carnale» allo stato «spirituale», e noi in lui. Altrove, con una formula particolarmente ardita, Paolo dichiara che «Dio ha fatto il Figlio suo peccato per noi, affinché in lui divenissimo giustizia di Dio» (2 Cor 5, 21). Sembra che queste espressioni, di cui si è sovente abusato, possano essere interpretate in funzione dello stesso contesto: affinché in Cristo, per solidarietà con lui divenuto uno di noi, fossimo soggetti agli effetti benefici di questa potenza di vita, che la Bibbia e Paolo chiamano la «*giustizia di Dio», il Padre ha voluto che il Figlio suo, per solidarietà con gli uomini peccatori, fosse soggetto agli effetti malefici di quella potenza di morte che è il *peccato; questi effetti costituirebbero quindi la conditio optima del più grande atto di amore e di obbedienza che si possa concepire. In tal modo è riparata l’opera nefasta del peccato, l’umanità è restaurata, «redenta», riunita a Dio, nuovamente in possesso della vita divina. Secondo l’antico oracolo (Ez 36, 27), alla carne è stato comunicato lo spirito stesso di Jahvè. Ma la profezia si è compiuta, con una pienezza insospettata, mediante l’atto supremo di amore del Figlio stesso di Dio fatto uomo.
    S. LYONNET
    → Adamo I 2 b - agnello di Dio 2 - animali II - corpo II 2 - corpo di Cristo I 2, III 3 - creazione NT II 1 - croce - disegno di Dio - esodo VT 2; NT 0 - espiazione - liberazione-libertà II 1, III 1 - malattia-guarigione NT II 2 - Pasqua - peccato III 3, IV 3 e - predicare II 3 - prigionia Il - primizie II - retribuzione II 3 d - riconciliazione - sacrificio NT I - salvezza - sangue NT - schiavo II - sofferenza VT III.

    REGINA (inizio)

    → madre 1 3.

    REGNO (inizio)

    «Il regno di Dio è vicino»: questo è l’oggetto primario della predicazione di Giovanni Battista e di Gesù (Mt 3, 1; 4, 17). Per sapere in che cosa consista questa realtà misteriosa che Gesù è venuto ad instaurare in terra, quale ne è la natura e quali ne sono le esigenze, bisogna ricorrere al NT. Tuttavia il tema proviene dal VT, che ne aveva abbozzato le grandi linee, mentre ne annunziava e ne preparava la venuta.
    VECCHIO TESTAMENTO
    La regalità divina è un’idea comune a tutte le religioni dell’Oriente antico. Le mitologie se ne servono per conferire un valore sacro al *re umano, luogotenente terreno del dio-re. Ma il VT, riprendendola, le conferisce un contenuto particolare, in rapporto col suo monoteismo, con la sua concezione del potere politico, con la sua escatologia.
    I. ISRAELE, REGNO DI DIO
    L’idea di *Jahvè-re non appare subito all’inizio del VT. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe non presenta tratti regali, neppure quando viene a rivelare il suo *nome a Mosè (Es 3, 14). Ma dopo che Israele si fu stabilito in Canaan, si ricorre ben presto a questa rappresentazione simbolica per tradurre la situazione rispettiva di Jahvè e del suo popolo. Jahvè regna su Israele (Giud 8, 23; 1 Sam 8, 7). Il suo *culto è un servizio che effettuano in terra i suoi sudditi ed in cielo i suoi *angeli. È questa un’idea fondamentale che si ritrova sia nel lirismo cultuale (Sal 24, 7-10) che nei profeti (Is 6, 1-5), e di cui gli autori sacri presentano nei particolari i diversi aspetti. Jahvè regna per sempre (Es 15, 18), in cielo (Sal 11, 4; 103, 19), sulla terra (Sal 47, 3), nell’universo che ha creato (Sal 93, 1 s; 95, 3 ss). Regna su tutte le *nazioni (Ger 10, 7. 10). Tuttavia, tra esse c’è un *popolo che egli ha scelto come dominio particolare: Israele, del quale per mezzo dell’*alleanza ha fatto «un regno di sacerdoti ed una nazione consacrata» (Es 19, 6). Il regno di Jahvè si manifesta quindi specialmente in Israele, suo regno. Ivi risiede il grande re, in mezzo ai suoi, a *Gerusalemme (Sal 48, 3; Ger 8, 19), di dove li benedice (Sal 134, 3), li guida, li protegge, li raduna, come fa un *pastore col suo gregge (Sal 80; cfr. Ez 34). Così la dottrina dell’alleanza trova una traduzione eccellente nel tema della regalità divina, al quale conferisce un contenuto completamente nuovo. Se, in effetti, il re Jahvè degli eserciti (Is 6, 5) regna sul mondo perché ne governa il corso, e sugli avvenimenti perché li dirige e vi esercita il *giudizio, vuole che, nel suo popolo, il suo regno sia riconosciuto in modo effettivo mediante l’osservanza della sua *legge. Questa esigenza primaria dà al regno un carattere morale, non politico, che spicca su tutte le rappresentazioni antiche della regalità divina.
    II. IL REGNO DI DIO E LA MONARCHIA ISRAELITICA
    Tuttavia Israele, regno di Dio, ha una struttura politica, che si evolve con il tempo. Ma quando il popolo si dà un *re, la instaurazione di questa regalità umana dev’essere subordinata alla regalità di Jahvè, deve diventare un organo della teocrazia fondata sull’alleanza. Questo fatto spiega da una parte la corrente di opposizione che si manifesta contro la monarchia (1 Sam 8, 1-7. 19 ss) e dall’altra l’intervento degli inviati divini che manifestano la scelta di Jahvè: per Saul (10, 24), per David (16, 12), ed infine per la dinastia davidica (2 Sam 7, 12-16). A partire da questo momento il regno di Dio ha come base temporale un regno umano, mescolato come tutti i suoi vicini alla politica internazionale. Senza dubbio i re israelitici non esercitano una regalità ordinaria: detengono la regalità da Jahvè, che devono servire (2 Cron 13, 8; cfr. 1 Cron 28, 5), e Jahvè considera i discendenti di David come suoi *figli (2 Sam 7, 14; Sal 2, 7). Nonostante tutto, l’esperienza della monarchia rimane ambigua: la causa del regno di Dio non coincide con le ambizioni terrene dei re, soprattutto se essi disconoscono la legge divina. 1 profeti, quindi, ricordano incessantemente la subordinazione dell’ordine politico all’ordine religioso; rimproverano ai re i loro peccati ed annunziano i castighi che seguiranno (già 2 Sam 12; 24, 10-17). La storia del regno di Israele si scrive così con lacrime e sangue, fino al giorno in cui la rovina di Gerusalemme viene a chiudere definitivamente l’esperienza, con grande sconcerto dei Giudei fedeli (Sal 89, 39-46). Questa caduta della dinastia davidica ha come causa profonda la rottura dei re umani con il Re da cui essi avevano il loro potere (cfr. Ger 10, 21).
    III. NELL’ATTESA DEL REGNO FINALE DI JAHVÈ
    Nel momento in cui crolla la monarchia israelitica, le guide religiose della nazione guardano, oltre l’epoca monarchica, alla teocrazia originale che vogliono restaurare (cfr. Es 19, 6) ed i profeti annunziano che Israele, negli ultimi tempi, ne ritroverà i tratti. Certamente, nelle loro promesse, fanno posto al *re futuro, al *Messia figlio di David. Ma il tema della regalità di Jahvè riveste in essi un’importanza molto maggiore, soprattutto a partire dalla fine dell’esilio. Jahvè, come un *pastore, si occuperà egli stesso del suo gregge per salvarlo, radunarlo e riportarlo nella sua terra (Mi 2, 13; Ez 34, 11...; Is 40, 9 ss). La buona novella per eccellenza che viene annunziata a Gerusalemme è questa: «Il tuo Dio regna» (Is 52, 7; cfr. Sof 3, 14 s). E si intravvede una estensione progressiva di questo regno in tutta la terra: da tutte le parti verranno a Gerusalemme uomini per adorare il re Jahvè (Zac 14, 9; Is 24. 23). Trasferendo sul piano cultuale queste promesse radiose ed orchestrando i temi di taluni salmi più antichi, il lirismo postesilico canta in anticipo il regno escatologico di Dio: regno universale, proclamato e riconosciuto in tutte le nazioni, manifestato mediante il *giudizio divino (Sal 47; 96 - 99; cfr. 145, 11 ss). Infine, al tempo della persecuzione di Antioco Epifane, l’apocalisse di Daniele viene a rinnovare solennemente delle promesse profetiche. Il regno trascendente di Dio si instaurerà sulle rovine degli imperi umani (Dan 2, 44...). Il simbolo del *figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo serve ad evocarlo, in contrasto con le *bestie che rappresentano le potenze politiche della terra (Dan 7). La sua venuta sarà accompagnata da un *giudizio, dopo il quale la regalità sarà data per sempre al figlio dell’uomo ed al popolo dei santi dell’altissimo (7, 14. 27). Il dominio di Jahvè assumerà quindi ancora la forma concreta di un regno, di cui questo *popolo sarà il depositario (cfr. Es 19, 6); ma il regno non sarà più di «questo mondo». Ad una simile promessa fa eco il libro della Sapienza: dopo il giudizio, i giusti «comanderanno alle nazioni e domineranno i popoli, ed il Signore regnerà su di essi per sempre» (Sap 3, 8). Dopo secoli di preparazione, il popolo giudaico vivrà ormai nell’attesa del regno, come dimostra la letteratura non canonica. Sovente questa attesa si concretezza in una forma politica: si attende la restaurazione del regno davidico da parte del *Messia. Ma le anime più religiose sanno vedervi una realtà essenzialmente interiore: obbedendo alla legge, insegnano i rabbini, «il giusto prende su di sé il giogo del regno dei cieli». Questa è la speranza, forte ma ancora ambigua, a cui risponderà il vangelo del regno.
    NUOVO TESTAMENTO
    I. IL VANGELO DEL REGNO DI DIO
    1. Gesù
     
    - Gesù dà al regno di Dio il primo posto nella sua predicazione. ciò che egli annuncia nelle borgate di Galilea è la buona novella del regno (Mt 4, 23; 9, 35). «Regno di Dio», scrive Marco; «regno dei cieli», scrive Matteo conformandosi alle abitudini del linguaggio rabbinico: le due espressioni sono equivalenti. I *miracoli, accompagnando la predicazione, sono i segni della presenza del regno e ne fanno intravvedere il significato. Con la sua venuta ha termine il dominio di *Satana, del *peccato e della *morte sugli uomini: «E in virtù dello spirito di Dio io scaccio i demoni, è dunque venuto per voi il regno di Dio» (Mt 12, 28). Ne consegue la necessità di una decisione: bisogna *convertirsi, abbracciare le esigenze del regno per diventare *discepoli di Gesù.
    2. Gli Apostoli. 
    - Gli Apostoli, mentre è in vita il loro maestro, ricevono la missione di proclamare a loro volta questo *vangelo del regno (Mt 10, 7). Perciò, dopo la Pentecoste, il regno rimane il tema centrale della predicazione evangelica, anche in S. Paolo (Atti. 19, 8; 20, 25; 28, 23. 31). Se i fedeli che si convertono soffrono mille tribolazioni, si è «per entrare nel regno di Dio» (Atti 14, 22), perché Dio «li chiama al suo regno ed alla sua gloria» (1 Tess 2, 12). Ormai soltanto il *nome di Gesù Cristo si aggiunge al regno di Dio per costituire l’oggetto completo del vangelo (Atti 8, 12): bisogna credere in Gesù per avere accesso al regno.
    II. I MISTERI DEL REGNO DI DIO
    Il regno di Dio è una realtà misteriosa di cui soltanto Gesù può far conoscere la natura. Ed ancora, egli non la rivela se non agli umili ed ai piccoli, non ai sapienti ed agli scaltri di questo mondo (Mt 11, 25); ai suoi *discepoli, non alle persone estranee, per le quali tutto rimane enigmatico (Mc 4, 11 par.). La pedagogia dei vangeli è costituita in gran parte dalla rivelazione progressiva dei *misteri del regno, specialmente nelle *parabole. Dopo la risurrezione questa pedagogia sarà completata (Atti 1, 3) e l’azione dello Spirito Santo la porterà a termine (cfr. Gv 14, 26; 16, 13 ss).
    1. I paradossi del regno.
    - Il giudaismo, prendendo alla lettera gli oracoli escatologici del VT, si raffigurava la venuta del regno come splendida ed immediata. Gesù l’intende in modo completamente diverso. Il regno viene quando la *parola di Dio è rivolta agli uomini; come un *seme gettato in terra, deve crescere (Mt 13, 3-9. 18-23 par.). *Crescerà per la sua propria potenza, come la semente (Mc 4, 26-29). Solleverà il mondo, come il lievito posto nella farina (Mt 13, 33 par.). Il suo umile inizio contrasta così con l’avvenire che gli è promesso. Di fatto Gesù non rivolge la parola se non ai soli Giudei di Palestina; e tra questi «il regno è dato» soltanto al «piccolo gregge» dei discepoli (Lc 12, 32). Ma lo stesso regno deve diventare un grande *albero, dove faranno il loro nido tutti gli uccelli del cielo (Mt 13, 31 s par.); accoglierà tutte le *nazioni del suo seno, perché non è legato a nessuna di esse, neppure al popolo *giudaico. Esistendo quaggiù nella misura in cui la *parola di Dio è accolta dagli uomini (cfr. Mt 13, 23), esso potrebbe sembrare una realtà invisibile. Di fatto la sua venuta non si può osservare come un fenomeno qualunque (Lc 17, 20 s). E tuttavia esso si manifesta esternamente, come il grano mescolato alla zizzania in un campo (Mt 13, 24...). Il «piccolo gregge» al quale è dato (Lc 12, 32), gli conferisce un volto terreno, quello di un nuovo *Israele, di una *Chiesa fondata su *Pietro; e questi riceve persino «le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 18 s). Bisogna soltanto notare che questa struttura terrena non è quella di un regno umano: Gesù si nasconde quando lo si vuole fare *re (Gv 6, 15) e si lascia dare il titolo di *Messia in un senso tutto particolare.
    2. Le fasi successive del regno.
    - Il fatto che il regno sia chiamato a crescere, suppone che debba tener conto del tempo. Indubbiamente, in un certo senso, i *tempi sono compiuti ed il regno è presente; con Giovanni Battista è aperta l’era del regno (Mt 11, 12 s par.); è il tempo delle nozze (Mc 2, 19 par.; cfr. Gv 2, 1-11) e della *messe (Mt 9, 37 ss par.; cfr. Gv 4, 35). Ma le parabole della *crescita (il seme, il granello di senapa, il lievito, la zizzania ed il buon grano, la pesca: cfr. Mt 13) lasciano intravvedere uno spazio di tempo tra questa inaugurazione storica del regno e la sua realizzazione perfetta. O meglio, attualmente «il Regno patisce *violenza» (Mt 11, 12) perché si vuole impedirne l’irraggiamento attraverso la predicazione evangelica. Dopo la risurrezione di Gesù, la dissociazione del suo ingresso in gloria e del suo ritorno come giudice (Atti 1, 9 ss) finirà di rivelare la natura di questo periodo intermedio: sarà il tempo della *testimonianza (Atti 1, 8; Gv 15, 27), il tempo della Chiesa. Al termine di quel tempo, il regno verrà nella sua pienezza (cfr. Lc 21, 31): vi si consumerà la *Pasqua (Lc 22, 14 ss), sarà il *pasto escatologico (Lc 22, 17 s), in cui invitati venuti da tutte le parti faranno festa con i patriarchi (Lc 13, 28 s par.; cfr. 14, 15; Mt 22, 2-10; 25, 10). I fedeli sono chiamati ad «*ereditare» questo regno giunto alla sua consumazione (Mt 25, 34); dopo la risurrezione e la trasformazione dei loro corpi (1 Cor 15, 50; cfr. 6, 10; Gal 5, 21; Ef 5, 5). Nel frattempo ne invocano la venuta: «Venga il tuo regno!» (Mt 6, 10 par.).
    3. L’accesso degli uomini al regno.
    - Il regno è il dono di Dio per eccellenza, il valore essenziale che bisogna acquistare a prezzo di tutto ciò che si possiede (Mt 13, 44 ss). Ma per riceverlo, bisogna soddisfare a talune condizioni. Non già che esso possa mai essere considerato come una mercede dovuta per giustizia: Dio assolda liberamente gli uomini nella sua *vigna e dà ai suoi operai ciò che gli piace dare (Mt 20, 1-16). Tuttavia, se tutto è grazia, gli uomini devono rispondere alla *grazia: i peccatori induriti nel male «non erediteranno il regno di Cristo e di Dio» (1 Cor 6, 9 s; Gal 5, 21; Ef 5, 5; cfr. Apoc 22, 14 s). Un animo di *povero (Mt 5, 3 par.), un atteggiamento di *bambino (Mt 18, 1-4 par.; 19, 14), una ricerca attiva del regno e della sua *giustizia (Mt 6, 33), la sopportazione delle *persecuzioni (Mt 5, 10 par.; Atti 14, 22; 2 Tess 1, 5), il sacrificio di tutto ciò che si possiede (Mt 13, 44 ss; cfr. 19, 23 par.), una perfezione maggiore di quella dei *farisei (Mt 5, 20), in una parola il compimento della *volontà del Padre (Mt 7, 21), specialmente in materia di carità fraterna (Mt 25, 34): tutto ciò è richiesto a chi vuol entrare nel regno ed infine ereditarlo. Infatti, se tutti vi sono chiamati, non tutti saranno *eletti: il convitato, che non ha la veste nuziale, sarà cacciato fuori (Mt 22, 11-14). All’inizio è richiesta una *conversione (cfr. Mt 18, 3), una nuova *nascita, senza la quale non si può «vedere il regno di Dio» (Gv 3, 3 ss). L’appartenenza al popolo giudaico non è più una condizione necessaria come nel VT: «Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa nel regno dei cieli, mentre i sudditi del regno saranno gettati fuori...» (Mt 8, 11 s par.). Prospettiva di *giudizio, che talune parabole presentano in una forma concreta: separazione della zizzania e del buon grano (Mt 13, 24-30), scelta dei pesci (Mt 13, 47-50), resa dei conti (Mt 20, 8-15; 25, 15-30); tutto ciò costituisce una esigenza di *vigilanza (Mt 25, 1-13).
    III. IL REGNO DI DIO E LA REGALITÀ DI GESÙ
    Nel NT i due temi del regno di Dio e della regalità messianica si uniscono nel modo più stretto, perché il re-Messia è il *Figlio di Dio stesso. Questa posizione di Gesù al centro del mistero del regno si ritrova nelle tre tappe successive, attraverso le quali questo deve passare: la vita terrena di Gesù, il tempo della Chiesa e la consumazione finale delle cose.
    1. Durante  la vita di Gesù.
    - Gesù si dimostra molto riservato nei confronti del titolo di *re. Se lo accetta in quanto titolo messianico rispondente alle promesse profetiche (Mt 21, 1-11 par.), lo deve spogliare delle risonanze politiche (cfr. Lc 23, 2), per rivelare la regalità «che non è di questo mondo» e che si manifesta mediante la testimonianza resa alla verità (Gv 18, 36 s). In compenso, non esita ad identificare la causa del regno di Dio con la sua propria: lasciare tutto per il regno di Dio (Lc 18, 29), significa lasciare tutto «per il suo *nome» (Mt 19, 29; cfr. Mc 10, 29). Descrivendo in anticipo la ricompensa escatologica che attende gli uomini, egli identifica il «regno del *figlio dell’uomo» ed il «regno del Padre» (Mt 13, 41 ss), ed assicura ai suoi apostoli che egli dispone per essi del regno come il Padre ne ha disposto per lui (Lc 22, 29 s).
    2. Il momento della risurrezione. 
    - La sua intronizzazione regale non giunge tuttavia se non al momento della *risurrezione: allora egli prende posto sul trono stesso del Padre (Apoc 3, 21), è esaltato alla destra di Dio (Atti 2, 30-35). Durante tutto il tempo della Chiesa, la regalità di Dio si esercita così sugli uomini per mezzo della regalità di Cristo, *Signore universale (Fil 2, 11); perché il Padre ha costituito il Figlio suo «Re dei re e Signore dei signori» (Apoc 19, 16; 17, 14; cfr. 1, 5).
    3. Al termine dei tempi. 
    - Al termine dei tempi, Cristo vincitore di tutti i suoi nemici «rimetterà il regno a Dio Padre» (1 Cor 15, 24). Allora questo regno «sarà pienamente acquisito al nostro Signore ed al suo Cristo» (Apoc 11, 15; 12, 10), ed i fedeli riceveranno «l’eredità nel regno di Cristo e di Dio» (Ef 5, 5). Così Dio, padrone di tutto, prenderà pieno possesso del suo regno (Apoc 19, 6). I discepoli di Gesù saranno chiamati a condividere la gloria di questo regno (Apoc 3, 21), perché già in terra Gesù ha fatto di essi «un regno di sacerdoti per il loro Dio e Padre» (Apoc 1, 6; 5, 10; 1 Piet 2, 9; cfr. Es 19, 6).
    R. DEVILLE e P. GRELOT
    → albero 2 - Chiesa - cielo II, V - crescita 3 - disegno di Dio VT V; NT - eredità NT II - figlio dell’uomo VT II 1 - Gesù Cristo I 1.2 - giustizia B II NT - messia VT II 3; NT II 1 - miracolo II 2 - mistero NT I - parabola I 2, II 2, III -pasto IV - penitenza-conversione NT I, II - popolo A I 2; C I - poveri NT I - re - speranza NT I - terra NT I 2 - vangelo - violenza IV 1.3.
     

    RELIGIONE (inizio)

    → culto - elemosina VT 3; NT 1 - pietà - sacrificio VT III - tempio VT II 3 - timore di Dio IV.

    RENI (inizio)

    Il termine traduce spesso il vigore fisico dell’uomo (1 Re 12, 10), la sua potenza procreativa, e designa la regione della vita, delle anche, o la sede degli organi genitali (2 Sam 7, 12; Sal 132, 11; Ebr 7, 5. 10). Designa inoltre la sede o la fonte delle passioni, dei segreti pensieri, dei sentimenti (Sal 72, 21; Apoc 2, 23). Di qui due serie di significati, l’uno che è un richiamo all’azione, l’altro che è un richiamo al potere di Dio sulla nostra personalità più nascosta.
    1. Nella regione lombare.
    - Nella regione lombare è concentrato il vigore dell’uomo. Come per il viaggio o per il combattimento bisogna legare alla cintura mantello, vesti, sacco (Gen 37, 34), perizoma (1 Re 20, 31; Mt 3, 4) od armi (2 Sam 20, 8), così per il servizio di Dio bisogna avere le reni cinte. Allora gli Ebrei saranno pronti all’esodo (Es 12, 11); Geremia dev’essere disposto al combattimento (Ger 1, 17); la donna forte è sempre al lavoro (Prov 31, 17); il Messia avrà come forza la giustizia e la fedeltà (Is 11, 5); il discepolo di Gesù deve avere le reni cinte e la *lampada accesa (Lc 12, 35); il cristiano è esortato a battersi «con la verità per cintura, la giustizia per corazza» (Ef 6, 14). E S. Pietro conclude: «Cingete le reni del vostro spirito, siate vigilanti» (1 Piet 1, 13).
    2. Nei reni. 
    - Nei reni, organi interni, si fanno sentire le reazioni profonde: ivi si formano i disegni nascosti, si accendono le passioni violente. Essi possono esultare nel maestro che sente il discepolo parlare bene (Prov 23, 16), fremere dinanzi all’apostasia (1 Mac 2, 24), essere trafitto dalla prova (Giob 16, 13). Colui che li ha formati (Sal 139, 13) può istruire per mezzo di essi *coscienza dell’uomo in preghiera (Sal 16, 7). Associati ordinariamente al *cuore, i reni designano una regione che sfugge allo sguardo dell’uomo e si distingue da ciò che si ascolta. Soltanto «Dio scruta i reni ed i cuori» (Sal 7, 10; Ger 11, 10; Apoc 2, 23), e così pure Gesù, il quale sa ciò che c’è nell’uomo (Gv 2, 25): Dio solo penetra nel fondo dell’essere. Geremia, il profeta della vita interiore, e così il salmista, non temono di essere provati dallo sguardo divino: «Scrutami, o Jahvè, provami, saggia col *fuoco i miei reni ed il mio cuore» (Sal 26, 2; Ger 17, 10; 20, 12), perché sanno che, a differenza dei loro nemici, i loro reni proferiscono ciò che dicono le loro *labbra (Ger 12, 2 s). Dio ascolta le parole, ma è pure «testimone dei reni e osservatore verace del cuore» (Sap 1, 6). Perciò la liturgia fa pregare nello stesso spirito: «Brucia, o Signore, i nostri reni ed i nostri cuori col fuoco dello Spirito Santo».
    R. FEUILLET
    → coscienza 1 - cuore I 2.

    RESPONSABILITÀ (inizio)

    La presa di coscienza delle proprie responsabilità, da parte di un uomo che diventa adulto o di un’umanità che sviluppa la sua cultura, è un problema umano fondamentale, che è ben lungi dall’essere estraneo alla Bibbia. Ma qui si può accennarvi solo in modo marginale, dato che questo articolo è centrato sulla responsabilità dell’uomo di fronte a Dio, considerata nei suoi aspetti fondamentali.
    1. Per colpa di un uomo il peccato è entrato nel mondo (Rom 5, 12).
    - Il racconto del *peccato di *Adamo (Gen 2 - 3) è fatto apposta per rispondere a un interrogativo essenziale: chi è responsabile della durezza della vita, della morte? Paolo formula la risposta: il responsabile non è Dio, è stato un gesto umano che ha determinato lo scatenamento della potenza sovrumana del peccato. Questo gesto è parzialmente ma realmente responsabile del male nel mondo. È una risposta sconvolgente, inaudita. Per le grandi religioni che circondavano Israele, il male è antico quanto il mondo e gli dèi; dagli dèi è passato agli uomini. Uomini e dèi sono quindi tutti nello stesso tempo responsabili e irresponsabili; tutti sono quello che sono, un misto diversamente dosato di *bene e di male. Viceversa, considerando un Dio buono, una creatura buona, un male posteriore alla creazione, la Bibbia fa ricadere la responsabilità del male sulle libertà create. Questa responsabilità non ha proporzioni umane. Lo sa bene il racconto biblico, che infatti fa derivare il peccato dal *tentatore. Ma sa anche che l’uomo, se pure nella sua condizione peccaminosa è scavalcato dalla propria responsabilità, non può tuttavia ripudiarla. Ogni peccatore può ritrovare in queste pagine sia la fatalità che fa nascere dai suoi peccati un male che non ha voluto, sia l’immagine esatta delle proprie colpe, mescolanza di debolezza (cfr. *carne) e di malizia. Può scoprirvi la propria parte di responsabilità nel male del mondo.
    2. Io ho conosciuto il peccato solo attraverso la legge (Rom 7, 7).
    - La *legge è stata per Israele un «pedagogo» assegnatole da Dio (Gal 3, 24). Essa l’ha formato molto profondamente al senso della responsabilità. Dicendo: «Farai questo... non farai quello...», metteva ogni Israelita di fronte alle proprie responsabilità, e gli provava che era in grado di assumersele. Valendosi della diversità delle circostanze, dell’influenza delle intenzioni, affinava la sua coscienza. Dimostrandogli che Dio vuole il bene e biasima il male, conferiva ai suoi gesti un valore infinito. Collegando la legge all’alleanza, faceva di tutta l’esistenza una scelta pro o contro Dio. Certo, anche «senza la legge», dei pagani sono in grado di riconoscere «nel proprio cuore» le loro responsabilità (Rom 2, 15). Ma la legge ha fatto di Israele un popolo «saggio e intelligente fra tutti» (Deut 4, 6), cosciente della serietà dei gesti dell’uomo.
    3. Riconosci quel che hai fatto (Ger 2, 23).
    - Quel che la legge proclamava in modo generico, i *profeti si ergevano a esprimerlo concretamente a quel tal principe senza coscienza o al popolo illuso, e a metterli di fronte alle proprie responsabilità. Quasi sempre, da Samuele a Natan (1 Sam 13 s; 2 Sam 12, 10 ss), all’ultimo degli eredi di Israele (Is 59, 8 ss), i profeti intervengono, prendendo spunto dalle sventure, già presenti o prevedibili: «Poiché voi fate quel certo male, quel certo male così vi colpisce...». Ogni catastrofe nazionale rappresenta per essi l’occasione di uno sguardo più acuto sulle responsabilità del popolo. Il disastro estremo, l’esilio, costituisce per Ezechiele una scoperta decisiva. Israele è stato costretto a soccombere per essere venuto meno alle proprie responsabilità, ma per ogni Israelita tutto resta possibile. Spetta a ciascuno assumersi le proprie responsabilità, scegliere tra la vita e la morte: «La giustizia del giusto sarà su di lui e la malvagità del malvagio su di lui» (Ez 18, 20).
    4. Ho peccato contro di te (Sal 51, 6).
    - La *confessione dei peccati, sotto la forma che assume nella Bibbia, facendo eco alla legge e ai profeti, esprime la *coscienza della responsabilità. Non cerca di fare un bilancio delle colpe, di enumerare il massimo dei peccati, per essere certa di non omettere nulla. Mette di fronte la giustizia di Dio e l’ingiustizia dell’uomo (Is 59, 9. 14; Dan 3, 27-31; Sal 51, 6...). Non soltanto per riconoscere che il *castigo ricevuto è meritato, ma in una prospettiva più profonda che arriva fino al *ringraziamento, perché il peso della colpa ricada sul peccatore e Dio ne esca discolpato: «A te, Signore, la giustizia, a noi la vergogna...» (Dan 9, 7; Bar 1, 15...). La preghiera di penitenza ritrova così l’intuizione del racconto originale: Dio è buono, e il peccatore è l’unico responsabile del male.
    5. Il vangelo.
    - Per S. Paolo, è la rivelazione definitiva di questa giustizia di Dio e della responsabilità del peccatore. I primi tre capitoli della lettera ai Romani, dimostrano la gravità distruttiva del peccato, il peso delle opzioni decisive, e nello stesso tempo spiegano questo destino che trascende le dimensioni umane. Se l’*ira di Dio grava con un tal peso sui gesti dell’uomo e fa sì che la sua responsabilità oltrepassi tutto ciò che personalmente è in grado di prevedere e di volere, questo destino paradossale è l’opposto di un amore che ha le dimensioni di Dio, «perché Dio ha rinchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per fare a tutti misericordia» (Rom 11, 32). Questo disegno si rivela alla passione di Cristo. Le diverse responsabilità, che si sono combinate per portare alla morte del Figlio di Dio, non sono pari (cfr. Gv 19, 11; Atti 3, 13 s), né totali (Atti 3, 17), ma sono reali, e tutte insieme hanno determinato questo mostruoso delitto. La predicazione del vangelo nella Chiesa nascente fa sempre presente a Gerusalemme, considerata come un tutto, la sua responsabilità: «Voi l’avete fatto morire» (Atti 2, 23; 3, 14; 4, 10; 5, 30...). Il peccatore accede alla fede solo nella *penitenza e nella coscienza della propria responsabilità.
    J. GUILLET
    → bene e male I 3 - coscienza - legge C III 2 - liberazione-libertà I - peccato - penitenza-conversione - preoccupazioni I - prova-tentazione VT II 2 - retribuzione II 1.2 - seminare 1 2 a.

    RESTO (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO
    Dio promette ad Abramo una discendenza «numerosa come le stelle del cielo» (Gen 15, 5), e Dio, per bocca di Amos, avverte Israele: «Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe od il lobo di un orecchio, così saranno salvati i figli di Israele» (Am 3, 12). Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvi» (l Tim 2, 4) ed annunzia che, al tempo della grande tribolazione, «se, a motivo degli eletti, i giorni tristi non fossero abbreviati, nessuno avrebbe salva la vita» (Mt 24, 22). Questo resto, risparmiato dal passaggio del *giudizio, costituisce un elemento essenziale della *speranza biblica. L’idea si collega all’esperienza delle guerre e dei loro massacri. L’annientamento del vinto, praticato così spesso (documenti assiri, stele di Mesa), poneva ad Israele il problema della sua sopravvivenza, e quindi del valore delle *promesse divine. Secondo il contesto, la parola può caratterizzare l’ampiezza della catastrofe («non sopravvive che un resto», Is 10, 22; «neppure un resto», Ger 11, 23), oppure evocare la speranza che sussiste con la sopravvivenza di un resto (Ger 40, 11). Il tema appare con le catastrofi del sec. IX (cfr. 1 Re 19, 15- 18), ma ha una preistoria: *Noè (Gen 6, 5 ss. 17 s), indicato come un resto in Eccli 44, 17, i castighi di Israele nel deserto che fanno sparire una parte notevole del popolo (Es 32, 28; Num 17, 14; 21, 6; 25, 9).
    1. Prima dell’esilio.
    - Secondo Amos, come le prove attuali hanno ridotto il popolo a pochi sopravvissuti (Am 5, 15), così i *castighi futuri, visti nella prospettiva del giudizio escatologico, ridurranno Israele ad un pugno d’uomini (3, 12; 5, 3). come un vaglio essi lasceranno che i peccatori si perdano e non riterranno che i giusti (9, 8 ss). Per Isaia, il resto parteciperà alla santità Jahvè (Is 4, 3; cfr. 6, 3), fuoco distruttore per gli empi, ma per gli altri fiamma luminosa (10, 17) e purificatrice (1, 25-28). Questo resto, opera di Jahvè (4, 4), si appoggerà su Dio solo (10, 20) mediante la fede, sfuggendo in tal modo al castigo (7, 9; 28, 16); esso esiste già in germe nei discepoli del profeta (8, 16. 18); è costituito soprattutto, a quanto pare, dai «poveri» (14, 32), come affermerà chiaramente un oracolo posteriore di un secolo (Sof 3, 12 s). Il Messia, vicario di Jahvè, attorno al quale si raggrupperà questo resto (10, 21: Dio forte = il Messia, cfr. 9, 5), ne sarà íl capo e la gloria (4, 2), ed anche il rappresentante, perché resto e Messia sono descritti con gli stessi termini (cfr. 6, 13 e 11, 1; 11, 2 e 28, 5 s). In Michea, contemporaneo di Isaia, il resto è già un termine tecnico che designa il popolo purificato dei tempi messianici, divenuto una «nazione potente» (Mi 4, 7). Per i pagani, esso sarà fonte di rovina o di benedizione secondo il loro atteggiamento nei suoi confronti (5, 6 ss). Eredita in tal modo la funzione affidata ad Abramo ed alla sua discendenza (Gen 12, 3).
    2. La svolta dell’esilio.
    - Geremia apporta un approfondimento decisivo alla dottrina del resto. Come i suoi predecessori, egli continua a dare il nome di resto al piccolo gruppo dei Giudei che sono sfuggiti alla deportazione e dimorano nella terra santa (Ger 40, 11; 42, 15; 44, 12; cfr. Am 5, 15; Is 37, 4; Sof 2, 7; Ger 6, 9; 15, 9). Ma gli eredi ed i depositari delle speranze messianiche sono i deportati (24, 1-10). Essi non sono chiamati «resto», anzi gli sono opposti (24, 8); il linguaggio rimane fedele alle abitudini antiche. Tuttavia, per evocare l’avvenire di gloria riservato ai deportati, il termine si presenta con tutta naturalezza (23, 3; 31, 7). Questo resto è ormai dissociato dalla comunità temporale, dallo stato di Giuda. Un altro approfondimento è fornito da Ezechiele. Prima di lui sembrava che i profeti non distinguessero le prove imminenti ed il giudizio escatologico che deve ridurre la nazione ad un resto di giusti. Dopo la catastrofe del 587, Ezechiele ha dovuto constatare che i sopravvissuti non erano migliori dei morti (Ez 6, 8 s; 12, 15 s; 14, 21 ss). Ma prima aveva predetto che soltanto i giusti sarebbero stati risparmiati (9, 4 ss). Il giudizio escatologico che egli allora aveva di mira è quindi ancora futuro (20, 35-38; 34, 17). Esso solo separerà gli infedeli ed il resto santo (20, 38; 34, 20).
    3. I tre tipi di resto.
    - Si delinea in tal modo la distinzione tra due significati della parola: la frazione che sopravvive ad una calamità determinata, o resto storico (Am 5, 15; Is 37, 4; Ger 6, 9; Ez 9, 8; ecc.), e la comunità che negli ultimi tempi beneficerà della salvezza, o resto escatologico (Mi 5, 6 ss; Sof 3, 12; Is 4, 4; 10, 22; 28, 5; Ger 23, 3; 31, 7; ecc.). Soltanto quest’ultimo è santo. Il primo non lo è più di quanto lo sia la frazione eliminata. A partire dall’esilio appare una terza nozione, quella di una élite religiosa all’interno del popolo, erede e depositaria delle promesse. La si può chiamare resto fedele, benché non porti mai nel VT il nome di resto. Questo nome le sarà dato nel NT (Rom 11, 5) ed in taluni scritti non biblici (Documento di Damasco 1, 4; 2, 11). Tuttavia, di fatto, si tratta della stessa idea, che però passa dal piano materiale al piano spirituale. Il resto fedele è la frazione religiosamente viva agli occhi di Dio. Questo resto fedele appare sotto il nome di «Israele servo di Jahvè», «Israele nel quale io manifesterò la mia gloria» (Is 49, 3). Esso è incaricato di una missione nei confronti di tutto Israele (49, 5). In questa élite religiosa una figura individuale emerge, la personifica e ne incarna i destini: il *servo. Esso infine, ed esso solo, realizza con la sua morte redentrice la missione affidata a questo resto (52, 13 - 53, 12). Ma, a partire da esso, si produce il movimento inverso, e non soltanto tutto Israele, ma anche i pagani si integreranno nel resto ridotto al solo Messia (49, 6; 53, 11).
    4. Dopo l’esilio.
    - La piccola comunità degli esiliati ritornati a Sion assume il titolo di resto (Agg 1, 12; 2, 2; Zac 8, 6), e taluni oracoli possono lasciar credere che sia esso il resto santo e che le promesse escatologiche (Os 2, 23 s; Ez 34, 26 s) si realizzeranno in suo favore (Zac 8, 11 s). Ma la restaurazione non è messianica se non in modo incoativo e figurativo, ed il resto storico postesilico ha ancora bisogno di essere purificato (Zac 13, 8 s; 14, 2). L’idea del resto fedele è sempre più netta. Il *popolo di Dio si identifica con i «poveri di Jahvè» (Is 49, 13; Sal 18, 28; 149, 4). Il Sal 73, 1 identifica Israele con coloro che hanno il cuore puro. In 1 Mac 1, 52 s, il «popolo» che designa la massa di Israele viene contrapposto a «Israele» che è il resto fedele. I testi profetici postesilici annunciano ancora il resto escatologico (Is 65, 8-12; Ab 17 = Gioe 3, 5), ma introducendovi ora i pagani (Is 66. 19; Zac 9, 7).
    NUOVO TESTAMENTO
    Nel NT la parola è ancora applicata al «resto fedele», alla parte del popolo di Dio che ha creduto in Cristo (Rom 11, 5). Il tema del resto fedele, solo vero *Israele, è soggiacente a numerosissimi testi del NT (Mt 3, 9 s. 12; 22, 14; Lc 12, 32; Gv 1, 11 s; 1, 47; Rom 2, 28; 1 Cor 10, 18; Gal 6, 16); tuttavia cessa di avere un’esistenza autonoma. Il resto ora è la *Chiesa. Il significato profondo del tema nel piano di Dio è dato da Paolo, il quale, nella lettera ai Romani, sviluppa una vera teologia del *disegno di Dio (Rom 9 - 11). Grazie al resto che ha creduto in Cristo, l’infedeltà di Israele non distrugge le *promesse, e la *fedeltà di Dio rimane intatta (Rom11, 1-7). D’altra parte l’esistenza di un resto, solo depositario delle promesse, manifesta l’assoluta gratuità dell’*elezione degli individui, anche all’interno della elezione del popolo intero (9, 6-18. 25-29). E l’elezione di una frazione all’interno del popolo eletto, frazione che in definitiva si riduce al solo Messia, è ordinata alla *redenzione di tutti, non soltanto di tutto Israele (11, 26), ma anche dei pagani (11, 25). Sono così conciliate le esigenze apparentemente opposte della *giustizia divina: da una parte, castigo del peccato, dall’altra, fedeltà alla *promessa, che il peccato degli uomini non può far fallire, ma che rimane sempre dono gratuito.
    F. DREYFUS
    → Chiesa II 2 - crescita VT 2; NT 3 - diluvio - disegno di Dio NT III 2 - elezione VT III 1 - eredità VT II; NT I 1 - fuoco VT II 2 - indurimento I 2 b - Israele NT 3 - mediatore I 2, II 1 - Noè 2 - penitenza-conversione VT II l.2.5; NT III 1 - popolo B I 1; C II - prova-tentazione VT I 3; NT I - risurrezione VT II - salvezza NT I 2 a, II 1 - santo VT IV 3 - servo di Dio II 2 - speranza VT II 2.

    RETRIBUZIONE (inizio)

    L’uomo fa della retribuzione una questione di giustizia: ogni attività merita una mercede. Ma nel campo religioso gli sembra invece che il disinteresse debba giungere fino a scartare ogni pensiero di ricompensa. Tuttavia Cristo non ha richiesto un simile ideale illusorio, senza per questo rinunciare ad esigere dal suo discepolo una perfetta purezza d’intenzione.
    I. RETRIBUZIONE E MERCEDE
    La retribuzione è un dato basilare della vita religiosa, ma, per comprenderne il senso esatto, è importante descriverne la genesi nella coscienza. Al pari di molte altre, questa nozione ha radici nell’esperienza umana, e precisamente nella relazione tra padrone e servo; ma la trascende infinitamente, perché Dio stesso la fonda. Essa si esprime senza dubbio con parole che designano la «mercede», ma non si riduce a quel che noi intendiamo oggi per mercede dovuta ad un lavoro: questa è in base ad un contratto, la retribuzione è il risultato di una *visita di Dio, che con un giudizio sanziona l’*opera del suo servo. Sin dalle origini l’uomo è sulla terra allo scopo di *lavorare per Dio (Gen 2, 15; cfr. Giob 14, 6; Mt 20, 1-15), e questo lavoro comporta una mercede (Giob 7, 1 s). Di fatto Dio è un padrone giusto: non può mancare di dare a ciascuno ciò che gli spetta se ha svolto il compito affidatogli. D’altra parte, l’uomo non è un personaggio importante che abbia mezzi personali di esistenza e possa offrire gratuitamente a Dio un aiuto «disinteressato». Dinanzi a Dio l’uomo è il *povero, il mendicante, il *servo, se non lo *schiavo, che non ha altro se non ciò che il padrone gli accorda giorno per giorno. La retribuzione appare quindi non come lo scopo della vita religiosa, ma come un frutto normale del servizio di Dio. Perciò, fin dall’inizio della storia della salvezza, Dio promette una mercede ad Abramo (Gen 15, 1) e questa «mercede in proporzione del lavoro» riappare nelle ultime righe della Bibbia (Apoc 22, 12). Frammezzo, la Scrittura ripete instancabilmente che Dio paga ciascuno secondo le sue *opere (Prov 12, 14; Ger 31, 16; Sal 28, 4; 2 Cron 15, 7; Giob 34, 11; Is 59, 18; Eccli 51, 30; Lc 10. 7; Gv 4, 36; Rom 2, 6; 2 Tim 4, 14), pagamento che d’altronde spetta a Dio solo (Deut 32, 35; Prov 20, 22; cfr. Rom 12, 17-20). Dottrina talmente importante, che è proprio dell’*empio negare la retribuzione (Sap 2, 22), e che la fede in Dio il quale «paga una mercede a coloro che lo ricercano» è il complemento indispensabile della fede nell’esistenza dello stesso Dio (Ebr 11, 6). Se l’uomo che compie il suo servizio può fare affidamento sulla sua mercede, colui che rifiuta il compito proposto si vede privato di questa mercede, spogliato infine del diritto di esistere dinanzi a Dio. Quindi, essere retribuito per le proprie opere, significa passare al *giudizio di Dio, ricevere ricompensa o castigo secondo ciò che si è fatto: alternativa che significa per l’uomo la scelta tra la vita e la morte. Va da sé che questo giudizio di Dio trascende il giudizio dell’uomo, perché Dio solo scruta i reni ed i cuori, perché l’uomo non penetra il mistero di Dio, *misericordia ed *ira, *fedeltà, *giustizia ed *amore.
    II. LE TAPPE DELLA RIVELAZIONE
    Se il fatto della retribuzione è una certezza fondamentale, la sua natura rimane misteriosa, e Dio non l’ha rivelata che progressivamente.
    1. Solidarietà e responsabilità.
    - Fin dalle origini le azioni dell’uomo sembrano dipendere da una *responsabilità personale e nello stesso tempo avere una portata collettiva. Di fatto l’esistenza dell’uomo è inseparabile dalla famiglia, dalla tribù, dal popolo. Per i testi antichi lo sguardo ed il giudizio di Dio cadono quindi globalmente sull’«uomo» (Gen 6, 5 ss); l’alleanza e la fedeltà di Jahvè riguardano anzitutto un *popolo. Pur essendo questa dimensione collettiva dominante, la responsabilità personale non è ignota; la stessa esistenza di un diritto penale ne è la prova; le antiche pratiche delle ordalie, dei «giudizi di Dio» (cfr. Num 5, 11-30), l’«inchiesta» fatta da Dio nel racconto del paradiso (Gen 3, 11 ss), tutto ciò denota una volontà di scoprire e di punire un responsabile. L’episodio di Achan illustra bene la preoccupazione costante di non eliminare né responsabilità personale né portata collettiva. Grazie a Dio bisogna trovare il colpevole, di cui la sconfitta di tutto il popolo rivelava l’esistenza (Gios 7, 5-12); il *castigo personale che egli subisce, colpisce parimenti la sua famiglia ed i suoi beni (7, 24; cfr. Gen 3, 16-19). Così pure la ricompensa del giusto si estende ai suoi congiunti: così è per Noè (Gen 6, 18; 7, 1), Lot (19, 12), Obed-Edom (2 Sam 6, 12). Punizione e misericordia si ripercuotono attraverso lo spazio (tutto il popolo impegnato da uno dei suoi membri) ed attraverso il tempo (tutta una stirpe impegnata da una delle sue *generazioni), benché la bilancia penda nettamente in favore della *misericordia, che dura infinitamente di più (Es 20, 5 s; 34, 7). A questa luce, l’interpretazione religiosa degli avvenimenti sembra facile: un Dio giusto dirige il mondo; se io sono disgraziato od oppresso da difficoltà, ciò è dovuto alle mie colpe od a quelle di una persona con la quale io sono solidale (cfr. Gv 9, 2). Viceversa, la mia *salvezza inattesa dopo i peggiori delitti può venire dalla mia solidarietà con qualche giusto: se ci fossero stati dieci giusti a Sodoma, gli abitanti non avrebbero pagato per il loro peccato (Gen 18, 16-33; cfr. 19, 20 ss). A quest’epoca un simile schema sembrava soddisfare tutte le situazioni; tuttavia non poteva bastare per sempre.
    2. L’uomo responsabile del suo destino.
    - Di fatto, sotto la pressione delle disgrazie dell’esilio, il popolo aveva tratto da questo schema rigoroso un proverbio: «I padri hanno mangiato l’uva acerba, i figli ne hanno i denti allegati» (Ger 31, 29 s). conseguenza scandalosa che chiamava in causa la *giustizia di Dio. Questo proverbio non doveva più essere detto, proclama Geremia (31, 29 s); per Ezechiele esso non ha più senso (Ez 18, 2-3). D’accordo con la tradizione di Deut 7, 9 s, che evocava la solidarietà per la ricompensa ed il castigo personale per il peccato, Ezechiele si appoggia sulla dottrina della *conversione per annunciare che i giusti non possono salvare che se stessi: Noè, che un tempo ha salvato i suoi figli (Gen 7, 7), ormai non li salverebbe più; il disegno di Dio ha percorso una nuova tappa. Poi Ezechiele analizza tutti i casi possibili (Ez 18): ciascuno porta in ogni istante il proprio destino, può continuamente comprometterlo o ristabilirlo. Ma Dio, in questo dramma, non è ostile e neppure imparziale: «Io non trovo piacere nella morte di nessuno. Convertitevi e vivrete» (Ez 18, 32).
    3. Il mistero della giustizia di Dio.
    - Se l’uomo è pienamente responsabile del suo destino, la sua vita acquista in serietà; ma allora si solleva un altro problema, la cui piena soluzione non sarà data che con la rivelazione sulla vita d’oltretomba. Se la retribuzione ha già luogo in terra, perché non è costante? L’affermazione tradizionale che il giusto è sempre felice (Sal 37; 91; 92; 112) è contraddetta dall’esperienza. Di questo dramma della coscienza la Bibbia mostra la presenza nel cuore di tutti coloro che cercano lealmente di conciliare la loro fede e la loro esperienza. Geremia non ha ottenuto altra risposta alla sua angoscia che l’incoraggiamento a continuare fermamente la sua strada (Ger 12, 1-5); ma Giobbe, I’Ecclesiaste, i salmisti hanno affrontato il problema ed hanno tentato di risolverlo.
    a) Per lungo tempo i sapienti si aggrapparono alla soluzione tradizionale, tentando di adattarla: la retribuzione, differita così a lungo, si manifesterà ancora in terra, tutta concretata nell’istante drammatico della *morte, che assumerà una straordinaria densità di *beatitudine o di *sofferenza (Sal 49, 17 s; Eccli 1, 13; 7, 36; 11, 18-28); questa è senza dubbio la fragile ipotesi che il salmista rigetta: «Alla loro morte non ci sono tormenti» (Sal 73, 4 ebr.).
    b) L’Ecclesiaste, che ha «esplorato la sapienza e la retribuzione» (Eccle 7, 25) senza trovare altro che una incoerenza che smentisce i principi tradizionali (8, 12 ss), preconizza una moderazione attiva che cerca di trarre il maggior profitto possibile dalla vita giorno per giorno (9, 9 s), in una *fiducia in Dio che rimane serena, ma evita di risolvere il problema.
    c) In coloro che soffrono per la fede e aderiscono incondizionatamente al Signore, appare una luce. Dio è la loro «parte», la loro «luce», la loro «roccia» in mezzo a tutte le miserie (Sal 16, 5 s; 18, 1 ss; 27, 1 s; 73, 26; 142, 6; Lam 3, 24); essi non hanno altro scopo, non vogliono altra ricompensa che fare la sua volontà (Sal 119, 57; Eccli 2, 18; 51, 20 ss). Ciò suppone un’atmosfera di *fede intensa, quella in cui vive Giobbe: egli ha «visto Dio», e questo contatto misterioso con la sua *santità lo lascia umile ed adorante, cosciente del suo peccato ed abbagliato da una nuova forma di *conoscenza di Dio (Giob 42, 5 s).
    d) Taluni, infine, hanno il presentimento che, per spiegare la *sofferenza del giusto, sia necessario allargare l’orizzonte e passare dal piano della retribuzione a quello della *redenzione. Tale è il senso dell’ultimo dei poemi del *servo (Is 53, 10; cfr. Sal 22). Ma, proprio come nella visione delle ossa aride e risuscitate (Ez 37, 1-14), la retribuzione sembra riguardare ancora soltanto il popolo purificato dalle sofferenze dell’esilio.
    4. La retribuzione personale.
    - In un’ultima tappa, a dare la soluzione al problema posto è la fede nella *risurrezione personale alla fine dei tempi. Secondo taluni testi, di difficile interpretazione, Dio di fatto è in dovere di soddisfare nell’uomo la sete di equità: egli non può abbandonare il giusto, quand’anche dovesse farlo uscire per un momento dallo sheol per ricompensarlo (Giob 19, 25 ss). Dio non può neppure lasciare senza risposta l’appello dell’uomo ad essergli definitivamente unito (cfr. Sal 16, 9 ss): se Dio ha «preso» con sé Elia od Enoch, perché il giusto non sarebbe «preso» anch’egli presso di lui (Sal 49, 16; 73, 24)? La persecuzione di Antioco Epifane, suscitando dei martiri, trascina i credenti nella certezza di una ricompensa oltre la morte mediante la risurrezione (2 Mac 7; cfr. Dan 12, 1 ss). Questa fede nella risurrezione è implicata dal libro della Sapienza attraverso la credenza nella immortalità (Sal 3, l; 4, 1): al momento della *visita di Dio nell’ultimo *giorno, i giusti vivranno per sempre nell’amicizia di Dio, e questa è la loro «mercede» (cfr. Sap 2, 22; 5, 15), una mercede che è anche una «grazia» (cfr. 3, 9. 14; 4, 15), che trascende infinitamente il valore dello sforzo umano.
    III. CRISTO E LA RETRIBUZIONE
    Con la venuta di Cristo, la retribuzione trova il suo pieno senso e il suo fine.
    1. Conservazione della retribuzione individuale.
    - Taluni in Israele (Mt 22, 23; Atti 23, 8), persino tra i discepoli di Cristo (1 Cor 15, 12), dubitano ancora della risurrezione, della *vita eterna, del *regno senza fine che ricompenserà i giusti; ma Gesù ed i suoi apostoli conservano fermamente l’autentica tradizione di Israele (Mt 22, 31 s; 25, 31-46; 1 Cor 15, 13-19; Atti 24, 14 ss). Il Dio di Gesù Cristo, risuscitando suo Figlio, dimostra di essere *giusto (Atti 4, 14 ss; col 2, 12 s). Il credente sa quindi che riceverà un salario per le sue *opere (cfr. Mt 16, 27; Mc 9, 41; 2 Tim 4, 14; 2 Gv 8; 2 Piet 2, 13; Apoc 18, 6), e che al giudizio il re *re invierà gli uomini, in base a ciò che avranno fatto, alla *vita o al *castigo (Mt 25, 46), al *cielo o nell’inferno. Quindi si tratta di condurre il combattimento con ardore per conseguire il premio (1 Cor 9, 24-27; Gal 5, 7; 2 Tim 4, 7).
    2. La vera ricompensa.
    - Così stando le cose, rinasce il rischio di ritornare ad una concezione, quella dei *Farisei, secondo la quale la ricompensa divina è misurata dalla osservanza umana. Ma il credente è posto continuamente in guardia contro una simile deformazione della dottrina della retribuzione. Anzitutto l’uomo non deve più ricercare i vantaggi terreni, gloria, reputazione, riconoscenza od interesse; colui che fa il bene per simili motivi ha «già ricevuto la sua mercede» (Mt 6, 1-18; Lc 14, 12 ss; cfr. 1 Cor 9, 17 s). Ma soprattutto, ponendo Cristo al centro di ogni cosa, ciò che ìl cristiano persegue non è la sua felicità, neppure spirituale, neppure acquistata con la rinuncia ed il dono di sé; lo scopo del cristiano è Cristo (Fil 1, 21-26). Sua mercede è l’*eredità divina (Col 3, 24), e questa lo rende anzitutto coerede, fratello di Cristo (Rom 8, 17). La corona che l’apostolo attende, la riceverà per il fatto stesso della venuta di Cristo atteso con amore (2 Tim 4, 8). In breve, ciò che egli vuole, è di essere «con Gesù» per sempre (1 Tess 4, 17; cfr. Fil 1, 23; Lc 23, 43; Apoc 21, 3 s). Lo sforzo della sua vita è la *fedeltà al suo battesimo: conformato alla morte di Cristo, egli si prepara a risorgere con lui (Rom 6, 5-8; Col 3, 1-4). La *salvezza che l’uomo giustificato attende (Rom 5, 9 s) non è altro che l’*amore di Dio manifestato nella persona di Cristo (Rom 8, 38 s). È quel che dice Giovanni in altre parole: alla *fame ed alla sete degli uomini, al loro *desiderio appassionato di trionfare della morte, Gesù risponde con quel che egli è: la fonte dell’acqua viva, il *pane, la *luce, la *vita (Gv 7, 37 s; 6, 26-35; 8, 12; 11, 23 ss). Mediante la vita in Cristo Gesù sono risolte tutte le antinomie che la dottrina della retribuzione presentava. Data all’uomo al termine della sua ricerca e dei suoi sforzi, essa tuttavia è gratuità assoluta che supera infinitamente ogni aspettativa ed ogni merito. Attesa con fervore e nella *speranza, essa è già posseduta con la *giustificazione. Certezza serena, essa rimane fondata sulla sola *testimonianza di Dio accolta nell’oscurità e nella prova della *fede. Penetrando nel più profondo della personalità di ogni uomo, essa lo raggiunge in seno al *corpo di Cristo. Nessuna opposizione tra «morale della retribuzione» e «morale dell’amore», perché l’amore stesso vuole la retribuzione.
    C. WIÉNER
    → acqua II 1 - beatitudine VT I 2 - castighi 2 - cielo VI - educazione I l a - empio VT 3 - eredità VT II I - giustizia 0; A I VT 3; B Il VT - inferi e inferno - messe III - opere VT II; NT II - poveri VT I - responsabilità - risurrezione VT III - vendetta 3.

    RETTITUDINE (inizio)

    → giustizia - semplice 2 - verità VT 1.2; NT 1.

    RICCHEZZA (inizio)

    Sulla ricchezza e la povertà, le concezioni del VT e del NT sembrano radicalmente opposte. Di fatto è vero che, rivelando nel regno dei cieli il tesoro senza prezzo che merita il sacrificio di tutti i beni (Mt 13, 44), Gesù Cristo fa apparire l’inconsistenza di tutte le ricchezze umane, per quanto grandi (III). Ma rimane nella linea del VT, per il quale già ogni ricchezza che non è ricevuta come un dono di Dio è vana e pericolosa (II), e realizza senza abolirle le promesse antiche secondo le quali Dio arricchisce i suoi eletti (I). Se le ricchezze sono pericolose, e se la perfezione del vangelo consiste nel sacrificarle, non è perché siano cattive, ma perché Dio solo è «buono» (Mt 19, 17) e si è fatto nostra ricchezza.
    I. DIO ARRICCHISCE I SUOI ELETTI
    1. La ricchezza è un bene.
    - Fin nei testi più recenti, il VT si compiace di vantare la ricchezza dei personaggi pii della storia di Israele, quella di Giobbe dopo la prova, quella dei santi re, David, Josafat, Ezechia (2 Cron 32, 27 ss). come per la Grecia omerica, la ricchezza sembra in Israele un titolo di nobiltà, e Dio arricchisce coloro che ama: Abramo (Gen 13, 2), Isacco (26, 12 s), Giacobbe (30, 43); le tribù menano vanto della loro prosperità. Efraim riceve le benedizioni del cielo (pioggia), dell’abisso (fonti), delle mammelle e del seno (49, 25). Giuda può essere fiero: «I suoi occhi sono lucidi per il vino, i suoi denti bianchi per il latte» (49, 12). Sulla terra, che Jahvè promette al suo popolo, non deve mancare nulla (Deut 8, 7-10; 28, 1-12). E questo perché la ricchezza, anche la più materiale, è già un bene; assicura in particolare una preziosa indipendenza, preserva dal dover supplicare (Prov 18, 23), dall’essere schiavo del proprio creditore (22, 7), procura amicizie utili (Eccli 13, 21 ss). La sua acquisizione suppone normalmente qualità umane meritorie: diligenza (Prov 10, 4; 20, 13), sagacia (24, 4), realismo (12, 11), audacia (11, 16), temperanza (21, 17).
    2. Un bene relativo e secondario.
    - La ricchezza può essere un bene, ma non è mai presentata come il migliore dei beni: le si preferisce ad esempio la *pace dell’anima (Prov 15, 16), la buona fama (22, 1), la salute (Eccli 30, 14 ss), la *giustizia (Prov 16, 8). Molto presto se ne vedono i limiti; vi sono cose che non si comperano: l’esenzione dalla morte (Sal 49, 8), l’amore (Cant 8, 7). La ricchezza è causa di *preoccupazioni inutili: ci si esaurisce a nutrire dei parassiti (Eccle 5, 10) ed a fare ereditare degli estranei (6, 2). Alla ricchezza bisogna sempre preferire la *sapienza, che ne è la fonte (1 Re 3, 11 ss; Giob 28, 15-19; Sap 7, 8-41); essa è il tesoro, la perla preziosa che merita tutte le cure (Prov 2, 4; 3, 15; 8, 11).
    3. Un dono di Dio.
    - La ricchezza è un segno della generosità divina; è uno degli elementi della sapienza di vita che Dio non cessa di promettere ai suoi eletti. La prosperità non consacra forse la riuscita dello sforzo? Perciò essa appare successo e gloria (Sal 37, 19), come la miseria appare fallimento e vergogna (Ger 12, 13). Con vita lunga, salute, considerazione di tutti, la ricchezza fa parte della pace e della sazietà dell’esistenza. Ora, se Dio si occupa di uno, lo fa per saziarlo; tra le sue mani non si manca di nulla (Sal 23, 1; 34, 10). Se nel deserto egli nutriva il suo popolo a sazietà (Es 16, 8-15; Sal 78, 24-29), quanto più nella terra promessa (Lev 26, 5; 25, 19; Deut 11, 15; Neem 9, 25). Quando riceve in casa sua, nel suo tempio, sazia fino ad inebriare (Sal 23, 5; 36, 9); e nella pienezza di gioia causata dalla presenza della sua *faccia (Sal 16, 11), se vi è ben altro che l’abbondanza di un *pasto festivo, c’è la riconoscenza di un popolo che crede alla generosità di Dio e ne vede il segno dei suoi doni (Deut 16, 14 s). Il precetto dell’*elemosina si basa su questa imitazione della generosità divina: «Sii per gli orfani un padre... e sarai come il Figlio dell’Altissimo» (Eccli 4, 10; cfr. Giob 31, 18).
    4. Dio ricolma con le sue ricchezze.
    - Le ricchezze, di cui Dio ci colma nel Figlio suo, sono quelle «della parola e della scienza» (1 Cor 1, 5), quelle «della sua grazia e della sua bontà» (Ef 2, 7). Esse sono di ordine diverso da quelle di questo mondo, nessuna delle quali potrebbe saziare la nostra fame (Gv 6, 35) e la nostra sete (4, 14). Tuttavia provengono dalla stessa generosità divina e, se Paolo invita i cristiani a dare liberamente delle loro ricchezze materiali, si è perché essi sono stati colmati di doni spirituali (2 Cor 8, 7); e se egli promette loro che Dio li ricompenserà con «grazie di ogni specie» (9, 8), non ne esclude le ricchezze materiali, che permetteranno loro «di aver sempre ed in ogni cosa tutto ciò che occorre» e «di essere arricchiti in tutti i modi» (9, 8. 11). Intenzionalmente i vangeli, dopo la moltiplicazione dei pani, insistono sui canestri riempiti di resti (Mt 14, 20; 15, 37; 16, 9 s): così dona Dio. L’idea di sazietà è profondamente cristiana: chi viene a Cristo, non avrà più né fame (Gv 6, 35) né sete (4, 14). Dio ricolma colui che sceglie e non gli lascia più rimpiangere nulla, né invidiare alcuno. La *povertà evangelica elimina ogni complesso di inferiorità, ogni risentimento segreto. Nella sua stessa povertà il cristiano è più ricco del mondo, e l’apostolo esclama che possiede tutto, anche quando lo si immagina nella miseria (2 Cor 6, 10). Guai al tiepido che s’immagina di essere ricco, mentre gli manca l’unico tesoro (Apoc 3, 16 ss); beato il povero e il perseguitato: egli è ricco (2, 9).
    II. ILLUSIONI E PERICOLI DELLA RICCHEZZA
    Se Dio arricchisce i suoi amici, non ne consegue che ogni ricchezza sia frutto della sua *benedizione. L’antica sapienza popolare non ignora che esistono fortune ingiuste; ma, si ripete, i beni male acquistati non giovano (Prov 21, 6; 23, 4 s; cfr. Os 12, 9) e l’empio ammassa per far infine ereditare il giusto (Prov 28, 8). Di fatto è male acquistata la ricchezza che finisce per escludere la massa degli uomini dai beni della terra, riservandoli a pochi privilegiati: «Guai a coloro che aggiungono casa a casa ed uniscono campo a campo, al punto da occupare tutto lo spazio, restando i soli abitanti del paese» (Is 5, 8); «le loro case sono piene di rapine, perciò sono diventati importanti e ricchi, grossi e grassi» (Ger 5, 27 s). Empi, ancora, i ricchi che credono di poter fare a meno di Dio: confidano nei loro beni e se ne fanno una fortezza (Prov 10, 15), dimenticando Dio, la sola fortezza valida (Sal 52, 9). Un paese «pieno d’argento e d’oro... di cavalli e di carri innumerevoli» diventa presto «un paese ripieno di idoli» (Is 2, 7 s). «Chi confida nella ricchezza, vi si inabisserà» (Prov 11, 28; cfr. Ger 9, 22). Invece di rafforzare l’alleanza, i doni-divini possono offrire l’occasione di rinnegarla: «Sazi, i loro cuori si gonfiarono, e perciò mi hanno dimenticato» (Os 13, 6; cfr. Deut 8, 12 ss). Israele dimentica costantemente donde gli vengono i beni di cui è ricolmo (Os 2) e corre a prostituirsi con gli ornamenti di cui è debitore all’amore del suo Dio (Ez 16). È difficile rimanere fedeli nella prosperità, perché il grasso chiude il *cuore (Deut 31, 20; 32, 15; Giob 15, 27; Sal 73, 4-9). È sapienza diffidare dell’argento e dell’oro, quand’anche si fosse re (Deut 17, 17), e ripetere la preghiera in cui Agur riassume dinanzi a Dio la sua esperienza: «Non darmi né povertà né ricchezza; lasciami gustare la mia porzione di pane; per tema che, sazio, io non ti rinneghi e dica: «Chi è Jahvè?», oppure che, nella miseria, non rubi e non profani il nome del mio Dio» (Prov 30, 8 s). Il NT fa sue tutte le riserve del VT nei confronti della ricchezza. Le invettive di Giacomo contro i ricchi pasciuti e la loro ricchezza imputridita eguagliano quelle dei profeti più violenti (Giac 5, 1-5). «Ai ricchi di questo mondo» si raccomanda «di non montare in superbia, di non porre la loro fiducia in ricchezze precarie, ma in Dio che ci provvede con larghezza di tutto» (1 Tim 6, 17). «L’orgoglio della ricchezza» è il mondo, e non si può amare Dio ed il mondo (1 Gv 2, 15 s).
    III. DIO O IL DENARO
    1. La rivoluzione evangelica e la ricchezza. 
    - La rivoluzione evangelica in rapporto alla ricchezza è brutale. Il «Guai a voi, o ricchi, perché avete la vostra consolazione» (Lc 6, 24) ha l’accento di una condanna assoluta. Questa assume tutto il suo rilievo quando si pone a confronto delle beatitudini e delle *maledizioni del discorso della montagna, le benedizioni e le maledizioni promesse dal Deuteronomio (in occasione della grandiosa scena di Sichem), a seconda che Israele sarà, oppure no, fedele alla legge (Deut 28). Qui la distanza tra il VT ed il NT è una delle maggiori. E questo perché il vangelo del regno annunzia il dono totale di Dio, la comunione perfetta, l’ingresso nella casa del Padre, e che, per ricevere tutto, bisogna dare tutto. Per acquistare la perla preziosa, il tesoro unico, occorre vendere tutto (Mt 13, 45 s), perché non si può servire due padroni (Mt 6, 24), ed il denaro è un padrone spietato: soffoca nel *cupido la parola del vangelo (Mt 13, 22); fa dimenticare l’essenziale, la sovranità di Dio (Lc 12, 15-21); blocca sulla via della perfezione i cuori meglio disposti (Mt 19, 21 s). È una legge assoluta, e che non pare ammettere né eccezioni né attenuazioni: «chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi beni, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 33; cfr. 12, 33). Il ricco, che ha in questo mondo «i suoi beni» (Lc 16, 25) e «la sua consolazione» (6, 24), non può entrare nel regno; sarebbe «più facile ad un cammello passare attraverso la cruna di un ago» (Mt 19, 23 s par.). Soltanto i poveri sono capaci di accogliere la buona novella (Is 61, 1 = Lc 4, 18; Lc 1, 53) e proprio facendosi povero per noi il Signore ha potuto arricchirci (2 Cor 8, 9) con la sua «insondabile ricchezza» (Ef 3, 8).
    2. Dare ai poveri.
    - Rinunziare alla ricchezza non significa necessariamente non comportarsi più da proprietario. Persino al seguito di Gesù vi furono alcune persone agiate, e proprio un ricco uomo di Arimatea accolse il corpo del Signore nella sua tomba (Mt 27, 57). Il vangelo non vuole che ci si sbarazzi della propria fortuna come di un peso ingombrante, ma esige che la si distribuisca ai poveri (Mt 19, 21 par.; Lc 12, 33; 19, 8); facendosi degli amici con il «denaro disonesto» - quale fortuna infatti è, nel mondo, immune da ogni ingiustizia? - i ricchi possono quindi sperare che Dio aprirà loro la via difficile della salvezza (Lc 16, 9). Lo scandalo non è che ci sia un ricco ed un povero Lazzaro, ma che Lazzaro, «pur desiderando nutrirsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco» (Lc 16, 21), non ne ricevesse nulla. Il ricco è responsabile del povero; colui che serve Dio dà il suo denaro ai poveri, colui che serve Mammona lo conserva per appoggiarsi su di esso. Infine la vera ricchezza non è quella che si possiede, ma quella che si dà, perché questo dono chiama la generosità di Dio, unisce nel ringraziamento colui che dà e colui che riceve (2 Cor 9, 11) e permette al ricco di esperimentare anch’egli che c’è «più felicità nel dare che nel ricevere» (Atti 20, 35).
    É. BEAUCAMP e J. GUILLET
    → beatitudine VT II 1 - benedizione II 1 - cupidigia - dono NT 3 - elemosina - gloria I - grazia IV - latte 2 - pienezza - poveri – servire III 0 - tristezza NT 2.

    RICOMPENSA (inizio)

    → giustizia A I VT 3; B II VT - retribuzione.

    RICONCILIAZIONE (inizio)

    Già nel VT il fatto che Dio non ha cessato di offrire agli uomini il suo *perdono costituisce un preludio alla sua riconciliazione con essi. Egli stesso si è rivelato come il «Dio di tenerezza e di pietà» (Es 34, 6), che desiste volentieri dal «furore della sua *ira» (Sal 85, 4; cfr. 103, 8-12) e parla di *pace al suo popolo (cfr. Sal 85, 9). I peccati di Israele rappresentano una rottura dell’alleanza del Sinai; ma Dio, lungi dal rassegnarvisi, prenderà personalmente l’iniziativa di un’alleanza nuova ed eterna (Ger 31, 31 ss; Ez 36, 24-30); appunto una riconciliazione - anche se la parola non è usata - Jahvè propone quindi alla sua *sposa infedele (Os 2, 16-22), ai suoi figli ribelli (Ez 18, 31 s). Tutti i riti di *espiazione del culto mosaico, ordinati alla purificazione delle mancanze più varie, miravano in definitiva alla riconciliazione dell’uomo con Dio. Tuttavia non era ancora giunto il tempo della completa remissione dei peccati, ed i fedeli del vero Dio rimanevano nell’attesa di qualcosa di meglio (cfr. 2 Mac 1, 5; 7, 33; 8, 29). La riconciliazione perfetta e definitiva è stata compiuta da Cristo Gesù «*mediatore tra Dio e gli uomini» (1 Tim 2, 5), ed essa d’altronde non è che un aspetto della sua opera di *redenzione. Rimane tuttavia legittimo considerare il mistero della *salvezza, sotto questo punto di vista speciale, alla luce di alcuni testi di Paolo (Rom 5, 10 s; 2 Cor 5, 18 ss; Ef 2, 16 s; Col 1, 20 ss): tale è l’oggetto proprio di queste righe.
    I. LA NOSTRA RICONCILIAZIONE CON DIO PER MEZZO DI CRISTO
    1. L’iniziativa di Dio.
    - L’uomo, da solo, è incapace di riconciliarsi con il creatore che ha offeso col suo *peccato. Qui l’azione di Dio è primaria e decisiva, «e tutto questo viene da Dio che ci ha riconciliati con se stesso per mezzo di Cristo» (2 Cor 5, 18). Egli ci amava già quando noi eravamo suoi «nemici» (Rom 5, 10), e proprio allora il suo Figlio «è morto per noi» (5, 8). Il mistero della nostra riconciliazione è collegato a quello della *croce (cfr. Ef 2, 16) e del «grande amore» con cui siamo stati amati (cfr. Ef 2, 4). 2. Gli eletti della riconciliazione. - Dio, ormai, non tiene più conto delle mancanze degli uomini (cfr. 2 Cor 5, 19). Ma, lungi dall’essere una semplice finzione giuridica, l’azione di Dio, a detta di Paolo, è come «una nuova *creazione» (2 Cor 5, 17). La riconciliazione implica un rinnovamento completo per coloro che ne beneficiano, e coincide con la *giustificazione (Rom 5, 9 s), con la santificazione (Col 1, 21 s). *Nemici, fino a questo momento, di Dio per la nostra condotta cattiva (Rom 1, 30; 8, 7), ora possiamo «gloriarsi in Dio» (Rom 5, 11), che vuole «farci comparire dinanzi a sé santi, immacolati ed irreprensibili» (Col 1, 22); abbiamo «tutti, in un solo spirito, accesso al Padre» (Ef 2, 18).
    3. «Il ministero della riconciliazione».
    - Tutta l’opera della *salvezza è già compiuta da parte di Dio, ma, sotto un altro punto di vista, continua attualmente fino alla parusia, e Paolo può definire l’attività apostolica come «il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5, 18). «Come ambasciatori di Cristo», gli apostoli sono i messaggeri della «parola della riconciliazione» (5, 19 s). Un antico papiro parla qui persino del «vangelo della riconciliazione», e tale è appunto il tenore del messaggio apostolico (cfr. Ef 6, 15: «il vangelo della pace»). Nel loro ministero i servi del *vangelo si sforzeranno quindi, ad esempio di Paolo, di essere per parte loro gli artefici della pace che annunziano (2 Cor 6, 4-13).
    4. L’accoglienza del dono di Dio.
    - Dal fatto che Dio è l’autore primario e principale della riconciliazione non consegue che l’uomo abbia qui un atteggiamento puramente passivo: deve accogliere il dono di Dio. L’azione divina non esercita la sua efficacia se non per coloro che vogliono acconsentirvi mediante la *fede. Di qui il grido pressante di Paolo: «Noi vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 20).
    II. LA RICONCILIAZIONE UNIVERSALE
    1. La creazione riconciliata.
    - Parlando della riconciliazione del *mondo (2 Cor 5, 19; Rom 11, 15), Paolo finora aveva di mira soprattutto gli uomini peccatori, senza d’altra parte misconoscere che lo stesso mondo materiale è solidale con l’uomo e deve partecipare alla sua *liberazione (cfr. Rom 8, 19-22). Nelle lettere della prigionia, in Col e in Ef, l’orizzonte dell’apostolo si amplia, per abbracciare tutto l’universo, «sulla terra» e «nei cieli» (Col 1, 20): riconciliati con Dio in virtù del sangue della croce, gli uomini sono riconciliati anche con gli spiriti celesti; è posto fine persino all’atteggiamento ostile che nei nostri confronti potevano assumere le potenze *angeliche sotto il regime abrogato della *legge (cfr. Col 2, 15).
    2. La riconciliazione dei Giudei e dei pagani.
    - Paolo corona il suo insegnamento in Ef 2, 11-22. L’azione di Cristo «nostra pace» (2, 14) vi è messa in piena luce, e soprattutto i meravigliosi benefici che egli procura ai pagani di ieri: essi sono ora integrati nel popolo eletto allo stesso titolo dei Giudei, l’era della separazione e dell’odio è terminata, tutti gli uomini non formano più in Cristo che un solo *corpo (2, 16), un solo *tempio santo (2, 21). Poco importano all’apostolo delle nazioni le *sofferenze gloriose che gli attira l’annunzio di questo *mistero (Ef 3, 1-13). Paolo è stato il teologo ispirato ed il ministro infaticabile della riconciliazione, ma Gesù stesso, col suo *sacrificio, ne è stato l’artefice, «nel suo *corpo di carne» (Col 1, 22); e per primo ne ha pure sottolineato le esigenze profonde: il peccatore riconciliato da Dio non può rendergli un *culto gradito se prima non va a riconciliarsi egli stesso con il suo fratello (Mt 5, 23 s).
    L. ROY
    → fratello VT 3; NT 1 – giubileo I 2 - nazioni III 1 b - nemico III - pace II 3 b, III 2 - peccato I 2 - processo II - redenzione - violenza IV 3.

    RICONOSCENZA (inizio)

    → eucaristia I 1 - ringraziamento.

    RIFIUTO (inizio)

    → incredulità - indurimento - visita NT 1 - volontà di Dio VT II.

    RIFUGIO (inizio)

    → città VT 2.3 - Egitto 1 - fiducia - monte - ombra II - roccia - salvezza.

    RIGENERAZIONE (inizio)

    → battesimo IV - nascita (nuova) 3 – nuovo III 3.

    RIGETTARE (inizio)

    → elezione VT III 1; NT III - maledizione.

    RIMANERE (inizio)

    Sempre in movimento, Israele, prima nomade, poi *esiliato, non ha mai sperimentato veramente ciò che significa «rimanere». Non dispone neppure di una parola che esprima esattamente quest’idea. È obbligato a descrivere semplicemente ciò che vede: un uomo assiso (Gen 25, 27), il vincitore in piedi, solo sopravvissuto alla battaglia (1 Sam 17, 51; cfr. Gios 7, 12), od ancora le tende piantate abitualmente negli stessi pascoli (Gen 16, 12; 25, 18). Bisogna attendere gli equivalenti greci per avere le nostre immagini familiari di casa, di stabilità, di permanenza. E tuttavia questo popolo, sempre in cammino, sogna di *riposarsi dalle fatiche del *deserto: vorrebbe stabilirsi e vivere in pace nella *terra che Dio gli ha promesso (cfr. Gen 49, 9. 15; Deut 33, 12. 20). Alla sera di ciascuna delle grandi tappe della sua storia, Israele pensa di piantare le sue tende per una «sicura dimora» (Deut 12, 8 ss). Ed al mattino delle nuove partenze, trova coraggio ascoltando i profeti che gli annunziano un luogo dove metterà radici (Am 9, 15), una tenda che non sarà strappata (Is 33, 20), o persino una *casa stabile ed una città ben fondata (2 Sam 7, 9 ss; cfr. Is 54, 2). Ma sempre Jahvè, suo *pastore, «distrugge le sue dimore» (cfr. Am 5, 15; Ger 12, 14), per castigarlo e ricondurlo nel deserto, o viceversa, per trascinarlo verso pascoli migliori (Sal 23; Ger 50, 19; Ez 34, 23-31). Così dimorare è un ideale sempre sperato, ma mai raggiunto, che non troverà compimento se non in Dio.
    I. CIÒ CHE PASSA E CIÒ CHE PERMANE
    1. «Passa la figura di questo mondo» (1 Cor 7, 31; 2 Cor 4, 18).
    - Viandante eterno, l’uomo non può rimanere quaggiù, non perdura: come ogni *carne, simile all’erba, la sua vita è breve, appassisce e muore (Is 40, 6 ss; Giob 14, 1 s). Il mondo in cui vive appare almeno più stabile (2 Piet 3, 4), la terra poggia saldamente sulle sue basi (Sal 104, 5) e Dio ha garantito a *Noè la regolarità delle leggi della natura (Gen 8, 22). Ma questa promessa vale soltanto «finché la terra durerà», perché «i cieli saranno scossi» (Ebr 12, 26 s); e Cristo ha avvisato i suoi: «Il *cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24, 35 par.). L’alleanza del Sinai, pur fondata sulla legge e sulle parole di Dio, si è rivelata anche essa caduca: gli Ebrei, infedeli a Jahvè, disobbedienti alla legge, non poterono rimanere nella terra promessa (Deut 8, 19 s; 28, 30. 36). In una parola, non «rimasero nella alleanza» (Ebr 8, 9. 13). Questa, d’altronde, non era che una *figura passeggera della nuova alleanza (Ger 31, 31; Mt 26, 28 par.; Gal 4, 21-31). Anche tra le realtà di questa nuova economia talune passeranno, come i *carismi di *profezia e di scienza od il dono delle *lingue; ma «la fede, la speranza e la carità rimangono tutte e tre» (1 Cor 13, 8-13). Questo mondo non è quindi una «*città permanente», bisogna uscirne (Ebr 13, 13 s); anche il cristiano sa che «la sua dimora terrena» non è che una «tenda» di dove dovrà sloggiare, per andare a prendere domicilio presso il Signore (2 Cor 5, 1-8).
    2. Di fatto Dio solo rimane, lui che è, che era e che viene (Apoc 4, 8; cfr. 11, 17),
    «Egli è il Dio vivente, rimane in eterno» (Dan 6, 27; Sal 102, 27 s). Sedendo nei cieli inaccessibili, dimora santa ed eterna, egli si ride delle minacce (Sal 2, 4; 9, 8; Is 57, 15). È la *roccia stabile su cui bisogna fondarsi. La sua *parola (Is 40, 8; 1 Piet l, 23 ss), il suo *disegno (Is 14, 24), la sua *promessa (Rom 4, 16), il suo *regno (Dan 4, 31), la sua *giustizia (Sal 111, 3), il suo *amore (Sal 136) rimangono in eterno. Egli conferisce saldezza a tutto ciò che sulla terra possiede qualche stabilità sia nell’ordine fisico come in quello morale (Sal 119, 89 ss; 112, 3. 6). Anche il *giusto è come un albero piantato, che rimane in piedi nel giorno del giudizio (Sal 1, 3 ss), o come l’uomo che ha fondato la sua casa sulla pietra (Mt 7, 24 s par.) cioè su Cristo, sola *pietra angolare incrollabile (Is 28, 16; 1 Cor 3, 10-14; Ef 2, 20 ss). Di fatto l’uomo, per sussistere, deve fondarsi sulla solidità di Dio, cioè credere (Is 7, 9) e perseverare nella *fede (Gv 8, 31; 15, 5 ss; 2 Tito 3, 14; 2 Gv 9) in colui che è «identico ieri, oggi e per sempre» (Ebr 13, 8).
    II. DIO ABITA IN NOI E NOI IN LUI
    1. Con la sua *presenza, Dio permette agli uomini di rimanere.
    - Si è costruito in Sion un *tempio dove il suo *nome risiede e che la sua *gloria riempie (Deut 12, 5-14; 1 Re 8, 11; Mt 23, 21). D’altronde questa dimora è provvisoria; di fatto sarà profanata dal peccato; allora la gloria di Jahvè la lascerà, ed il popolo sarà condotto in *esilio (Ez 8, 1 - 11, 12).
    2. Ora «il Verbo si è fatto carne, ed abitò fra noi» (Gv 1, 14).
    - Egli, l’«Emmanuel» (Mt 1, 23; Is 7, 14), il cui regno non avrà fine (Lc 1, 33), deve «rimanere in eterno» (Gv 12, 34) perché il Padre dimora in lui, ed egli è nel Padre (14, 10). E tuttavia la sua presenza sensibile deve cessare; egli deve lasciare i suoi (13, 33), perché deve preparare per essi le numerose dimore della casa del Padre suo (14, 2 s).
    3. Affinché lo *Spirito Santo ci sia dato e rimanga in noi (Gv 14, 17),
    il ritorno di Cristo al Padre era necessario (16, 7). Avendo così ricevuto l’*unzione di Cristo (1 Gv 2, 27 s), il cristiano rimane in lui se «mangia la sua *carne» (Gv 6, 27-56), se vive come egli ha vissuto (1 Gv 2, 6), nel suo amore (Gv 15, 9), senza peccare (l Gv 3, 6) e custodendo la sua parola (Gv 14, 15-23; 1 Gv 3, 24). Con ciò, sia il Padre che Cristo e lo Spirito dimorano in lui (Gv 14, 23). Si crea tra Dio e il cristiano una unione così intima e feconda come quella del ceppo e dei tralci nella *vite (Gv 15, 4-7); essa permette al cristiano di rimanere, cioè di portare *frutto (15, 16) e di vivere eternamente (Gv 6, 56 ss). In tal modo Cristo «in cui abita tutta la *pienezza della divinità» (Col 1, 19; 2, 9) inaugura il regno che sussiste in eterno (Ebr 12, 27 s) e costruisce la solida città (Ebr 11, 10) di cui egli stesso è il solo fondamento (Is 28, 16; 1 Cor 3, 11; 1 Piet 2, 4).
    J. DE VAULX
    → casa - cielo III, IV - comunione NT 2 b - ospitalità 2 - Paraclito 1 - pietra 2 - presenza di Dio - tempio VT.

    RINGRAZIAMENTO (inizio)

    La realtà primaria della storia biblica è il *dono di Dio, gratuito, sovrabbondante, definitivo. L’incontro con Dio non pone soltanto l’uomo in presenza dell’assoluto ma lo satura e trasforma la sua vita. Il ringraziamento appare come la risposta a questa *grazia progressiva e continua che un giorno doveva manifestarsi pienamente in Cristo. Il ringraziamento, che è nello stesso tempo presa di coscienza dei doni di Dio, slancio purissimo dell’animo stupito di questa generosità, riconoscenza gioiosa dinanzi alla grandezza divina, è essenziale nella Bibbia, perché è una reazione religiosa fondamentale della creatura che, in un fremito di *gioia e di venerazione, scopre qualcosa di *Dio, della sua grandezza e della sua *gloria. Il peccato capitale dei pagani è, secondo Paolo, di «non aver reso a Dio né gloria né grazie» (Rom 1, 21). E di fatto, nella massa degli inni creati dalla pietà mesopotamica, il ringraziamento è eccezionale, mentre è frequente nella Bibbia e vi suscita slanci potenti.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Dall’una all’altra alleanza.
    - Il ringraziamento del VT annunzia quello del NT nella misura in cui esso è sempre, oltre che riconoscenza, tensione verso il futuro e verso una grazia più alta. D’altra parte, al momento della nuova alleanza, il ringraziamento prorompe veramente, diventando onnipresente nella preghiera e nella vita dei cristiani, come non lo era mai stato nei giusti antichi. Il ringraziamento biblico è essenzialmente cristiano. Tuttavia non è tale in modo esclusivo, al punto che, come è stato scritto, nel VT «l’Israelita lodi senza ringraziare». In realtà, se il VT non conosce ancora la pienezza del ringraziamento, si è perché non ha ancora gustato la pienezza della grazia. Se la *lode, più spontanea, più esteriore, vi occupa forse più posto che non il ringraziamento propriamente detto, più meditato, più attento agli atti di Dio, alle sue intenzioni, alla sua *rivelazione, si è perché il Dio santissimo non si è rivelato che progressivamente, svelando a poco a poco l’ampiezza della sua azione e la profondità dei suoi doni.
    2. Il vocabolario.
    - Scoprire il ringraziamento nella Bibbia significa ritrovare nello stesso tempo la gioia (Sal 33, 1-3. 21), la lode e la esaltazione (Esd 3, 11; Sal 69, 31), la glorificazione di Dio (Sal 50, 23; 86, 12). Più precisamente, il ringraziamento è *confessione pubblica di determinati atti divini. Lodare Dio significa divulgare le sue grandezze; ringraziarlo significa proclamare le meraviglie che egli compie e rendere testimonianza alle sue opere. Il ringraziamento va di pari passo con la *rivelazione; ne è come l’eco nei cuori. Perciò comporta sovente la menzione della assemblea dei giusti o dei popoli convocati per ascoltarlo (Sal 35, 18; 57, 10; 109, 30), un invito ad unirvisi (Sal 92, 2 ss; 105, 1 s). In ebr. soprattutto tôdah esprime questa sfumatura della confessione stupita e riconoscente, che spesso, con una parola molto meno espressiva e assai poco esatta, traduciamo con «ringraziare». La parola, che sembra cristallizzare il ringraziamento nel VT e rendere più esattamente l’atteggiamento religioso che s’intende, è quella di *benedizione (ebr. barak), che esprime «lo scambio essenziale» tra Dio e l’uomo. Alla benedizione di Dio, che dà la vita e la salvezza alla sua creatura (Deus 30, 19; Sal 28, 9), risponde la benedizione con cui l’uomo, sollevato da questa potenza e generosità, rende grazie al creatore (Dan 3, 90; cfr. Sal 68, 20. 27; Neem 9, 5...; 1 Cron 29, 10...).
    3. Storia del ringraziamento.
    - Esiste uno schema letterario classico del ringraziamento, visibile particolarmente nei Salmi, che manifesta bene il carattere del ringraziamento, reazione ad un atto di Dio. La confessione della riconoscenza per la *salvezza ottenuta si sviluppa normalmente in un «racconto» in tre parti: descrizione del pericolo corso (Sal 116, 3), preghiera angosciata (Sal 116, 4), ricordo del magnifico intervento di Dio (Sal 116, 6; cfr. Sal 30; 40; 124). Questo genere letterario si ritrova identico attraverso tutta la Bibbia ed obbedisce ad una identica tradizione di vocabolario, permanente attraverso i salmi, i cantici e gli inni profetici. Il ringraziamento è uno, perché risponde all’unica *opera di Dio. Più o meno confusamente ogni beneficio particolare di Jahvè è sempre sentito come un momento d’una grande storia in corso di realizzazione. Il ringraziamento permea la storia biblica e la prolunga nella *speranza escatologica (cfr. Es 15, 18; Deut 32, 43; Sal 66, 8; 96). Non soltanto il ringraziamento ispira taluni brani letterari antichissimi, che raccolgono già tutta la fede di Israele: il cantico di Mosè (Es 15, 1-21) oppure quello di Debora (Giud 5), ma è possibilissimo che alla base dell’Esateuco e di tutta la storia di Israele ci sia stata una confessione di *fede cultuale, che proclamava nel ringraziamento le grandi imprese di Jahvè sul suo popolo. Così, fin dalle origini la vera fede è confessione nel ringraziamento. Questa tradizione fiorisce costantemente, a misura che Israele acquista maggior coscienza della generosità di Dio, e si esprime in tutti i campi: nella letteratura profetica (Is 12; 25; 42, 10...; 63, 7...; Ger 20, 13) e sacerdotale (1 Cron 16, 8...; 29, 10-19; Neem 9, 5-37), nelle composizioni monumentali degli ultimi scritti del VT (Tob 13, 1-8; Giudit 16, 1-17; Eccli 51, 1-12; Dan 3, 26- 45. 51-90).
    NUOVO TESTAMENTO
    Il NT, essendo la rivelazione ed il dono della grazia perfetta (cfr. Gv 1, 17) nella persona di *Gesù Cristo, è pure la rivelazione del perfetto ringraziamento reso al Padre nello Spirito Santo.
    1. Il vocabolario cristiano.
    - Attraverso i LXX, esso eredita la tradizione del VT. Il ringraziamento è inseparabile dalla *confessione (gr. homologhèo: Mt 11, 25; Lc 2, 38; Ebr 13, 15), dalla lode (gr. ainèo: Lc 2, 13. 20; Rom 15, 11), dalla glorificazione (gr. doxàzo: Mt 5, 16; 9, 8) e sempre, in modo privilegiato, dalla benedizione (gr. euloghèo: Lc 1, 64. 68; 2, 28; 1 Cor 14, 16; Giac 3, 9). Ma un termine nuovo, praticamente sconosciuto al VT (gr. eucharistèo, eucharistia) invade il NT (più di 60 volte), manifestando l’originalità e l’importanza del ringraziamento cristiano, risposta alla *grazia.(charis) data da Dio in Gesù Cristo. Il ringraziamento cristiano è una *eucaristia, e la sua espressione perfetta è l’eucaristia sacramentale, il ringraziamento del Signore, dato da questi alla sua Chiesa.
    2. Il ringraziamento del Signore.
    - L’atto supremo del Signore è una rendimento di grazie; il *sacrificio che Gesù fa della propria vita consacrandola al Padre per santificare i suoi (Gv 17, 19) è la nostra eucaristia. Nella cena e sulla croce Gesù rivela la molla di tutta la sua vita e quella della sua morte: il ringraziamento del suo cuore di *Figlio. Sono necessarie la passione e la morte di Gesù perché egli possa glorificare pienamente il Padre (Gv 17, 1), ma tutta la sua vita è un ringraziamento incessante, che diviene talvolta esplicito e solenne, per trascinare gli uomini a credere ed a rendere grazie a Dio con lui (cfr. Gv 11, 42). L’oggetto essenziale di questo ringraziamento è l’opera di Dio, la realizzazione messianica, manifestata specialmente dai miracoli (cfr. Gv 6, 11; 11, 41 ss), il dono del suo Verbo che Dio ha fatto agli uomini (Mt 11, 25 ss).
    3. Il ringraziamento dei discepoli.
    - Il dono dell’eucaristia alla Chiesa esprime una verità essenziale: soltanto Gesù Cristo è il nostro ringraziamento, com’egli solo è la nostra lode. Egli per primo tende grazie al Padre, ed i cristiani dopo di lui ed in lui: «per lui, con lui e in lui». Nel ringraziamento cristiano, come in tutta la preghiera cristiana, Cristo è il solo modello ed il solo *mediatore (cfr. Rom 1, 8; 7, 25; 1 Tess 5, 18; Ef 5, 20; Col 3, 17). Coscienti del dono ricevuto, e trascinati dall’esempio del maestro, i primi cristiani fanno del ringraziamento la trama stessa della loro vita rinnovata. L’abbondanza di queste manifestazioni ha del sorprendente. Sono i cantici di Luca 1 e 2, provocati, come taluni cantici del VT, dalla meditazione lenta e religiosa degli avvenimenti. Sono i «riflessi» di ringraziamento degli apostoli e delle prime comunità (Atti 28, 15; cfr. 5, 41; 21, 20; Rom 7, 25; 2 Cor 1, 11; Ef 5, 20; Col 3, 17; 1 Tess 5, 18). Sono soprattutto i grandi testi di Paolo, così evocatori del suo ringraziamento «continuo» (1 Cor 1, 4; Fil 1, 3; Col 1, 3; 1 Tess 1, 2; 2, 13; 2 Tess 1, 3), che assumono talvolta la forma solenne della benedizione (2 Cor 2, 3; Ef 1, 3). Per Paolo, tutta la vita cristiana, tutta la vita della Chiesa, è sostenuta ed avvolta da una combinazione costante di supplica e di ringraziamento (1 Tess 3, 9 s; 5, 17 s; Rom 1, 8 ss). L’oggetto di questo ringraziamento, attraverso ogni sorta di avvenimenti e di segni, rimane identico, quello che domina il grande ringraziamento della lettera agli Efesini: il *regno di Dio, l’avvento del *vangelo, il *mistero di Cristo, frutto della redenzione, dispiegato nella *Chiesa (Ef 1, 3-14). L’Apocalisse allarga questo ringraziamento alle dimensioni della vita eterna. Nella *Gerusalemme celeste, terminata l’opera messianica, il ringraziamento diventa pura lode di gloria, contemplazione abbagliata di Dio e delle sue meraviglie eterne (cfr. Apoc 4, 9 ss; 11, 16 s; 15, 3 s; 19, 1-8).
    A. RIDOUARD e J. GUILLET
    → benedizione - confessione - eucaristia I - gioia NT II 1 - grazia I - lode - preghiera II 3, V 2 c.

    RINNOVARE (inizio)

    → alleanza VT II 1 - nuovo.

    RINUNZIA (inizio)

    → bene e male III 3 - croce II - morte NT III 3 - perfezione NT 3 - poveri NT II, III - ricchezza III - seguire 2 a - vino I 2.

    RIPOSO (inizio)

    L’esistenza dell’uomo consiste in un alternarsi di preoccupazione e quiete, lavoro e riposo. Per vivere pienamente sembra che debbano coesistere i contrari, la caccia e la cattura, la ricerca e il possesso, il *desiderio e il godimento. Dopo aver trovato, l’uomo cerca ancora, insaziabile; I’Ecclesiaste conosce questo ritmo, ma denuncia un tale andirivieni come vano inseguimento di vento (Eccle 1- 2) e preferisce attendere la morte che porrà termine alla vanità: «Non c’è riposo per l’uomo né giorno né notte; a che scopo *cercare dal momento che non si raggiunge mai?» (Eccle 8,16 s); gli basta gustare sotto lo sguardo di Dio il modesto piacere del momento presente (2, 24; 9, 7- 10). Tuttavia la tradizione biblica nel suo complesso conserva l’avvicendamento e ne scopre il senso: ciò che nell’uomo è successione e pena coincide, purificato, in Dio. Il vero riposo non è cessazione, ma compimento dell’attività; diviene allora già in terra una pregustazione del cielo.
    I. RIPOSO E LAVORO
    Fin dalle sue origini Israele dovette «santificare il *sabato» (Es 20, 8), consacrare al Signore un giorno di riposo, anche al tempo dei lavori e della messe (34, 21). A questo precetto furono dati due motivi principali.
    1. Riposo, segno di liberazione.
    - II codice dell’alleanza precisa che bisogna lasciar riposare gli animali e i lavoratori (23, 12). A questo motivo umanitario il Deuteronomio aggiunge un motivo di ordine storico: Israele deve ricordarsi in tal modo di essere stato liberato da lavori forzati in Egitto (Deut 5, 15). Riposarsi è segno di *libertà.
    2. Riposo, partecipazione al riposo del creatore.
    - Secondo la tradizione sacerdotale l’uomo che osserva il sabato imita Dio il quale, dopo aver *creato cielo e terra, «riposò e riprese fiato il settimo giorno»; questa osservanza è un «segno che unisce Jahvè ed i suoi fedeli» (Es 31, 17; Gen 2,2 s). Se quindi il sabato santifica, si è perché Dio lo santifica (cfr. Ez 20, 12). Riposarsi è rivelarsi *immagine di Dio: ciò significa che non soltanto si è liberi, ma *figli di Dio.
    3. Riposo e festa.
    - Il sabato non consiste semplicemente nel cessare dal lavoro, ma nel consacrare le proprie forze a celebrare nella *gioia il creatore ed il redentore. Può essere chiamato «delizia», perché colui che lo osserva «troverà in Jahvè le sue delizie» (Is 58, 13 s). Il sabato poteva far entrare nel mistero di Dio; ma per identificare riposo sabbatico e Dio stesso, sarà necessario che venga Cristo.
    II. VERSO IL RIPOSO DI DIO
    Per altra *via Israele fu portato a scoprire il carattere spirituale del riposo che gli era imposto. Altri temi vengono a mescolarsi al precedente, quello del sonno, del respirare, del sollievo dopo il pericolo o la pena. Israele riconoscerà che Dio solo dà il riposo dopo le inquietudini della vita errabonda, della guerra e dell’esilio.
    1. La terra promessa, figura del riposo di Dio.
    - Uscendo dall’Egitto, gli Ebrei fuggivano verso la *terra di libertà; questo riposo sperato (Gios 21, 43 s) doveva essere il frutto di una lenta conquista (ad es. Giud 1, 19. 21), finché il re David sia infine «liberato da tutti i suoi nemici» (2 Sam 7, 1). Salomone, al momento della consacrazione del tempio, può esclamare: «Benedetto sia Jahvè che ha accordato riposo al suo popolo Israele secondo tutte le sue promesse!» (1 Re 8, 56): al tempo dell’«uomo di pace» Dio dà a Israele «pace e quiete» (1 Cron 22, 9). Ormai è possibile «vivere sicuri ciascuno all’ombra della sua vite e del suo fico» (1 Re 4, 20; 5, 5). Riposo ancora molto terreno, ma garantito da Jahvè che ha deciso di prendere egli stesso il suo riposo nel *tempio (Sal 132, 14): egli ha *cercato coloro che lo cercavano ed ha accordato loro il riposo (2 Cron 14, 6). La fedeltà all’*alleanza condiziona quindi la natura e la durata del riposo nella terra. Ora questo degenerò presto in sazietà ed in rivolta contro Dio (Deut 32, 15; Neem 9, 25-28); mentre la salvezza si trova nella conversione e nella calma (Is 30, 15), Achaz ha paura dei nemici di Jahvè (7, 2. 4) e «stanca» Dio con la sua mancanza di fede (7, 13). Da allora la minaccia dell’esilio e della vita errabonda pesa sul popolo; ma dopo le pene del *castigo il popolo comprende meglio che sarà liberato da Jahvè in persona (Ger 30, 10 s); ed Israele camminerà nuovamente verso il suo riposo (31, 2), verso la danza, la gioia, la consolazione e la sazietà delle benedizioni (31, 12 s). Il *pastore riconduce le sue pecore ai buoni pascoli (Ez 34, 12-16; Is 40, 10 s). In questa prospettiva Dio che dà, prende il sopravvento sulla terra che è data: Israele è in cammino verso il riposo di Dio.
    2. Pregustazione del riposo definitivo.
    - Israele non ha atteso la venuta del *giorno del Signore per scoprire, per vie diverse, le gioie del riposo spirituale. Nella persecuzione (Sal 55, 8), nella prova (66, 12) o nell’esperienza del suo nulla (39, 14), il salmista domanda a Dio di lasciarlo «respirare un poco», o di trovare «il riposo della sua carne» (16, 9); si abbandona al pastore che conduce alle acque del riposo (23, 1 ss). Questo riposo interiore è offerto dalla *legge: prendere la *via del bene significa «trovare il riposo» (Ger 6, 16). I *poveri potranno «pascolare e riposarsi senza che nessuno li inquieti» (Sof 3, 13); al contrario, gli empi rassomigliano ad un mare agitato che non può trovare pace (Is 57, 20). Partendo dall’esperienza dell’amore che è nello stesso tempo ricerca e possesso, desiderio e godimento, la sposa del Cantico sogna l’ora del mezzodì, l’ora del pieno riposo che pone termine al vagabondare (Cant l, 7); in realtà, ora dice di essere ammalata d’amore nell’abbraccio del diletto (2, 5 s), ora va perdutamente dietro a colui che pensava di non più lasciare (3, 1 s. 4). Certamente *gusta già la presenza del diletto, ma non supererà questa alterna vicenda se non al momento in cui il diletto l’avrà fatta passare attraverso la morte (8, 6). A sua volta la sapienza promette il riposo a chi la cerca: dopo la caccia c’è la cattura (Eccli 6, 28); e se il sapiente constata che «ha poco lavorato per procurarsi molto riposo» (51, 27), si è perché la sapienza per prima ha scelto Israele come luogo del suo proprio riposo, di un riposo che è attività sovrana (27, 7-11). Questa pregustazione del riposo di Dio bastava a Giobbe per superare le sue *prove? Dio non gli lasciava «riprendere fiato» (Giob 9, 18); come non avrebbe desiderato la *morte ed il suo «sonno ristoratore» (3, 13)? Tutto cambierà quando la luce della risurrezione penetrerà nelle tenebre della tomba: «Quanto a te, va’, riposati e ti rialzerai alla fine dei giorni» (Dan 12, 13). Ormai il *sonno della morte è per il credente una pregustazione del riposo di Dio.
    III. GESÙ CRISTO, RIPOSO DELLE ANIME
    1. Riposo e redenzione.

    - Contro i Farisei, Gesù restaura il vero senso del sabato: «II sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27) e quindi per salvare la vita (3, 4): il riposo deve significare la liberazione dell’uomo e magnificare la *gloria del creatore. Gesù dà a questo segno il suo vero senso guarendo in quel giorno i *malati: «libera» la donna «legata» da molti anni (Lc 13, 16). In tal modo si rivela come il «padrone del sabato» (Mt 12, 8), perché realizza ciò di cui il sabato era la *figura: per mezzo di Cristo il riposo significa la liberazione dei figli di Dio. Per meritarci questa liberazione e questo riposo, il *redentore ha voluto non avere «dove posare (klìnein) il capo» (Mt 8, 20), come lo si posa su un «guanciale» (klìne); non lo «poserà» (klìnein) se non al momento della morte (Gv 19, 30) sulla croce.
    2. Rivelazione del riposo di Dio.
    - Per giustificare la sua attività nel giorno del riposo, Gesù dice: «Il Padre mio lavora continuamente, ed anch’io lavoro» (Gv 5, 17). In Dio *lavoro e riposo non si escludono, ma esprimono il carattere trascendente della *vita divina; questo è il mistero che la sapienza annunziava al riposo pur nel lavoro (Eccli 24, 11). Il lavoro di Cristo e degli operai della messe è di soccorrere nella *gioia le pecore stanche ed abbattute (Mt 9, 36; cfr. Gv 4, 36 ss), perché Gesù offre il riposo alle anime che vengono a lui (Mt 11, 29).
    3. Il riposo del cielo.
    - Il «riposo di Dio», che gli Ebrei avevano creduto di raggiungere penetrando nella terra promessa, era riservato «al *popolo di Dio», a coloro che sarebbero rimasti *fedeli ed *obbedienti a Gesù Cristo: tale è il commento che la lettera agli Ebrei (3, 7 - 4, 11) fa al Sal 95. Questo riposo è il *cielo, dove entrano «i morti che muoiono nel Signore: fin d’ora si riposino dalle loro fatiche, perché le loro opere li accompagnano» (Apoc 14, 13). Del testo, riposarsi in cielo non significa cessare, ma rendere perfetta la propria attività: mentre gli adoratori della *bestia non conoscono riposo né giorno né notte (14, 11), i viventi non cessano di ripetere, giorno e notte, la lode del Dio tre volte santo (4, 8).
    X. LÉON-DUFOUR
    → beatitudine - lavoro - morte NT III 4 - pace - rimanere - sabato - sonno I.

    RIPROVARE (inizio)

    →inferi e inferno VT II; NT I - indurimento I 2 a - ira B - maledizione.

    RISCATTO (inizio)

    → liberazione-libertà II, III - redenzione - schiavo.

    RISO (inizio)

    Il nome di Isacco - «riso» - offre il destro ad una variazione su un tema che vi si presta: che vi ha di più complesso del riso? Attraverso Gen 17, 17; 18, 12-15; 21, 6..., la Scrittura gioca su due aspetti del riso: un riso di *incredulità, ma che può trasformarsi, dinanzi alla meraviglia divina, in riso di felice stupore. Certamente l’uomo biblico sa ridere: in racconti più numerosi di quel che si pensi, si cela una forza comica vigorosa. Ma questo riso è caratterizzato dall’asprezza della condizione dell’uomo di Israele e sovente non manca di una nota di sfida, di scherno o di trionfo. Di fatto, attraverso i testi, si sente più il riso dello stolto, cioè dell’uomo che cammina fuori della verità, che non il riso del giusto.
    1. Il riso dello stolto.
    - È il riso impuro (Eccli 27, 13) o semplicemente esagerato (21, 20), mentre quello del sapiente è discreto. È soprattutto il riso del beffardo, termine dal senso ben preciso, che designa l’uomo ribelle alla correzione (Prov 13, l; 15, 12...), all’insegnamento, all’accettazione della *fede. Lo schernitore è il contrario del sapiente (Prov 9, 12; 29, 8): risponde con la sua beffa alla parola di Dio (Ger 20, 7 s), come ad es. alla riforma di Ezechia (2 Cron 20, 10), o più tardi all’annuncio della risurrezione dei morti (Atti 17, 32). Infine, negli ultimi giorni, degli «schernitori beffardi» (2 Piet 3, 3) porranno in dubbio le promesse. Allora lo scherno equivale quasi al rifiuto di credere. Si esercita pure contro la persona del giusto, soprattutto quando soffre (Sal 22, 8; Lam 3, 14...), o contro Israele, da parte delle nazioni. Gli schernitori si fanno sentire sul Calvario (Mc 15, 29 s; Lc 23, 35 s).
    2. Il riso del credente.
    - Qohelet, che dichiara il riso assurdo (Eccle 2, 2) e si aspetta piuttosto le lacrime (7, 3), riconosce nondimeno che c’è un «tempo per ridere» (3, 4). Di fatto il riso cambia significato secondo le persone ed i tempi. A suo tempo il giusto riderà dell’*empio (Sal 52, 8), così come Dio si fa beffe degli schernitori (Sal 2, 4; Prov 3, 34). Il ridicolo è un’arma contro i falsi dèi, usata da Elia sul Carmelo e dal libro di Baruch (Bar 6). I martiri maccabei usano il sarcasmo contro il persecutore (2 Mac 7, 39). Tuttavia il riso del giusto può liberarsi dalla polemica ed esprimere il sollievo dell’anima colmata da Dio (Sal 126, 2; Giob 8, 21) oppure fiduciosa come la donna forte che «sorride al domani» (Prov 31, 25). Gesù ha detto che un certo riso, quello dei soddisfatti del tempo presente (Lc 6, 25; cfr. Giac 4, 9), non sarebbe durato, ma ha promesso a coloro che piangono il riso di una *gioia definitiva (Lc 6, 21). Un simile riso finale farà eco al riso perfettamente puro della sapienza che fin dall’origine si rallegra («rallegrarsi» traduce la stessa parola che ridere: Prov 8, 30 s) dinanzi a Dio e tra gli uomini.
    P. BEAUCHAMP
    → incredulità 0 - gioia.

    RISURREZIONE (inizio)

    L’idea biblica di risurrezione non è paragonabile in nulla all’idea greca di immortalità. Secondo la concezione greca, l’anima dell’uomo, incorruttibile per natura, entra nell’immortalità divina non appena la morte l’ha liberata dai legami del corpo. Secondo la concezione biblica, tutta la persona umana è votata per la sua condizione presente a cadere in potere della *morte: l’*anima diventerà prigioniera dello sheol, mentre il *corpo marcirà nel sepolcro; ma questo sarà soltanto uno stato transitorio, da cui l’uomo ri-sorgerà vivo per una grazia divina, come ci si ri-solleva dalla terra dove si giaceva, come ci si ri-sveglia dal sonno in cui si era scivolati. Formulata già nel VT, l’idea è divenuta il centro della fede e della speranza cristiana dopo che Cristo è ritornato egli stesso alla vita, in qualità di «primogenito di tra i morti».
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. IL PADRONE DELLA VITA
    I culti naturistici dell’Oriente antico assegnavano un posto importante al mito del dio morto e risorto, traduzione drammatica di un’esperienza umana comune: quella del risveglio primaverile della vita dopo il suo torpore invernale. Osiride in Egitto, Tammuz in Mesopotamia, Baal in Canaan (divenuto Adone in epoca tarda), erano dèi di questo genere. Il loro dramma, verificatosi nei *tempi primordiali, si ripeteva indefinitamente nei cicli della natura; attualizzandolo in una rappresentazione sacra, i riti contribuivano, così si pensava, a rinnovarne l’efficacia, tanto importante per le popolazioni pastorali ed agricole. Ora, fin dall’inizio, la rivelazione del VT opera una rottura completa con questa mitologia e con i rituali che l’accompagnano. Il *Dio unico è pure l’unico padrone della vita e della morte: «egli fa morire e fa vivere, fa discendere allo sheol e ne fa risalire» (1 Sam 2, 6; Deut 32, 39), perché ha potere (*potenza) sullo stesso sheol (Am 9, 2; Sal 139, 8). Anche la risurrezione primaverile della natura è effetto della sua *parola e del suo *spirito (cfr. Gen 1, 11 s. 22. 28; 8, 22; Sal 104, 29 s). A maggior ragione per gli uomini: egli riscatta la loro anima dalla fossa (Sal 103, 4) e rende loro la vita (Sal 41, 3; 80, 19); non abbandona allo sheol l’anima dei suoi amici e non lascia che essi vedano la corruzione (Sal 16, 10 s). Queste espressioni sono indubbiamente da intendere in modo iperbolico per significare una preservazione temporanea dalla morte. Ma i miracoli di risurrezione operati dai profeti Elia ed Eliseo (1 Re 17, 17-23; 2 Re 4, 33 ss; 13, 21) fan vedere che Jahvè può vivificare gli stessi morti, richiamandoli dallo sheol dov’erano discesi. Questi ritorni alla vita evidentemente non hanno più nulla a che vedere con la risurrezione mitica degli dèi morti, salvo la rappresentazione spaziale che ne fa una risalita dall’abisso infernale alla terra dei viventi.
    II. LA RESURREZIONE DEL POPOLO DI DIO
    In una prima serie di testi questa immagine di risurrezione è usata per tradurre la *speranza collettiva del popolo di Israele. Colpito dai *castighi divini, esso è paragonabile ad un ammalato che la morte spia (cfr. Is 1, 5 s), anzi, ad un cadavere di cui la morte ha fatto la sua preda. Ma se si converte, Jahvè non lo ricondurrà alla vita? «Venite, ritorniamo a Jahvè!... Dopo due giorni egli ci farà rivivere; il terzo giorno ci farà risorgere; e noi vivremo dinanzi a lui» (Os 6, 1 s). Questo non è un semplice desiderio degli uomini, perché promesse profetiche attestano espressamente che così sarà. Dopo la prova dell’*esilio Dio risusciterà il suo popolo come si riportano alla vita le ossa già inaridite (Ez 37, 1-14). Egli risveglierà *Gerusalemme e la farà sorgere dalla polvere dove giaceva come morta (Is 51, 17; 60, 1). Farà rivivere i morti, risorgere i loro cadaveri, risvegliare coloro che sono stesi nella polvere (Is 26, 19). Risurrezione metaforica, senza dubbio, ma già vera liberazione dalla potenza dello sheol: «Dov’è la tua peste, o morte? dov’è il tuo contagio, o sheol?» (Os 13, 14). Dio trionfa quindi della morte a beneficio del suo popolo. Anche la parte fedele di Israele ha potuto cadere per un certo tempo in potere degli *inferi, così come il *servo di Jahvè morto e sepolto con gli empi (Is 53, 8 s. 12). Ma verrà il giorno in cui, come anche il servo, questo *resto giusto prolungherà i suoi giorni, vedrà la *luce e condividerà i trofei della *vittoria (Is 53, 10 ss). Primo abbozzo, ancora misterioso, di una promessa di risurrezione, grazie alla quale i giusti sofferenti vedranno sorgere infine il loro difensore e prendere in mano la loro causa (cfr. Giob 19, 25 s, reinterpretato dalla Volgata).
    III. LA RISURREZIONE INDIVIDUALE
    La rivelazione fa un passo avanti al momento della crisi maccabaica. La persecuzione di Antioco e l’esperienza del martirio pongono allora in modo acuto il problema della *retribuzione individuale. che sia necessario attendere il regno di Dio ed il trionfo finale del popolo dei santi dell’Altissimo, annunciati da lungo tempo dagli oracoli profetici, è una certezza fondamentale (Dan 7, 13 s. 27; cfr. 2, 44). Ma che ne sarà dei *santi morti per la fede? L’apocalisse di Daniele risponde: «Un gran numero di coloro che dormono nel paese della polvere si risveglieranno; gli uni sono per la vita eterna; gli altri per l’obbrobrio, per l’orrore eterno» (Dan 12, 2). L’immagine di risurrezione usata da Ezechiele e da Is 26 si deve quindi intendere in modo realistico: Dio farà risalire i morti dallo sheol affinché partecipino al *regno. Tuttavia la nuova *vita in cui essi entreranno non sarà più simile alla vita del mondo presente: sarà una vita trasfigurata (Dan 12, 3). Questa è la speranza che sostiene i *martiri in mezzo alla loro *prova: si può strappare loro la vita corporale; il Dio che crea è anche quello che risuscita (2 Mac 7, 9. 11. 22; 14, 46); mentre per gli empi non ci sarà risurrezione alla vita (2 Mac 7, 14). A partire da questo momento la dottrina della risurrezione diventa patrimonio comune del giudaismo. Se la setta sadducea, per scrupolo di arcaismo, non l’ammette (cfr. Atti 23, 8) e persino la schernisce, ponendo a suo riguardo questioni ridicole (Mt 22, 23-28 par.), essa è professata dai Farisei e dalla setta da cui proviene il libro di Enoch (probabilmente l’antico essenismo). Ma, mentre taluni la interpretano in modo materialistico, questo libro ne fornisce una rappresentazione molto spiritualizzata: quando l’*anima dei defunti sarà risorta dagli inferi per ritornare alla vita, entrerà nell’universo trasformato che Dio riserva per il «mondo futuro». Questa è pure la concezione che riterrà Gesù: «Alla risurrezione si sarà come gli angeli in cielo» (Mt 22, 30 par.).
    NUOVO TESTAMENTO
    I. IL PRIMOGENITO DI TRA I MORTI
    1. Preludi.
    - Gesù non crede soltanto alla risurrezione dei giusti nell’ultimo giorno. Egli sa che il mistero della risurrezione dev’essere da lui inaugurato, cui Dio ha dato il dominio della *vita e della *morte. Manifesta questo potere (*potenza), che ha ricevuto dal Padre, riportando alla vita parecchi morti per i quali era stato supplicato: la figlia di Giairo (Mc 5, 21-42 par.), il figlio della vedova di Nain (Lc 7, 11-17), Lazzaro suo amico (Gv 11). Queste risurrezioni, che ricordano i miracoli profetici, sono già l’annunzio velato della sua, che sarà di ordine completamente diverso. Egli vi aggiunge predizioni chiare: il figlio dell’uomo deve morire e risuscitare il terzo giorno (Mc 8, 31; 9, 31; 10, 34 par.). Secondo Mt, questo è il «*segno di Giona»: il figlio dell’uomo sarà per tre giorni e tre notti nel seno della terra (Mt 12,40). È il segno del *tempio: «Distruggete questo tempio, ed in tre giorni io lo riedificherò..»; ora «egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2, 19 ss; cfr. Mt 26, 61 par.). Questo annunzio di una risurrezione dai morti rimane incomprensibile anche per i Dodici (cfr. Mc 9, 10); a maggior ragione per i nemici di Gesù, che ne prendono pretesto per far custodire la sua tomba (Mt 27, 63 s).
    2. L’esperienza pasquale.
    – I Dodici quindi non avevano compreso che l’annunzio della risurrezione nelle Scritture riguardava in primo luogo Gesù stesso (Gv 20, 9); e per questo la sua morte e la sua sepoltura li avevano gettati nella disperazione (cfr. Mc 16, 14; Lc 24, 21-24. 37; Gv 20, 19). Per indurli a credere è necessaria nientemeno che l’esperienza pasquale. Quella del sepolcro trovato vuoto non basta a convincerli, perché potrebbe spiegarsi con un semplice trafugamento del cadavere (Lc 24, 11 s; Gv 20, 2): soltanto Giovanni crede subito (Gv 20, 8). Ma noi incominciano le *apparizioni del risorto. La lista raccolta da Paolo (1 Cor 15, 5 ss) e quella degli evangelisti non coincidono perfettamente; ma il numero esatto ha poca importanza. Gesù appare «durante molti giorni» (Atti 13, 31); altrove si precisa: «durante 40 giorni» (1, 3), fino alla scena significativa della *ascensione. I racconti sottolineano il carattere concreto di queste manifestazioni: colui che appare è proprio Gesù di Nazaret; gli apostoli lo vedono e lo toccano (Lc 24, 36-40; Gv 20, 19-29), mangiano con lui (Lc 24, 29 s. 41 s; Gv 21, 9-13; Atti 10, 41). Egli è presente, non come un fantasma, ma con il suo proprio corpo (Mt 28, 9; Lc 24, 37 ss; Gv 20, 20. 27 ss). Tuttavia questo *corpo sfugge alle condizioni abituali della vita terrena (Gv 20, 19; cfr. 20, 17). Gesù ripete bensì gli atti che compiva durante la sua vita pubblica, e ciò permette di riconoscerlo (Lc 24, 30 s; Gv 21, 6. 12); ma ora è nello stato di *gloria che descrivevano le apocalissi giudaiche. Il popolo non è spettatore di queste apparizioni, come lo è stato della passione e della morte. Gesù riserva le sue manifestazioni ai *testimoni che si è scelto (Atti 2, 32; 10, 41; 13, 31), e l’ultimo è Paolo sulla strada di Damasco (1 Cor 15, 8): dei testimoni egli fa i suoi *apostoli. Si mostra ad essi «e non al mondo» (Gv 14, 22), perché il *mondo è chiuso alla fede. Neppure le guardie del sepolcro, terrorizzate dalla teofania misteriosa (Mt 28, 4), non vedono Cristo stesso. Perciò il fatto della risurrezione, il momento in cui Gesù risale dalla morte, è impossibile da descrivere. Matteo non fa che evocarlo con un linguaggio convenzionale desunto dalle Scritture (Mt 28, 2 s): terremoto, luce abbagliante, apparizione dell’*angelo del Signore... Si entra qui in un campo trascendente, che soltanto le espressioni preparate dal VT possono tradurre, benché la realtà a cui vengono applicate sia in se stessa ineffabile.
    3. Il vangelo della risurrezione nella predicazione apostolica.
    - Fin dal giorno della *Pentecoste, la risurrezione diventa il centro della *predicazione apostolica, perché in essa si rivela l’oggetto fondamentale della fede cristiana (Atti 2, 22-35). Questo *vangelo di Pasqua è innanzitutto la testimonianza resa ad un fatto: Gesù è stato crocifisso ed è morto; ma Dio lo ha risuscitato e per mezzo suo apporta agli uomini la salvezza. Questa è la catechesi dì Pietro ai Giudei (3, 14 s) e la sua confessione dinanzi al sinedrio (4, 10), l’insegnamento di Filippo all’eunuco etiope (8, 35), quello di Paolo ai Giudei (13, 33; 17, 3) ed ai pagani (17, 31) e la sua confessione dinanzi ai suoi giudici (23, 6...). Non è altro che il contenuto stesso dell’esperienza pasquale. Un punto importante è sempre notato a proposito di questa esperienza: la sua conformità con le Scritture (cfr. 1 Cor 15, 3 s). Da una parte, la risurrezione di Gesù compie le promesse profetiche: promessa dell’esaltazione gloriosa del *Messia alla destra di Dio (Atti 2, 34; 13, 32 s), della glorificazione del *servo di Jahvè (Atti 4, 30; Fil 2, 7 ss), della intronizzazione del *figlio dell’uomo (Atti 7, 56; cfr. Mt 26, 64 par.). Dall’altra parte, per tradurre questo mistero che è fuori dell’esperienza storica comune, i testi della Scrittura forniscono un insieme di espressioni che ne abbozzano i diversi aspetti: Gesù è il *santo che Dio strappa alla corruzione dell’Ade (Atti 2, 25-32; 13, 35 ss; cfr. Sal 16, 8-11); è il nuovo *Adamo sotto i cui piedi Dio ha posto ogni cosa (1 Cor 15, 27; Ebr 1, 5-13; cfr. Sal 8); è la *pietra rigettata dai costruttori e diventata pietra angolare (Atti 4, 11; cfr. Sal 118, 22)... Cristo glorificato appare in tal modo come la chiave di tutta la Scrittura, che lo concerneva in anticipo (cfr. Lc 24, 27. 44 ss).
    4. Senso e portata della risurrezione.
    - La predicazione apostolica, a mano a mano che opera in tal modo accostamenti tra la risurrezione e le Scritture, elabora un’interpretazione teologica del fatto. Essendo la glorificazione del Figlio da parte del Padre (Atti 2, 22 ss; Rom 8, 11; cfr. Gv 17, 1 ss), la risurrezione appone il *sigillo di Dio sull’atto della *redenzione inaugurata con l’incarnazione e portata a termine con la *croce. Con essa Gesù è costituito «*Figlio di Dio nella sua potenza» (Rom 1, 4; cfr. Atti 13, 33; Ebr 1, 5; 5, 5; Sal 2, 7), «*Signore e Cristo» (Atti 2, 36), «capo e salvatore» (Atti 5, 31), «giudice e Signore dei vivi e dei morti» (Atti 10, 42; Rom 14, 9; 2 Tim 4, 1). Risalito al Padre (Gv 20, 17), egli può ora dare agli uomini lo *Spirito promesso (Gv 20, 22; Atti 2, 33). con ciò si rivela pienamente il senso profondo della sua vita terrena: essa era la manifestazione di Dio in terra, del suo amore, della sua grazia (2 Tim 1, 10; Tito 2, 11; 3, 4). Manifestazione velata, in cui la *gloria non era percepibile che sotto *segni (Gv 1, 11) o per brevi istanti, come quello della *trasfigurazione (Lc 9, 32. 35 par.; cfr. Gv l, 14). Ora che Gesù è entrato definitivamente nella gloria, la manifestazione continua nella Chiesa con i *miracoli (Atti 3, 16) e con il dono dello Spirito agli uomini che credono (Atti 2, 38 s; 10, 44 s). Così Gesù, «primogenito di tra i morti» (Atti 26, 23; col 1, 18; Apoc 1, 5), è entrato per primo in questo *nuovo mondo (cfr. Is 65, 17...) che è l’universo redento. Essendo il «Signore della gloria» (1 Cor 2, 8; cfr. Giac 2, 1; Fil 2, 11), egli è per gli uomini l’autore della salvezza (Atti 3,6...). Forte della potenza divina, egli si crea un popolo santo (1 Piet 2, 9 s) che trascina nella sua scia.
    II. LA POTENZA DELLA RISURREZIONE
    La risurrezione di Gesù risolve il problema della *salvezza quale si pone a ciascuno di noi. Oggetto primo della nostra fede, essa è pure la base della nostra speranza, di cui determina il fine. Gesù è risorto «come *primizie di coloro che dormono» (1 Cor 15, 20); ciò motiva la nostra attesa della risurrezione nell’ultimo giorno. Più ancora, egli è in persona «la risurrezione e la vita: chi crede in lui, anche se è morto, vivrà» (Gv 11, 25); questo motiva la nostra certezza di partecipare fin d’ora al mistero della nuova vita, che Cristo ci rende accessibile attraversa segni sacramentali.
    1. La risurrezione nell’ultimo giorno.
    - La fede giudaica nella risurrezione dei corpi è stata avallata da Gesù con le sue prospettive di integrità ritrovata e di radicale trasformazione (Mt 22, 30 ss par.); se questo tratto manca al quadro dell’ultimo *giorno delineato dall’apocalisse sinottica (Mt 24 par.), ciò è accidentale. Tuttavia questa fede non acquista il suo significato definitivo se non dopo la risurrezione personale di Gesù. La comunità primitiva ha coscienza di rimanere fedele, su questo punto, alla fede giudaica (Atti 23, 6; 24, 15; 26, 6 ss); ma è la risurrezione di Gesù a darle ormai una base oggettiva. Noi tutti risusciteremo, perché Gesù è risuscitato: «Colui che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i morti, darà pure la vita ai vostri corpi mortali mediante il suo Spirito che abita in voi» (Rom 8, 11; cfr. 1 Tess 4, 14; 1 Cor 6, 14; 15, 12-22; 2 Cor 4, 14). Nel vangelo di Matteo il racconto della risurrezione di Gesù sottolinea già questo punto in modo concreto: nel momento in cui Gesù, disceso agli inferi, ne risale *vittorioso, i giusti, che vi attendevano il loro accesso alla gioia celeste, sorgono per fargli un corteo trionfale (Mt 27, 52 s). Non si tratta di un ritorno alla vita terrena, ed il racconto non parla che di apparizioni strane. Ma è un’anticipazione simbolica di ciò che avverrà nell’ultimo giorno. Non è forse questo anche il senso delle risurrezioni miracolose operate da Gesù durante la sua vita? S. Paolo sviluppa ancor più lo scenario della risurrezione generale: voce dell’angelo, tromba per radunare gli eletti, *nubi della parusia, processione degli eletti... (1 Tess 4, 15 ss; 2 Tess 1, 7 s; 1 Cor 15, 52). Questa cornice convenzionale è classica nelle apocalissi giudaiche; ma il fatto fondamentale è più importante delle sue modalità. Contrariamente alle concezioni greche, in cui l’*anima umana liberata dai legami del corpo va sola verso l’immortalità, la speranza cristiana implica una restaurazione integrale della persona; suppone nello stesso tempo una trasformazione totale del *corpo, divenuto spirituale, incorruttibile ed immortale (1 Cor 15, 35- 53). Nella prospettiva in cui si pone, Paolo non affronta d’altronde il problema della risurrezione degli empi; non pensa che a quella dei giusti, partecipazione all’ingresso di Gesù in gloria (cfr. 1 Cor 15, 12 ...). L’attesa di questa «redenzione del corpo» (Rom 8, 23) è tale che, per esprimerla, il linguaggio cristiano conferisce alla risurrezione una specie di imminenza perpetua (cfr. 1 Tess 4, 17). Tuttavia, l’impazienza della *speranza cristiana (cfr. 2 Cor 5, 1-10) non deve portare a vane speculazioni sulla data del *giorno del Signore. L’Apocalisse delinea un quadro splendido della risurrezione dei morti (Apoc 20, 11-15). La morte e l’Ade li restituiscono tutti, affinché compaiano dinanzi al giudice, sia i cattivi che i buoni. Mentre i cattivi sprofondano nella «seconda morte», gli eletti entrano in una nuova vita, in seno ad un universo trasformato che si identifica col *paradiso primitivo e con la *Gerusalemme celeste (Apoc 21 - 22). Come esprimere altrimenti che sotto forma di simboli una realtà indicibile, che l’esperienza umana non può afferrare? Questo affresco non è ripreso nel quarto vangelo. Ma costituisce lo sfondo di due brevi allusioni che sottolineano soprattutto il compito affidato al figlio dell’uomo: i morti risorgeranno al suo appello (Gv 5, 28; 6, 40. 44), gli uni per la vita eterna, gli altri per la condanna (Gv 5, 29).
    2. La vita cristiana, risurrezione anticipata.
    - Se Giovanni sviluppa così poco il quadro della risurrezione finale, si è perché lo vede realizzato in anticipo già nel tempo presente. Lazzaro che esce dal sepolcro rappresenta in concreto i fedeli strappati alla morte dalla voce di Gesù (cfr. Gv 11, 25 s). Anche il discorso sull’opera di vivificazione del figlio dell’uomo contiene affermazioni esplicite: «Viene l’*ora, ed è adesso che i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e tutti coloro che l’avranno ascoltata, vivranno» (Gv 5, 25). Questa netta dichiarazione sintetizza l’esperienza cristiana qual è espressa dalla prima lettera di Giovanni: «Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita...» (1 Gv 3, 14). chiunque possiede questa vita non cadrà mai in potere della morte (Gv 6, 50; 11, 26; cfr. Rom 5, 8 s). certamente una simile certezza non sopprime l’attesa della risurrezione finale; ma trasfigura fin d’ora una vita che è entrata nella sfera d’azione di Cristo. S. Paolo diceva già la stessa cosa sottolineando il carattere pasquale della vita cristiana, partecipazione reale alla vita di Cristo risorto. Sepolti con lui al momento del *battesimo, noi siamo pure risorti con lui, perché abbiamo creduto alla forza di Dio che lo ha risuscitato dai morti (Col 2, 12; Rom 6, 4 ss). La *nuova vita in cui allora siamo entrati non è altro che la sua vita di risorto (Ef 2, 5 s). Di fatto, in quel momento, ci è stato detto: «Svegliati, o tu che dormi! sorgi di tra i morti, e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14). Questa certezza fondamentale dirige tutta l’esistenza cristiana. Domina la morale che ormai si impone all’*uomo nuovo, *nato in Cristo: «Risuscitati con Cristo, cercate le cose dell’alto, là dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 3, 1 ss). Essa è pure la fonte della sua *speranza. Infatti, se il cristiano attende con impazienza la trasformazione finale del suo corpo di miseria in corpo di gloria (Rom 8, 22 s; Fil 3, 10 s. 20 s), si è perché possiede già il pegno di questo stato futuro (Rom 8, 23; 2 Cor 5, 5). La sua risurrezione finale non farà che manifestare chiaramente ciò che egli è già nella realtà segreta del mistero (Col 3, 4).
    J. RADERMAKERS e P. GRELOT
    → anima II 2.3 - apparizioni di Cristo - ascensione - battesimo IV 1.4 - carne 0 - corpo II 3 - corpo di Cristo I 3, III 3 - esodo NT III - fede NT II 1, IV - figlio di Dio NT I 2 - Gesù Cristo I 3, II 1 a - gioia NT I 2 - giorno del Signore NT I 1, III 2 - gloria IV 2 - miracolo II 3 b, III 1 - morte VT 3; NT II 3, III 4 - notte NT - Pasqua III - preghiera IV 3 - redenzione NT 4 - retribuzione II 4, III - segno NT I, II 1 - sepoltura 2 - sonno III - speranza NT III, IV - trasfigurazione - veste II 3.4 - vita III 3, IV - vittoria NT 1.

    RISVEGLIARE (inizio)

    → notte VT 3 - risurrezione - sonno III - vegliare I 2.

    RITI (inizio)

    → altare 2 - culto - pietà VT 2 - sacerdozio VT II 1 - tempo VT I 2.

    RITORNO (inizio)

    → esilio II 3 - penitenza-conversione 0 - vegliare.

    RITTO (inizio)

    → fierezza - ginocchio 2 - risurrezione.

    RIVELAZIONE (inizio)

    La religione della Bibbia è fondata su una rivelazione storica; questo fatto la colloca a parte tra le religioni. Talune di esse non ricorrono affatto alla rivelazione: il buddismo ha come punto di partenza l’illuminazione del tutto umana di un sapiente. Altre presentano il loro contenuto come una rivelazione celeste, ma ne attribuiscono la trasmissione ad un fondatore leggendario o mitico, come Ermete Trismegisto per la gnosi ermetica. Nella Bibbia, invece, la rivelazione è un fatto storicamente afferrabile: i suoi intermediari sono conosciuti, e le loro parole sono conservate, sia direttamente, sia in una solida *tradizione. Il Corano sarebbe nella stessa situazione. Ma, senza parlare dei *segni che autenticano la rivelazione biblica, questa non poggia sull’insegnamento di un unico fondatore; la si vede svilupparsi nel corso di quindici o venti secoli, prima di raggiungere la sua pienezza nel fatto di Cristo, rivelatore per eccellenza. Credere, per il cristiano, significa accogliere questa rivelazione che giunge agli uomini portata dalla storia.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Perché dunque questa rivelazione? Perché Dio è infinitamente superiore ai pensieri ed alle parole dell’uomo (Giob 42, 3). È un Dio nascosto (Is 45, 15), tanto più inaccessibile in quanto il peccato ha fatto perdere all’uomo la familiarità con lui. Il suo disegno è un *mistero (cfr. Am 3, 7); egli dirige i passi dell’uomo senza che questi conosca la strada (Prov 20, 24). Alle prese con gli enigmi della sua esistenza (cfr. Sal 73, 21 s), l’uomo non può trovare da solo le chiarezze necessarie. È indispensabile che si rivolga a colui «al quale appartengono le cose nascoste» (Deut 29, 28), perché gli scopra i suoi segreti impossibili da penetrare (cfr. Dan 2, 17 s), perché gli faccia «vedere la sua gloria» (Es 33, 18). Ora, prima ancora che l’uomo si sia rivolto a lui, Dio prende l’iniziativa e gli parla per primo.
    I. COME DIO RIVELA
    1. Tecniche arcaiche.
    - L’ambiente orientale si serviva di talune tecniche per cercare di penetrare i segreti del cielo: divinazione, presagi, sogni, consultazione della sorte, astrologia, ecc. Il VT conservò a lungo qualcosa di queste tecniche, purificandole dai loro legami politeistici o *magici (Lev 19, 26; Deut 18, 10 s; 1 Sam 15, 23; 28, 3), ma attribuendo loro ancora un certo valore. Adattandosi alla mentalità imperfetta del suo popolo, Dio effettivamente affida la sua rivelazione a questi canali tradizionali. I sacerdoti lo consultano con gli Urim e Tummim (Num 27, 21; Deut 33, 8; 1 Sam 14, 41; 23, 10 ss), e su questa base pronunciano oracoli (Es 18, 15 s; 33, 7-11; Giud 18, 5 s). Giuseppe possiede una coppa per divinare (Gen 44, 2- 5) ed è esperto nella interpretazione dei sogni (Gen 40 - 41). Di fatto si ritiene che i *sogni racchiudano indicazioni del cielo (Gen 20, 3; 28, 12-15; 31, 11 ss; 37, 5-10), e questo fino ad un’epoca molto tarda (Giud 7, 13 s; 1 Sam 28, 6; 1 Re 3, 5-14); ma progressivamente si distinguono i sogni che Dio manda ai profeti autentici (Num 12, 6; Deut 13, 2) da quelli dei divinatori di professione (Lev 19, 26; Deut 18, 10), contro i quali combattono i profeti (Is 28, 7-13; Ger 23, 25-32) ed i sapienti (Eccle 5, 2; Eccli 34, 1-6).
    2. La rivelazione profetica.
    - Queste tecniche sono abitualmente superate dai *profeti. In essi l’esperienza della rivelazione si traduce in due modi: mediante visioni e mediante l’audizione della *parola divina (cfr. Num 23, 3 s. 15 s). Le visioni, da sole, rimarrebbero enigmatiche: neppure il profeta potrebbe *vedere direttamente né le realtà divine, né lo svolgimento futuro della storia. Ciò che egli vede rimane avvolto in simboli, ora attinti al tesoro comune delle religioni orientali (ad es. 1 Re 22, 16; Is 6, 1 ss; Ez l), ora creati in modo originale (ad es. Am 7, 1-9; Ger 1, 11 ss; Ez 9). Comunque è necessaria la parola di Dio per fornire la chiave di queste visioni simboliche (ad es. Ger 1, 14 ss; Dan 7, 15-18; 8, 15...); per lo più la parola giunge ai profeti senza che nessuna visione l’accompagni ed anche senza che essi possann dire in qual modo è venuta (ad es. Gen 12, 1 s; Ger 1, 4 s). Questa è l’esperienza fondamentale che nel VT caratterizza la rivelazione.
    3. La riflessione della sapienza.
    - A differenza dei profeti, i sapienti non presentano la loro dottrina come il risultato di una rivelazione diretta. La *sapienza fa appello alla riflessione umana, all’intelligenza, all’intelletto (Prov 2, l-5; 8, 12. 14). Tuttavia essa è un dono di Dio (2, 6), perché ogni sapere deriva da una sapienza trascendente (8, 15-21. 32-36; 9, 1-6). Meglio ancora, i dati, sui quali lavora questa riflessione guidata da Dio, appartengono di pieno diritto alla rivelazione divina: la *creazione, che manifesta a modo suo il creatore (cfr. Sal 19, l; Eccli 43); la storia, che fa conoscere le sue vie (Eccli 44 - 50, senza contare i libri storici); la *Scrittura, che racchiude la *legge divina e le parole dei profeti (Eccli 39, 1 ss). Una tale sapienza non è quindi cosa umana; è essa stessa un modo di rivelazione che prolunga il modo profetico; perché la sapienza divina che la guida è, come lo spirito, una realtà trascendente, «un riflesso dell’essenza di Dio» (Sap 7, 15 21); quindi la luce che essa apporta agli uomini è quella di una conoscenza soprannaturale (Sap 7, 25 s; 8, 4-8).
    4. L’apocalisse.
    - Proprio alla fine del VT, profezia e sapienza si intersecano nella letteratura apocalittica, che è, per definizione, una rivelazione dei segreti divini. Questa rivelazione si collega quindi sia alla sapienza (Dan 2, 23; 5, 11. 14), sia allo spirito divino (Dan 4, 5 s. 15; 5, 11. 14). Può avere come fonti sogni e visioni; ma può anche avere come punto di partenza una meditazione delle Scritture (Dan 9, 1 ss). In ogni caso, è la parola di Dio che dà, per conoscenza soprannaturale, la chiave di questi sogni, di queste visioni, di questi testi sacri.
    II. CIÒ CHE DIO RIVELA
    L’oggetto della rivelazione divina è sempre di ordine religioso. Non è frammisto né alle confuse fantasticherie cosmologiche, né alle speculazioni metafisiche di cui sono pieni i libri sacri della maggior parte delle religioni antiche (come i Veda dell’India e le opere gnostiche, od anche taluni apocrifi giudaici). Dio rivela i suoi disegni, che tracciano per l’uomo la via della salvezza; rivela se stesso, affinché l’uomo lo possa incontrare.
    1. Dio rivela i suoi disegni.
    a) Nato in una stirpe peccatrice, l’uomo non sa neppure esattamente ciò che Dio vuole da lui. Dio quindi gli rivela regole di condotta: la sua parola assume forma di insegnamento e di *legge (Es 20, 1...), e l’uomo possiede in tal modo «cose rivelate» che deve mettere in pratica (Deut 29, 28). La legge trae tutto il suo pregio da questa origine divina, che la sottrae al piano giuridico per farne la delizia delle anime religiose (cfr. Sal 119, 24- 97...). Similmente le istituzioni del popolo di Dio sono oggetto di rivelazione: istituzioni sociali (Num 11, 16 s) e politiche (l Sam 9, 17), nonché istituzioni cultuali (Es 25, 40). E questo perché pur conservando un carattere provvisorio, come tutto lo statuto del *popolo di Dio nel VT, esse hanno nondimeno un significato positivo in rapporto al compimento della salvezza del NT: ne sono le *figure profetiche.
    b) In secondo luogo, Dio rivela al suo popolo il senso degli avvenimenti che gli è dato di vivere. Questi avvenimenti costituiscono il lato visibile del *disegno di salvezza; ne preparano la realizzazione finale e già la prefigurano. A questo duplice titolo essi hanno un volto segreto, che l’occhio umano non potrebbe scoprire; ma Dio «non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi i profeti» (Am 3, 7). Storici, profeti, salmisti, sapienti, vanno a gara nel dedicarsi a questa interpretazione religiosa della storia, che nasce dal l’incontro tra la parola divina ed i fatti voluti e diretti da Dio. I fatti accreditano la parola e portano gli uomini alla *fede, perché hanno valore di *segni (Es 14, 30 s). La parola illumina i fatti sottraendoli alla banalità quotidiana ed al caso (ad es. Ger 27, 4-11; Is 45, 1- 6) per farli entrare in un piano prestabilito.
    c) Infine Dio rivela progressivamente il segreto degli «ultimi tempi». La sua parola è *promessa. A questo titolo essa, al di là del presente e perfino del futuro prossimo, ha di mira il termine del suo disegno di salvezza. Rivela il futuro della discendenza di David (2 Sam 7, 4-16), la gloria finale di Gerusalemme e del tempio (Is 2, l-4; 60; Ez 40 - 48), il compito inaudito del servo sofferente (Is 52, 13-53, 12), ecc. Questo aspetto della rivelazione profetica dà agli uomini una conoscenza anticipata del NT, ancora avvolta in figure per una parte, ma che abbozza già i tratti dell’alleanza escatologica.
    2. Dio rivela pure se stesso attraverso ciò che compie in terra.
    La sua *creazione già lo manifesta nella sua sapienza e nella sua potenza sovrana (Giob 25, 7-14; Prov 8, 23-31; Eccli 42, 15 - 43, 33). Essa è come intessuta di segni che permettono di rappresentarlo simbolicamente, velato nella *nube (Es 13, 21), ardente come un *fuoco (Es 3, 2; Gen 15, 17), tonante nell’*uragano (Es 19, 16), dolce come la brezza leggera (l Re 19, 12 s)... Questi segni, visti dai pagani, erano sovente da essi interpretati al contrario (Sap 13, 1 s); la rivelazione permette ora al popolo di Dio di contemplare per analogia il creatore attraverso la grandezza e la bellezza delle creature (Sap 13, 3 ss). Tuttavia *Dio si rivela in modo specifico soprattutto con la storia di Israele. I suoi atti fan vedere chi egli è: il Dio terribile che giudica e combatte; il Dio compassionevole che consola (Is 40, 1) e che guarisce; il Dio forte che libera e che trionfa... La sua definizione biblica (Es 34, 6 s) non è la conseguenza di una speculazione filosofica; è il risultato di un’esperienza vissuta. E questa conoscenza concreta, approfondita nel corso dei secoli, determina l’atteggiamento che gli uomini devono assumere dinanzi a lui: fede e fiducia, timore ed amore. Atteggiamento complesso, che rettifica e completa quello che adotterebbe spontaneamente l’uomo religioso. Infatti Dio è creatore e padrone, re e signore; ma verso Israele egli si mostra parimenti padre e sposo. Cosi il *timore religioso che gli è dovuto, deve assumere la sfumatura di una *pietà cordiale (Os 6, 6) che può condurre all’intimità mistica. Si può dire di più, e Dio rivela nel VT il segreto intimo del suo essere? Entriamo qui nel campo dell’ineffabile. Il VT conosce manifestazioni misteriose dell’*angelo di Jahvè, in cui il Dio invisibile assume in qualche modo una forma accessibile ai sensi (Gen 16, 7; 21, 17; 31, 11; Giud 2, 1). conosce le visioni di Abramo, di Mosè, di Elia, di Michea ben Jimla, di Isaia, di Ezechiele, di Zaccaria... Tuttavia in esse la *gloria divina si vela sempre sotto simboli: simboli cosmici del fuoco o dell’uragano, simboli che manifestano la sovranità divina (1 Re 22, 19; Is 6, 1 ss), simboli ispirati all’arte babilonese (Ez 1). Ad ogni modo, *Jahvè stesso non è mai descritto (cfr. Ez 1, 27 s); la sua *faccia non è mai vista (Es 33, 20), neppure da Mosè che gli parla «bocca a bocca» (Es 33, 11; Num 12, 8), e gli uomini si velano istintivamente il volto per non fissare i loro occhi su di lui (Es 3, 6; 1 Re 19, 9 s). A Mosè egli accorda la rivelazione suprema, quella del suo *nome (Es 3, 14). Ma questa conserva intatto il mistero del suo essere; infatti la sua risposta - «Io sono colui che è» o «Io sono chi sono» - può essere interpretata come una dichiarazione di *mistero: Israele non possederà il nome del suo Dio in modo da far presa su di lui, come i pagani circostanti facevano presa sui loro dei. Così Dio rimane nella sua trascendenza assoluta, pur accordando agli uomini un certo accostamento concreto al suo mistero. Se essi non penetrano ancora fin nell’intimo del suo essere, sono già illuminati dalla sua *parola, dall’azione della sua *sapienza; sono santificati dal suo *spirito. Negli «ultimi tempi», egli farà di più. Allora «la sua *gloria si rivelerà, ed ogni carne la vedrà» (Is 40, 5; 52, 8; 60, l). Rivelazione suprema, il cui modo non è precisato in anticipo. Soltanto il fatto dirà come essa deve avvenire. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    La rivelazione iniziata nel VT termina nel NT. Ma invece di essere trasmessa da molteplici intermediari, si concentra ora in *Gesù Cristo, che ne è ad un tempo l’autore e l’oggetto. Bisogna distinguere in essa tre stadi. Nel primo, essa è fatta da Gesù stesso ai suoi apostoli. Nel secondo, è comunicata agli uomini dagli apostoli, poi dalla Chiesa sotto la direzione dello Spirito Santo. Nel terzo, troverà la sua consumazione finale, quando la visione diretta del mistero di Dio sostituirà negli uomini la conoscenza di fede. Per caratterizzare questi stadi successivi, il NT si serve di un vocabolario vario: rivelare (apokalypto), manifestare (phaneròo), far conoscere (gnorizo), mettere in luce (photizo), spiegare (exeghèoinai), mostrare (deiknuo/-mi), o semplicemente, dire; e gli apostoli proclamano (kerysso), insegnano (didasko), questa rivelazione che costituisce ora la *parola, il *vangelo, il *mistero di fede. Tutti questi temi si ritrovano nei diversi gruppi di scritti del NT.
    I. I SINOTTICI E GLI ATTI
    1. La rivelazione di Gesù Cristo.
    a)
    Rivelazione con i fatti. - Anche nel VT, la conoscenza del disegno di Dio rimaneva avvolta di ombra; la sua consumazione finale, benché promessa, non era evocata se non in *figure. Ciò che ora strappa i veli e dissipa l’ambiguità della promessa è il fatto di Cristo. Il destino storico di Gesù, coronato dalla sua morte e dalla sua risurrezione, fa effettivamente conoscere il contenuto reale di questa promessa, realizzandola nei fatti.
    b) Rivelazione con le parole. - Tuttavia la rivelazione con i fatti resterebbe incompresa se Gesù non spiegasse con le sue parole il senso dei suoi atti e della sua vita. Nelle *parabole del regno, egli «proferisce le cose nascoste dall’inizio del mondo» (Mt 13, 35); se per la folla vale ancora il suo insegnamento sotto simboli, rivela chiaramente ai suoi discepoli il *mistero di questo regno (Mc 4, 11 par.), che è il termine del disegno di Dio. Così pure rivela loro il senso nascosto delle Scritture, quando fa loro vedere che il figlio dell’uomo deve soffrire, esser messo a morte e risuscitare il terzo giorno (Mt 16, 21 par.). In grazia sua la rivelazione va dunque verso la sua pienezza: «Nulla di segreto che non debba essere rivelato; nulla di nascosto che non debba essere svelato» (Mc 4, 22 par.).
    c) Rivelazione mediante la persona di Gesù. - Al di là delle parole di Gesù, al di là dei fatti della sua vita, gli uomini accedono fino al centro misterioso del suo essere; qui trovano finalmente la rivelazione divina. Non soltanto Gesù contiene in sé il regno e la salvezza che annunzia, ma è la rivelazione vivente di *Dio. Essendo il *Figlio del Dio vivente (Mt 16, 16), egli è il solo a conoscere il Padre ed a poterlo rivelare (Mt 11, 27 par.). In compenso, il mistero della sua persona rimane inaccessibile alla «*carne ed al sangue»: impossibile penetrarlo senza una rivelazione del Padre (Mt 16, 17), che è rifiutata ai sapienti ed agli scaltri, ma è accordata ai piccoli (Mt 11, 25 par.). Questi rapporti intimi del Figlio e del *Padre, di cui il VT non aveva conoscenza, costituiscono il punto culminante della rivelazione apportata da Gesù. Tuttavia il mistero del Figlio si vela ancora sotto un’umile apparenza: quella del *figlio dell’uomo chiamato a soffrire (Mc 8, 31 ss par.). Anche dopo la sua risurrezione, Gesù non si manifesterà al mondo nella pienezza della sua gloria.
    2. La rivelazione comunicata.
    a) La rivelazione nella Chiesa. - Gli atti e le parole di Gesù non sono stati conosciuti direttamente che da un piccolo numero di persone. Più piccolo ancora fu il numero di coloro che credettero in lui e divennero suoi discepoli. Ora la rivelazione che egli apportava era destinata al mondo intero. Perciò Gesù l’ha affidata ai suoi apostoli, con *missione di comunicarla agli altri uomini (cfr. già Mt 10, 26 s); essi andranno nel mondo intero a portare il vangelo a tutte le *nazioni (Mt 28, 19 s; Mc 16, 15). Quindi egli fa di essi i suoi *testimoni grazie alle *apparizioni di cui beneficiano (Atti 1, 8). Non soltanto nel senso che, avendolo visto coi loro occhi ed avendo sentito le sue parole, potranno riferire esattamente ciò che ha detto e fatto (cfr. Lc 1, 2); ma nel senso che Gesù autentica la loro testimonianza: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10, 16). Il libro degli Atti fa vedere come, grazie a questi testimoni, la rivelazione di Gesù Cristo è penetrata nella storia del mondo intero. Vi si vede la parola diffondersi da Gerusalemme fino alle estremità della terra. Abbozzo concreto che annunzia l’azione della *Chiesa, prolungamento di quella degli *apostoli, dalla Pentecoste fino alla fine dei tempi.
    b) La rivelazione e l’azione dello Spirito Santo. - Gli Atti mostrano inoltre lo stretto rapporto che esiste tra la comunicazione della rivelazione nella Chiesa e l’azione dello *Spirito Santo in terra. Fin dal giorno della Pentecoste lo Spirito è dato ed assicura la validità della testimonianza apostolica (Atti 1, 8; 2, 1-21). Sotto la sua luce gli apostoli scoprono nello stesso tempo il significato totale delle Scritture e quello dell’esistenza di Gesù, e su questo duplice oggetto verte quindi la loro testimonianza (cfr. 2, 22-41). Essendo così notificata agli uomini la rivelazione, quelli tra essi che sono docili allo Spirito l’accoglieranno con fede e, mediante il loro *battesimo, entreranno nella vita della *salvezza (2, 41. 47).
    3. Verso la rivelazione perfetta.
    - La rivelazione fatta da Gesù e comunicata dai suoi apostoli e dalla sua Chiesa rimane ancora imperfetta, perché le realtà divine vi sono velate sotto segni. Ma essa annunzia la rivelazione totale che avverrà al termine della storia. Allora il figlio dell’uomo si rivelerà nella sua gloria (Lc 17, 30; cfr. Mc 13, 26 par.) e gli uomini passeranno dal «mondo presente» al «mondo futuro».
    II. LE LETTERE APOSTOLICHE
    1. La rivelazione di Gesù Cristo.
    a)
    Rivelazione della salvezza. - Se le allusioni alle parole di Gesù sono rare nelle lettere apostoliche, in compenso il fatto di Cristo, e specialmente la sua morte e la sua risurrezione, vi occupano un posto centrale. E ciò perché, in questo fatto, si è rivelata la *salvezza promessa anticamente ad Israele. Cristo, *agnello immacolato predestinato fin dalla fondazione del mondo, è stato manifestato negli ultimi tempi per noi (l Piet 1, 20). È stato manifestato una volta per tutte allo scopo di abolire il peccato mediante il suo sacrificio (Ebr 9, 26). Con questa apparizione del nostro salvatore, Cristo Gesù, la *grazia di Dio è stata manifestata (2 Tim 1, 10). In lui è stata manifestata la *giustizia salvifica di Dio, attestata dalla legge e dai profeti (Rom 3, 21; cfr. 1, 17). In lui si è rivelato il *mistero nascosto alle generazioni precedenti (Rom 16, 26; Col 1, 26; 1 Tim 3, 16); Dio ce l’ha fatto conoscere (Ef 1, 9), come lo ha pure notificato ai principati e alle potestà (3, 10). Questo mistero è l’ultimo segreto del disegno di salvezza.
    b) Rivelazione del mistero di Dio. - Oltre il mistero stesso della salvezza, in Cristo si rivela a noi l’essere stesso di *Dio. La creazione era stata una prima manifestazione delle sue perfezioni invisibili, presto cancellata nello spirito degli uomini peccatori (Rom 1, 19 ss). Poi il VT aveva apportato una rivelazione, ancora parziale, della sua *gloria. Infine «Dio ha fatto risplendere la conoscenza della sua gloria sul volto di Cristo Gesù» (2 Cor 4, 6), realizzando così l’oracolo profetico di Is 40, 5. Questo è il senso profondo di Cristo, nei suoi atti e nella sua persona.
    2. La rivelazione comunicata.
    - Gli apostoli non hanno compreso tutto ciò da soli, ma grazie ad una rivelazione interna, che ne ha dato loro la conoscenza (cfr. Mt 16, 17). Paolo ha ricevuto il suo vangelo da una rivelazione di Gesù Cristo, quando piacque a Dio rivelare in lui il suo Figlio (Gal 1, 12. 16). Lo spirito, che scruta sin nelle profondità di Dio, gli ha rivelato il senso della *croce, che è la vera sapienza (l Cor 2, 10). Per rivelazione, il mistero di Cristo gli è stato notificato, come a tutti gli apostoli e profeti, nello spirito (Ef 3, 3 ss). Ecco perché il vangelo dell’apostolo non è di indole umana (Gal 1, 11): eco della *parola di Dio stesso, è «una forza divina per la salvezza dei credenti» (Rom 1, 16). Notificando il mistero del vangelo (Ef 6, 19), Paolo pone in luce agli occhi di tutti la dispensazione di questo mistero, un tempo nascosto ed ora rivelato (3, 9 s). Questo è il senso della parola apostolica: essa comunica agli uomini la rivelazione divina per portarli alla *fede che assicurerà loro la salvezza.
    3. Verso la rivelazione perfetta.
    - Tuttavia il regime della fede non avrà che un tempo. Ha per fondamento «l’apparizione dell’amore di Dio nostro salvatore» nella vita terrena di Gesù (Tito 3, 4). continua mentre Gesù è già entrato nella gloria. Avrà fine con «l’apparizione in gloria del nostro grande Dio e salvatore, Cristo Gesù» (Tito 2, 13; cfr. Lc 17, 30). Questa rivelazione finale di Gesù (1 Piet 1, 7. 13), questa manifestazione del capo dei pastori (1 Piet 5, 4), costituisce l’oggetto della *speranza cristiana (2 Tess 1, 7; 1 Cor 1, 7; cfr. Tito 2, 13). Di fatto, quando sarà manifestato Cristo che è la nostra vita, anche noi saremo manifestati con lui nella gloria (Col 3, 4). A questa rivelazione escatologica dei figli di Dio aspira con noi tutta la creazione (Rom 8, 19-23). Avvenimento misterioso, che non è possibile descrivere, dopo il quale la visione diretta si sostituirà al regime della fede (l Cor 13, 12; 2 Cor 5, 7).
    III. VANGELO E LETTERE DI GIOVANNI
    Nel vocabolario giovanneo, il tema della rivelazione è espresso soprattutto con il verbo «manifestare» (phaneròo), ma l’idea affiora dovunque nei testi.
    1. La rivelazione di Gesù Cristo.
    a)
    La manifestazione sensibile di Gesù. - Al centro della rivelazione si trova la persona di *Gesù, *Figlio di Dio venuto nella carne. Giovanni Battista aveva testimoniato «affinché egli fosse manifestato ad Israele» (Gv 1, 31). Effettivamente «egli si è manifestato» (1 Gv 3, 5. 8), cioè è diventato oggetto di esperienza sensibile. Non fu una manifestazione splendente agli occhi del mondo, come quella che i suoi fratelli avrebbero desiderato (Gv 7, 4), ma una manifestazione quasi segreta, paradossale, che culminò nella elevazione sulla *croce (Gv 12,32), perché mirava essenzialmente a togliere il peccato ed a distruggere l’opera del demonio (1 Gv 3, 5. 8). Soltanto dopo la sua risurrezione Gesù si manifestò in gloria; ed ancora non lo fece che per i suoi discepoli (Gv 21, 1. 14).
    b) La manifestazione di Dio in Gesù Cristo. - La manifestazione sensibile di Gesù aveva una portata trascendente: era la rivelazione suprema di *Dio. Rivelazione mediante le parole di Gesù: egli che, come Figlio, ha visto Dio, ha spiegato Dio agli uomini (Gv 1, 18), dapprima in termini velati, poi, alla vigilia della sua partenza, chiaramente e senza figure (16, 29). Rivelazione mediante gli atti: i suoi *miracoli erano *segni, con i quali egli manifestava la sua gloria affinché si credesse in lui (2, 11), perché questa *gloria era quella che egli aveva dal Padre come Figlio unico (1, 14). Per questa duplice via egli ha manifestato agli uomini il *nome di Dio (17, 6), cioè il mistero del suo essere, coronando con ciò tutta la rivelazione del VT (cfr. 1, 17). L’evangelista che ha visto, sentito, toccato il Verbo di vita (1 Gv 1, 1), così riassume il senso della sua esperienza: in Gesù si è manifestata la *vita (1, 2), in Gesù si è manifestato l’*amore di Dio per noi (4, 9).
    2. La rivelazione comunicata.
    - La rivelazione di Gesù Cristo non è stata accolta da tutti gli uomini: Non solo perché soltanto un piccolo numero l’ha conosciuto, ma soprattutto perché l’accoglierlo esigeva una *grazia interiore: «Nessuno viene a me se il Padre che mi ha mandato non lo attrae» (Gv 6, 44). Ora sono poco numerosi coloro che «ascoltano l’insegnamento del Padre» (6, 45); molti rifuggono dalla luce e preferiscono le tenebre (3, 19 ss), perché appartengono al *mondo malvagio. Gesù quindi non ha manifestato il nome del Padre se non a coloro che il Padre aveva egli stesso tratto dal mondo per donarglieli (17, 6). Ma a questi ha affidato una *missione: quella di *testimoniare per lui (16, 27). compito difficile, che esigerà una conoscenza profonda di ciò che Gesù ha detto e fatto. Perciò, dopo la sua partenza, egli manderà loro lo Spirito Santo affinché li guidi verso tutta la verità (16, 12 ss). Grazie al *Paraclito, la testimonianza apostolica farà conoscere a tutti gli uomini la rivelazione di Gesù Cristo, affinché credano ed abbiano la vita: «La vita si è manifestata, noi l’abbiamo vista e le rendiamo testimonianza» (1 Gv 1. 2); «noi abbiamo visto ed attestiamo che il Padre ha mandato il Figlio suo, il salvatore del mondo» (4, 14). Accogliendo questa testimonianza ogni uomo potrà, come i primi testimoni, «entrare in *comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1, 3 s).
    3. Verso la rivelazione perfetta.
    - Attraverso il mistero del Verbo fatto carne, la gloria divina non e ancora contemplata se non nella fede. L’uomo «*rimane in Dio», ma non ha raggiunto il termine. «Fin d’ora siamo figli di Dio, ma non è stato manifestato ciò che saremo». Giorno verrà in cui Cristo si manifesterà in gloria nella sua venuta (cfr. 2, 28); allora anche noi saremo manifestati con lui e «diventeremo simili a Dio perché lo vedremo com’è» (3, 2). Questo è l’oggetto della *speranza cristiana.
    IV. L’APOCALISSE
    L’Apocalisse di Giovanni è, per la stessa definizione, una rivelazione (Apoc 1, 1). Non più accentrata sulla vita terrena di Gesù, ma orientata verso la sua manifestazione finale, di cui la storia della Chiesa e del mondo intero contiene i prodromi. Profezia cristiana (1, 3), essa suppone che sia conosciuta la rivelazione della salvezza mediante la croce e la risurrezione di Cristo. A questa luce il veggente rilegge le antiche Scritture profetiche (cfr. 5, 1; 10, 8 ss). Possedendone ormai la chiave, se ne serve per esporre in tutta la sua pienezza il mistero di Cristo, dalla nascita (12, 5) e dalla immolazione in croce (1, 18; 5, 6), fino al suo avvento in gloria (19, 11-16). L’essenziale della sua testimonianza verte su quest’ultimo oggetto, questa venuta di Cristo a cui la Chiesa aspira (22, 17). Il suo libro nasce così al punto d’incontro di due rivelazioni divine, ugualmente sicure: quella che le Scritture condensano, e quella di Cristo che le ha compiute. Illuminando l’una con l’altra queste due fonti della conoscenza di fede, il veggente apporta loro un ultimo complemento. In grazia sua la Chiesa può veder chiaro nel suo destino storico, in cui la *persecuzione paradossalmente serve di mezzo alla *vittoria di Dio sul mondo e su Satana. Nel bel mezzo della loro prova i cristiani contemplano già nella fede la Gerusalemme celeste, in attesa che essa si riveli loro pienamente (22, 2...). Così la rivelazione di Gesù Cristo, che è «identico ieri, oggi e per sempre» (Ebr 13, 8), illumina tutta la storia del mondo, dall’inizio alla fine.
    B. RIGAUX e P. GRELOT
    → apparizioni di Cristo 1 - ascoltare 1 - castighi 3 - conoscere - Dio - disegno di Dio - fuoco - gloria III - immagine - Jahvè - luce e tenebre - mistero - monte II 1 - parabola II 1, III - parola di Dio VT II 1; NT I 1 - profeta VT I 2 - sapienza VT II 3; NT III 1 - segno - sogni - tradizione VT I - trasfigurazione - vedere - verità.

    RIVOLTA (inizio)

    → autorità VT II 2; NT II 3 - obbedienza II 1, IV - peccato - zelo Il.

    ROCCIA (inizio)

    Paolo, quando identifica il Signore Gesù con la roccia del deserto (1 Cor 10, 4), riunisce due temi fino allora distinti. Dio è la «roccia di Israele» (2 Sam 23, 3); dalla roccia, segno di aridità, Dio ha fatto scaturire l’acqua che dà la vita.
    1. Dio, saldo come la pietra.
    - La durezza della roccia ne fa un rifugio sicuro come il *monte per il fuggiasco. La cavità della roccia offre rifugio e salvezza (Ger 48, 28). Dio è chiamato la roccia d’Israele perché gli assicura la salvezza. Gli altri titoli divini che lo accompagnano sottolineano questo senso: Dio è cittadella, rifugio, bastione, scudo, torre munita (2 Sam 22, 2; Sal 18, 3. 32; 31, 4; 61, 4; 144, 2); in lui bisogna porre la propria *fiducia, perché egli è la roccia eterna (Is 26, 4; 30, 29) ed unica (44, 8). Rifugio sicuro, la roccia è anche un fondamento solido: Dio è roccia per la sua *fedeltà (Deut 32, 4; Sal 92, 16). Colui che ha *fede in lui, non vacillerà (Is 28, 16), ma colui che rifiuta di appoggiarsi su questa roccia, vi urterà contro, si spezzerà contro la pietra di *scandalo (Is 8, 14). Nel NT Cristo è la *pietra di base (Rom 9, 33; 1 Piet 2, 6 ss), colui grazie al quale possiamo mantenerci saldi, non in virtù di una sicurezza umana ma per la grazia del Dio fedele (1 Cor 10, 12 s). L’uomo che *ascolta la sua parola *edifica sulla pietra (Mt 7, 24). *Pietro, roccia sulla quale è fondata la Chiesa, è partecipe di questa stabilità (Mt 16, 18).
    2. La roccia sotto la mano di Dio.
    - La roccia, su cui non spunta nulla, è simbolo della *sterilità. *Abramo era una pietra, perché era *solo, prima che Dio lo benedicesse e lo moltiplicasse (Is 51, l s; cfr. Mt 3, 9). L’esistenza del popolo di Israele, tagliato in questa pietra, è un segno della onni*potenza di Dio. Sotto la sua *mano le rocce di Palestina portano messi (Deut 32, 13); più ancora, nel *deserto dell’aridità Dio attesta il suo dominio delle creature che ai nostri occhi appaiono in opposizione, facendo scaturire il liquido dal suolo arido: l’acqua zampilla dalla roccia di Meriba (Es 17, 6; Num 20, 10 s). In quest’*opera di Dio la pietà vede un’anticipazione delle meraviglie escatologiche (Sal 78, 15- 20; 105, 41; Is 43, 20). Al tempo della salvezza, un fiume uscirà dal tempio e trasformerà la terra santa in paradiso (Ez 47, 1-12; Zac 14, 8). Questo miracolo di grazia si realizza nel vangelo: Gesù, su cui lo Spirito ha riposato, apre ai suoi la fonte dell’acqua viva donando loro lo *Spirito (Gv 7, 37 ss; 19, 34); egli è la roccia del popolo nuovo in cammino verso la liberazione. Fin dal VT, afferma Paolo, egli era la roccia da cui il popolo traeva le vere *benedizioni del deserto (1 Cor 10, 4).
    M. PRAT
    → altare 1 - Dio VT IV – forza I 1 - ombra II 1 - pietra - Pietro (S.) - scandalo 1 1.

    ROMA (inizio)

    → Babele-Babilonia 6.

    ROSSO (MAR) (inizio)

    → esodo VT 2; NT 1 - mare 2.

    RUGIADA (inizio)

    → acqua I – cielo IV.

Home | A | B | C | D | E | F | G | H - I | J - K - L | M | N | O | P | Q | R | S | T | U | V | Z | Esci | Mappa generale del sito
Torna ai contenuti | Torna al menu