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→ Gesù (nome di) III - Gesù Cristo II 1 a - insegnare NT I l.
→ elemosina VT 2 - frutto - messe - seminare - vendemmia.
→ Chiesa I, II 1 - comunione VT 5; NT - corpo di Cristo III - dispersione - pasto - Pentecoste II 1 c – unità.
→ bestie e Bestia l.2.
→ fecondità - generazione - nazioni - padri e Padre I, II – popolo.
Nell’Oriente
antico l’istituto monarchico è sempre intimamente collegato alla concezione
mitica della regalità divina, comune alle diverse civiltà del tempo. Per tale
fatto, è una istituzione sacra che, in gradi diversi, appartiene alla sfera del
divino. In Egitto il faraone regnante è considerato come una incarnazione di
Oro; tutti i suoi atti sono quindi divini per natura e le funzioni cultuali gli
spettano di diritto. A Babilonia il re è l’eletto di Marduk, delegato da lui al
governo delle «quattro regioni», cioè di tutta la terra; capo civile e militare,
egli è pure il sommo sacerdote della città. Nei due casi la funzione regale fa
del suo titolare il *mediatore nato tra gli dèi e gli uomini. Non soltanto egli
deve assicurare a questi la giustizia, la vittoria, la pace; ma attraverso la
sua mediazione giungono tutte le benedizioni divine, compresa la fertilità della
terra e la fecondità umana ed animale. Così l’istituzione monarchica fa corpo
con le mitologie ed i culti politeistici. In epoca più tarda l’impero greco e
l’impero romano ne riprenderanno le idee fondamentali, quando divinizzeranno i
loro sovrani. Questo è lo sfondo su cui spicca, in tutta la sua originalità, la
rivelazione biblica. Il tema del *regno di Dio occupa nei due Testamenti un
posto capitale; quello della regalità umana si sviluppa in base all’esperienza
israelitica e serve infine a definire la regalità di Gesù Cristo. Ma da una
parte e dall’altra, l’ideologia subisce una purificazione radicale che la pone
in armonia con la rivelazione del *Dio unico. Sul secondo punto essa è perfino
completamente trasformata: da una parte, fin dall’origine, la monarchia come
istituzione temporale si distacca dalla sfera del divino; dall’altra parte, al
termine dello sviluppo dottrinale, la regalità di Cristo è di ordine diverso da
quello del mondo politico.
VECCHIO TESTAMENTO
La monarchia non appartiene alle istituzioni più fondamentali del *popolo di
Dio, confederazione di tribù legate dall’*alleanza. Tuttavia esisteva in Canaan
fin dall’epoca dei patriarchi (Gen 20), e nei piccoli popoli vicini fin
dall’epoca dell’esodo e dei giudici (Gen 35, 31-39; Num 20, 14; 21, 21.33; 22,
4; Gios 10-11; Giud 4, 2; 8, 5). Ma quando Israele adotta la rappresentazione
regale per applicarla al suo Dio, non ne trae alcuna conseguenza per le sue
istituzioni politiche: *Jahvè regna su Israele (cfr. Giud 8, 23; 1 Sam 8, 7; Es
19, 6) in virtù dell’alleanza, ma nessun re umano incarna la sua presenza in
mezzo al suo popolo.
I. L’ESPERIENZA MONARCHICA
1. Istituzione della monarchia.
- Al tempo dei giudici, Abimelech tenta di instaurare a Sichem una monarchia di
tipo cananeo (Giud 9, 1-7); l’istituzione urta contro una forte resistenza
ideologica (9, 8-20) e fallisce miseramente (9, 22-57). Dinanzi al pericolo
filisteo gli anziani di Israele incominciano a desiderare un re «che li giudichi
e conduca le loro guerre» (1 Sam 8, 19). Istituzione ambigua, che minaccia di
assimilare Israele alle «altre nazioni» (8, 5. 20); quindi uno dei racconti del
fatto attribuisce a Samuele un atteggiamento di opposizione (8, 6; 10, 17 ss;
12, 12). Ad ogni modo, Samuele consacra religiosamente l’istituzione nuova,
conferendo l’*unzione a Saul (9, 16 s; 10, 1) e presiedendo alla sua
intronizzazione (10, 20-24; 11, 12-15). Ma la monarchia si inserisce in una
cornice più ampia, di cui il patto di alleanza fissa sempre i tratti
fondamentali: Saul è, al pari dei giudici, un capo carismatico guidato dallo
*spirito di Jahvè (10, 6 ss), che conduce la *guerra santa (11). Gli succede,
anch’esso come capo carismatico di provato valore, David, dapprima in Giuda (2
Sam 2, 1-4), poi in Israele (5, 1 ss). Tuttavia, con lui, la monarchia fa un
passo avanti: il regno si organizza politicamente sul modello degli stati
vicini, e soprattutto la profezia di Natan fa della dinastia davidica una
istituzione permanente del popolo di Dio, depositaria delle promesse divine (7,
5-16). La speranza del popolo di Dio sarà quindi legata ormai alla regalità
davidica, almeno nel Sud del paese (cfr. Num 24, 17; Gen 49, 8-12) dove
l’istituzione conserverà sempre la sua forma dinastica. Al Nord, invece, gli
ambienti religiosi tenderanno a conservarle una forma carismatica, e si vedranno
profeti suscitare vocazioni regali (1 Re 11, 26-40; 2 Re 9).
2. Le funzioni regali.
- In Israele il re non appartiene, come nelle civiltà circostanti, alla sfera
del divino. Rimane sottomesso, al pari degli altri uomini, alle esigenze
dell’alleanza e della legge, come i profeti, all’occasione, non mancano di
ricordare (cfr. 1 Sam 13, 8-15; 15, 10-30; 2 Sam 12, 1-2; 1 Re 11, 31-39; 21,
17-24). Egli tuttavia è una persona sacra, di cui bisogna rispettare l’*unzione
(1 Sam 24, 11; 26, 9). A partire da David, la sua situazione in rapporto a Dio
si precisa: Dio fa di lui il suo *figlio adottivo (2 Sam 7, 14; Sal 2, 7; 89, 27
s), depositario dei suoi poteri e posto virtualmente a capo di tutti i re della
terra (Sal 89, 28; cfr. 2, 8-12; 18, 44 ss). Se è fedele, Dio gli promette la
sua protezione. Con le *vittorie sul nemico esterno, dovrà assicurare la
prosperità del suo popolo (cfr. Sal 20; 21) e, all’interno, far regnare la
*giustizia (Sal 45, 4-8; 72, 1-7. 12 ss; Prov 16, 12; 25, 4 s; 29, 4. 14). Le
sue funzioni temporali si collegano così allo scopo fondamentale dell’alleanza e
della *legge. Inoltre, come capo del popolo di Dio, egli esercita all’occasione
talune funzioni cultuali (2 Sam 6, 17 s; 1 Re 8, 14. 62 s), che permettono di
parlare di un *sacerdozio regale (Sal 110, 4). L’ideale del re fedele (Sal 101),
giusto, pacifico, corona così in qualche modo tutto l’ideale nazionale:
l’esercizio del potere regale deve far entrare questo ideale nei fatti.
3. Ambiguità dell’esperienza monarchica.
- Tuttavia i libri storici e profetici mettono in rilievo l’ambiguità
dell’esperienza monarchica. In tutta la misura in cui i re rispondono all’ideale
che è loro assegnato, i profeti li sostengono e gli storici non mancano di farne
l’elogio; così per David (Sal 78, 70; 89, 20-24), Asa (1 Re 15, 11-15), Josafat
(1 Re 22, 43), Ezechia (2 Re 18, 3-7), Giosia (2 Re 23, 25). Ma la gloria di
Salomone è già più equivoca (1 Re 11, 1-13). Infine i re cattivi sono numerosi,
sia in Israele (1 Re 16, 25 ss. 30-33) che in Giuda (2 Re 16, 2 ss; 21, 1-9). Di
fatto la monarchia israelitica è costantemente tentata, soprattutto nel Nord, di
allinearsi sull’esempio dei monarchi pagani circostanti, non soltanto copiando
il loro dispotismo (già denunciato da 1 Sam 8, 10-18), ma cadendo di
un’*idolatria favorita d’altronde dalla concezione mitica della regalità divina.
Perciò il movimento profetico denuncia continuamente i suoi abusi e mostra nelle
calamità nazionali il castigo meritato dai re (cfr. Is 7, 10 ss; Ger 21- 22; 36
- 38; 2 Re 23, 26 s). Osea condanna la stessa istituzione monarchica (Os 8, 4).
Il Deuteronomio, sforzandosi di disciplinarla, pone i monarchi in guardia contro
l’imitazione dei re pagani (Deut 17, 14-20).
4. I re pagani.
- Nei confronti dei re pagani l’atteggiamento dei libri sacri presenta delle
sfumature. Come ogni *autorità terrena, essi hanno il loro potere da Dio; Eliseo
interviene persino in nome di Dio per suscitare a Damasco la rivolta di Hazael
(2 Re 8, 7-15; cfr. 1 Re 19, 15). Possono avere *missioni provvidenziali nei
confronti del popolo di Dio: a Nabuchodonosor Dio dà il dominio su tutto
l’Oriente, compreso Israele (Ger 27), poi suscita Ciro per abbassare Babilonia e
liberare i Giudei (Is 41, 1-4; 45, 1-6). Ma tutti restano soggetti alle sue
esigenze, ed egli pronunzia i suoi giudizi per castigare il loro *orgoglio
sacrilego (Is 14, 3-21; Ez 28, l-19) e le loro *bestemmie (Is 37, 21-29).
Anch’essi dovranno piegarsi, quando sarà giunta l’ora, dinanzi alla sua regalità
suprema e dinanzi al potere del suo unto (Sal 2; 72, 9 ss).
II. VERSO LA REGALITÀ FUTURA
1. Le promesse profetiche.
- Giudicando la esperienza monarchica da un punto di vista puramente religioso,
parecchi profeti l’hanno ritenuta in definitiva disastrosa. Osea ne ha
annunziato la fine (Os 3, 4 s). Geremia ha preso lucidamente in considerazione
l’abbassamento della dinastia davidica (cfr. Ger 21-22), alla quale Isaia
mostrava ancora tanto attaccamento. Nella prospettiva degli «ultimi tempi»
l’insieme dei profeti lascia intravvedere la realizzazione perfetta del disegno
divino manifestato dalla vocazione di David ed abbozzato in *figura in qualche
raro successo. Nel sec. VIII Isaia volge gli occhi verso il re futuro di cui
saluta la nascita (Is 9, 1-6): egli darà al popolo di Dio la *gioia, la
*vittoria, la *pace e la *giustizia. Questo rampollo di Jesse, animato dallo
*spirito di Jahvè, farà regnare la *giustizia (cfr. 32, 1-5) così bene, che il
paese tornerà ad essere un *paradiso terrestre (11, 1-9). Michea professa la
stessa fiducia nella sua venuta (Mi 5, 1-5). Geremia, nel momento stesso in cui
avviene la caduta della dinastia, annunzia il regno futuro del germoglio giusto
di David (Ger 23, 5 s). Ezechiele, pur professando la stessa fede fondamentale,
segna tuttavia una svolta. Al nuovo David, *pastore di Israele, egli non accorda
che il titolo meno splendido di principe (Ez 34, 23 s; 45, 7 s); risalendo oltre
l’epoca regia, il profeta cerca quindi l’ideale di Israele nella teocrazia dei
tempi mosaici. Ponendo quindi al centro della sua speranza questa teocrazia
(cfr. Is 52, 7), il messaggio di consolazione non esclude tuttavia il compimento
delle promesse fatte a David (Is 55, 3; cfr. Sal 89, 35-38).
2. Nell’attesa delle promesse.
- L’esperienza della monarchia ebbe termine nel 587. Tutto sommato, non
era stata che una parentesi nella storia di Israele; ma aveva segnato
profondamente gli spiriti. Durante l’esilio si soffre per 1’umiliazione della
dinastia (Lam 4, 20; Sal 89, 39-52) e si prega per la sua restaurazione (Sal 80,
18). Per un momento la missione di Zorobabele (Esd 3) fa sperare che questo
«germoglio di David» ristabilirà la monarchia nazionale (Zac 3, 8 ss; 6, 9-14);
ma la speranza dura poco. Il giudaismo postesilico, riorganizzato sotto una
forma teocratica, è sottomesso all’autorità dei re pagani, che proteggono
liberamente la sua autonomia (cfr. Esd 7, 1-26) e per i quali esso prega
ufficialmente (6, 10; 1 Mac 7, 33). A misura che la durata della prova nazionale
si prolunga, gli occhi si rivolgono piuttosto verso gli «ultimi tempi»
annunziati dai profeti. L’attesa del *regno di Dio costituisce il punto centrale
della speranza escatologica. Ma in questa cornice l’attesa del re futuro occupa
sempre un posto importante. Gli antichi salmi regali sono riferiti ad esso (Sal
2; 45; 72; 110), ed alla loro luce ci si raffigura il suo regno. L’immagine di
un re giusto, vittorioso e pacifico (Zac 9, 9 s) si profila all’orizzonte.
Quanto ai re pagani, ora vengono dipinti come soggetti al suo potere e partecipi
del culto del vero Dio (cfr. Is 60, 16), ora si annunzia il loro giudizio e la
loro condanna (Is 24, 21 s) se si sono levati contro il regno di Jahvè (Dan 7,
17-27).
3. Alle soglie del NT.
- La restaurazione della monarchia da parte della dinastia asmonea, nel
momento in cui la corrente apocalittica si rifugia nell’attesa di un intervento
miracoloso di Dio (cfr. Dan 2, 44 s; 12, 1), non è nella linea della speranza
tradizionale. Come la rivolta di Giuda si collega alla ideologia delle antiche
*guerre sante (cfr. 1 Mac 3), così la concentrazione dei poteri nelle mani di
Simone (1 Mac 14) appare in seguito come una innovazione. Inoltre la monarchia
asmonea adotta rapidamente costumi e metodi di governo in onore presso i re
pagani. Perciò i *Farisei la rifiutano, per fedeltà alla regalità davidica,
nella quale deve nascere il *Messia (cfr. Salmi di Salomone). Parallelamente, la
corrente essenica si oppone ad un *sacerdozio che ritiene illegittimo, ed
aspetta la venuta dei «due messia di Aronne e di Israele» (il sommo sacerdote ed
il re davidico che gli sarà subordinato). Dopo gli Asmonei il potere d’altronde
passa alla dinastia di Erode, che agisce sotto controllo romano. Accantonata dai
Sadducei, che si adattano a questo stato di cose, l’attesa del re escatologico è
ardente in tutto il popolo giudaico. Ma pur conservando il suo obiettivo
religioso - il regno finale di Dio -, essa riveste generalmente un carattere
politico molto accentuato: si aspetta dal re-messia la liberazione di Israele
dalla oppressione straniera.
NUOVO TESTAMENTO
Il messaggio del NT ha come centro il tema, essenzialmente religioso, del *regno
di Dio. Quello della regalità messianica, radicarlo nell’esperienza di Israele e
fondato sulle promesse profetiche, serve ancora a definire la funzione di Gesù,
artefice umano del regno. Ma per trovare il suo posto nella rivelazione completa
della *salvezza, esso si spoglia totalmente delle sue risonanze politiche.
I. LA REGALITÀ DI GESÙ DURANTE LA SUA VITA TERRENA
1. Gesù è re?
- Durante il suo ministero pubblico Gesù non cede mai all’entusiasmo
*messianico delle folle, troppo intriso di elementi umani e di speranze
temporali. Non si oppone né all’*autorità del tetrarca Erode, che tuttavia
sospetta in lui un concorrente (Lc 13, 31 ss; cfr. 9, 7 s), né a quella
dell’imperatore romano, al quale è dovuto il tributo (Mc 12, 13-17 par.): la sua
*missione è di altro ordine! Egli non rifiuta l’atto di fede messianica di
Natanaele («Tu sei il re di Israele», Gv 1, 49); ma indirizza i suoi sguardi
verso la parusia del *figlio dell’uomo. Quando, dopo la moltiplicazione dei
pani, la folla vuole rapirlo per farlo re, egli si sottrae (Gv 6, 15). Si presta
tuttavia una volta ad una manifestazione pubblica in occasione del suo ingresso
trionfale a Gerusalemme: mostrandosi in umile pompa, conforme all’oracolo di
Zaccaria (Mt 21, 5; cfr Zac 9, 9), si lascia acclamare come il re di Israele (Lc
19, 38; Gv 12, 13). Ma quello stesso successo affretterà l’ora della sua
passione. Infine, egli parla ai suoi del suo regno in una prospettiva puramente
escatologica, nel momento in cui sta per iniziarsi la passione (Lc 22, 29 s).
2. La passione e la regalità di Gesù.
- L’interrogatorio di Gesù durante il suo *processo religioso verte sulla sua
qualità di *messia e di *Figlio di Dio. In compenso, nel suo processo civile
dinanzi a Pilato, è in causa la sua regalità; gli evangelisti ne approfittano
per far vedere che la sua passione ne è la rivelazione paradossale. Interrogato
da Pilato («Sei tu il re dei Giudei?», Mc 15, 2 par.; Gv 18, 33. 37), Gesù non
rinnega questo titolo (Gv 18, 37), ma precisa che il suo «*regno non è di questo
mondo» (Gv 18, 36), per modo che egli non può fare concorrenza a Cesare (cfr. Lc
23, 2). Nell’accecamento della loro incredulità, le autorità giudaiche giungono
allora a riconoscere a Cesare un potere politico esclusivo per meglio respingere
la regalità di Gesù (Gv 19, 12-15). Ma questa si manifesta attraverso gli stessi
atti che la scherniscono: dopo la flagellazione i soldati lo salutano con il
titolo di re dei Giudei (Mc 15, 18 par ); la iscrizione della croce porta: «Gesù
di Nazaret, re dei Giudei» (Gv 19, 19 ss par.); i presenti si accaniscono nello
schernire questa regalità da burla (Mt 27, 42 par.; Lc 23, 37); ma il buon
ladrone, riconoscendone la vera natura, prega Gesù di «ricordarsi di lui quando
verrà nel suo regno» (Lc 23, 42). Di fatto Gesù conoscerà la gloria regale, ma
ciò avverrà per mezzo della sua *risurrezione e della sua parusia nell’ultimo
giorno. Venuto, come il pretendente della parabola, per ricevere il regno, e
rinnegato dai suoi concittadini, egli sarà nondimeno investito e ritornerà per
domandare i conti e *vendicarsi dei suoi *nemici (Lc 19, 12-15. 27). Sulla
*croce questa regalità sfolgora per chi sa vedere le cose con uno sguardo di
fede: Vexilla regis prodeunt, fulget crucis mysterium, «Gli stendardi del Re
avanzano, il mistero della croce risplende» (Inno del tempo della Passione).
II. LA REGALITÀ DI CRISTO RISORTO
1. La regalità attuale del Signore.
- *Gesù Cristo risorto è entrato nel suo regno. Ma prima deve far comprendere ai
suoi *testimoni la natura di questo regno messianico, così diverso da quello che
i Giudei si aspettano: non si tratta di restaurare la monarchia a vantaggio di
Israele (Atti 1, 6); il suo regno si stabilirà mediante l’annunzio del suo
*vangelo (Atti 1, 8). Egli, tuttavia, è re, come proclama la *predicazione
cristiana, che gli applica le Scritture profetiche: il re di giustizia del Sal
45, 7 (Ebr 1, 8), il re-sacerdote del Sal 110, 4 (Ebr 7, 1). Lo era
misteriosamente fin dall’inizio della sua vita terrena, come sottolineano gli
evangelisti raccontando la sua infanzia (Lc 1, 33; Mt 2, 2). Ma la sua regalità,
«che non è di questo *mondo» (Gv 18, 36) e che non vi è rappresentata da nessuna
monarchia umana cui Gesù abbia delegato i suoi poteri, non fa in alcun modo
concorrenza a quella dei re terreni. I cristiani ne diventano sudditi quando Dio
li «strappa al potere delle tenebre per trasferirli nel regno del Figlio suo,
nel quale hanno la redenzione» (Col l, 13). ciò non impedisce loro di
sottomettersi poi ai re di questo mondo e di onorarli (1 Piet 2, 13. 17), anche
se questi re sono pagani: depositari dell’*autorità, basta che essi non la
oppongano all’autorità spirituale di Gesù. Il dramma sta nel fatto che talvolta
si levano contro di essa, realizzando la profezia del Sal 2, 2. Ciò avvenne già
al momento della passione (Atti 4, 25 ss). Ciò avviene nel corso della storia
quando questi re terreni, fornicando con *Babilonia (Apoc 17, 2) e lasciandola
regnare su di sé (17, 18), per ciò stesso partecipano alla regalità satanica
della *bestia (17, 12): allora, inebriati del loro potere, diventano i
persecutori della Chiesa e dei suoi figli, come la stessa Babilonia che si
ubriaca del sangue dei *martiri di Gesù (17, 6).
2. Il regno di Cristo alla parusia.
- Nel quadro simbolico degli ultimi tempi tracciato dall’Apocalisse, la crisi
finale si aprirà quindi con una campagna di tutti questi re contro 1’*agnello:
avendo rimesso il loro potere alla *bestia (Apoc 17, 13), essi si raduneranno in
vista del grande *giorno (16, 14), ma l’agnello li vincerà (cfr. 19, 18 s),
«perché è il re dei re ed il *Signore dei signori» (17, 14; 19, 1 ss; cfr. 1,
5). La sua parusia sarà la manifestazione folgorante del suo regno e nello
stesso tempo del regno di Dio (11, 15; 2 Tim 4, 1): secondo l’oracolo di Is 11,
4, il re figlio di *David annienterà allora l’*anticristo mediante la
manifestazione della sua parusia (2 Tess 2, 9). Egli poi rimetterà il regno al
*Padre suo, perché, secondo il testo del Sal 110, 1, bisogna che egli regni
«fino a quando Dio abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi» (l Cor
15, 24 s). Al termine della *guerra escatologica, che egli condurrà come Verbo
di Dio, governerà i suoi nemici, secondo il Sal 2, 9, con uno scettro di ferro (Apoc
19, 15 s). Allora, in compartecipazione al suo regno (cfr. 1 Cor 15, 24), tutti
i martiri, decapitati perché hanno rifiutato di adorare la *bestia,
risusciteranno per regnare con lui e con Dio (Apoc 20, 4 ss; cfr. 5, 10).
Parteciperanno così, secondo la promessa di Dan 7, 22. 27, al regno eterno del
*figlio dell’uomo. Non è forse questo ciò che Gesù stesso aveva promesso ai
Dodici nell’ultima cena: «Io dispongo per voi del regno, e voi siederete su
troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Lc 22, 29 s; cfr. Apoc 7, 4-8.
15)?
P. GRELOT
→ ascensione II 0 - autorità VT Il 1 - David - elezione VT I 3 c -
figlio di Dio VT II - Gesù Cristo II 1 c - gloria I, III 2 - madre I 3 -
mediatore I 1 - Melchisedech 2 - Messia - olio 2 - ombra II 1 - padri e Padre I
1, III 4 - pastore e gregge 0 - preghiera I 2 - profeta VT I 3 - regno -
sacerdozio VT I 3, III 2 - Signore VT; NT 2 - veste I 2 - vacazione I.
La nozione di
«redenzione» (gr. lýtrosis o apolýtrosis) in virtù della quale Dio «libera» o
«riscatta» (gr. lytroùsthai) il suo popolo, e quella, molto affine, di
«acquisizione» (gr. peripòiesis), in virtù della quale egli l’«acquista» (gr.
agoràzein), sono strettamente collegate nella Bibbia all’idea di «*salvezza»:
designano il mezzo privilegiato scelto da Dio per salvare Israele liberandolo
dalla schiavitù egiziana (Es 12, 27; 14, 13; cfr. Is 63, 9) e costituendolo suo
«popolo particolare» (Es 19, 5; Deut 26, 18); nel NT, un testo come Tito 2, 13
s, riflesso visibile di una catechesi primitiva, rivela chiaramente la fonte a
cui si riferisce l’autore per descrivere l’opera di Cristo: Gesù è «salvatore»
in quanto ci «redime da ogni iniquità» e «purifica un popolo che è sua
proprietà». Appare così la continuità del disegno salvifico, senza che sia
tuttavia negato ciò che offre di nuovo e di imprevedibile il compimento di ogni
vera profezia.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Esodo ed Alleanza.
- Il VT parla per lo più di «redenzione» a proposito dell’*esodo:
l’esperienza religiosa, che allora fece Israele, permette di afferrare nel
miglior modo il contenuto di questa nozione. Infatti nella coscienza ebraica
l’esodo non si può dissociare dall’*alleanza: Dio non strappa il suo popolo alla
*schiavitù se non per legarlo a sé: «Io sono Jahvè,... io vi salverò dalla
schiavitù... e vi libererò (“redimerò”) colpendo forte... Io vi adotterò come
mio popolo e sarò il vostro Dio» (Es 6, 6 s; cfr. 2 Sam 7, 23 s). In virtù
dell’alleanza, Israele diventa un popolo «santo», «consacrato a Jahvè», il
«popolo particolare» di Dio (Es 19, 5 s). «Popolo santo» e «redenti da Jahvè»
sono due equivalenti (Is 62, 11 s) e Geremia può datare l’alleanza dal giorno in
cui «Dio ha preso per mano il suo popolo per farlo uscire dall’Egitto» (Ger 31,
32). La nozione di redenzione è quindi essenzialmente positiva: l’unione con Dio
non vi è affermata meno della *liberazione dalla schiavitù del peccato. Tale è
d’altronde il senso etimologico del termine latino redemptio: designa
innanzitutto una «compera» (emere) che non ci «libera» (cfr. red-) se non per
«acquistarci» a Dio; la stessa cosa vale della parola inglese «atonement», che
lo traduce abitualmente, ed il cui senso originale è «riunione»,
«riconciliazione» («at - one - ment»).
2. La redenzione messianica.
- I profeti riprendono intenzionalmente le stesse formule a proposito della
liberazione dall’*esilio, ed il «redentore» diventa allora uno dei titoli
preferiti di Jahvè, specialmente nel Deutero-Isaia. Nessuno si stupirà che
l’oggetto della grande speranza messianica sia ancora espresso in termini di
«redenzione»: «Presso Jahvè è la grazia, presso di lui l’abbondanza del
“riscatto”, egli “riscatterà” Israele da tutte le sue colpe» (Sal 130, 7 s). Più
di tutti Ezechiele sottolinea l’assoluta gratuità di una simile «redenzione»
accordata a dei peccatori (Ez 16, 60-63; 36, 21 ss); precisa inoltre la natura
di questa «nuova alleanza», e mentre in Ger 31, 33, Jahvè aveva detto: «Porrò la
mia legge nel loro intimo», in Ez 36, 27 dichiara: «Porrò il mio *Spirito nel
vostro intimo». La redenzione consisterà nella comunicazione dello Spirito
stesso di Jahvè, a guisa di legge (cfr. Gv 1, 17. 29. 33; 7, 37 ss; Rom 8, 2-4).
NUOVO TESTAMENTO
1. La continuità con il VT.
- Il riferimento a questo contesto messianico è talvolta esplicito: Zaccaria
celebra il Dio che «ha redento il suo popolo» e la profetessa Anna parla del
bambino a «tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 1, 68;
2, 38). Il termine «redenzione», come la maggior parte delle nozioni messianiche
derivate dal VT, che possono applicarsi sia al primo che al secondo avvento di
Cristo, non serve quindi soltanto a designare l’opera compiuta da Cristo sul
Calvario (Rom 3, 24; col 1, 14; Ef 1, 7), ma anche quella che egli compirà alla
fine dei tempi al momento della parusia e della risurrezione gloriosa dei corpi
(Lc21, 28; Rom 8, 23; Ef 1, 14; 4, 30; 1 Cor 1, 30 [?]); e nei due casi si
tratta di una liberazione, ma più ancora forse di una «acquisizione», di una
«presa di possesso da parte di Dio», dapprima iniziale, poi definitiva, quando
l’uomo, corpo ed anima, e con lui l’universo, «entreranno nella pienezza di Dio»
(Ef 3, 19): allora Dio sarà «tutto in tutti» (l Cor 15, 28), anzi «tutto in
tutto» (Ef l, 23). Questa, d’altronde, è la ragione per cui il NT ha potuto
esprimere la stessa nozione mediante il verbo «comperare» (gr. agorà-ein, 1 Cor
6, 20; 7, 23; cfr. Gal 3, 13; 4, 5). Non già che esso abbia voluto assimilare la
redenzione ad una transazione commerciale regolata dalla legge della equivalenza
o della compensazione, in cui il carceriere non accetta di consegnare il suo
prigioniero oppure il venditore la sua mercanzia, se non alla condizione di non
perderci nulla! Esso intendeva senza dubbio significare che noi siamo diventati
la proprietà di Dio in virtù di un contratto, le cui condizioni sono state tutte
adempiute, specialmente quella che non si mancava di segnalare: la somma è stata
versata (1 Cor 6, 20; 7, 23; cfr. 1 Piet 1, 18). Ma bisogna notare che qui si
ferma la metafora; non si fa mai questione di una persona che reclami oppure
riceva il prezzo della compera. Di fatto anche qui il NT sembra riferirsi alla
nozione di acquisizione quale era conosciuta dal VT; in ogni caso con lo stesso
verbo «comperare» l’Apocalisse si riferisce esplicitamente al fatto del Sinai:
nel *sangue dell’agnello gli uomini di tutte le nazioni sono diventati proprietà
particolare di Dio, come già Israele lo era diventato in virtù dell’alleanza
suggellata anch’essa nel sangue (Apoc 5, 9); mentre Atti 20, 28, per evocare la
stessa realtà, conserva il termine proprio del VT e parla della «Chiesa di Dio
che egli si è acquistata con il proprio sangue» (cfr. 1 Piet 2, 9; Tito 2, 14).
D’altronde l’interpretazione risale a Cristo in persona: la cornice pasquale
scelta deliberatamente ed il ricordo esplicito del sangue dell’alleanza erano
abbastanza chiari perché nessuno potesse essere tratto in inganno (Mt 26, 28
par.; 1 Cor 11, 25).
2. La morte volontaria di *Gesù Cristo.
- Ma il NT sottolinea non meno nettamente la distanza che separa la
*figura dal suo *compimento. La nuova alleanza, come l’antica, è suggellata nel
sangue; ma questo sangue è quello del Figlio stesso di Dio (1 Piet 1, 18 s; Ebr
9, 12; cfr. Atti 20, 28; Rom 3, 25). Redenzione «costosa»: alla immolazione di
vittime senza ragione succede il *sacrificio personale e volontario del *servo
di Jahvè che «ha dato la propria vita alla morte» (Is 53, 12) e «ha ben servito
la comunità» (53, 11 LXX). Gesù «non è venuto per essere servito, ma per
*servire e per dare la sua vita in riscatto per la comunità» (Mt 20, 28; Mc 10,
45): il suo sacrificio sarà lo strumento della nostra liberazione (lytron). Il
racconto giovanneo della passione vuol mettere in rilievo appunto questo
carattere volontario della morte di Cristo (ad es. Gv 18, 4-8), come lo fa
ancora più chiaramente, se è possibile, nei sinottici, il racconto della cena
*eucaristica, in cui Cristo si vota letteralmente in anticipo alla morte.
3. La vittoria di Cristo sulla morte.
- Per i discepoli questa *morte era stata uno *scandalo, la prova che Cristo non
era il «redentore» atteso (Lc 24, 21). Illuminati dalla esperienza di Pasqua e
da quella della Pentecoste, divenuti testimoni della *risurrezione (Atti 1, 8;
2, 31 s; ecc.), essi comprendono che la passione e la morte del loro maestro,
lungi dal costituire un fallimento del disegno salvifico di Dio, lo compivano
«secondo le Scritture» (1 Cor 15, 4); la *pietra rigettata dai costruttori è
diventata la pietra d’angolo (Mt 21, 42 par.; Atti 4, 11 = Sal 118, 22; 1 Piet
2, 7), fondamento del nuovo *tempio; il *servo è stato veramente «esaltato»
(Atti 2, 33; 5, 31) e «glorificato» (3, 13), secondo i due termini desunti da Is
52, 13; più ancora, egli lo è stato «per aver dato la sua *anima alla morte» (Is
53, 12; Fil 2, 9). Sconfitta apparente, la morte di Cristo era in realtà una
*vittoria sulla morte e su *Satana, autore della morte (cfr. Gv 12, 31 s; Ebr 2,
14).
4. Morte e risurrezione.
- Nella prima predicazione del mistero redentore la *risurrezione ha
una parte tale che talvolta viene ricordata da sola (ad es. 1 Piet 1, 3) con la
parusia (1 Tess 1, 10). Ma gli apostoli, guidati dallo Spirito Santo,
distingueranno sempre più nettamente nella passione e nella risurrezione due
avvenimenti non soltanto ordinati l’uno all’altro (ad es. Fil 2, 9), ma che si
compenetrano vicendevolmente al punto da costituire due aspetti indissociabili
di un unico mistero di *salvezza. Così Luca ha cura di collocare sotto il segno
della *ascensione (Lc 9, 51) tutto il lungo racconto della salita di Gesù a
Gerusalemme e, in cambio, quando descrive la vita «gloriosa» di Cristo, di
ricordare con una voluta insistenza la sua passione e la sua morte (24, 7. 26.
39. 46; cfr. 9, 31). Similmente Paolo, anche là dove non ricorda che la morte,
non cessa di pensare anche alla risurrezione: la vita, alla quale fa così spesso
allusione, è sempre concepita come una partecipazione a quella del risorto (ad
es. Gal 2, 20; 6, 14 s; Rom 6, 4. 11; 8, 2. 5). Infine, in Giovanni, l’unità del
mistero è così profonda che i termini, i quali nella catechesi primitiva
designavano la risurrezione di Gesù, hanno potuto essere usati per designare
nello stesso tempo la passione e la glorificazione di Cristo (Gv 12, 23. 32.
34); così pure l’agnello dell’Apocalisse appare al veggente di Patmos «in
piedi», in segno di risurrezione, e nello stesso tempo «come sgozzato», in segno
di immolazione (Apoc 5, 6).
5. Mistero d’amore.
a) S. Giovanni. - Per Giovanni, infatti, il mistero redentore
è essenzialmente un mistero di amore e, per conseguenza, di vita divina, poiché
«Dio è amore» (1 Gv 4, 8). Amore del Padre, certamente, che ha «tanto amato il
mondo da dargli il suo Figlio unico» (Gv 3, 16; 17, 23; 1 Gv 4, 9); ma parimenti
amore del Figlio per il Padre (Gv 14, 31) e per gli uomini (10, 11; 1 Gv 3, 16;
Apoc 1, 5); amore che egli riceve dal Padre suo da cui dipende in tutto e,
pertanto, amore «obbediente» (Gv 14, 31); amore, infine, del quale non ne esiste
uno maggiore (15, 13). Infatti, se tutta la vita di Cristo fu «amore per i
suoi», la passione è il momento in cui egli «li amò fino alla fine», fino alla
«consumazione» (gr. telos) dell’amore (13, 1): il che significa, in concreto,
fino ad accettare di essere tradito da uno dei Dodici (18, 2 s), rinnegato dal
loro capo (18, 25 ss), condannato come bestemmiatore in nome della stessa legge
(19, 7), e di morire del supplizio più infamante, quello della croce, come uno
scellerato il cui cadavere appeso al patibolo contaminava la terra di Israele
(19, 31). In quel momento preciso egli può dichiarare in tutta verità che «è
compiuto» (19, 30: gr. tetèlestai) - ha raggiunto la sua «attuazione» suprema -
l’amore del Padre quale era rivelato nelle Scritture e si era incarnato nel
cuore umano di Gesù. E se egli muore per amore, lo fa per comunicate questo
amore agli uomini, suoi fratelli: dal costato «trafitto» (19, 37; Zac 12, 10),
Giovanni vede scaturire «la sorgente aperta alla casa di David ed agli abitanti
di Gerusalemme, per il peccato e l’impurità» (Zac 13, 1; Ez 47, 1 ss), preludio
della effusione di quello *spirito (Gv 20, 22) che Giovanni Battista aveva visto
discendere al *battesimo e fermarsi sul Messia (1, 32 s).
b) S. Paolo - Ora questo aspetto non presenta minor
rilievo in Paolo. Anche egli vede anzitutto nella morte di Cristo un mistero di
amore: amore del Padre (Rom 5, 5-8; 8, 39; Ef 1, 3-6; 2, 4; cfr. Col 1, 13),
«quando ancora noi eravamo peccatori» (Rom 5, 8), suoi «nemici» (5, 10); amore
del Figlio sia per il Padre, sotto la forma di *obbedienza che ripara in tal
modo la disobbedienza del primo Adamo (5, 19; Fil 2, 6), sia per gli uomini (Rom
5, 7 s; 8, 34). A questo proposito non soltanto Paolo riprende la formula della
catechesi primitiva (cfr. Mc 10, 45), che si ispirava verosimilmente ad Is 53,
10. 12, e dichiara che «Cristo si è dato per noi» o «per i nostri peccati» (Gal
1, 4; 1 Tim 2, 6; Tito 2, 14), ma ci tiene a precisare che lo ha fatto «perché
mi ha amato» (Gal 2, 20; Ef 5, 2. 25). Al pari di Giovanni egli sa che non c’è
amore maggiore del morire per coloro che si amano (Gv 15, 13); in altre parole,
che ogni amore umano è condizionato, «influenzato» dalle circostanze in cui si
attua. A circostanze eccezionali corrisponde necessariamente un amore
eccezionale; più precisamente, ricevendo questo amore dal Padre suo, Cristo lo
ha ricevuto in grado supremo in funzione delle circostanze stesse in cui il
Padre lo collocò. Paolo, quindi, nell’affermazione che «Dio non ha risparmiato
il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti» (Rom 8, 32), vede la prova
per eccellenza della «carità di Cristo» (8, 35), meglio, della «carità di Dio in
Cristo nostro Signore» (8, 39). Tra tutte queste circostanze Paolo, al pari di
Giovanni, evoca specialmente l’infamia del supplizio della *croce, di cui i
primi cristiani sembrano aver sentito in modo particolare l’obbrobrio (cfr. Atti
5, 30; 10, 39): come già il *servo, che «era considerato come un colpito da Dio»
(Is 53, 4), il «giusto» ha accettato di apparire agli occhi del mondo come un
«*maledetto», violatore della legge (Gal 3, 13). Per Cristo non si poteva
concepire umiliazione più profonda (Fil 2, 8), ma anche, per ciò stesso, atto di
obbedienza e di amore più sublime, dal momento che una simile morte era
accettata, voluta. Proprio con ciò Cristo «redime» l’umanità, «l’acquista al
Padre suo».
6. Vittoria sul peccato nella carne.
- D’altra parte, poiché si tratta dell’atto di un membro della nostra umanità,
che condivide pienamente la nostra condizione mortale, pur superandola con la
sua divinità, l’umanità viene ad essere «redenta», «acquistata a Dio», mediante
una trasformazione che si compie nel suo interno. Secondo Giovanni, sulla croce,
«il principe di questo mondo è stato condannato» (Gv 16, 11), cioè «cacciato
fuori» (12, 31; cfr. Apoc 12, 9 s), privato del suo dominio. Dichiarando che
«Dio ha condannato il peccato nella carne» (Rom 8, 3), come nella «lotta
escatologica» predetta da Ez 38-39 (cfr. 38, 22 s; 39, 21 s, preludio
all’instaurazione dei tempi messianici (40-42), Paolo precisa che questa
vittoria di Dio per mezzo del suo Cristo sul *peccato, si è compiuta proprio là
dove Satana credeva di regnare per sempre, «nella carne»; spiega che a questo
fine «Dio mandò il suo Figlio nella rassomiglianza di una carne di peccato»,
cioè una condizione in cui la *carne di Cristo, senza essere come la nostra
«strumento di peccato», era nondimeno, come la nostra, passibile e mortale a
motivo del peccato; ed il contesto mostra che, per l’apostolo, Dio ha trionfato
del peccato nella carne, comunicando la vita dello spirito (8, 2. 4) a questa
carne stessa, a quella di Cristo divenuto, attraverso la sua morte e la sua
risurrezione, «spirito vivificatore» (1 Cor 15, 45), ed anche alla nostra,
perché ormai «noi non siamo più nella carne, ma nello spirito» (Rom 8, 9; cfr.
8, 4). Il «ritorno a Dio», la «redenzione» si è effettuata in quanto Cristo è
passato dallo stato «carnale» allo stato «spirituale», e noi in lui. Altrove,
con una formula particolarmente ardita, Paolo dichiara che «Dio ha fatto il
Figlio suo peccato per noi, affinché in lui divenissimo giustizia di Dio» (2 Cor
5, 21). Sembra che queste espressioni, di cui si è sovente abusato, possano
essere interpretate in funzione dello stesso contesto: affinché in Cristo, per
solidarietà con lui divenuto uno di noi, fossimo soggetti agli effetti benefici
di questa potenza di vita, che la Bibbia e Paolo chiamano la «*giustizia di
Dio», il Padre ha voluto che il Figlio suo, per solidarietà con gli uomini
peccatori, fosse soggetto agli effetti malefici di quella potenza di morte che è
il *peccato; questi effetti costituirebbero quindi la conditio optima del più
grande atto di amore e di obbedienza che si possa concepire. In tal modo è
riparata l’opera nefasta del peccato, l’umanità è restaurata, «redenta», riunita
a Dio, nuovamente in possesso della vita divina. Secondo l’antico oracolo (Ez
36, 27), alla carne è stato comunicato lo spirito stesso di Jahvè. Ma la
profezia si è compiuta, con una pienezza insospettata, mediante l’atto supremo
di amore del Figlio stesso di Dio fatto uomo.
S. LYONNET
→ Adamo I 2 b - agnello di Dio 2 - animali II - corpo II 2 - corpo di
Cristo I 2, III 3 - creazione NT II 1 - croce - disegno di Dio - esodo VT 2; NT
0 - espiazione - liberazione-libertà II 1, III 1 - malattia-guarigione NT II 2 -
Pasqua - peccato III 3, IV 3 e - predicare II 3 - prigionia Il - primizie II -
retribuzione II 3 d - riconciliazione - sacrificio NT I - salvezza - sangue NT -
schiavo II - sofferenza VT III.
→ madre 1 3.
«Il regno di Dio
è vicino»: questo è l’oggetto primario della predicazione di Giovanni Battista e
di Gesù (Mt 3, 1; 4, 17). Per sapere in che cosa consista questa realtà
misteriosa che Gesù è venuto ad instaurare in terra, quale ne è la natura e
quali ne sono le esigenze, bisogna ricorrere al NT. Tuttavia il tema proviene
dal VT, che ne aveva abbozzato le grandi linee, mentre ne annunziava e ne
preparava la venuta.
VECCHIO TESTAMENTO
La regalità divina è un’idea comune a tutte le religioni dell’Oriente antico. Le
mitologie se ne servono per conferire un valore sacro al *re umano, luogotenente
terreno del dio-re. Ma il VT, riprendendola, le conferisce un contenuto
particolare, in rapporto col suo monoteismo, con la sua concezione del potere
politico, con la sua escatologia.
I. ISRAELE, REGNO DI DIO
L’idea di *Jahvè-re non appare subito all’inizio del VT. Il Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe non presenta tratti regali, neppure quando viene
a rivelare il suo *nome a Mosè (Es 3, 14). Ma dopo che Israele si fu stabilito
in Canaan, si ricorre ben presto a questa rappresentazione simbolica per
tradurre la situazione rispettiva di Jahvè e del suo popolo. Jahvè regna su
Israele (Giud 8, 23; 1 Sam 8, 7). Il suo *culto è un servizio che effettuano in
terra i suoi sudditi ed in cielo i suoi *angeli. È questa un’idea fondamentale
che si ritrova sia nel lirismo cultuale (Sal 24, 7-10) che nei profeti (Is 6,
1-5), e di cui gli autori sacri presentano nei particolari i diversi aspetti.
Jahvè regna per sempre (Es 15, 18), in cielo (Sal 11, 4; 103, 19), sulla terra (Sal
47, 3), nell’universo che ha creato (Sal 93, 1 s; 95, 3 ss). Regna su tutte le
*nazioni (Ger 10, 7. 10). Tuttavia, tra esse c’è un *popolo che egli ha scelto
come dominio particolare: Israele, del quale per mezzo dell’*alleanza ha fatto
«un regno di sacerdoti ed una nazione consacrata» (Es 19, 6). Il regno di Jahvè
si manifesta quindi specialmente in Israele, suo regno. Ivi risiede il grande
re, in mezzo ai suoi, a *Gerusalemme (Sal 48, 3; Ger 8, 19), di dove li benedice
(Sal 134, 3), li guida, li protegge, li raduna, come fa un *pastore col suo
gregge (Sal 80; cfr. Ez 34). Così la dottrina dell’alleanza trova una traduzione
eccellente nel tema della regalità divina, al quale conferisce un contenuto
completamente nuovo. Se, in effetti, il re Jahvè degli eserciti (Is 6, 5) regna
sul mondo perché ne governa il corso, e sugli avvenimenti perché li dirige e vi
esercita il *giudizio, vuole che, nel suo popolo, il suo regno sia riconosciuto
in modo effettivo mediante l’osservanza della sua *legge. Questa esigenza
primaria dà al regno un carattere morale, non politico, che spicca su tutte le
rappresentazioni antiche della regalità divina.
II. IL REGNO DI DIO E LA MONARCHIA ISRAELITICA
Tuttavia Israele, regno di Dio, ha una struttura politica, che si evolve con il
tempo. Ma quando il popolo si dà un *re, la instaurazione di questa regalità
umana dev’essere subordinata alla regalità di Jahvè, deve diventare un organo
della teocrazia fondata sull’alleanza. Questo fatto spiega da una parte la
corrente di opposizione che si manifesta contro la monarchia (1 Sam 8, 1-7. 19
ss) e dall’altra l’intervento degli inviati divini che manifestano la scelta di
Jahvè: per Saul (10, 24), per David (16, 12), ed infine per la dinastia davidica
(2 Sam 7, 12-16). A partire da questo momento il regno di Dio ha come base
temporale un regno umano, mescolato come tutti i suoi vicini alla politica
internazionale. Senza dubbio i re israelitici non esercitano una regalità
ordinaria: detengono la regalità da Jahvè, che devono servire (2 Cron 13, 8;
cfr. 1 Cron 28, 5), e Jahvè considera i discendenti di David come suoi *figli (2
Sam 7, 14; Sal 2, 7). Nonostante tutto, l’esperienza della monarchia rimane
ambigua: la causa del regno di Dio non coincide con le ambizioni terrene dei re,
soprattutto se essi disconoscono la legge divina. 1 profeti, quindi, ricordano
incessantemente la subordinazione dell’ordine politico all’ordine religioso;
rimproverano ai re i loro peccati ed annunziano i castighi che seguiranno (già 2
Sam 12; 24, 10-17). La storia del regno di Israele si scrive così con lacrime e
sangue, fino al giorno in cui la rovina di Gerusalemme viene a chiudere
definitivamente l’esperienza, con grande sconcerto dei Giudei fedeli (Sal 89,
39-46). Questa caduta della dinastia davidica ha come causa profonda la rottura
dei re umani con il Re da cui essi avevano il loro potere (cfr. Ger 10, 21).
III. NELL’ATTESA DEL REGNO FINALE DI JAHVÈ
Nel momento in cui crolla la monarchia israelitica, le guide religiose della
nazione guardano, oltre l’epoca monarchica, alla teocrazia originale che
vogliono restaurare (cfr. Es 19, 6) ed i profeti annunziano che Israele, negli
ultimi tempi, ne ritroverà i tratti. Certamente, nelle loro promesse, fanno
posto al *re futuro, al *Messia figlio di David. Ma il tema della regalità di
Jahvè riveste in essi un’importanza molto maggiore, soprattutto a partire dalla
fine dell’esilio. Jahvè, come un *pastore, si occuperà egli stesso del suo
gregge per salvarlo, radunarlo e riportarlo nella sua terra (Mi 2, 13; Ez 34,
11...; Is 40, 9 ss). La buona novella per eccellenza che viene annunziata a
Gerusalemme è questa: «Il tuo Dio regna» (Is 52, 7; cfr. Sof 3, 14 s). E si
intravvede una estensione progressiva di questo regno in tutta la terra: da
tutte le parti verranno a Gerusalemme uomini per adorare il re Jahvè (Zac 14, 9;
Is 24. 23). Trasferendo sul piano cultuale queste promesse radiose ed
orchestrando i temi di taluni salmi più antichi, il lirismo postesilico canta in
anticipo il regno escatologico di Dio: regno universale, proclamato e
riconosciuto in tutte le nazioni, manifestato mediante il *giudizio divino (Sal
47; 96 - 99; cfr. 145, 11 ss). Infine, al tempo della persecuzione di Antioco
Epifane, l’apocalisse di Daniele viene a rinnovare solennemente delle promesse
profetiche. Il regno trascendente di Dio si instaurerà sulle rovine degli imperi
umani (Dan 2, 44...). Il simbolo del *figlio dell’uomo che viene sulle nubi del
cielo serve ad evocarlo, in contrasto con le *bestie che rappresentano le
potenze politiche della terra (Dan 7). La sua venuta sarà accompagnata da un
*giudizio, dopo il quale la regalità sarà data per sempre al figlio dell’uomo ed
al popolo dei santi dell’altissimo (7, 14. 27). Il dominio di Jahvè assumerà
quindi ancora la forma concreta di un regno, di cui questo *popolo sarà il
depositario (cfr. Es 19, 6); ma il regno non sarà più di «questo mondo». Ad una
simile promessa fa eco il libro della Sapienza: dopo il giudizio, i giusti
«comanderanno alle nazioni e domineranno i popoli, ed il Signore regnerà su di
essi per sempre» (Sap 3, 8). Dopo secoli di preparazione, il popolo giudaico
vivrà ormai nell’attesa del regno, come dimostra la letteratura non canonica.
Sovente questa attesa si concretezza in una forma politica: si attende la
restaurazione del regno davidico da parte del *Messia. Ma le anime più religiose
sanno vedervi una realtà essenzialmente interiore: obbedendo alla legge,
insegnano i rabbini, «il giusto prende su di sé il giogo del regno dei cieli».
Questa è la speranza, forte ma ancora ambigua, a cui risponderà il vangelo del
regno.
NUOVO TESTAMENTO
I. IL VANGELO DEL REGNO DI DIO
1. Gesù
- Gesù dà al regno di Dio il primo posto nella sua predicazione. ciò che egli
annuncia nelle borgate di Galilea è la buona novella del regno (Mt 4, 23; 9,
35). «Regno di Dio», scrive Marco; «regno dei cieli», scrive Matteo
conformandosi alle abitudini del linguaggio rabbinico: le due espressioni sono
equivalenti. I *miracoli, accompagnando la predicazione, sono i segni della
presenza del regno e ne fanno intravvedere il significato. Con la sua venuta ha
termine il dominio di *Satana, del *peccato e della *morte sugli uomini: «E in
virtù dello spirito di Dio io scaccio i demoni, è dunque venuto per voi il regno
di Dio» (Mt 12, 28). Ne consegue la necessità di una decisione: bisogna
*convertirsi, abbracciare le esigenze del regno per diventare *discepoli di
Gesù.
2. Gli Apostoli.
- Gli Apostoli, mentre è in vita il loro maestro, ricevono la missione di
proclamare a loro volta questo *vangelo del regno (Mt 10, 7). Perciò, dopo la
Pentecoste, il regno rimane il tema centrale della predicazione evangelica,
anche in S. Paolo (Atti. 19, 8; 20, 25; 28, 23. 31). Se i fedeli che si
convertono soffrono mille tribolazioni, si è «per entrare nel regno di Dio»
(Atti 14, 22), perché Dio «li chiama al suo regno ed alla sua gloria» (1 Tess 2,
12). Ormai soltanto il *nome di Gesù Cristo si aggiunge al regno di Dio per
costituire l’oggetto completo del vangelo (Atti 8, 12): bisogna credere in Gesù
per avere accesso al regno.
II. I MISTERI DEL REGNO DI DIO
Il regno di Dio è una realtà misteriosa di cui soltanto Gesù può far conoscere
la natura. Ed ancora, egli non la rivela se non agli umili ed ai piccoli, non ai
sapienti ed agli scaltri di questo mondo (Mt 11, 25); ai suoi *discepoli, non
alle persone estranee, per le quali tutto rimane enigmatico (Mc 4, 11 par.). La
pedagogia dei vangeli è costituita in gran parte dalla rivelazione progressiva
dei *misteri del regno, specialmente nelle *parabole. Dopo la risurrezione
questa pedagogia sarà completata (Atti 1, 3) e l’azione dello Spirito Santo la
porterà a termine (cfr. Gv 14, 26; 16, 13 ss).
1. I paradossi del regno.
- Il giudaismo, prendendo alla lettera gli oracoli escatologici del VT, si
raffigurava la venuta del regno come splendida ed immediata. Gesù l’intende in
modo completamente diverso. Il regno viene quando la *parola di Dio è rivolta
agli uomini; come un *seme gettato in terra, deve crescere (Mt 13, 3-9. 18-23
par.). *Crescerà per la sua propria potenza, come la semente (Mc 4, 26-29).
Solleverà il mondo, come il lievito posto nella farina (Mt 13, 33 par.). Il suo
umile inizio contrasta così con l’avvenire che gli è promesso. Di fatto Gesù non
rivolge la parola se non ai soli Giudei di Palestina; e tra questi «il regno è
dato» soltanto al «piccolo gregge» dei discepoli (Lc 12, 32). Ma lo stesso regno
deve diventare un grande *albero, dove faranno il loro nido tutti gli uccelli
del cielo (Mt 13, 31 s par.); accoglierà tutte le *nazioni del suo seno, perché
non è legato a nessuna di esse, neppure al popolo *giudaico. Esistendo quaggiù
nella misura in cui la *parola di Dio è accolta dagli uomini (cfr. Mt 13, 23),
esso potrebbe sembrare una realtà invisibile. Di fatto la sua venuta non si può
osservare come un fenomeno qualunque (Lc 17, 20 s). E tuttavia esso si manifesta
esternamente, come il grano mescolato alla zizzania in un campo (Mt 13, 24...).
Il «piccolo gregge» al quale è dato (Lc 12, 32), gli conferisce un volto
terreno, quello di un nuovo *Israele, di una *Chiesa fondata su *Pietro; e
questi riceve persino «le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 18 s). Bisogna
soltanto notare che questa struttura terrena non è quella di un regno umano:
Gesù si nasconde quando lo si vuole fare *re (Gv 6, 15) e si lascia dare il
titolo di *Messia in un senso tutto particolare.
2. Le fasi successive del regno.
- Il fatto che il regno sia chiamato a crescere, suppone che debba tener conto
del tempo. Indubbiamente, in un certo senso, i *tempi sono compiuti ed il regno
è presente; con Giovanni Battista è aperta l’era del regno (Mt 11, 12 s par.); è
il tempo delle nozze (Mc 2, 19 par.; cfr. Gv 2, 1-11) e della *messe (Mt 9, 37
ss par.; cfr. Gv 4, 35). Ma le parabole della *crescita (il seme, il granello di
senapa, il lievito, la zizzania ed il buon grano, la pesca: cfr. Mt 13) lasciano
intravvedere uno spazio di tempo tra questa inaugurazione storica del regno e la
sua realizzazione perfetta. O meglio, attualmente «il Regno patisce *violenza»
(Mt 11, 12) perché si vuole impedirne l’irraggiamento attraverso la predicazione
evangelica. Dopo la risurrezione di Gesù, la dissociazione del suo ingresso in
gloria e del suo ritorno come giudice (Atti 1, 9 ss) finirà di rivelare la
natura di questo periodo intermedio: sarà il tempo della *testimonianza (Atti 1,
8; Gv 15, 27), il tempo della Chiesa. Al termine di quel tempo, il regno verrà
nella sua pienezza (cfr. Lc 21, 31): vi si consumerà la *Pasqua (Lc 22, 14 ss),
sarà il *pasto escatologico (Lc 22, 17 s), in cui invitati venuti da tutte le
parti faranno festa con i patriarchi (Lc 13, 28 s par.; cfr. 14, 15; Mt 22,
2-10; 25, 10). I fedeli sono chiamati ad «*ereditare» questo regno giunto alla
sua consumazione (Mt 25, 34); dopo la risurrezione e la trasformazione dei loro
corpi (1 Cor 15, 50; cfr. 6, 10; Gal 5, 21; Ef 5, 5). Nel frattempo ne invocano
la venuta: «Venga il tuo regno!» (Mt 6, 10 par.).
3. L’accesso degli uomini al regno.
- Il regno è il dono di Dio per eccellenza, il valore essenziale che bisogna
acquistare a prezzo di tutto ciò che si possiede (Mt 13, 44 ss). Ma per
riceverlo, bisogna soddisfare a talune condizioni. Non già che esso possa mai
essere considerato come una mercede dovuta per giustizia: Dio assolda
liberamente gli uomini nella sua *vigna e dà ai suoi operai ciò che gli piace
dare (Mt 20, 1-16). Tuttavia, se tutto è grazia, gli uomini devono rispondere
alla *grazia: i peccatori induriti nel male «non erediteranno il regno di Cristo
e di Dio» (1 Cor 6, 9 s; Gal 5, 21; Ef 5, 5; cfr. Apoc 22, 14 s). Un animo di
*povero (Mt 5, 3 par.), un atteggiamento di *bambino (Mt 18, 1-4 par.; 19, 14),
una ricerca attiva del regno e della sua *giustizia (Mt 6, 33), la sopportazione
delle *persecuzioni (Mt 5, 10 par.; Atti 14, 22; 2 Tess 1, 5), il sacrificio di
tutto ciò che si possiede (Mt 13, 44 ss; cfr. 19, 23 par.), una perfezione
maggiore di quella dei *farisei (Mt 5, 20), in una parola il compimento della
*volontà del Padre (Mt 7, 21), specialmente in materia di carità fraterna (Mt
25, 34): tutto ciò è richiesto a chi vuol entrare nel regno ed infine
ereditarlo. Infatti, se tutti vi sono chiamati, non tutti saranno *eletti: il
convitato, che non ha la veste nuziale, sarà cacciato fuori (Mt 22, 11-14).
All’inizio è richiesta una *conversione (cfr. Mt 18, 3), una nuova *nascita,
senza la quale non si può «vedere il regno di Dio» (Gv 3, 3 ss). L’appartenenza
al popolo giudaico non è più una condizione necessaria come nel VT: «Molti
verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa nel regno dei cieli,
mentre i sudditi del regno saranno gettati fuori...» (Mt 8, 11 s par.).
Prospettiva di *giudizio, che talune parabole presentano in una forma concreta:
separazione della zizzania e del buon grano (Mt 13, 24-30), scelta dei pesci (Mt
13, 47-50), resa dei conti (Mt 20, 8-15; 25, 15-30); tutto ciò costituisce una
esigenza di *vigilanza (Mt 25, 1-13).
III. IL REGNO DI DIO E LA REGALITÀ DI GESÙ
Nel NT i due temi del regno di Dio e della regalità messianica si uniscono nel
modo più stretto, perché il re-Messia è il *Figlio di Dio stesso. Questa
posizione di Gesù al centro del mistero del regno si ritrova nelle tre tappe
successive, attraverso le quali questo deve passare: la vita terrena di Gesù, il
tempo della Chiesa e la consumazione finale delle cose.
1. Durante la vita di Gesù.
- Gesù si dimostra molto riservato nei confronti del titolo di *re. Se lo
accetta in quanto titolo messianico rispondente alle promesse profetiche (Mt 21,
1-11 par.), lo deve spogliare delle risonanze politiche (cfr. Lc 23, 2), per
rivelare la regalità «che non è di questo mondo» e che si manifesta mediante la
testimonianza resa alla verità (Gv 18, 36 s). In compenso, non esita ad
identificare la causa del regno di Dio con la sua propria: lasciare tutto per il
regno di Dio (Lc 18, 29), significa lasciare tutto «per il suo *nome» (Mt 19,
29; cfr. Mc 10, 29). Descrivendo in anticipo la ricompensa escatologica che
attende gli uomini, egli identifica il «regno del *figlio dell’uomo» ed il
«regno del Padre» (Mt 13, 41 ss), ed assicura ai suoi apostoli che egli dispone
per essi del regno come il Padre ne ha disposto per lui (Lc 22, 29 s).
2. Il momento della risurrezione.
- La sua intronizzazione regale non giunge tuttavia se non al momento della
*risurrezione: allora egli prende posto sul trono stesso del Padre (Apoc 3, 21),
è esaltato alla destra di Dio (Atti 2, 30-35). Durante tutto il tempo della
Chiesa, la regalità di Dio si esercita così sugli uomini per mezzo della
regalità di Cristo, *Signore universale (Fil 2, 11); perché il Padre ha
costituito il Figlio suo «Re dei re e Signore dei signori» (Apoc 19, 16; 17, 14;
cfr. 1, 5).
3. Al termine dei tempi.
- Al termine dei tempi, Cristo vincitore di tutti i suoi nemici «rimetterà il
regno a Dio Padre» (1 Cor 15, 24). Allora questo regno «sarà pienamente
acquisito al nostro Signore ed al suo Cristo» (Apoc 11, 15; 12, 10), ed i fedeli
riceveranno «l’eredità nel regno di Cristo e di Dio» (Ef 5, 5). Così Dio,
padrone di tutto, prenderà pieno possesso del suo regno (Apoc 19, 6). I
discepoli di Gesù saranno chiamati a condividere la gloria di questo regno (Apoc
3, 21), perché già in terra Gesù ha fatto di essi «un regno di sacerdoti per il
loro Dio e Padre» (Apoc 1, 6; 5, 10; 1 Piet 2, 9; cfr. Es 19, 6).
R. DEVILLE e P. GRELOT
→ albero 2 - Chiesa - cielo II, V - crescita 3 - disegno di Dio VT V; NT -
eredità NT II - figlio dell’uomo VT II 1 - Gesù Cristo I 1.2 - giustizia B II NT
- messia VT II 3; NT II 1 - miracolo II 2 - mistero NT I - parabola I 2, II 2,
III -pasto IV - penitenza-conversione NT I, II - popolo A I 2; C I - poveri NT I
- re - speranza NT I - terra NT I 2 - vangelo - violenza IV 1.3.
→ culto - elemosina VT 3; NT 1 - pietà - sacrificio VT III - tempio VT II 3 - timore di Dio IV.
Il termine
traduce spesso il vigore fisico dell’uomo (1 Re 12, 10), la sua potenza
procreativa, e designa la regione della vita, delle anche, o la sede degli
organi genitali (2 Sam 7, 12; Sal 132, 11; Ebr 7, 5. 10). Designa inoltre la
sede o la fonte delle passioni, dei segreti pensieri, dei sentimenti (Sal 72,
21; Apoc 2, 23). Di qui due serie di significati, l’uno che è un richiamo
all’azione, l’altro che è un richiamo al potere di Dio sulla nostra personalità
più nascosta.
1. Nella regione lombare.
- Nella regione lombare è concentrato il vigore dell’uomo. Come per il viaggio o
per il combattimento bisogna legare alla cintura mantello, vesti, sacco (Gen 37,
34), perizoma (1 Re 20, 31; Mt 3, 4) od armi (2 Sam 20, 8), così per il servizio
di Dio bisogna avere le reni cinte. Allora gli Ebrei saranno pronti all’esodo (Es
12, 11); Geremia dev’essere disposto al combattimento (Ger 1, 17); la donna
forte è sempre al lavoro (Prov 31, 17); il Messia avrà come forza la giustizia e
la fedeltà (Is 11, 5); il discepolo di Gesù deve avere le reni cinte e la
*lampada accesa (Lc 12, 35); il cristiano è esortato a battersi «con la verità
per cintura, la giustizia per corazza» (Ef 6, 14). E S. Pietro conclude:
«Cingete le reni del vostro spirito, siate vigilanti» (1 Piet 1, 13).
2. Nei reni.
- Nei reni, organi interni, si fanno sentire le reazioni profonde: ivi si
formano i disegni nascosti, si accendono le passioni violente. Essi possono
esultare nel maestro che sente il discepolo parlare bene (Prov 23, 16), fremere
dinanzi all’apostasia (1 Mac 2, 24), essere trafitto dalla prova (Giob 16, 13).
Colui che li ha formati (Sal 139, 13) può istruire per mezzo di essi *coscienza
dell’uomo in preghiera (Sal 16, 7). Associati ordinariamente al *cuore, i reni
designano una regione che sfugge allo sguardo dell’uomo e si distingue da ciò
che si ascolta. Soltanto «Dio scruta i reni ed i cuori» (Sal 7, 10; Ger 11, 10;
Apoc 2, 23), e così pure Gesù, il quale sa ciò che c’è nell’uomo (Gv 2, 25): Dio
solo penetra nel fondo dell’essere. Geremia, il profeta della vita interiore, e
così il salmista, non temono di essere provati dallo sguardo divino: «Scrutami,
o Jahvè, provami, saggia col *fuoco i miei reni ed il mio cuore» (Sal 26, 2; Ger
17, 10; 20, 12), perché sanno che, a differenza dei loro nemici, i loro reni
proferiscono ciò che dicono le loro *labbra (Ger 12, 2 s). Dio ascolta le
parole, ma è pure «testimone dei reni e osservatore verace del cuore» (Sap 1,
6). Perciò la liturgia fa pregare nello stesso spirito: «Brucia, o Signore, i
nostri reni ed i nostri cuori col fuoco dello Spirito Santo».
R. FEUILLET
→ coscienza 1 - cuore I 2.
La presa di
coscienza delle proprie responsabilità, da parte di un uomo che diventa adulto o
di un’umanità che sviluppa la sua cultura, è un problema umano fondamentale, che
è ben lungi dall’essere estraneo alla Bibbia. Ma qui si può accennarvi solo in
modo marginale, dato che questo articolo è centrato sulla responsabilità
dell’uomo di fronte a Dio, considerata nei suoi aspetti fondamentali.
1. Per colpa di un uomo il peccato è entrato nel mondo (Rom 5, 12).
- Il racconto del *peccato di *Adamo (Gen 2 - 3) è fatto apposta per rispondere
a un interrogativo essenziale: chi è responsabile della durezza della vita,
della morte? Paolo formula la risposta: il responsabile non è Dio, è stato un
gesto umano che ha determinato lo scatenamento della potenza sovrumana del
peccato. Questo gesto è parzialmente ma realmente responsabile del male nel
mondo. È una risposta sconvolgente, inaudita. Per le grandi religioni che
circondavano Israele, il male è antico quanto il mondo e gli dèi; dagli dèi è
passato agli uomini. Uomini e dèi sono quindi tutti nello stesso tempo
responsabili e irresponsabili; tutti sono quello che sono, un misto diversamente
dosato di *bene e di male. Viceversa, considerando un Dio buono, una creatura
buona, un male posteriore alla creazione, la Bibbia fa ricadere la
responsabilità del male sulle libertà create. Questa responsabilità non ha
proporzioni umane. Lo sa bene il racconto biblico, che infatti fa derivare il
peccato dal *tentatore. Ma sa anche che l’uomo, se pure nella sua condizione
peccaminosa è scavalcato dalla propria responsabilità, non può tuttavia
ripudiarla. Ogni peccatore può ritrovare in queste pagine sia la fatalità che fa
nascere dai suoi peccati un male che non ha voluto, sia l’immagine esatta delle
proprie colpe, mescolanza di debolezza (cfr. *carne) e di malizia. Può scoprirvi
la propria parte di responsabilità nel male del mondo.
2. Io ho conosciuto il peccato solo attraverso la legge (Rom 7, 7).
- La *legge è stata per Israele un «pedagogo» assegnatole da Dio (Gal 3, 24).
Essa l’ha formato molto profondamente al senso della responsabilità. Dicendo:
«Farai questo... non farai quello...», metteva ogni Israelita di fronte alle
proprie responsabilità, e gli provava che era in grado di assumersele. Valendosi
della diversità delle circostanze, dell’influenza delle intenzioni, affinava la
sua coscienza. Dimostrandogli che Dio vuole il bene e biasima il male, conferiva
ai suoi gesti un valore infinito. Collegando la legge all’alleanza, faceva di
tutta l’esistenza una scelta pro o contro Dio. Certo, anche «senza la legge»,
dei pagani sono in grado di riconoscere «nel proprio cuore» le loro
responsabilità (Rom 2, 15). Ma la legge ha fatto di Israele un popolo «saggio e
intelligente fra tutti» (Deut 4, 6), cosciente della serietà dei gesti
dell’uomo.
3. Riconosci quel che hai fatto (Ger 2, 23).
- Quel che la legge proclamava in modo generico, i *profeti si ergevano
a esprimerlo concretamente a quel tal principe senza coscienza o al popolo
illuso, e a metterli di fronte alle proprie responsabilità. Quasi sempre, da
Samuele a Natan (1 Sam 13 s; 2 Sam 12, 10 ss), all’ultimo degli eredi di Israele
(Is 59, 8 ss), i profeti intervengono, prendendo spunto dalle sventure, già
presenti o prevedibili: «Poiché voi fate quel certo male, quel certo male così
vi colpisce...». Ogni catastrofe nazionale rappresenta per essi l’occasione di
uno sguardo più acuto sulle responsabilità del popolo. Il disastro estremo,
l’esilio, costituisce per Ezechiele una scoperta decisiva. Israele è stato
costretto a soccombere per essere venuto meno alle proprie responsabilità, ma
per ogni Israelita tutto resta possibile. Spetta a ciascuno assumersi le proprie
responsabilità, scegliere tra la vita e la morte: «La giustizia del giusto sarà
su di lui e la malvagità del malvagio su di lui» (Ez 18, 20).
4. Ho peccato contro di te (Sal 51, 6).
- La *confessione dei peccati, sotto la forma che assume nella Bibbia, facendo
eco alla legge e ai profeti, esprime la *coscienza della responsabilità. Non
cerca di fare un bilancio delle colpe, di enumerare il massimo dei peccati, per
essere certa di non omettere nulla. Mette di fronte la giustizia di Dio e
l’ingiustizia dell’uomo (Is 59, 9. 14; Dan 3, 27-31; Sal 51, 6...). Non soltanto
per riconoscere che il *castigo ricevuto è meritato, ma in una prospettiva più
profonda che arriva fino al *ringraziamento, perché il peso della colpa ricada
sul peccatore e Dio ne esca discolpato: «A te, Signore, la giustizia, a noi la
vergogna...» (Dan 9, 7; Bar 1, 15...). La preghiera di penitenza ritrova così
l’intuizione del racconto originale: Dio è buono, e il peccatore è l’unico
responsabile del male.
5. Il vangelo.
- Per S. Paolo, è la rivelazione definitiva di questa giustizia di Dio e della
responsabilità del peccatore. I primi tre capitoli della lettera ai Romani,
dimostrano la gravità distruttiva del peccato, il peso delle opzioni decisive, e
nello stesso tempo spiegano questo destino che trascende le dimensioni umane. Se
l’*ira di Dio grava con un tal peso sui gesti dell’uomo e fa sì che la sua
responsabilità oltrepassi tutto ciò che personalmente è in grado di prevedere e
di volere, questo destino paradossale è l’opposto di un amore che ha le
dimensioni di Dio, «perché Dio ha rinchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza
per fare a tutti misericordia» (Rom 11, 32). Questo disegno si rivela alla
passione di Cristo. Le diverse responsabilità, che si sono combinate per portare
alla morte del Figlio di Dio, non sono pari (cfr. Gv 19, 11; Atti 3, 13 s), né
totali (Atti 3, 17), ma sono reali, e tutte insieme hanno determinato questo
mostruoso delitto. La predicazione del vangelo nella Chiesa nascente fa sempre
presente a Gerusalemme, considerata come un tutto, la sua responsabilità: «Voi
l’avete fatto morire» (Atti 2, 23; 3, 14; 4, 10; 5, 30...). Il peccatore accede
alla fede solo nella *penitenza e nella coscienza della propria responsabilità.
J. GUILLET
→ bene e male I 3 - coscienza - legge C III 2 - liberazione-libertà I -
peccato - penitenza-conversione - preoccupazioni I - prova-tentazione VT II 2 -
retribuzione II 1.2 - seminare 1 2 a.
VECCHIO
TESTAMENTO
Dio promette ad Abramo una discendenza «numerosa come le stelle del cielo» (Gen
15, 5), e Dio, per bocca di Amos, avverte Israele: «Come un pastore salva dalla
gola del leone due zampe od il lobo di un orecchio, così saranno salvati i figli
di Israele» (Am 3, 12). Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvi» (l Tim 2,
4) ed annunzia che, al tempo della grande tribolazione, «se, a motivo degli
eletti, i giorni tristi non fossero abbreviati, nessuno avrebbe salva la vita»
(Mt 24, 22). Questo resto, risparmiato dal passaggio del *giudizio, costituisce
un elemento essenziale della *speranza biblica. L’idea si collega all’esperienza
delle guerre e dei loro massacri. L’annientamento del vinto, praticato così
spesso (documenti assiri, stele di Mesa), poneva ad Israele il problema della
sua sopravvivenza, e quindi del valore delle *promesse divine. Secondo il
contesto, la parola può caratterizzare l’ampiezza della catastrofe («non
sopravvive che un resto», Is 10, 22; «neppure un resto», Ger 11, 23), oppure
evocare la speranza che sussiste con la sopravvivenza di un resto (Ger 40, 11).
Il tema appare con le catastrofi del sec. IX (cfr. 1 Re 19, 15- 18), ma ha una
preistoria: *Noè (Gen 6, 5 ss. 17 s), indicato come un resto in Eccli 44, 17, i
castighi di Israele nel deserto che fanno sparire una parte notevole del popolo
(Es 32, 28; Num 17, 14; 21, 6; 25, 9).
1. Prima dell’esilio.
- Secondo Amos, come le prove attuali hanno ridotto il popolo a pochi
sopravvissuti (Am 5, 15), così i *castighi futuri, visti nella prospettiva del
giudizio escatologico, ridurranno Israele ad un pugno d’uomini (3, 12; 5, 3).
come un vaglio essi lasceranno che i peccatori si perdano e non riterranno che i
giusti (9, 8 ss). Per Isaia, il resto parteciperà alla santità Jahvè (Is 4, 3;
cfr. 6, 3), fuoco distruttore per gli empi, ma per gli altri fiamma luminosa
(10, 17) e purificatrice (1, 25-28). Questo resto, opera di Jahvè (4, 4), si
appoggerà su Dio solo (10, 20) mediante la fede, sfuggendo in tal modo al
castigo (7, 9; 28, 16); esso esiste già in germe nei discepoli del profeta (8,
16. 18); è costituito soprattutto, a quanto pare, dai «poveri» (14, 32), come
affermerà chiaramente un oracolo posteriore di un secolo (Sof 3, 12 s). Il
Messia, vicario di Jahvè, attorno al quale si raggrupperà questo resto (10, 21:
Dio forte = il Messia, cfr. 9, 5), ne sarà íl capo e la gloria (4, 2), ed anche
il rappresentante, perché resto e Messia sono descritti con gli stessi termini
(cfr. 6, 13 e 11, 1; 11, 2 e 28, 5 s). In Michea, contemporaneo di Isaia, il
resto è già un termine tecnico che designa il popolo purificato dei tempi
messianici, divenuto una «nazione potente» (Mi 4, 7). Per i pagani, esso sarà
fonte di rovina o di benedizione secondo il loro atteggiamento nei suoi
confronti (5, 6 ss). Eredita in tal modo la funzione affidata ad Abramo ed alla
sua discendenza (Gen 12, 3).
2. La svolta dell’esilio.
- Geremia apporta un approfondimento decisivo alla dottrina del resto.
Come i suoi predecessori, egli continua a dare il nome di resto al piccolo
gruppo dei Giudei che sono sfuggiti alla deportazione e dimorano nella terra
santa (Ger 40, 11; 42, 15; 44, 12; cfr. Am 5, 15; Is 37, 4; Sof 2, 7; Ger 6, 9;
15, 9). Ma gli eredi ed i depositari delle speranze messianiche sono i deportati
(24, 1-10). Essi non sono chiamati «resto», anzi gli sono opposti (24, 8); il
linguaggio rimane fedele alle abitudini antiche. Tuttavia, per evocare
l’avvenire di gloria riservato ai deportati, il termine si presenta con tutta
naturalezza (23, 3; 31, 7). Questo resto è ormai dissociato dalla comunità
temporale, dallo stato di Giuda. Un altro approfondimento è fornito da
Ezechiele. Prima di lui sembrava che i profeti non distinguessero le prove
imminenti ed il giudizio escatologico che deve ridurre la nazione ad un resto di
giusti. Dopo la catastrofe del 587, Ezechiele ha dovuto constatare che i
sopravvissuti non erano migliori dei morti (Ez 6, 8 s; 12, 15 s; 14, 21 ss). Ma
prima aveva predetto che soltanto i giusti sarebbero stati risparmiati (9, 4
ss). Il giudizio escatologico che egli allora aveva di mira è quindi ancora
futuro (20, 35-38; 34, 17). Esso solo separerà gli infedeli ed il resto santo
(20, 38; 34, 20).
3. I tre tipi di resto.
- Si delinea in tal modo la distinzione tra due significati della parola: la
frazione che sopravvive ad una calamità determinata, o resto storico (Am 5, 15;
Is 37, 4; Ger 6, 9; Ez 9, 8; ecc.), e la comunità che negli ultimi tempi
beneficerà della salvezza, o resto escatologico (Mi 5, 6 ss; Sof 3, 12; Is 4, 4;
10, 22; 28, 5; Ger 23, 3; 31, 7; ecc.). Soltanto quest’ultimo è santo. Il primo
non lo è più di quanto lo sia la frazione eliminata. A partire dall’esilio
appare una terza nozione, quella di una élite religiosa all’interno del popolo,
erede e depositaria delle promesse. La si può chiamare resto fedele, benché non
porti mai nel VT il nome di resto. Questo nome le sarà dato nel NT (Rom 11, 5)
ed in taluni scritti non biblici (Documento di Damasco 1, 4; 2, 11). Tuttavia,
di fatto, si tratta della stessa idea, che però passa dal piano materiale al
piano spirituale. Il resto fedele è la frazione religiosamente viva agli occhi
di Dio. Questo resto fedele appare sotto il nome di «Israele servo di Jahvè»,
«Israele nel quale io manifesterò la mia gloria» (Is 49, 3). Esso è incaricato
di una missione nei confronti di tutto Israele (49, 5). In questa élite
religiosa una figura individuale emerge, la personifica e ne incarna i destini:
il *servo. Esso infine, ed esso solo, realizza con la sua morte redentrice la
missione affidata a questo resto (52, 13 - 53, 12). Ma, a partire da esso, si
produce il movimento inverso, e non soltanto tutto Israele, ma anche i pagani si
integreranno nel resto ridotto al solo Messia (49, 6; 53, 11).
4. Dopo l’esilio.
- La piccola comunità degli esiliati ritornati a Sion assume il titolo di resto
(Agg 1, 12; 2, 2; Zac 8, 6), e taluni oracoli possono lasciar credere che sia
esso il resto santo e che le promesse escatologiche (Os 2, 23 s; Ez 34, 26 s) si
realizzeranno in suo favore (Zac 8, 11 s). Ma la restaurazione non è messianica
se non in modo incoativo e figurativo, ed il resto storico postesilico ha ancora
bisogno di essere purificato (Zac 13, 8 s; 14, 2). L’idea del resto fedele è
sempre più netta. Il *popolo di Dio si identifica con i «poveri di Jahvè» (Is
49, 13; Sal 18, 28; 149, 4). Il Sal 73, 1 identifica Israele con coloro che
hanno il cuore puro. In 1 Mac 1, 52 s, il «popolo» che designa la massa di
Israele viene contrapposto a «Israele» che è il resto fedele. I testi profetici
postesilici annunciano ancora il resto escatologico (Is 65, 8-12; Ab 17 = Gioe
3, 5), ma introducendovi ora i pagani (Is 66. 19; Zac 9, 7).
NUOVO TESTAMENTO
Nel NT la parola è ancora applicata al «resto fedele», alla parte del popolo di
Dio che ha creduto in Cristo (Rom 11, 5). Il tema del resto fedele, solo vero
*Israele, è soggiacente a numerosissimi testi del NT (Mt 3, 9 s. 12; 22, 14; Lc
12, 32; Gv 1, 11 s; 1, 47; Rom 2, 28; 1 Cor 10, 18; Gal 6, 16); tuttavia cessa
di avere un’esistenza autonoma. Il resto ora è la *Chiesa. Il significato
profondo del tema nel piano di Dio è dato da Paolo, il quale, nella lettera ai
Romani, sviluppa una vera teologia del *disegno di Dio (Rom 9 - 11). Grazie al
resto che ha creduto in Cristo, l’infedeltà di Israele non distrugge le
*promesse, e la *fedeltà di Dio rimane intatta (Rom11, 1-7). D’altra parte
l’esistenza di un resto, solo depositario delle promesse, manifesta l’assoluta
gratuità dell’*elezione degli individui, anche all’interno della elezione del
popolo intero (9, 6-18. 25-29). E l’elezione di una frazione all’interno del
popolo eletto, frazione che in definitiva si riduce al solo Messia, è ordinata
alla *redenzione di tutti, non soltanto di tutto Israele (11, 26), ma anche dei
pagani (11, 25). Sono così conciliate le esigenze apparentemente opposte della
*giustizia divina: da una parte, castigo del peccato, dall’altra, fedeltà alla
*promessa, che il peccato degli uomini non può far fallire, ma che rimane sempre
dono gratuito.
F. DREYFUS
→ Chiesa II 2 - crescita VT 2; NT 3 - diluvio - disegno di Dio NT III 2
- elezione VT III 1 - eredità VT II; NT I 1 - fuoco VT II 2 - indurimento I 2 b
- Israele NT 3 - mediatore I 2, II 1 - Noè 2 - penitenza-conversione VT II
l.2.5; NT III 1 - popolo B I 1; C II - prova-tentazione VT I 3; NT I -
risurrezione VT II - salvezza NT I 2 a, II 1 - santo VT IV 3 - servo di Dio II 2
- speranza VT II 2.
L’uomo fa della
retribuzione una questione di giustizia: ogni attività merita una mercede. Ma
nel campo religioso gli sembra invece che il disinteresse debba giungere fino a
scartare ogni pensiero di ricompensa. Tuttavia Cristo non ha richiesto un simile
ideale illusorio, senza per questo rinunciare ad esigere dal suo discepolo una
perfetta purezza d’intenzione.
I. RETRIBUZIONE E MERCEDE
La retribuzione è un dato basilare della vita religiosa, ma, per
comprenderne il senso esatto, è importante descriverne la genesi nella
coscienza. Al pari di molte altre, questa nozione ha radici nell’esperienza
umana, e precisamente nella relazione tra padrone e servo; ma la trascende
infinitamente, perché Dio stesso la fonda. Essa si esprime senza dubbio con
parole che designano la «mercede», ma non si riduce a quel che noi intendiamo
oggi per mercede dovuta ad un lavoro: questa è in base ad un contratto, la
retribuzione è il risultato di una *visita di Dio, che con un giudizio sanziona
l’*opera del suo servo. Sin dalle origini l’uomo è sulla terra allo scopo di
*lavorare per Dio (Gen 2, 15; cfr. Giob 14, 6; Mt 20, 1-15), e questo lavoro
comporta una mercede (Giob 7, 1 s). Di fatto Dio è un padrone giusto: non può
mancare di dare a ciascuno ciò che gli spetta se ha svolto il compito
affidatogli. D’altra parte, l’uomo non è un personaggio importante che abbia
mezzi personali di esistenza e possa offrire gratuitamente a Dio un aiuto
«disinteressato». Dinanzi a Dio l’uomo è il *povero, il mendicante, il *servo,
se non lo *schiavo, che non ha altro se non ciò che il padrone gli accorda
giorno per giorno. La retribuzione appare quindi non come lo scopo della vita
religiosa, ma come un frutto normale del servizio di Dio. Perciò, fin
dall’inizio della storia della salvezza, Dio promette una mercede ad Abramo (Gen
15, 1) e questa «mercede in proporzione del lavoro» riappare nelle ultime righe
della Bibbia (Apoc 22, 12). Frammezzo, la Scrittura ripete instancabilmente che
Dio paga ciascuno secondo le sue *opere (Prov 12, 14; Ger 31, 16; Sal 28, 4; 2
Cron 15, 7; Giob 34, 11; Is 59, 18; Eccli 51, 30; Lc 10. 7; Gv 4, 36; Rom 2, 6;
2 Tim 4, 14), pagamento che d’altronde spetta a Dio solo (Deut 32, 35; Prov 20,
22; cfr. Rom 12, 17-20). Dottrina talmente importante, che è proprio dell’*empio
negare la retribuzione (Sap 2, 22), e che la fede in Dio il quale «paga una
mercede a coloro che lo ricercano» è il complemento indispensabile della fede
nell’esistenza dello stesso Dio (Ebr 11, 6). Se l’uomo che compie il suo
servizio può fare affidamento sulla sua mercede, colui che rifiuta il compito
proposto si vede privato di questa mercede, spogliato infine del diritto di
esistere dinanzi a Dio. Quindi, essere retribuito per le proprie opere,
significa passare al *giudizio di Dio, ricevere ricompensa o castigo secondo ciò
che si è fatto: alternativa che significa per l’uomo la scelta tra la vita e la
morte. Va da sé che questo giudizio di Dio trascende il giudizio dell’uomo,
perché Dio solo scruta i reni ed i cuori, perché l’uomo non penetra il mistero
di Dio, *misericordia ed *ira, *fedeltà, *giustizia ed *amore.
II. LE TAPPE DELLA RIVELAZIONE
Se il fatto della retribuzione è una certezza fondamentale, la sua natura rimane
misteriosa, e Dio non l’ha rivelata che progressivamente.
1. Solidarietà e responsabilità.
- Fin dalle origini le azioni dell’uomo sembrano dipendere da una
*responsabilità personale e nello stesso tempo avere una portata collettiva. Di
fatto l’esistenza dell’uomo è inseparabile dalla famiglia, dalla tribù, dal
popolo. Per i testi antichi lo sguardo ed il giudizio di Dio cadono quindi
globalmente sull’«uomo» (Gen 6, 5 ss); l’alleanza e la fedeltà di Jahvè
riguardano anzitutto un *popolo. Pur essendo questa dimensione collettiva
dominante, la responsabilità personale non è ignota; la stessa esistenza di un
diritto penale ne è la prova; le antiche pratiche delle ordalie, dei «giudizi di
Dio» (cfr. Num 5, 11-30), l’«inchiesta» fatta da Dio nel racconto del paradiso (Gen
3, 11 ss), tutto ciò denota una volontà di scoprire e di punire un responsabile.
L’episodio di Achan illustra bene la preoccupazione costante di non eliminare né
responsabilità personale né portata collettiva. Grazie a Dio bisogna trovare il
colpevole, di cui la sconfitta di tutto il popolo rivelava l’esistenza (Gios 7,
5-12); il *castigo personale che egli subisce, colpisce parimenti la sua
famiglia ed i suoi beni (7, 24; cfr. Gen 3, 16-19). Così pure la ricompensa del
giusto si estende ai suoi congiunti: così è per Noè (Gen 6, 18; 7, 1), Lot (19,
12), Obed-Edom (2 Sam 6, 12). Punizione e misericordia si ripercuotono
attraverso lo spazio (tutto il popolo impegnato da uno dei suoi membri) ed
attraverso il tempo (tutta una stirpe impegnata da una delle sue *generazioni),
benché la bilancia penda nettamente in favore della *misericordia, che dura
infinitamente di più (Es 20, 5 s; 34, 7). A questa luce, l’interpretazione
religiosa degli avvenimenti sembra facile: un Dio giusto dirige il mondo; se io
sono disgraziato od oppresso da difficoltà, ciò è dovuto alle mie colpe od a
quelle di una persona con la quale io sono solidale (cfr. Gv 9, 2). Viceversa,
la mia *salvezza inattesa dopo i peggiori delitti può venire dalla mia
solidarietà con qualche giusto: se ci fossero stati dieci giusti a Sodoma, gli
abitanti non avrebbero pagato per il loro peccato (Gen 18, 16-33; cfr. 19, 20
ss). A quest’epoca un simile schema sembrava soddisfare tutte le situazioni;
tuttavia non poteva bastare per sempre.
2. L’uomo responsabile del suo destino.
- Di fatto, sotto la pressione delle disgrazie dell’esilio, il popolo
aveva tratto da questo schema rigoroso un proverbio: «I padri hanno mangiato
l’uva acerba, i figli ne hanno i denti allegati» (Ger 31, 29 s). conseguenza
scandalosa che chiamava in causa la *giustizia di Dio. Questo proverbio non
doveva più essere detto, proclama Geremia (31, 29 s); per Ezechiele esso non ha
più senso (Ez 18, 2-3). D’accordo con la tradizione di Deut 7, 9 s, che evocava
la solidarietà per la ricompensa ed il castigo personale per il peccato,
Ezechiele si appoggia sulla dottrina della *conversione per annunciare che i
giusti non possono salvare che se stessi: Noè, che un tempo ha salvato i suoi
figli (Gen 7, 7), ormai non li salverebbe più; il disegno di Dio ha percorso una
nuova tappa. Poi Ezechiele analizza tutti i casi possibili (Ez 18): ciascuno
porta in ogni istante il proprio destino, può continuamente comprometterlo o
ristabilirlo. Ma Dio, in questo dramma, non è ostile e neppure imparziale: «Io
non trovo piacere nella morte di nessuno. Convertitevi e vivrete» (Ez 18, 32).
3. Il mistero della giustizia di Dio.
- Se l’uomo è pienamente responsabile del suo destino, la sua vita
acquista in serietà; ma allora si solleva un altro problema, la cui piena
soluzione non sarà data che con la rivelazione sulla vita d’oltretomba. Se la
retribuzione ha già luogo in terra, perché non è costante? L’affermazione
tradizionale che il giusto è sempre felice (Sal 37; 91; 92; 112) è contraddetta
dall’esperienza. Di questo dramma della coscienza la Bibbia mostra la presenza
nel cuore di tutti coloro che cercano lealmente di conciliare la loro fede e la
loro esperienza. Geremia non ha ottenuto altra risposta alla sua angoscia che
l’incoraggiamento a continuare fermamente la sua strada (Ger 12, 1-5); ma
Giobbe, I’Ecclesiaste, i salmisti hanno affrontato il problema ed hanno tentato
di risolverlo.
a) Per lungo tempo i sapienti si aggrapparono alla soluzione
tradizionale, tentando di adattarla: la retribuzione, differita così a lungo, si
manifesterà ancora in terra, tutta concretata nell’istante drammatico della
*morte, che assumerà una straordinaria densità di *beatitudine o di *sofferenza
(Sal 49, 17 s; Eccli 1, 13; 7, 36; 11, 18-28); questa è senza dubbio la fragile
ipotesi che il salmista rigetta: «Alla loro morte non ci sono tormenti» (Sal 73,
4 ebr.).
b) L’Ecclesiaste, che ha «esplorato la sapienza e la
retribuzione» (Eccle 7, 25) senza trovare altro che una incoerenza che smentisce
i principi tradizionali (8, 12 ss), preconizza una moderazione attiva che cerca
di trarre il maggior profitto possibile dalla vita giorno per giorno (9, 9 s),
in una *fiducia in Dio che rimane serena, ma evita di risolvere il problema.
c) In coloro che soffrono per la fede e aderiscono
incondizionatamente al Signore, appare una luce. Dio è la loro «parte», la loro
«luce», la loro «roccia» in mezzo a tutte le miserie (Sal 16, 5 s; 18, 1 ss; 27,
1 s; 73, 26; 142, 6; Lam 3, 24); essi non hanno altro scopo, non vogliono altra
ricompensa che fare la sua volontà (Sal 119, 57; Eccli 2, 18; 51, 20 ss). Ciò
suppone un’atmosfera di *fede intensa, quella in cui vive Giobbe: egli ha «visto
Dio», e questo contatto misterioso con la sua *santità lo lascia umile ed
adorante, cosciente del suo peccato ed abbagliato da una nuova forma di
*conoscenza di Dio (Giob 42, 5 s).
d) Taluni, infine, hanno il presentimento che, per spiegare la
*sofferenza del giusto, sia necessario allargare l’orizzonte e passare dal piano
della retribuzione a quello della *redenzione. Tale è il senso dell’ultimo dei
poemi del *servo (Is 53, 10; cfr. Sal 22). Ma, proprio come nella visione delle
ossa aride e risuscitate (Ez 37, 1-14), la retribuzione sembra riguardare ancora
soltanto il popolo purificato dalle sofferenze dell’esilio.
4. La retribuzione personale.
- In un’ultima tappa, a dare la soluzione al problema posto è la fede nella
*risurrezione personale alla fine dei tempi. Secondo taluni testi, di difficile
interpretazione, Dio di fatto è in dovere di soddisfare nell’uomo la sete di
equità: egli non può abbandonare il giusto, quand’anche dovesse farlo uscire per
un momento dallo sheol per ricompensarlo (Giob 19, 25 ss). Dio non può neppure
lasciare senza risposta l’appello dell’uomo ad essergli definitivamente unito
(cfr. Sal 16, 9 ss): se Dio ha «preso» con sé Elia od Enoch, perché il giusto
non sarebbe «preso» anch’egli presso di lui (Sal 49, 16; 73, 24)? La
persecuzione di Antioco Epifane, suscitando dei martiri, trascina i credenti
nella certezza di una ricompensa oltre la morte mediante la risurrezione (2 Mac
7; cfr. Dan 12, 1 ss). Questa fede nella risurrezione è implicata dal libro
della Sapienza attraverso la credenza nella immortalità (Sal 3, l; 4, 1): al
momento della *visita di Dio nell’ultimo *giorno, i giusti vivranno per sempre
nell’amicizia di Dio, e questa è la loro «mercede» (cfr. Sap 2, 22; 5, 15), una
mercede che è anche una «grazia» (cfr. 3, 9. 14; 4, 15), che trascende
infinitamente il valore dello sforzo umano.
III. CRISTO E LA RETRIBUZIONE
Con la venuta di Cristo, la retribuzione trova il suo pieno senso e il suo fine.
1. Conservazione della retribuzione individuale.
- Taluni in Israele (Mt 22, 23; Atti 23, 8), persino tra i discepoli di
Cristo (1 Cor 15, 12), dubitano ancora della risurrezione, della *vita eterna,
del *regno senza fine che ricompenserà i giusti; ma Gesù ed i suoi apostoli
conservano fermamente l’autentica tradizione di Israele (Mt 22, 31 s; 25, 31-46;
1 Cor 15, 13-19; Atti 24, 14 ss). Il Dio di Gesù Cristo, risuscitando suo
Figlio, dimostra di essere *giusto (Atti 4, 14 ss; col 2, 12 s). Il credente sa
quindi che riceverà un salario per le sue *opere (cfr. Mt 16, 27; Mc 9, 41; 2
Tim 4, 14; 2 Gv 8; 2 Piet 2, 13; Apoc 18, 6), e che al giudizio il re *re
invierà gli uomini, in base a ciò che avranno fatto, alla *vita o al *castigo
(Mt 25, 46), al *cielo o nell’inferno. Quindi si tratta di condurre il
combattimento con ardore per conseguire il premio (1 Cor 9, 24-27; Gal 5, 7; 2
Tim 4, 7).
2. La vera ricompensa.
- Così stando le cose, rinasce il rischio di ritornare ad una
concezione, quella dei *Farisei, secondo la quale la ricompensa divina è
misurata dalla osservanza umana. Ma il credente è posto continuamente in guardia
contro una simile deformazione della dottrina della retribuzione. Anzitutto
l’uomo non deve più ricercare i vantaggi terreni, gloria, reputazione,
riconoscenza od interesse; colui che fa il bene per simili motivi ha «già
ricevuto la sua mercede» (Mt 6, 1-18; Lc 14, 12 ss; cfr. 1 Cor 9, 17 s). Ma
soprattutto, ponendo Cristo al centro di ogni cosa, ciò che ìl cristiano
persegue non è la sua felicità, neppure spirituale, neppure acquistata con la
rinuncia ed il dono di sé; lo scopo del cristiano è Cristo (Fil 1, 21-26). Sua
mercede è l’*eredità divina (Col 3, 24), e questa lo rende anzitutto coerede,
fratello di Cristo (Rom 8, 17). La corona che l’apostolo attende, la riceverà
per il fatto stesso della venuta di Cristo atteso con amore (2 Tim 4, 8). In
breve, ciò che egli vuole, è di essere «con Gesù» per sempre (1 Tess 4, 17; cfr.
Fil 1, 23; Lc 23, 43; Apoc 21, 3 s). Lo sforzo della sua vita è la *fedeltà al
suo battesimo: conformato alla morte di Cristo, egli si prepara a risorgere con
lui (Rom 6, 5-8; Col 3, 1-4). La *salvezza che l’uomo giustificato attende (Rom
5, 9 s) non è altro che l’*amore di Dio manifestato nella persona di Cristo (Rom
8, 38 s). È quel che dice Giovanni in altre parole: alla *fame ed alla sete
degli uomini, al loro *desiderio appassionato di trionfare della morte, Gesù
risponde con quel che egli è: la fonte dell’acqua viva, il *pane, la *luce, la
*vita (Gv 7, 37 s; 6, 26-35; 8, 12; 11, 23 ss). Mediante la vita in Cristo Gesù
sono risolte tutte le antinomie che la dottrina della retribuzione presentava.
Data all’uomo al termine della sua ricerca e dei suoi sforzi, essa tuttavia è
gratuità assoluta che supera infinitamente ogni aspettativa ed ogni merito.
Attesa con fervore e nella *speranza, essa è già posseduta con la
*giustificazione. Certezza serena, essa rimane fondata sulla sola *testimonianza
di Dio accolta nell’oscurità e nella prova della *fede. Penetrando nel più
profondo della personalità di ogni uomo, essa lo raggiunge in seno al *corpo di
Cristo. Nessuna opposizione tra «morale della retribuzione» e «morale
dell’amore», perché l’amore stesso vuole la retribuzione.
C. WIÉNER
→ acqua II 1 - beatitudine VT I 2 - castighi 2 - cielo VI - educazione
I l a - empio VT 3 - eredità VT II I - giustizia 0; A I VT 3; B Il VT - inferi e
inferno - messe III - opere VT II; NT II - poveri VT I - responsabilità -
risurrezione VT III - vendetta 3.
→ giustizia - semplice 2 - verità VT 1.2; NT 1.
Sulla ricchezza e
la povertà, le concezioni del VT e del NT sembrano radicalmente opposte. Di
fatto è vero che, rivelando nel regno dei cieli il tesoro senza prezzo che
merita il sacrificio di tutti i beni (Mt 13, 44), Gesù Cristo fa apparire
l’inconsistenza di tutte le ricchezze umane, per quanto grandi (III). Ma rimane
nella linea del VT, per il quale già ogni ricchezza che non è ricevuta come un
dono di Dio è vana e pericolosa (II), e realizza senza abolirle le promesse
antiche secondo le quali Dio arricchisce i suoi eletti (I). Se le ricchezze sono
pericolose, e se la perfezione del vangelo consiste nel sacrificarle, non è
perché siano cattive, ma perché Dio solo è «buono» (Mt 19, 17) e si è fatto
nostra ricchezza.
I. DIO ARRICCHISCE I SUOI ELETTI
1. La ricchezza è un bene.
- Fin nei testi più recenti, il VT si compiace di vantare la ricchezza dei
personaggi pii della storia di Israele, quella di Giobbe dopo la prova, quella
dei santi re, David, Josafat, Ezechia (2 Cron 32, 27 ss). come per la Grecia
omerica, la ricchezza sembra in Israele un titolo di nobiltà, e Dio arricchisce
coloro che ama: Abramo (Gen 13, 2), Isacco (26, 12 s), Giacobbe (30, 43); le
tribù menano vanto della loro prosperità. Efraim riceve le benedizioni del cielo
(pioggia), dell’abisso (fonti), delle mammelle e del seno (49, 25). Giuda può
essere fiero: «I suoi occhi sono lucidi per il vino, i suoi denti bianchi per il
latte» (49, 12). Sulla terra, che Jahvè promette al suo popolo, non deve mancare
nulla (Deut 8, 7-10; 28, 1-12). E questo perché la ricchezza, anche la più
materiale, è già un bene; assicura in particolare una preziosa indipendenza,
preserva dal dover supplicare (Prov 18, 23), dall’essere schiavo del proprio
creditore (22, 7), procura amicizie utili (Eccli 13, 21 ss). La sua acquisizione
suppone normalmente qualità umane meritorie: diligenza (Prov 10, 4; 20, 13),
sagacia (24, 4), realismo (12, 11), audacia (11, 16), temperanza (21, 17).
2. Un bene relativo e secondario.
- La ricchezza può essere un bene, ma non è mai presentata come il
migliore dei beni: le si preferisce ad esempio la *pace dell’anima (Prov 15,
16), la buona fama (22, 1), la salute (Eccli 30, 14 ss), la *giustizia (Prov 16,
8). Molto presto se ne vedono i limiti; vi sono cose che non si comperano:
l’esenzione dalla morte (Sal 49, 8), l’amore (Cant 8, 7). La ricchezza è causa
di *preoccupazioni inutili: ci si esaurisce a nutrire dei parassiti (Eccle 5,
10) ed a fare ereditare degli estranei (6, 2). Alla ricchezza bisogna sempre
preferire la *sapienza, che ne è la fonte (1 Re 3, 11 ss; Giob 28, 15-19; Sap 7,
8-41); essa è il tesoro, la perla preziosa che merita tutte le cure (Prov 2, 4;
3, 15; 8, 11).
3. Un dono di Dio.
- La ricchezza è un segno della generosità divina; è uno degli elementi
della sapienza di vita che Dio non cessa di promettere ai suoi eletti. La
prosperità non consacra forse la riuscita dello sforzo? Perciò essa appare
successo e gloria (Sal 37, 19), come la miseria appare fallimento e vergogna (Ger
12, 13). Con vita lunga, salute, considerazione di tutti, la ricchezza fa parte
della pace e della sazietà dell’esistenza. Ora, se Dio si occupa di uno, lo fa
per saziarlo; tra le sue mani non si manca di nulla (Sal 23, 1; 34, 10). Se nel
deserto egli nutriva il suo popolo a sazietà (Es 16, 8-15; Sal 78, 24-29),
quanto più nella terra promessa (Lev 26, 5; 25, 19; Deut 11, 15; Neem 9, 25).
Quando riceve in casa sua, nel suo tempio, sazia fino ad inebriare (Sal 23, 5;
36, 9); e nella pienezza di gioia causata dalla presenza della sua *faccia (Sal
16, 11), se vi è ben altro che l’abbondanza di un *pasto festivo, c’è la
riconoscenza di un popolo che crede alla generosità di Dio e ne vede il segno
dei suoi doni (Deut 16, 14 s). Il precetto dell’*elemosina si basa su questa
imitazione della generosità divina: «Sii per gli orfani un padre... e sarai come
il Figlio dell’Altissimo» (Eccli 4, 10; cfr. Giob 31, 18).
4. Dio ricolma con le sue ricchezze.
- Le ricchezze, di cui Dio ci colma nel Figlio suo, sono quelle «della parola e
della scienza» (1 Cor 1, 5), quelle «della sua grazia e della sua bontà» (Ef 2,
7). Esse sono di ordine diverso da quelle di questo mondo, nessuna delle quali
potrebbe saziare la nostra fame (Gv 6, 35) e la nostra sete (4, 14). Tuttavia
provengono dalla stessa generosità divina e, se Paolo invita i cristiani a dare
liberamente delle loro ricchezze materiali, si è perché essi sono stati colmati
di doni spirituali (2 Cor 8, 7); e se egli promette loro che Dio li ricompenserà
con «grazie di ogni specie» (9, 8), non ne esclude le ricchezze materiali, che
permetteranno loro «di aver sempre ed in ogni cosa tutto ciò che occorre» e «di
essere arricchiti in tutti i modi» (9, 8. 11). Intenzionalmente i vangeli, dopo
la moltiplicazione dei pani, insistono sui canestri riempiti di resti (Mt 14,
20; 15, 37; 16, 9 s): così dona Dio. L’idea di sazietà è profondamente
cristiana: chi viene a Cristo, non avrà più né fame (Gv 6, 35) né sete (4, 14).
Dio ricolma colui che sceglie e non gli lascia più rimpiangere nulla, né
invidiare alcuno. La *povertà evangelica elimina ogni complesso di inferiorità,
ogni risentimento segreto. Nella sua stessa povertà il cristiano è più ricco del
mondo, e l’apostolo esclama che possiede tutto, anche quando lo si immagina
nella miseria (2 Cor 6, 10). Guai al tiepido che s’immagina di essere ricco,
mentre gli manca l’unico tesoro (Apoc 3, 16 ss); beato il povero e il
perseguitato: egli è ricco (2, 9).
II. ILLUSIONI E PERICOLI DELLA RICCHEZZA
Se Dio arricchisce i suoi amici, non ne consegue che ogni ricchezza sia frutto
della sua *benedizione. L’antica sapienza popolare non ignora che esistono
fortune ingiuste; ma, si ripete, i beni male acquistati non giovano (Prov 21, 6;
23, 4 s; cfr. Os 12, 9) e l’empio ammassa per far infine ereditare il giusto (Prov
28, 8). Di fatto è male acquistata la ricchezza che finisce per escludere la
massa degli uomini dai beni della terra, riservandoli a pochi privilegiati:
«Guai a coloro che aggiungono casa a casa ed uniscono campo a campo, al punto da
occupare tutto lo spazio, restando i soli abitanti del paese» (Is 5, 8); «le
loro case sono piene di rapine, perciò sono diventati importanti e ricchi,
grossi e grassi» (Ger 5, 27 s). Empi, ancora, i ricchi che credono di poter fare
a meno di Dio: confidano nei loro beni e se ne fanno una fortezza (Prov 10, 15),
dimenticando Dio, la sola fortezza valida (Sal 52, 9). Un paese «pieno d’argento
e d’oro... di cavalli e di carri innumerevoli» diventa presto «un paese ripieno
di idoli» (Is 2, 7 s). «Chi confida nella ricchezza, vi si inabisserà» (Prov 11,
28; cfr. Ger 9, 22). Invece di rafforzare l’alleanza, i doni-divini possono
offrire l’occasione di rinnegarla: «Sazi, i loro cuori si gonfiarono, e perciò
mi hanno dimenticato» (Os 13, 6; cfr. Deut 8, 12 ss). Israele dimentica
costantemente donde gli vengono i beni di cui è ricolmo (Os 2) e corre a
prostituirsi con gli ornamenti di cui è debitore all’amore del suo Dio (Ez 16).
È difficile rimanere fedeli nella prosperità, perché il grasso chiude il *cuore
(Deut 31, 20; 32, 15; Giob 15, 27; Sal 73, 4-9). È sapienza diffidare
dell’argento e dell’oro, quand’anche si fosse re (Deut 17, 17), e ripetere la
preghiera in cui Agur riassume dinanzi a Dio la sua esperienza: «Non darmi né
povertà né ricchezza; lasciami gustare la mia porzione di pane; per tema che,
sazio, io non ti rinneghi e dica: «Chi è Jahvè?», oppure che, nella miseria, non
rubi e non profani il nome del mio Dio» (Prov 30, 8 s). Il NT fa sue tutte le
riserve del VT nei confronti della ricchezza. Le invettive di Giacomo contro i
ricchi pasciuti e la loro ricchezza imputridita eguagliano quelle dei profeti
più violenti (Giac 5, 1-5). «Ai ricchi di questo mondo» si raccomanda «di non
montare in superbia, di non porre la loro fiducia in ricchezze precarie, ma in
Dio che ci provvede con larghezza di tutto» (1 Tim 6, 17). «L’orgoglio della
ricchezza» è il mondo, e non si può amare Dio ed il mondo (1 Gv 2, 15 s).
III. DIO O IL DENARO
1. La rivoluzione evangelica e la ricchezza.
- La rivoluzione evangelica in rapporto alla ricchezza è brutale. Il «Guai a
voi, o ricchi, perché avete la vostra consolazione» (Lc 6, 24) ha l’accento di
una condanna assoluta. Questa assume tutto il suo rilievo quando si pone a
confronto delle beatitudini e delle *maledizioni del discorso della montagna, le
benedizioni e le maledizioni promesse dal Deuteronomio (in occasione della
grandiosa scena di Sichem), a seconda che Israele sarà, oppure no, fedele alla
legge (Deut 28). Qui la distanza tra il VT ed il NT è una delle maggiori. E
questo perché il vangelo del regno annunzia il dono totale di Dio, la comunione
perfetta, l’ingresso nella casa del Padre, e che, per ricevere tutto, bisogna
dare tutto. Per acquistare la perla preziosa, il tesoro unico, occorre vendere
tutto (Mt 13, 45 s), perché non si può servire due padroni (Mt 6, 24), ed il
denaro è un padrone spietato: soffoca nel *cupido la parola del vangelo (Mt 13,
22); fa dimenticare l’essenziale, la sovranità di Dio (Lc 12, 15-21); blocca
sulla via della perfezione i cuori meglio disposti (Mt 19, 21 s). È una legge
assoluta, e che non pare ammettere né eccezioni né attenuazioni: «chiunque di
voi non rinunzia a tutti i suoi beni, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 33;
cfr. 12, 33). Il ricco, che ha in questo mondo «i suoi beni» (Lc 16, 25) e «la
sua consolazione» (6, 24), non può entrare nel regno; sarebbe «più facile ad un
cammello passare attraverso la cruna di un ago» (Mt 19, 23 s par.). Soltanto i
poveri sono capaci di accogliere la buona novella (Is 61, 1 = Lc 4, 18; Lc 1,
53) e proprio facendosi povero per noi il Signore ha potuto arricchirci (2 Cor
8, 9) con la sua «insondabile ricchezza» (Ef 3, 8).
2. Dare ai poveri.
- Rinunziare alla ricchezza non significa necessariamente non comportarsi più da
proprietario. Persino al seguito di Gesù vi furono alcune persone agiate, e
proprio un ricco uomo di Arimatea accolse il corpo del Signore nella sua tomba
(Mt 27, 57). Il vangelo non vuole che ci si sbarazzi della propria fortuna come
di un peso ingombrante, ma esige che la si distribuisca ai poveri (Mt 19, 21
par.; Lc 12, 33; 19, 8); facendosi degli amici con il «denaro disonesto» - quale
fortuna infatti è, nel mondo, immune da ogni ingiustizia? - i ricchi possono
quindi sperare che Dio aprirà loro la via difficile della salvezza (Lc 16, 9).
Lo scandalo non è che ci sia un ricco ed un povero Lazzaro, ma che Lazzaro, «pur
desiderando nutrirsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco» (Lc 16,
21), non ne ricevesse nulla. Il ricco è responsabile del povero; colui che serve
Dio dà il suo denaro ai poveri, colui che serve Mammona lo conserva per
appoggiarsi su di esso. Infine la vera ricchezza non è quella che si possiede,
ma quella che si dà, perché questo dono chiama la generosità di Dio, unisce nel
ringraziamento colui che dà e colui che riceve (2 Cor 9, 11) e permette al ricco
di esperimentare anch’egli che c’è «più felicità nel dare che nel ricevere»
(Atti 20, 35).
É. BEAUCAMP e J. GUILLET
→ beatitudine VT II 1 - benedizione II 1 - cupidigia - dono NT 3 - elemosina
- gloria I - grazia IV - latte 2 - pienezza - poveri – servire III 0 - tristezza
NT 2.
→ giustizia A I VT 3; B II VT - retribuzione.
Già nel VT il
fatto che Dio non ha cessato di offrire agli uomini il suo *perdono costituisce
un preludio alla sua riconciliazione con essi. Egli stesso si è rivelato come il
«Dio di tenerezza e di pietà» (Es 34, 6), che desiste volentieri dal «furore
della sua *ira» (Sal 85, 4; cfr. 103, 8-12) e parla di *pace al suo popolo (cfr.
Sal 85, 9). I peccati di Israele rappresentano una rottura dell’alleanza del
Sinai; ma Dio, lungi dal rassegnarvisi, prenderà personalmente l’iniziativa di
un’alleanza nuova ed eterna (Ger 31, 31 ss; Ez 36, 24-30); appunto una
riconciliazione - anche se la parola non è usata - Jahvè propone quindi alla sua
*sposa infedele (Os 2, 16-22), ai suoi figli ribelli (Ez 18, 31 s). Tutti i riti
di *espiazione del culto mosaico, ordinati alla purificazione delle mancanze più
varie, miravano in definitiva alla riconciliazione dell’uomo con Dio. Tuttavia
non era ancora giunto il tempo della completa remissione dei peccati, ed i
fedeli del vero Dio rimanevano nell’attesa di qualcosa di meglio (cfr. 2 Mac 1,
5; 7, 33; 8, 29). La riconciliazione perfetta e definitiva è stata compiuta da
Cristo Gesù «*mediatore tra Dio e gli uomini» (1 Tim 2, 5), ed essa d’altronde
non è che un aspetto della sua opera di *redenzione. Rimane tuttavia legittimo
considerare il mistero della *salvezza, sotto questo punto di vista speciale,
alla luce di alcuni testi di Paolo (Rom 5, 10 s; 2 Cor 5, 18 ss; Ef 2, 16 s; Col
1, 20 ss): tale è l’oggetto proprio di queste righe.
I. LA NOSTRA RICONCILIAZIONE CON DIO PER MEZZO DI CRISTO
1. L’iniziativa di Dio.
- L’uomo, da solo, è incapace di riconciliarsi con il creatore che ha
offeso col suo *peccato. Qui l’azione di Dio è primaria e decisiva, «e tutto
questo viene da Dio che ci ha riconciliati con se stesso per mezzo di Cristo» (2
Cor 5, 18). Egli ci amava già quando noi eravamo suoi «nemici» (Rom 5, 10), e
proprio allora il suo Figlio «è morto per noi» (5, 8). Il mistero della nostra
riconciliazione è collegato a quello della *croce (cfr. Ef 2, 16) e del «grande
amore» con cui siamo stati amati (cfr. Ef 2, 4). 2. Gli eletti della
riconciliazione. - Dio, ormai, non tiene più conto delle mancanze degli uomini
(cfr. 2 Cor 5, 19). Ma, lungi dall’essere una semplice finzione giuridica,
l’azione di Dio, a detta di Paolo, è come «una nuova *creazione» (2 Cor 5, 17).
La riconciliazione implica un rinnovamento completo per coloro che ne
beneficiano, e coincide con la *giustificazione (Rom 5, 9 s), con la
santificazione (Col 1, 21 s). *Nemici, fino a questo momento, di Dio per la
nostra condotta cattiva (Rom 1, 30; 8, 7), ora possiamo «gloriarsi in Dio» (Rom
5, 11), che vuole «farci comparire dinanzi a sé santi, immacolati ed
irreprensibili» (Col 1, 22); abbiamo «tutti, in un solo spirito, accesso al
Padre» (Ef 2, 18).
3. «Il ministero della riconciliazione».
- Tutta l’opera della *salvezza è già compiuta da parte di Dio, ma,
sotto un altro punto di vista, continua attualmente fino alla parusia, e Paolo
può definire l’attività apostolica come «il ministero della riconciliazione» (2
Cor 5, 18). «Come ambasciatori di Cristo», gli apostoli sono i messaggeri della
«parola della riconciliazione» (5, 19 s). Un antico papiro parla qui persino del
«vangelo della riconciliazione», e tale è appunto il tenore del messaggio
apostolico (cfr. Ef 6, 15: «il vangelo della pace»). Nel loro ministero i servi
del *vangelo si sforzeranno quindi, ad esempio di Paolo, di essere per parte
loro gli artefici della pace che annunziano (2 Cor 6, 4-13).
4. L’accoglienza del dono di Dio.
- Dal fatto che Dio è l’autore primario e principale della
riconciliazione non consegue che l’uomo abbia qui un atteggiamento puramente
passivo: deve accogliere il dono di Dio. L’azione divina non esercita la sua
efficacia se non per coloro che vogliono acconsentirvi mediante la *fede. Di qui
il grido pressante di Paolo: «Noi vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi
riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 20).
II. LA RICONCILIAZIONE UNIVERSALE
1. La creazione riconciliata.
- Parlando della riconciliazione del *mondo (2 Cor 5, 19; Rom 11, 15),
Paolo finora aveva di mira soprattutto gli uomini peccatori, senza d’altra parte
misconoscere che lo stesso mondo materiale è solidale con l’uomo e deve
partecipare alla sua *liberazione (cfr. Rom 8, 19-22). Nelle lettere della
prigionia, in Col e in Ef, l’orizzonte dell’apostolo si amplia, per abbracciare
tutto l’universo, «sulla terra» e «nei cieli» (Col 1, 20): riconciliati con Dio
in virtù del sangue della croce, gli uomini sono riconciliati anche con gli
spiriti celesti; è posto fine persino all’atteggiamento ostile che nei nostri
confronti potevano assumere le potenze *angeliche sotto il regime abrogato della
*legge (cfr. Col 2, 15).
2. La riconciliazione dei Giudei e dei pagani.
- Paolo corona il suo insegnamento in Ef 2, 11-22. L’azione di Cristo
«nostra pace» (2, 14) vi è messa in piena luce, e soprattutto i meravigliosi
benefici che egli procura ai pagani di ieri: essi sono ora integrati nel popolo
eletto allo stesso titolo dei Giudei, l’era della separazione e dell’odio è
terminata, tutti gli uomini non formano più in Cristo che un solo *corpo (2,
16), un solo *tempio santo (2, 21). Poco importano all’apostolo delle nazioni le
*sofferenze gloriose che gli attira l’annunzio di questo *mistero (Ef 3, 1-13).
Paolo è stato il teologo ispirato ed il ministro infaticabile della
riconciliazione, ma Gesù stesso, col suo *sacrificio, ne è stato l’artefice,
«nel suo *corpo di carne» (Col 1, 22); e per primo ne ha pure sottolineato le
esigenze profonde: il peccatore riconciliato da Dio non può rendergli un *culto
gradito se prima non va a riconciliarsi egli stesso con il suo fratello (Mt 5,
23 s).
L. ROY
→ fratello VT 3; NT 1 – giubileo I 2 - nazioni III 1 b - nemico III -
pace II 3 b, III 2 - peccato I 2 - processo II - redenzione - violenza IV 3.
→ eucaristia I 1 - ringraziamento.
→ incredulità - indurimento - visita NT 1 - volontà di Dio VT II.
→ città VT 2.3 - Egitto 1 - fiducia - monte - ombra II - roccia - salvezza.
→ battesimo IV - nascita (nuova) 3 – nuovo III 3.
→ elezione VT III 1; NT III - maledizione.
Sempre in
movimento, Israele, prima nomade, poi *esiliato, non ha mai sperimentato
veramente ciò che significa «rimanere». Non dispone neppure di una parola che
esprima esattamente quest’idea. È obbligato a descrivere semplicemente ciò che
vede: un uomo assiso (Gen 25, 27), il vincitore in piedi, solo sopravvissuto
alla battaglia (1 Sam 17, 51; cfr. Gios 7, 12), od ancora le tende piantate
abitualmente negli stessi pascoli (Gen 16, 12; 25, 18). Bisogna attendere gli
equivalenti greci per avere le nostre immagini familiari di casa, di stabilità,
di permanenza. E tuttavia questo popolo, sempre in cammino, sogna di *riposarsi
dalle fatiche del *deserto: vorrebbe stabilirsi e vivere in pace nella *terra
che Dio gli ha promesso (cfr. Gen 49, 9. 15; Deut 33, 12. 20). Alla sera di
ciascuna delle grandi tappe della sua storia, Israele pensa di piantare le sue
tende per una «sicura dimora» (Deut 12, 8 ss). Ed al mattino delle nuove
partenze, trova coraggio ascoltando i profeti che gli annunziano un luogo dove
metterà radici (Am 9, 15), una tenda che non sarà strappata (Is 33, 20), o
persino una *casa stabile ed una città ben fondata (2 Sam 7, 9 ss; cfr. Is 54,
2). Ma sempre Jahvè, suo *pastore, «distrugge le sue dimore» (cfr. Am 5, 15; Ger
12, 14), per castigarlo e ricondurlo nel deserto, o viceversa, per trascinarlo
verso pascoli migliori (Sal 23; Ger 50, 19; Ez 34, 23-31). Così dimorare è un
ideale sempre sperato, ma mai raggiunto, che non troverà compimento se non in
Dio.
I. CIÒ CHE PASSA E CIÒ CHE PERMANE
1. «Passa la figura di questo mondo» (1 Cor 7, 31; 2 Cor 4, 18).
- Viandante eterno, l’uomo non può rimanere quaggiù, non perdura: come ogni
*carne, simile all’erba, la sua vita è breve, appassisce e muore (Is 40, 6 ss;
Giob 14, 1 s). Il mondo in cui vive appare almeno più stabile (2 Piet 3, 4), la
terra poggia saldamente sulle sue basi (Sal 104, 5) e Dio ha garantito a *Noè la
regolarità delle leggi della natura (Gen 8, 22). Ma questa promessa vale
soltanto «finché la terra durerà», perché «i cieli saranno scossi» (Ebr 12, 26
s); e Cristo ha avvisato i suoi: «Il *cielo e la terra passeranno, ma le mie
parole non passeranno» (Mt 24, 35 par.). L’alleanza del Sinai, pur fondata sulla
legge e sulle parole di Dio, si è rivelata anche essa caduca: gli Ebrei,
infedeli a Jahvè, disobbedienti alla legge, non poterono rimanere nella terra
promessa (Deut 8, 19 s; 28, 30. 36). In una parola, non «rimasero nella
alleanza» (Ebr 8, 9. 13). Questa, d’altronde, non era che una *figura passeggera
della nuova alleanza (Ger 31, 31; Mt 26, 28 par.; Gal 4, 21-31). Anche tra le
realtà di questa nuova economia talune passeranno, come i *carismi di *profezia
e di scienza od il dono delle *lingue; ma «la fede, la speranza e la carità
rimangono tutte e tre» (1 Cor 13, 8-13). Questo mondo non è quindi una «*città
permanente», bisogna uscirne (Ebr 13, 13 s); anche il cristiano sa che «la sua
dimora terrena» non è che una «tenda» di dove dovrà sloggiare, per andare a
prendere domicilio presso il Signore (2 Cor 5, 1-8).
2. Di fatto Dio solo rimane, lui che è, che era e che viene (Apoc 4, 8;
cfr. 11, 17),
«Egli è il Dio vivente, rimane in eterno» (Dan 6, 27; Sal 102, 27 s). Sedendo
nei cieli inaccessibili, dimora santa ed eterna, egli si ride delle minacce (Sal
2, 4; 9, 8; Is 57, 15). È la *roccia stabile su cui bisogna fondarsi. La sua
*parola (Is 40, 8; 1 Piet l, 23 ss), il suo *disegno (Is 14, 24), la sua
*promessa (Rom 4, 16), il suo *regno (Dan 4, 31), la sua *giustizia (Sal 111,
3), il suo *amore (Sal 136) rimangono in eterno. Egli conferisce saldezza a
tutto ciò che sulla terra possiede qualche stabilità sia nell’ordine fisico come
in quello morale (Sal 119, 89 ss; 112, 3. 6). Anche il *giusto è come un albero
piantato, che rimane in piedi nel giorno del giudizio (Sal 1, 3 ss), o come
l’uomo che ha fondato la sua casa sulla pietra (Mt 7, 24 s par.) cioè su Cristo,
sola *pietra angolare incrollabile (Is 28, 16; 1 Cor 3, 10-14; Ef 2, 20 ss). Di
fatto l’uomo, per sussistere, deve fondarsi sulla solidità di Dio, cioè credere
(Is 7, 9) e perseverare nella *fede (Gv 8, 31; 15, 5 ss; 2 Tito 3, 14; 2 Gv 9)
in colui che è «identico ieri, oggi e per sempre» (Ebr 13, 8).
II. DIO ABITA IN NOI E NOI IN LUI
1. Con la sua *presenza, Dio permette agli uomini di rimanere.
- Si è costruito in Sion un *tempio dove il suo *nome risiede e che la sua
*gloria riempie (Deut 12, 5-14; 1 Re 8, 11; Mt 23, 21). D’altronde questa dimora
è provvisoria; di fatto sarà profanata dal peccato; allora la gloria di Jahvè la
lascerà, ed il popolo sarà condotto in *esilio (Ez 8, 1 - 11, 12).
2. Ora «il Verbo si è fatto carne, ed abitò fra noi» (Gv 1, 14).
- Egli, l’«Emmanuel» (Mt 1, 23; Is 7, 14), il cui regno non avrà fine (Lc
1, 33), deve «rimanere in eterno» (Gv 12, 34) perché il Padre dimora in lui, ed
egli è nel Padre (14, 10). E tuttavia la sua presenza sensibile deve cessare;
egli deve lasciare i suoi (13, 33), perché deve preparare per essi le numerose
dimore della casa del Padre suo (14, 2 s).
3. Affinché lo *Spirito Santo ci sia dato e rimanga in
noi (Gv 14, 17),
il ritorno di Cristo al Padre era necessario (16, 7). Avendo così ricevuto
l’*unzione di Cristo (1 Gv 2, 27 s), il cristiano rimane in lui se «mangia la
sua *carne» (Gv 6, 27-56), se vive come egli ha vissuto (1 Gv 2, 6), nel suo
amore (Gv 15, 9), senza peccare (l Gv 3, 6) e custodendo la sua parola (Gv 14,
15-23; 1 Gv 3, 24). Con ciò, sia il Padre che Cristo e lo Spirito dimorano in
lui (Gv 14, 23). Si crea tra Dio e il cristiano una unione così intima e feconda
come quella del ceppo e dei tralci nella *vite (Gv 15, 4-7); essa permette al
cristiano di rimanere, cioè di portare *frutto (15, 16) e di vivere eternamente
(Gv 6, 56 ss). In tal modo Cristo «in cui abita tutta la *pienezza della
divinità» (Col 1, 19; 2, 9) inaugura il regno che sussiste in eterno (Ebr 12, 27
s) e costruisce la solida città (Ebr 11, 10) di cui egli stesso è il solo
fondamento (Is 28, 16; 1 Cor 3, 11; 1 Piet 2, 4).
J. DE VAULX
→ casa - cielo III, IV - comunione NT 2 b - ospitalità 2 - Paraclito 1
- pietra 2 - presenza di Dio - tempio VT.
La realtà
primaria della storia biblica è il *dono di Dio, gratuito, sovrabbondante,
definitivo. L’incontro con Dio non pone soltanto l’uomo in presenza
dell’assoluto ma lo satura e trasforma la sua vita. Il ringraziamento appare
come la risposta a questa *grazia progressiva e continua che un giorno doveva
manifestarsi pienamente in Cristo. Il ringraziamento, che è nello stesso tempo
presa di coscienza dei doni di Dio, slancio purissimo dell’animo stupito di
questa generosità, riconoscenza gioiosa dinanzi alla grandezza divina, è
essenziale nella Bibbia, perché è una reazione religiosa fondamentale della
creatura che, in un fremito di *gioia e di venerazione, scopre qualcosa di *Dio,
della sua grandezza e della sua *gloria. Il peccato capitale dei pagani è,
secondo Paolo, di «non aver reso a Dio né gloria né grazie» (Rom 1, 21). E di
fatto, nella massa degli inni creati dalla pietà mesopotamica, il ringraziamento
è eccezionale, mentre è frequente nella Bibbia e vi suscita slanci potenti.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Dall’una all’altra alleanza.
- Il ringraziamento del VT annunzia quello del NT nella misura in cui esso è
sempre, oltre che riconoscenza, tensione verso il futuro e verso una grazia più
alta. D’altra parte, al momento della nuova alleanza, il ringraziamento prorompe
veramente, diventando onnipresente nella preghiera e nella vita dei cristiani,
come non lo era mai stato nei giusti antichi. Il ringraziamento biblico è
essenzialmente cristiano. Tuttavia non è tale in modo esclusivo, al punto che,
come è stato scritto, nel VT «l’Israelita lodi senza ringraziare». In realtà, se
il VT non conosce ancora la pienezza del ringraziamento, si è perché non ha
ancora gustato la pienezza della grazia. Se la *lode, più spontanea, più
esteriore, vi occupa forse più posto che non il ringraziamento propriamente
detto, più meditato, più attento agli atti di Dio, alle sue intenzioni, alla sua
*rivelazione, si è perché il Dio santissimo non si è rivelato che
progressivamente, svelando a poco a poco l’ampiezza della sua azione e la
profondità dei suoi doni.
2. Il vocabolario.
- Scoprire il ringraziamento nella Bibbia significa ritrovare nello stesso tempo
la gioia (Sal 33, 1-3. 21), la lode e la esaltazione (Esd 3, 11; Sal 69, 31), la
glorificazione di Dio (Sal 50, 23; 86, 12). Più precisamente, il ringraziamento
è *confessione pubblica di determinati atti divini. Lodare Dio significa
divulgare le sue grandezze; ringraziarlo significa proclamare le meraviglie che
egli compie e rendere testimonianza alle sue opere. Il ringraziamento va di pari
passo con la *rivelazione; ne è come l’eco nei cuori. Perciò comporta sovente la
menzione della assemblea dei giusti o dei popoli convocati per ascoltarlo (Sal
35, 18; 57, 10; 109, 30), un invito ad unirvisi (Sal 92, 2 ss; 105, 1 s). In ebr.
soprattutto tôdah esprime questa sfumatura della confessione stupita e
riconoscente, che spesso, con una parola molto meno espressiva e assai poco
esatta, traduciamo con «ringraziare». La parola, che sembra cristallizzare il
ringraziamento nel VT e rendere più esattamente l’atteggiamento religioso che
s’intende, è quella di *benedizione (ebr. barak), che esprime «lo scambio
essenziale» tra Dio e l’uomo. Alla benedizione di Dio, che dà la vita e la
salvezza alla sua creatura (Deus 30, 19; Sal 28, 9), risponde la benedizione con
cui l’uomo, sollevato da questa potenza e generosità, rende grazie al creatore
(Dan 3, 90; cfr. Sal 68, 20. 27; Neem 9, 5...; 1 Cron 29, 10...).
3. Storia del ringraziamento.
- Esiste uno schema letterario classico del ringraziamento, visibile
particolarmente nei Salmi, che manifesta bene il carattere del ringraziamento,
reazione ad un atto di Dio. La confessione della riconoscenza per la *salvezza
ottenuta si sviluppa normalmente in un «racconto» in tre parti: descrizione del
pericolo corso (Sal 116, 3), preghiera angosciata (Sal 116, 4), ricordo del
magnifico intervento di Dio (Sal 116, 6; cfr. Sal 30; 40; 124). Questo genere
letterario si ritrova identico attraverso tutta la Bibbia ed obbedisce ad una
identica tradizione di vocabolario, permanente attraverso i salmi, i cantici e
gli inni profetici. Il ringraziamento è uno, perché risponde all’unica *opera di
Dio. Più o meno confusamente ogni beneficio particolare di Jahvè è sempre
sentito come un momento d’una grande storia in corso di realizzazione. Il
ringraziamento permea la storia biblica e la prolunga nella *speranza
escatologica (cfr. Es 15, 18; Deut 32, 43; Sal 66, 8; 96). Non soltanto il
ringraziamento ispira taluni brani letterari antichissimi, che raccolgono già
tutta la fede di Israele: il cantico di Mosè (Es 15, 1-21) oppure quello di
Debora (Giud 5), ma è possibilissimo che alla base dell’Esateuco e di tutta la
storia di Israele ci sia stata una confessione di *fede cultuale, che proclamava
nel ringraziamento le grandi imprese di Jahvè sul suo popolo. Così, fin dalle
origini la vera fede è confessione nel ringraziamento. Questa tradizione
fiorisce costantemente, a misura che Israele acquista maggior coscienza della
generosità di Dio, e si esprime in tutti i campi: nella letteratura profetica (Is
12; 25; 42, 10...; 63, 7...; Ger 20, 13) e sacerdotale (1 Cron 16, 8...; 29,
10-19; Neem 9, 5-37), nelle composizioni monumentali degli ultimi scritti del VT
(Tob 13, 1-8; Giudit 16, 1-17; Eccli 51, 1-12; Dan 3, 26- 45. 51-90).
NUOVO TESTAMENTO
Il NT, essendo la rivelazione ed il dono della grazia perfetta (cfr. Gv 1, 17)
nella persona di *Gesù Cristo, è pure la rivelazione del perfetto ringraziamento
reso al Padre nello Spirito Santo.
1. Il vocabolario cristiano.
- Attraverso i LXX, esso eredita la tradizione del VT. Il ringraziamento è
inseparabile dalla *confessione (gr. homologhèo: Mt 11, 25; Lc 2, 38; Ebr 13,
15), dalla lode (gr. ainèo: Lc 2, 13. 20; Rom 15, 11), dalla glorificazione (gr.
doxàzo: Mt 5, 16; 9, 8) e sempre, in modo privilegiato, dalla benedizione (gr.
euloghèo: Lc 1, 64. 68; 2, 28; 1 Cor 14, 16; Giac 3, 9). Ma un termine nuovo,
praticamente sconosciuto al VT (gr. eucharistèo, eucharistia) invade il NT (più
di 60 volte), manifestando l’originalità e l’importanza del ringraziamento
cristiano, risposta alla *grazia.(charis) data da Dio in Gesù Cristo. Il
ringraziamento cristiano è una *eucaristia, e la sua espressione perfetta è
l’eucaristia sacramentale, il ringraziamento del Signore, dato da questi alla
sua Chiesa.
2. Il ringraziamento del Signore.
- L’atto supremo del Signore è una rendimento di grazie; il *sacrificio che Gesù
fa della propria vita consacrandola al Padre per santificare i suoi (Gv 17, 19)
è la nostra eucaristia. Nella cena e sulla croce Gesù rivela la molla di tutta
la sua vita e quella della sua morte: il ringraziamento del suo cuore di
*Figlio. Sono necessarie la passione e la morte di Gesù perché egli possa
glorificare pienamente il Padre (Gv 17, 1), ma tutta la sua vita è un
ringraziamento incessante, che diviene talvolta esplicito e solenne, per
trascinare gli uomini a credere ed a rendere grazie a Dio con lui (cfr. Gv 11,
42). L’oggetto essenziale di questo ringraziamento è l’opera di Dio, la
realizzazione messianica, manifestata specialmente dai miracoli (cfr. Gv 6, 11;
11, 41 ss), il dono del suo Verbo che Dio ha fatto agli uomini (Mt 11, 25 ss).
3. Il ringraziamento dei discepoli.
- Il dono dell’eucaristia alla Chiesa esprime una verità essenziale:
soltanto Gesù Cristo è il nostro ringraziamento, com’egli solo è la nostra lode.
Egli per primo tende grazie al Padre, ed i cristiani dopo di lui ed in lui: «per
lui, con lui e in lui». Nel ringraziamento cristiano, come in tutta la preghiera
cristiana, Cristo è il solo modello ed il solo *mediatore (cfr. Rom 1, 8; 7, 25;
1 Tess 5, 18; Ef 5, 20; Col 3, 17). Coscienti del dono ricevuto, e trascinati
dall’esempio del maestro, i primi cristiani fanno del ringraziamento la trama
stessa della loro vita rinnovata. L’abbondanza di queste manifestazioni ha del
sorprendente. Sono i cantici di Luca 1 e 2, provocati, come taluni cantici del
VT, dalla meditazione lenta e religiosa degli avvenimenti. Sono i «riflessi» di
ringraziamento degli apostoli e delle prime comunità (Atti 28, 15; cfr. 5, 41;
21, 20; Rom 7, 25; 2 Cor 1, 11; Ef 5, 20; Col 3, 17; 1 Tess 5, 18). Sono
soprattutto i grandi testi di Paolo, così evocatori del suo ringraziamento
«continuo» (1 Cor 1, 4; Fil 1, 3; Col 1, 3; 1 Tess 1, 2; 2, 13; 2 Tess 1, 3),
che assumono talvolta la forma solenne della benedizione (2 Cor 2, 3; Ef 1, 3).
Per Paolo, tutta la vita cristiana, tutta la vita della Chiesa, è sostenuta ed
avvolta da una combinazione costante di supplica e di ringraziamento (1 Tess 3,
9 s; 5, 17 s; Rom 1, 8 ss). L’oggetto di questo ringraziamento, attraverso ogni
sorta di avvenimenti e di segni, rimane identico, quello che domina il grande
ringraziamento della lettera agli Efesini: il *regno di Dio, l’avvento del
*vangelo, il *mistero di Cristo, frutto della redenzione, dispiegato nella
*Chiesa (Ef 1, 3-14). L’Apocalisse allarga questo ringraziamento alle dimensioni
della vita eterna. Nella *Gerusalemme celeste, terminata l’opera messianica, il
ringraziamento diventa pura lode di gloria, contemplazione abbagliata di Dio e
delle sue meraviglie eterne (cfr. Apoc 4, 9 ss; 11, 16 s; 15, 3 s; 19, 1-8).
A. RIDOUARD e J. GUILLET
→ benedizione - confessione - eucaristia I - gioia NT II 1 - grazia I - lode
- preghiera II 3, V 2 c.
→ alleanza VT II 1 - nuovo.
→ bene e male III 3 - croce II - morte NT III 3 - perfezione NT 3 - poveri NT II, III - ricchezza III - seguire 2 a - vino I 2.
L’esistenza
dell’uomo consiste in un alternarsi di preoccupazione e quiete, lavoro e riposo.
Per vivere pienamente sembra che debbano coesistere i contrari, la caccia e la
cattura, la ricerca e il possesso, il *desiderio e il godimento. Dopo aver
trovato, l’uomo cerca ancora, insaziabile; I’Ecclesiaste conosce questo ritmo,
ma denuncia un tale andirivieni come vano inseguimento di vento (Eccle 1- 2) e
preferisce attendere la morte che porrà termine alla vanità: «Non c’è riposo per
l’uomo né giorno né notte; a che scopo *cercare dal momento che non si raggiunge
mai?» (Eccle 8,16 s); gli basta gustare sotto lo sguardo di Dio il modesto
piacere del momento presente (2, 24; 9, 7- 10). Tuttavia la tradizione biblica
nel suo complesso conserva l’avvicendamento e ne scopre il senso: ciò che
nell’uomo è successione e pena coincide, purificato, in Dio. Il vero riposo non
è cessazione, ma compimento dell’attività; diviene allora già in terra una
pregustazione del cielo.
I. RIPOSO E LAVORO
Fin dalle sue origini Israele dovette «santificare il *sabato» (Es 20, 8),
consacrare al Signore un giorno di riposo, anche al tempo dei lavori e della
messe (34, 21). A questo precetto furono dati due motivi principali.
1. Riposo, segno di liberazione.
- II codice dell’alleanza precisa che bisogna lasciar riposare gli animali e i
lavoratori (23, 12). A questo motivo umanitario il Deuteronomio aggiunge un
motivo di ordine storico: Israele deve ricordarsi in tal modo di essere stato
liberato da lavori forzati in Egitto (Deut 5, 15). Riposarsi è segno di
*libertà.
2. Riposo, partecipazione al riposo del creatore.
- Secondo la tradizione sacerdotale l’uomo che osserva il sabato imita Dio il
quale, dopo aver *creato cielo e terra, «riposò e riprese fiato il settimo
giorno»; questa osservanza è un «segno che unisce Jahvè ed i suoi fedeli» (Es
31, 17; Gen 2,2 s). Se quindi il sabato santifica, si è perché Dio lo santifica
(cfr. Ez 20, 12). Riposarsi è rivelarsi *immagine di Dio: ciò significa che non
soltanto si è liberi, ma *figli di Dio.
3. Riposo e festa.
- Il sabato non consiste semplicemente nel cessare dal lavoro, ma nel
consacrare le proprie forze a celebrare nella *gioia il creatore ed il
redentore. Può essere chiamato «delizia», perché colui che lo osserva «troverà
in Jahvè le sue delizie» (Is 58, 13 s). Il sabato poteva far entrare nel mistero
di Dio; ma per identificare riposo sabbatico e Dio stesso, sarà necessario che
venga Cristo.
II. VERSO IL RIPOSO DI DIO
Per altra *via Israele fu portato a scoprire il carattere spirituale del riposo
che gli era imposto. Altri temi vengono a mescolarsi al precedente, quello del
sonno, del respirare, del sollievo dopo il pericolo o la pena. Israele
riconoscerà che Dio solo dà il riposo dopo le inquietudini della vita errabonda,
della guerra e dell’esilio.
1. La terra promessa, figura del riposo di Dio.
- Uscendo dall’Egitto, gli Ebrei fuggivano verso la *terra di libertà; questo
riposo sperato (Gios 21, 43 s) doveva essere il frutto di una lenta conquista
(ad es. Giud 1, 19. 21), finché il re David sia infine «liberato da tutti i suoi
nemici» (2 Sam 7, 1). Salomone, al momento della consacrazione del tempio, può
esclamare: «Benedetto sia Jahvè che ha accordato riposo al suo popolo Israele
secondo tutte le sue promesse!» (1 Re 8, 56): al tempo dell’«uomo di pace» Dio
dà a Israele «pace e quiete» (1 Cron 22, 9). Ormai è possibile «vivere sicuri
ciascuno all’ombra della sua vite e del suo fico» (1 Re 4, 20; 5, 5). Riposo
ancora molto terreno, ma garantito da Jahvè che ha deciso di prendere egli
stesso il suo riposo nel *tempio (Sal 132, 14): egli ha *cercato coloro che lo
cercavano ed ha accordato loro il riposo (2 Cron 14, 6). La fedeltà
all’*alleanza condiziona quindi la natura e la durata del riposo nella terra.
Ora questo degenerò presto in sazietà ed in rivolta contro Dio (Deut 32, 15;
Neem 9, 25-28); mentre la salvezza si trova nella conversione e nella calma (Is
30, 15), Achaz ha paura dei nemici di Jahvè (7, 2. 4) e «stanca» Dio con la sua
mancanza di fede (7, 13). Da allora la minaccia dell’esilio e della vita
errabonda pesa sul popolo; ma dopo le pene del *castigo il popolo comprende
meglio che sarà liberato da Jahvè in persona (Ger 30, 10 s); ed Israele
camminerà nuovamente verso il suo riposo (31, 2), verso la danza, la gioia, la
consolazione e la sazietà delle benedizioni (31, 12 s). Il *pastore riconduce le
sue pecore ai buoni pascoli (Ez 34, 12-16; Is 40, 10 s). In questa prospettiva
Dio che dà, prende il sopravvento sulla terra che è data: Israele è in cammino
verso il riposo di Dio.
2. Pregustazione del riposo definitivo.
- Israele non ha atteso la venuta del *giorno del Signore per scoprire,
per vie diverse, le gioie del riposo spirituale. Nella persecuzione (Sal 55, 8),
nella prova (66, 12) o nell’esperienza del suo nulla (39, 14), il salmista
domanda a Dio di lasciarlo «respirare un poco», o di trovare «il riposo della
sua carne» (16, 9); si abbandona al pastore che conduce alle acque del riposo
(23, 1 ss). Questo riposo interiore è offerto dalla *legge: prendere la *via del
bene significa «trovare il riposo» (Ger 6, 16). I *poveri potranno «pascolare e
riposarsi senza che nessuno li inquieti» (Sof 3, 13); al contrario, gli empi
rassomigliano ad un mare agitato che non può trovare pace (Is 57, 20). Partendo
dall’esperienza dell’amore che è nello stesso tempo ricerca e possesso,
desiderio e godimento, la sposa del Cantico sogna l’ora del mezzodì, l’ora del
pieno riposo che pone termine al vagabondare (Cant l, 7); in realtà, ora dice di
essere ammalata d’amore nell’abbraccio del diletto (2, 5 s), ora va perdutamente
dietro a colui che pensava di non più lasciare (3, 1 s. 4). Certamente *gusta
già la presenza del diletto, ma non supererà questa alterna vicenda se non al
momento in cui il diletto l’avrà fatta passare attraverso la morte (8, 6). A sua
volta la sapienza promette il riposo a chi la cerca: dopo la caccia c’è la
cattura (Eccli 6, 28); e se il sapiente constata che «ha poco lavorato per
procurarsi molto riposo» (51, 27), si è perché la sapienza per prima ha scelto
Israele come luogo del suo proprio riposo, di un riposo che è attività sovrana
(27, 7-11). Questa pregustazione del riposo di Dio bastava a Giobbe per superare
le sue *prove? Dio non gli lasciava «riprendere fiato» (Giob 9, 18); come non
avrebbe desiderato la *morte ed il suo «sonno ristoratore» (3, 13)? Tutto
cambierà quando la luce della risurrezione penetrerà nelle tenebre della tomba:
«Quanto a te, va’, riposati e ti rialzerai alla fine dei giorni» (Dan 12, 13).
Ormai il *sonno della morte è per il credente una pregustazione del riposo di
Dio.
III. GESÙ CRISTO, RIPOSO DELLE ANIME
1. Riposo e redenzione.
- Contro i Farisei, Gesù restaura il vero senso del sabato: «II sabato è fatto
per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27) e quindi per salvare la vita
(3, 4): il riposo deve significare la liberazione dell’uomo e magnificare la
*gloria del creatore. Gesù dà a questo segno il suo vero senso guarendo in quel
giorno i *malati: «libera» la donna «legata» da molti anni (Lc 13, 16). In tal
modo si rivela come il «padrone del sabato» (Mt 12, 8), perché realizza ciò di
cui il sabato era la *figura: per mezzo di Cristo il riposo significa la
liberazione dei figli di Dio. Per meritarci questa liberazione e questo riposo,
il *redentore ha voluto non avere «dove posare (klìnein) il capo» (Mt 8, 20),
come lo si posa su un «guanciale» (klìne); non lo «poserà» (klìnein) se non al
momento della morte (Gv 19, 30) sulla croce.
2. Rivelazione del riposo di Dio.
- Per giustificare la sua attività nel giorno del riposo, Gesù dice:
«Il Padre mio lavora continuamente, ed anch’io lavoro» (Gv 5, 17). In Dio
*lavoro e riposo non si escludono, ma esprimono il carattere trascendente della
*vita divina; questo è il mistero che la sapienza annunziava al riposo pur nel
lavoro (Eccli 24, 11). Il lavoro di Cristo e degli operai della messe è di
soccorrere nella *gioia le pecore stanche ed abbattute (Mt 9, 36; cfr. Gv 4, 36
ss), perché Gesù offre il riposo alle anime che vengono a lui (Mt 11, 29).
3. Il riposo del cielo.
- Il «riposo di Dio», che gli Ebrei avevano creduto di raggiungere penetrando
nella terra promessa, era riservato «al *popolo di Dio», a coloro che sarebbero
rimasti *fedeli ed *obbedienti a Gesù Cristo: tale è il commento che la lettera
agli Ebrei (3, 7 - 4, 11) fa al Sal 95. Questo riposo è il *cielo, dove entrano
«i morti che muoiono nel Signore: fin d’ora si riposino dalle loro fatiche,
perché le loro opere li accompagnano» (Apoc 14, 13). Del testo, riposarsi in
cielo non significa cessare, ma rendere perfetta la propria attività: mentre gli
adoratori della *bestia non conoscono riposo né giorno né notte (14, 11), i
viventi non cessano di ripetere, giorno e notte, la lode del Dio tre volte santo
(4, 8).
X. LÉON-DUFOUR
→ beatitudine - lavoro - morte NT III 4 - pace - rimanere - sabato - sonno I.
→inferi e inferno VT II; NT I - indurimento I 2 a - ira B - maledizione.
→ liberazione-libertà II, III - redenzione - schiavo.
Il nome di Isacco
- «riso» - offre il destro ad una variazione su un tema che vi si presta: che vi
ha di più complesso del riso? Attraverso Gen 17, 17; 18, 12-15; 21, 6..., la
Scrittura gioca su due aspetti del riso: un riso di *incredulità, ma che può
trasformarsi, dinanzi alla meraviglia divina, in riso di felice stupore.
Certamente l’uomo biblico sa ridere: in racconti più numerosi di quel che si
pensi, si cela una forza comica vigorosa. Ma questo riso è caratterizzato
dall’asprezza della condizione dell’uomo di Israele e sovente non manca di una
nota di sfida, di scherno o di trionfo. Di fatto, attraverso i testi, si sente
più il riso dello stolto, cioè dell’uomo che cammina fuori della verità, che non
il riso del giusto.
1. Il riso dello stolto.
- È il riso impuro (Eccli 27, 13) o semplicemente esagerato (21, 20), mentre
quello del sapiente è discreto. È soprattutto il riso del beffardo, termine dal
senso ben preciso, che designa l’uomo ribelle alla correzione (Prov 13, l; 15,
12...), all’insegnamento, all’accettazione della *fede. Lo schernitore è il
contrario del sapiente (Prov 9, 12; 29, 8): risponde con la sua beffa alla
parola di Dio (Ger 20, 7 s), come ad es. alla riforma di Ezechia (2 Cron 20,
10), o più tardi all’annuncio della risurrezione dei morti (Atti 17, 32).
Infine, negli ultimi giorni, degli «schernitori beffardi» (2 Piet 3, 3) porranno
in dubbio le promesse. Allora lo scherno equivale quasi al rifiuto di credere.
Si esercita pure contro la persona del giusto, soprattutto quando soffre (Sal
22, 8; Lam 3, 14...), o contro Israele, da parte delle nazioni. Gli schernitori
si fanno sentire sul Calvario (Mc 15, 29 s; Lc 23, 35 s).
2. Il riso del credente.
- Qohelet, che dichiara il riso assurdo (Eccle 2, 2) e si aspetta piuttosto le
lacrime (7, 3), riconosce nondimeno che c’è un «tempo per ridere» (3, 4). Di
fatto il riso cambia significato secondo le persone ed i tempi. A suo tempo il
giusto riderà dell’*empio (Sal 52, 8), così come Dio si fa beffe degli
schernitori (Sal 2, 4; Prov 3, 34). Il ridicolo è un’arma contro i falsi dèi,
usata da Elia sul Carmelo e dal libro di Baruch (Bar 6). I martiri maccabei
usano il sarcasmo contro il persecutore (2 Mac 7, 39). Tuttavia il riso del
giusto può liberarsi dalla polemica ed esprimere il sollievo dell’anima colmata
da Dio (Sal 126, 2; Giob 8, 21) oppure fiduciosa come la donna forte che
«sorride al domani» (Prov 31, 25). Gesù ha detto che un certo riso, quello dei
soddisfatti del tempo presente (Lc 6, 25; cfr. Giac 4, 9), non sarebbe durato,
ma ha promesso a coloro che piangono il riso di una *gioia definitiva (Lc 6,
21). Un simile riso finale farà eco al riso perfettamente puro della sapienza
che fin dall’origine si rallegra («rallegrarsi» traduce la stessa parola che
ridere: Prov 8, 30 s) dinanzi a Dio e tra gli uomini.
P. BEAUCHAMP
→ incredulità 0 - gioia.
L’idea biblica di
risurrezione non è paragonabile in nulla all’idea greca di immortalità. Secondo
la concezione greca, l’anima dell’uomo, incorruttibile per natura, entra
nell’immortalità divina non appena la morte l’ha liberata dai legami del corpo.
Secondo la concezione biblica, tutta la persona umana è votata per la sua
condizione presente a cadere in potere della *morte: l’*anima diventerà
prigioniera dello sheol, mentre il *corpo marcirà nel sepolcro; ma questo sarà
soltanto uno stato transitorio, da cui l’uomo ri-sorgerà vivo per una grazia
divina, come ci si ri-solleva dalla terra dove si giaceva, come ci si ri-sveglia
dal sonno in cui si era scivolati. Formulata già nel VT, l’idea è divenuta il
centro della fede e della speranza cristiana dopo che Cristo è ritornato egli
stesso alla vita, in qualità di «primogenito di tra i morti».
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL PADRONE DELLA VITA
I culti naturistici dell’Oriente antico assegnavano un posto importante al mito
del dio morto e risorto, traduzione drammatica di un’esperienza umana comune:
quella del risveglio primaverile della vita dopo il suo torpore invernale.
Osiride in Egitto, Tammuz in Mesopotamia, Baal in Canaan (divenuto Adone in
epoca tarda), erano dèi di questo genere. Il loro dramma, verificatosi nei
*tempi primordiali, si ripeteva indefinitamente nei cicli della natura;
attualizzandolo in una rappresentazione sacra, i riti contribuivano, così si
pensava, a rinnovarne l’efficacia, tanto importante per le popolazioni pastorali
ed agricole. Ora, fin dall’inizio, la rivelazione del VT opera una rottura
completa con questa mitologia e con i rituali che l’accompagnano. Il *Dio unico
è pure l’unico padrone della vita e della morte: «egli fa morire e fa vivere, fa
discendere allo sheol e ne fa risalire» (1 Sam 2, 6; Deut 32, 39), perché ha
potere (*potenza) sullo stesso sheol (Am 9, 2; Sal 139, 8). Anche la
risurrezione primaverile della natura è effetto della sua *parola e del suo
*spirito (cfr. Gen 1, 11 s. 22. 28; 8, 22; Sal 104, 29 s). A maggior ragione per
gli uomini: egli riscatta la loro anima dalla fossa (Sal 103, 4) e rende loro la
vita (Sal 41, 3; 80, 19); non abbandona allo sheol l’anima dei suoi amici e non
lascia che essi vedano la corruzione (Sal 16, 10 s). Queste espressioni sono
indubbiamente da intendere in modo iperbolico per significare una preservazione
temporanea dalla morte. Ma i miracoli di risurrezione operati dai profeti Elia
ed Eliseo (1 Re 17, 17-23; 2 Re 4, 33 ss; 13, 21) fan vedere che Jahvè può
vivificare gli stessi morti, richiamandoli dallo sheol dov’erano discesi. Questi
ritorni alla vita evidentemente non hanno più nulla a che vedere con la
risurrezione mitica degli dèi morti, salvo la rappresentazione spaziale che ne
fa una risalita dall’abisso infernale alla terra dei viventi.
II. LA RESURREZIONE DEL POPOLO DI DIO
In una prima serie di testi questa immagine di risurrezione è usata per tradurre
la *speranza collettiva del popolo di Israele. Colpito dai *castighi divini,
esso è paragonabile ad un ammalato che la morte spia (cfr. Is 1, 5 s), anzi, ad
un cadavere di cui la morte ha fatto la sua preda. Ma se si converte, Jahvè non
lo ricondurrà alla vita? «Venite, ritorniamo a Jahvè!... Dopo due giorni egli ci
farà rivivere; il terzo giorno ci farà risorgere; e noi vivremo dinanzi a lui» (Os
6, 1 s). Questo non è un semplice desiderio degli uomini, perché promesse
profetiche attestano espressamente che così sarà. Dopo la prova dell’*esilio Dio
risusciterà il suo popolo come si riportano alla vita le ossa già inaridite (Ez
37, 1-14). Egli risveglierà *Gerusalemme e la farà sorgere dalla polvere dove
giaceva come morta (Is 51, 17; 60, 1). Farà rivivere i morti, risorgere i loro
cadaveri, risvegliare coloro che sono stesi nella polvere (Is 26, 19).
Risurrezione metaforica, senza dubbio, ma già vera liberazione dalla potenza
dello sheol: «Dov’è la tua peste, o morte? dov’è il tuo contagio, o sheol?» (Os
13, 14). Dio trionfa quindi della morte a beneficio del suo popolo. Anche la
parte fedele di Israele ha potuto cadere per un certo tempo in potere degli
*inferi, così come il *servo di Jahvè morto e sepolto con gli empi (Is 53, 8 s.
12). Ma verrà il giorno in cui, come anche il servo, questo *resto giusto
prolungherà i suoi giorni, vedrà la *luce e condividerà i trofei della *vittoria
(Is 53, 10 ss). Primo abbozzo, ancora misterioso, di una promessa di
risurrezione, grazie alla quale i giusti sofferenti vedranno sorgere infine il
loro difensore e prendere in mano la loro causa (cfr. Giob 19, 25 s,
reinterpretato dalla Volgata).
III. LA RISURREZIONE INDIVIDUALE
La rivelazione fa un passo avanti al momento della crisi maccabaica. La
persecuzione di Antioco e l’esperienza del martirio pongono allora in modo acuto
il problema della *retribuzione individuale. che sia necessario attendere il
regno di Dio ed il trionfo finale del popolo dei santi dell’Altissimo,
annunciati da lungo tempo dagli oracoli profetici, è una certezza fondamentale
(Dan 7, 13 s. 27; cfr. 2, 44). Ma che ne sarà dei *santi morti per la fede?
L’apocalisse di Daniele risponde: «Un gran numero di coloro che dormono nel
paese della polvere si risveglieranno; gli uni sono per la vita eterna; gli
altri per l’obbrobrio, per l’orrore eterno» (Dan 12, 2). L’immagine di
risurrezione usata da Ezechiele e da Is 26 si deve quindi intendere in modo
realistico: Dio farà risalire i morti dallo sheol affinché partecipino al
*regno. Tuttavia la nuova *vita in cui essi entreranno non sarà più simile alla
vita del mondo presente: sarà una vita trasfigurata (Dan 12, 3). Questa è la
speranza che sostiene i *martiri in mezzo alla loro *prova: si può strappare
loro la vita corporale; il Dio che crea è anche quello che risuscita (2 Mac 7,
9. 11. 22; 14, 46); mentre per gli empi non ci sarà risurrezione alla vita (2
Mac 7, 14). A partire da questo momento la dottrina della risurrezione diventa
patrimonio comune del giudaismo. Se la setta sadducea, per scrupolo di arcaismo,
non l’ammette (cfr. Atti 23, 8) e persino la schernisce, ponendo a suo riguardo
questioni ridicole (Mt 22, 23-28 par.), essa è professata dai Farisei e dalla
setta da cui proviene il libro di Enoch (probabilmente l’antico essenismo). Ma,
mentre taluni la interpretano in modo materialistico, questo libro ne fornisce
una rappresentazione molto spiritualizzata: quando l’*anima dei defunti sarà
risorta dagli inferi per ritornare alla vita, entrerà nell’universo trasformato
che Dio riserva per il «mondo futuro». Questa è pure la concezione che riterrà
Gesù: «Alla risurrezione si sarà come gli angeli in cielo» (Mt 22, 30 par.).
NUOVO TESTAMENTO
I. IL PRIMOGENITO DI TRA I MORTI
1. Preludi.
- Gesù non crede soltanto alla risurrezione dei giusti nell’ultimo
giorno. Egli sa che il mistero della risurrezione dev’essere da lui inaugurato,
cui Dio ha dato il dominio della *vita e della *morte. Manifesta questo potere
(*potenza), che ha ricevuto dal Padre, riportando alla vita parecchi morti per i
quali era stato supplicato: la figlia di Giairo (Mc 5, 21-42 par.), il figlio
della vedova di Nain (Lc 7, 11-17), Lazzaro suo amico (Gv 11). Queste
risurrezioni, che ricordano i miracoli profetici, sono già l’annunzio velato
della sua, che sarà di ordine completamente diverso. Egli vi aggiunge predizioni
chiare: il figlio dell’uomo deve morire e risuscitare il terzo giorno (Mc 8, 31;
9, 31; 10, 34 par.). Secondo Mt, questo è il «*segno di Giona»: il figlio
dell’uomo sarà per tre giorni e tre notti nel seno della terra (Mt 12,40). È il
segno del *tempio: «Distruggete questo tempio, ed in tre giorni io lo
riedificherò..»; ora «egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2, 19 ss; cfr.
Mt 26, 61 par.). Questo annunzio di una risurrezione dai morti rimane
incomprensibile anche per i Dodici (cfr. Mc 9, 10); a maggior ragione per i
nemici di Gesù, che ne prendono pretesto per far custodire la sua tomba (Mt 27,
63 s).
2. L’esperienza pasquale.
– I Dodici quindi non avevano compreso che l’annunzio della risurrezione nelle
Scritture riguardava in primo luogo Gesù stesso (Gv 20, 9); e per questo la sua
morte e la sua sepoltura li avevano gettati nella disperazione (cfr. Mc 16, 14;
Lc 24, 21-24. 37; Gv 20, 19). Per indurli a credere è necessaria nientemeno che
l’esperienza pasquale. Quella del sepolcro trovato vuoto non basta a
convincerli, perché potrebbe spiegarsi con un semplice trafugamento del cadavere
(Lc 24, 11 s; Gv 20, 2): soltanto Giovanni crede subito (Gv 20, 8). Ma noi
incominciano le *apparizioni del risorto. La lista raccolta da Paolo (1 Cor 15,
5 ss) e quella degli evangelisti non coincidono perfettamente; ma il numero
esatto ha poca importanza. Gesù appare «durante molti giorni» (Atti 13, 31);
altrove si precisa: «durante 40 giorni» (1, 3), fino alla scena significativa
della *ascensione. I racconti sottolineano il carattere concreto di queste
manifestazioni: colui che appare è proprio Gesù di Nazaret; gli apostoli lo
vedono e lo toccano (Lc 24, 36-40; Gv 20, 19-29), mangiano con lui (Lc 24, 29 s.
41 s; Gv 21, 9-13; Atti 10, 41). Egli è presente, non come un fantasma, ma con
il suo proprio corpo (Mt 28, 9; Lc 24, 37 ss; Gv 20, 20. 27 ss). Tuttavia questo
*corpo sfugge alle condizioni abituali della vita terrena (Gv 20, 19; cfr. 20,
17). Gesù ripete bensì gli atti che compiva durante la sua vita pubblica, e ciò
permette di riconoscerlo (Lc 24, 30 s; Gv 21, 6. 12); ma ora è nello stato di
*gloria che descrivevano le apocalissi giudaiche. Il popolo non è spettatore di
queste apparizioni, come lo è stato della passione e della morte. Gesù riserva
le sue manifestazioni ai *testimoni che si è scelto (Atti 2, 32; 10, 41; 13,
31), e l’ultimo è Paolo sulla strada di Damasco (1 Cor 15, 8): dei testimoni
egli fa i suoi *apostoli. Si mostra ad essi «e non al mondo» (Gv 14, 22), perché
il *mondo è chiuso alla fede. Neppure le guardie del sepolcro, terrorizzate
dalla teofania misteriosa (Mt 28, 4), non vedono Cristo stesso. Perciò il fatto
della risurrezione, il momento in cui Gesù risale dalla morte, è impossibile da
descrivere. Matteo non fa che evocarlo con un linguaggio convenzionale desunto
dalle Scritture (Mt 28, 2 s): terremoto, luce abbagliante, apparizione
dell’*angelo del Signore... Si entra qui in un campo trascendente, che soltanto
le espressioni preparate dal VT possono tradurre, benché la realtà a cui vengono
applicate sia in se stessa ineffabile.
3. Il vangelo della risurrezione nella predicazione apostolica.
- Fin dal giorno della *Pentecoste, la risurrezione diventa il centro
della *predicazione apostolica, perché in essa si rivela l’oggetto fondamentale
della fede cristiana (Atti 2, 22-35). Questo *vangelo di Pasqua è innanzitutto
la testimonianza resa ad un fatto: Gesù è stato crocifisso ed è morto; ma Dio lo
ha risuscitato e per mezzo suo apporta agli uomini la salvezza. Questa è la
catechesi dì Pietro ai Giudei (3, 14 s) e la sua confessione dinanzi al sinedrio
(4, 10), l’insegnamento di Filippo all’eunuco etiope (8, 35), quello di Paolo ai
Giudei (13, 33; 17, 3) ed ai pagani (17, 31) e la sua confessione dinanzi ai
suoi giudici (23, 6...). Non è altro che il contenuto stesso dell’esperienza
pasquale. Un punto importante è sempre notato a proposito di questa esperienza:
la sua conformità con le Scritture (cfr. 1 Cor 15, 3 s). Da una parte, la
risurrezione di Gesù compie le promesse profetiche: promessa dell’esaltazione
gloriosa del *Messia alla destra di Dio (Atti 2, 34; 13, 32 s), della
glorificazione del *servo di Jahvè (Atti 4, 30; Fil 2, 7 ss), della
intronizzazione del *figlio dell’uomo (Atti 7, 56; cfr. Mt 26, 64 par.).
Dall’altra parte, per tradurre questo mistero che è fuori dell’esperienza
storica comune, i testi della Scrittura forniscono un insieme di espressioni che
ne abbozzano i diversi aspetti: Gesù è il *santo che Dio strappa alla corruzione
dell’Ade (Atti 2, 25-32; 13, 35 ss; cfr. Sal 16, 8-11); è il nuovo *Adamo sotto
i cui piedi Dio ha posto ogni cosa (1 Cor 15, 27; Ebr 1, 5-13; cfr. Sal 8); è la
*pietra rigettata dai costruttori e diventata pietra angolare (Atti 4, 11; cfr.
Sal 118, 22)... Cristo glorificato appare in tal modo come la chiave di tutta la
Scrittura, che lo concerneva in anticipo (cfr. Lc 24, 27. 44 ss).
4. Senso e portata della risurrezione.
- La predicazione apostolica, a mano a mano che opera in tal modo accostamenti
tra la risurrezione e le Scritture, elabora un’interpretazione teologica del
fatto. Essendo la glorificazione del Figlio da parte del Padre (Atti 2, 22 ss;
Rom 8, 11; cfr. Gv 17, 1 ss), la risurrezione appone il *sigillo di Dio
sull’atto della *redenzione inaugurata con l’incarnazione e portata a termine
con la *croce. Con essa Gesù è costituito «*Figlio di Dio nella sua potenza»
(Rom 1, 4; cfr. Atti 13, 33; Ebr 1, 5; 5, 5; Sal 2, 7), «*Signore e Cristo»
(Atti 2, 36), «capo e salvatore» (Atti 5, 31), «giudice e Signore dei vivi e dei
morti» (Atti 10, 42; Rom 14, 9; 2 Tim 4, 1). Risalito al Padre (Gv 20, 17), egli
può ora dare agli uomini lo *Spirito promesso (Gv 20, 22; Atti 2, 33). con ciò
si rivela pienamente il senso profondo della sua vita terrena: essa era la
manifestazione di Dio in terra, del suo amore, della sua grazia (2 Tim 1, 10;
Tito 2, 11; 3, 4). Manifestazione velata, in cui la *gloria non era percepibile
che sotto *segni (Gv 1, 11) o per brevi istanti, come quello della
*trasfigurazione (Lc 9, 32. 35 par.; cfr. Gv l, 14). Ora che Gesù è entrato
definitivamente nella gloria, la manifestazione continua nella Chiesa con i
*miracoli (Atti 3, 16) e con il dono dello Spirito agli uomini che credono (Atti
2, 38 s; 10, 44 s). Così Gesù, «primogenito di tra i morti» (Atti 26, 23; col 1,
18; Apoc 1, 5), è entrato per primo in questo *nuovo mondo (cfr. Is 65, 17...)
che è l’universo redento. Essendo il «Signore della gloria» (1 Cor 2, 8; cfr.
Giac 2, 1; Fil 2, 11), egli è per gli uomini l’autore della salvezza (Atti
3,6...). Forte della potenza divina, egli si crea un popolo santo (1 Piet 2, 9
s) che trascina nella sua scia.
II. LA POTENZA DELLA RISURREZIONE
La risurrezione di Gesù risolve il problema della *salvezza quale si
pone a ciascuno di noi. Oggetto primo della nostra fede, essa è pure la base
della nostra speranza, di cui determina il fine. Gesù è risorto «come *primizie
di coloro che dormono» (1 Cor 15, 20); ciò motiva la nostra attesa della
risurrezione nell’ultimo giorno. Più ancora, egli è in persona «la risurrezione
e la vita: chi crede in lui, anche se è morto, vivrà» (Gv 11, 25); questo motiva
la nostra certezza di partecipare fin d’ora al mistero della nuova vita, che
Cristo ci rende accessibile attraversa segni sacramentali.
1. La risurrezione nell’ultimo giorno.
- La fede giudaica nella risurrezione dei corpi è stata avallata da Gesù con le
sue prospettive di integrità ritrovata e di radicale trasformazione (Mt 22, 30
ss par.); se questo tratto manca al quadro dell’ultimo *giorno delineato
dall’apocalisse sinottica (Mt 24 par.), ciò è accidentale. Tuttavia questa fede
non acquista il suo significato definitivo se non dopo la risurrezione personale
di Gesù. La comunità primitiva ha coscienza di rimanere fedele, su questo punto,
alla fede giudaica (Atti 23, 6; 24, 15; 26, 6 ss); ma è la risurrezione di Gesù
a darle ormai una base oggettiva. Noi tutti risusciteremo, perché Gesù è
risuscitato: «Colui che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i morti, darà pure la
vita ai vostri corpi mortali mediante il suo Spirito che abita in voi» (Rom 8,
11; cfr. 1 Tess 4, 14; 1 Cor 6, 14; 15, 12-22; 2 Cor 4, 14). Nel vangelo di
Matteo il racconto della risurrezione di Gesù sottolinea già questo punto in
modo concreto: nel momento in cui Gesù, disceso agli inferi, ne risale
*vittorioso, i giusti, che vi attendevano il loro accesso alla gioia celeste,
sorgono per fargli un corteo trionfale (Mt 27, 52 s). Non si tratta di un
ritorno alla vita terrena, ed il racconto non parla che di apparizioni strane.
Ma è un’anticipazione simbolica di ciò che avverrà nell’ultimo giorno. Non è
forse questo anche il senso delle risurrezioni miracolose operate da Gesù
durante la sua vita? S. Paolo sviluppa ancor più lo scenario della risurrezione
generale: voce dell’angelo, tromba per radunare gli eletti, *nubi della parusia,
processione degli eletti... (1 Tess 4, 15 ss; 2 Tess 1, 7 s; 1 Cor 15, 52).
Questa cornice convenzionale è classica nelle apocalissi giudaiche; ma il fatto
fondamentale è più importante delle sue modalità. Contrariamente alle concezioni
greche, in cui l’*anima umana liberata dai legami del corpo va sola verso
l’immortalità, la speranza cristiana implica una restaurazione integrale della
persona; suppone nello stesso tempo una trasformazione totale del *corpo,
divenuto spirituale, incorruttibile ed immortale (1 Cor 15, 35- 53). Nella
prospettiva in cui si pone, Paolo non affronta d’altronde il problema della
risurrezione degli empi; non pensa che a quella dei giusti, partecipazione
all’ingresso di Gesù in gloria (cfr. 1 Cor 15, 12 ...). L’attesa di questa
«redenzione del corpo» (Rom 8, 23) è tale che, per esprimerla, il linguaggio
cristiano conferisce alla risurrezione una specie di imminenza perpetua (cfr. 1
Tess 4, 17). Tuttavia, l’impazienza della *speranza cristiana (cfr. 2 Cor 5,
1-10) non deve portare a vane speculazioni sulla data del *giorno del Signore.
L’Apocalisse delinea un quadro splendido della risurrezione dei morti (Apoc 20,
11-15). La morte e l’Ade li restituiscono tutti, affinché compaiano dinanzi al
giudice, sia i cattivi che i buoni. Mentre i cattivi sprofondano nella «seconda
morte», gli eletti entrano in una nuova vita, in seno ad un universo trasformato
che si identifica col *paradiso primitivo e con la *Gerusalemme celeste (Apoc 21
- 22). Come esprimere altrimenti che sotto forma di simboli una realtà
indicibile, che l’esperienza umana non può afferrare? Questo affresco non è
ripreso nel quarto vangelo. Ma costituisce lo sfondo di due brevi allusioni che
sottolineano soprattutto il compito affidato al figlio dell’uomo: i morti
risorgeranno al suo appello (Gv 5, 28; 6, 40. 44), gli uni per la vita eterna,
gli altri per la condanna (Gv 5, 29).
2. La vita cristiana, risurrezione anticipata.
- Se Giovanni sviluppa così poco il quadro della risurrezione finale, si è
perché lo vede realizzato in anticipo già nel tempo presente. Lazzaro che esce
dal sepolcro rappresenta in concreto i fedeli strappati alla morte dalla voce di
Gesù (cfr. Gv 11, 25 s). Anche il discorso sull’opera di vivificazione del
figlio dell’uomo contiene affermazioni esplicite: «Viene l’*ora, ed è adesso che
i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e tutti coloro che l’avranno
ascoltata, vivranno» (Gv 5, 25). Questa netta dichiarazione sintetizza
l’esperienza cristiana qual è espressa dalla prima lettera di Giovanni: «Noi
sappiamo di essere passati dalla morte alla vita...» (1 Gv 3, 14). chiunque
possiede questa vita non cadrà mai in potere della morte (Gv 6, 50; 11, 26; cfr.
Rom 5, 8 s). certamente una simile certezza non sopprime l’attesa della
risurrezione finale; ma trasfigura fin d’ora una vita che è entrata nella sfera
d’azione di Cristo. S. Paolo diceva già la stessa cosa sottolineando il
carattere pasquale della vita cristiana, partecipazione reale alla vita di
Cristo risorto. Sepolti con lui al momento del *battesimo, noi siamo pure
risorti con lui, perché abbiamo creduto alla forza di Dio che lo ha risuscitato
dai morti (Col 2, 12; Rom 6, 4 ss). La *nuova vita in cui allora siamo entrati
non è altro che la sua vita di risorto (Ef 2, 5 s). Di fatto, in quel momento,
ci è stato detto: «Svegliati, o tu che dormi! sorgi di tra i morti, e Cristo ti
illuminerà» (Ef 5, 14). Questa certezza fondamentale dirige tutta l’esistenza
cristiana. Domina la morale che ormai si impone all’*uomo nuovo, *nato in
Cristo: «Risuscitati con Cristo, cercate le cose dell’alto, là dove si trova
Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 3, 1 ss). Essa è pure la fonte della sua
*speranza. Infatti, se il cristiano attende con impazienza la trasformazione
finale del suo corpo di miseria in corpo di gloria (Rom 8, 22 s; Fil 3, 10 s. 20
s), si è perché possiede già il pegno di questo stato futuro (Rom 8, 23; 2 Cor
5, 5). La sua risurrezione finale non farà che manifestare chiaramente ciò che
egli è già nella realtà segreta del mistero (Col 3, 4).
J. RADERMAKERS e P. GRELOT
→ anima II 2.3 - apparizioni di Cristo - ascensione - battesimo IV 1.4 - carne 0
- corpo II 3 - corpo di Cristo I 3, III 3 - esodo NT III - fede NT II 1, IV -
figlio di Dio NT I 2 - Gesù Cristo I 3, II 1 a - gioia NT I 2 - giorno del
Signore NT I 1, III 2 - gloria IV 2 - miracolo II 3 b, III 1 - morte VT 3; NT II
3, III 4 - notte NT - Pasqua III - preghiera IV 3 - redenzione NT 4 -
retribuzione II 4, III - segno NT I, II 1 - sepoltura 2 - sonno III - speranza
NT III, IV - trasfigurazione - veste II 3.4 - vita III 3, IV - vittoria NT 1.
→ notte VT 3 - risurrezione - sonno III - vegliare I 2.
→ altare 2 - culto - pietà VT 2 - sacerdozio VT II 1 - tempo VT I 2.
→ esilio II 3 - penitenza-conversione 0 - vegliare.
→ fierezza - ginocchio 2 - risurrezione.
La religione
della Bibbia è fondata su una rivelazione storica; questo fatto la colloca a
parte tra le religioni. Talune di esse non ricorrono affatto alla rivelazione:
il buddismo ha come punto di partenza l’illuminazione del tutto umana di un
sapiente. Altre presentano il loro contenuto come una rivelazione celeste, ma ne
attribuiscono la trasmissione ad un fondatore leggendario o mitico, come Ermete
Trismegisto per la gnosi ermetica. Nella Bibbia, invece, la rivelazione è un
fatto storicamente afferrabile: i suoi intermediari sono conosciuti, e le loro
parole sono conservate, sia direttamente, sia in una solida *tradizione. Il
Corano sarebbe nella stessa situazione. Ma, senza parlare dei *segni che
autenticano la rivelazione biblica, questa non poggia sull’insegnamento di un
unico fondatore; la si vede svilupparsi nel corso di quindici o venti secoli,
prima di raggiungere la sua pienezza nel fatto di Cristo, rivelatore per
eccellenza. Credere, per il cristiano, significa accogliere questa rivelazione
che giunge agli uomini portata dalla storia.
VECCHIO TESTAMENTO
Perché dunque questa rivelazione? Perché Dio è infinitamente superiore ai
pensieri ed alle parole dell’uomo (Giob 42, 3). È un Dio nascosto (Is 45, 15),
tanto più inaccessibile in quanto il peccato ha fatto perdere all’uomo la
familiarità con lui. Il suo disegno è un *mistero (cfr. Am 3, 7); egli dirige i
passi dell’uomo senza che questi conosca la strada (Prov 20, 24). Alle prese con
gli enigmi della sua esistenza (cfr. Sal 73, 21 s), l’uomo non può trovare da
solo le chiarezze necessarie. È indispensabile che si rivolga a colui «al quale
appartengono le cose nascoste» (Deut 29, 28), perché gli scopra i suoi segreti
impossibili da penetrare (cfr. Dan 2, 17 s), perché gli faccia «vedere la sua
gloria» (Es 33, 18). Ora, prima ancora che l’uomo si sia rivolto a lui, Dio
prende l’iniziativa e gli parla per primo.
I. COME DIO RIVELA
1. Tecniche arcaiche.
- L’ambiente orientale si serviva di talune tecniche per cercare di
penetrare i segreti del cielo: divinazione, presagi, sogni, consultazione della
sorte, astrologia, ecc. Il VT conservò a lungo qualcosa di queste tecniche,
purificandole dai loro legami politeistici o *magici (Lev 19, 26; Deut 18, 10 s;
1 Sam 15, 23; 28, 3), ma attribuendo loro ancora un certo valore. Adattandosi
alla mentalità imperfetta del suo popolo, Dio effettivamente affida la sua
rivelazione a questi canali tradizionali. I sacerdoti lo consultano con gli Urim
e Tummim (Num 27, 21; Deut 33, 8; 1 Sam 14, 41; 23, 10 ss), e su questa base
pronunciano oracoli (Es 18, 15 s; 33, 7-11; Giud 18, 5 s). Giuseppe possiede una
coppa per divinare (Gen 44, 2- 5) ed è esperto nella interpretazione dei sogni (Gen
40 - 41). Di fatto si ritiene che i *sogni racchiudano indicazioni del cielo (Gen
20, 3; 28, 12-15; 31, 11 ss; 37, 5-10), e questo fino ad un’epoca molto tarda (Giud
7, 13 s; 1 Sam 28, 6; 1 Re 3, 5-14); ma progressivamente si distinguono i sogni
che Dio manda ai profeti autentici (Num 12, 6; Deut 13, 2) da quelli dei
divinatori di professione (Lev 19, 26; Deut 18, 10), contro i quali combattono i
profeti (Is 28, 7-13; Ger 23, 25-32) ed i sapienti (Eccle 5, 2; Eccli 34, 1-6).
2. La rivelazione profetica.
- Queste tecniche sono abitualmente superate dai *profeti. In essi l’esperienza
della rivelazione si traduce in due modi: mediante visioni e mediante
l’audizione della *parola divina (cfr. Num 23, 3 s. 15 s). Le visioni, da sole,
rimarrebbero enigmatiche: neppure il profeta potrebbe *vedere direttamente né le
realtà divine, né lo svolgimento futuro della storia. Ciò che egli vede rimane
avvolto in simboli, ora attinti al tesoro comune delle religioni orientali (ad
es. 1 Re 22, 16; Is 6, 1 ss; Ez l), ora creati in modo originale (ad es. Am 7,
1-9; Ger 1, 11 ss; Ez 9). Comunque è necessaria la parola di Dio per fornire la
chiave di queste visioni simboliche (ad es. Ger 1, 14 ss; Dan 7, 15-18; 8,
15...); per lo più la parola giunge ai profeti senza che nessuna visione
l’accompagni ed anche senza che essi possann dire in qual modo è venuta (ad es.
Gen 12, 1 s; Ger 1, 4 s). Questa è l’esperienza fondamentale che nel VT
caratterizza la rivelazione.
3. La riflessione della sapienza.
- A differenza dei profeti, i sapienti non presentano la loro dottrina come il
risultato di una rivelazione diretta. La *sapienza fa appello alla riflessione
umana, all’intelligenza, all’intelletto (Prov 2, l-5; 8, 12. 14). Tuttavia essa
è un dono di Dio (2, 6), perché ogni sapere deriva da una sapienza trascendente
(8, 15-21. 32-36; 9, 1-6). Meglio ancora, i dati, sui quali lavora questa
riflessione guidata da Dio, appartengono di pieno diritto alla rivelazione
divina: la *creazione, che manifesta a modo suo il creatore (cfr. Sal 19, l;
Eccli 43); la storia, che fa conoscere le sue vie (Eccli 44 - 50, senza contare
i libri storici); la *Scrittura, che racchiude la *legge divina e le parole dei
profeti (Eccli 39, 1 ss). Una tale sapienza non è quindi cosa umana; è essa
stessa un modo di rivelazione che prolunga il modo profetico; perché la sapienza
divina che la guida è, come lo spirito, una realtà trascendente, «un riflesso
dell’essenza di Dio» (Sap 7, 15 21); quindi la luce che essa apporta agli uomini
è quella di una conoscenza soprannaturale (Sap 7, 25 s; 8, 4-8).
4. L’apocalisse.
- Proprio alla fine del VT, profezia e sapienza si intersecano nella letteratura
apocalittica, che è, per definizione, una rivelazione dei segreti divini. Questa
rivelazione si collega quindi sia alla sapienza (Dan 2, 23; 5, 11. 14), sia allo
spirito divino (Dan 4, 5 s. 15; 5, 11. 14). Può avere come fonti sogni e
visioni; ma può anche avere come punto di partenza una meditazione delle
Scritture (Dan 9, 1 ss). In ogni caso, è la parola di Dio che dà, per conoscenza
soprannaturale, la chiave di questi sogni, di queste visioni, di questi testi
sacri.
II. CIÒ CHE DIO RIVELA
L’oggetto della rivelazione divina è sempre di ordine religioso. Non è frammisto
né alle confuse fantasticherie cosmologiche, né alle speculazioni metafisiche di
cui sono pieni i libri sacri della maggior parte delle religioni antiche (come i
Veda dell’India e le opere gnostiche, od anche taluni apocrifi giudaici). Dio
rivela i suoi disegni, che tracciano per l’uomo la via della salvezza; rivela se
stesso, affinché l’uomo lo possa incontrare.
1. Dio rivela i suoi disegni.
a) Nato in una stirpe peccatrice, l’uomo non sa neppure
esattamente ciò che Dio vuole da lui. Dio quindi gli rivela regole di condotta:
la sua parola assume forma di insegnamento e di *legge (Es 20, 1...), e l’uomo
possiede in tal modo «cose rivelate» che deve mettere in pratica (Deut 29, 28).
La legge trae tutto il suo pregio da questa origine divina, che la sottrae al
piano giuridico per farne la delizia delle anime religiose (cfr. Sal 119, 24-
97...). Similmente le istituzioni del popolo di Dio sono oggetto di rivelazione:
istituzioni sociali (Num 11, 16 s) e politiche (l Sam 9, 17), nonché istituzioni
cultuali (Es 25, 40). E questo perché pur conservando un carattere provvisorio,
come tutto lo statuto del *popolo di Dio nel VT, esse hanno nondimeno un
significato positivo in rapporto al compimento della salvezza del NT: ne sono le
*figure profetiche.
b) In secondo luogo, Dio rivela al suo popolo il senso degli
avvenimenti che gli è dato di vivere. Questi avvenimenti costituiscono il lato
visibile del *disegno di salvezza; ne preparano la realizzazione finale e già la
prefigurano. A questo duplice titolo essi hanno un volto segreto, che l’occhio
umano non potrebbe scoprire; ma Dio «non fa nulla senza rivelare il suo segreto
ai suoi servi i profeti» (Am 3, 7). Storici, profeti, salmisti, sapienti, vanno
a gara nel dedicarsi a questa interpretazione religiosa della storia, che nasce
dal l’incontro tra la parola divina ed i fatti voluti e diretti da Dio. I fatti
accreditano la parola e portano gli uomini alla *fede, perché hanno valore di
*segni (Es 14, 30 s). La parola illumina i fatti sottraendoli alla banalità
quotidiana ed al caso (ad es. Ger 27, 4-11; Is 45, 1- 6) per farli entrare in un
piano prestabilito.
c) Infine Dio rivela progressivamente il segreto degli «ultimi
tempi». La sua parola è *promessa. A questo titolo essa, al di là del presente e
perfino del futuro prossimo, ha di mira il termine del suo disegno di salvezza.
Rivela il futuro della discendenza di David (2 Sam 7, 4-16), la gloria finale di
Gerusalemme e del tempio (Is 2, l-4; 60; Ez 40 - 48), il compito inaudito del
servo sofferente (Is 52, 13-53, 12), ecc. Questo aspetto della rivelazione
profetica dà agli uomini una conoscenza anticipata del NT, ancora avvolta in
figure per una parte, ma che abbozza già i tratti dell’alleanza escatologica.
2. Dio rivela pure se stesso attraverso ciò che compie in terra.
La sua *creazione già lo manifesta nella sua sapienza e nella sua
potenza sovrana (Giob 25, 7-14; Prov 8, 23-31; Eccli 42, 15 - 43, 33). Essa è
come intessuta di segni che permettono di rappresentarlo simbolicamente, velato
nella *nube (Es 13, 21), ardente come un *fuoco (Es 3, 2; Gen 15, 17), tonante
nell’*uragano (Es 19, 16), dolce come la brezza leggera (l Re 19, 12 s)...
Questi segni, visti dai pagani, erano sovente da essi interpretati al contrario
(Sap 13, 1 s); la rivelazione permette ora al popolo di Dio di contemplare per
analogia il creatore attraverso la grandezza e la bellezza delle creature (Sap
13, 3 ss). Tuttavia *Dio si rivela in modo specifico soprattutto con la storia
di Israele. I suoi atti fan vedere chi egli è: il Dio terribile che giudica e
combatte; il Dio compassionevole che consola (Is 40, 1) e che guarisce; il Dio
forte che libera e che trionfa... La sua definizione biblica (Es 34, 6 s) non è
la conseguenza di una speculazione filosofica; è il risultato di un’esperienza
vissuta. E questa conoscenza concreta, approfondita nel corso dei secoli,
determina l’atteggiamento che gli uomini devono assumere dinanzi a lui: fede e
fiducia, timore ed amore. Atteggiamento complesso, che rettifica e completa
quello che adotterebbe spontaneamente l’uomo religioso. Infatti Dio è creatore e
padrone, re e signore; ma verso Israele egli si mostra parimenti padre e sposo.
Cosi il *timore religioso che gli è dovuto, deve assumere la sfumatura di una
*pietà cordiale (Os 6, 6) che può condurre all’intimità mistica. Si può dire di
più, e Dio rivela nel VT il segreto intimo del suo essere? Entriamo qui nel
campo dell’ineffabile. Il VT conosce manifestazioni misteriose dell’*angelo di
Jahvè, in cui il Dio invisibile assume in qualche modo una forma accessibile ai
sensi (Gen 16, 7; 21, 17; 31, 11; Giud 2, 1). conosce le visioni di Abramo, di
Mosè, di Elia, di Michea ben Jimla, di Isaia, di Ezechiele, di Zaccaria...
Tuttavia in esse la *gloria divina si vela sempre sotto simboli: simboli cosmici
del fuoco o dell’uragano, simboli che manifestano la sovranità divina (1 Re 22,
19; Is 6, 1 ss), simboli ispirati all’arte babilonese (Ez 1). Ad ogni modo, *Jahvè
stesso non è mai descritto (cfr. Ez 1, 27 s); la sua *faccia non è mai vista (Es
33, 20), neppure da Mosè che gli parla «bocca a bocca» (Es 33, 11; Num 12, 8), e
gli uomini si velano istintivamente il volto per non fissare i loro occhi su di
lui (Es 3, 6; 1 Re 19, 9 s). A Mosè egli accorda la rivelazione suprema, quella
del suo *nome (Es 3, 14). Ma questa conserva intatto il mistero del suo essere;
infatti la sua risposta - «Io sono colui che è» o «Io sono chi sono» - può
essere interpretata come una dichiarazione di *mistero: Israele non possederà il
nome del suo Dio in modo da far presa su di lui, come i pagani circostanti
facevano presa sui loro dei. Così Dio rimane nella sua trascendenza assoluta,
pur accordando agli uomini un certo accostamento concreto al suo mistero. Se
essi non penetrano ancora fin nell’intimo del suo essere, sono già illuminati
dalla sua *parola, dall’azione della sua *sapienza; sono santificati dal suo
*spirito. Negli «ultimi tempi», egli farà di più. Allora «la sua *gloria si
rivelerà, ed ogni carne la vedrà» (Is 40, 5; 52, 8; 60, l). Rivelazione suprema,
il cui modo non è precisato in anticipo. Soltanto il fatto dirà come essa deve
avvenire.
NUOVO TESTAMENTO
La rivelazione iniziata nel VT termina nel NT. Ma invece di essere trasmessa da
molteplici intermediari, si concentra ora in *Gesù Cristo, che ne è ad un tempo
l’autore e l’oggetto. Bisogna distinguere in essa tre stadi. Nel primo, essa è
fatta da Gesù stesso ai suoi apostoli. Nel secondo, è comunicata agli uomini
dagli apostoli, poi dalla Chiesa sotto la direzione dello Spirito Santo. Nel
terzo, troverà la sua consumazione finale, quando la visione diretta del mistero
di Dio sostituirà negli uomini la conoscenza di fede. Per caratterizzare questi
stadi successivi, il NT si serve di un vocabolario vario: rivelare (apokalypto),
manifestare (phaneròo), far conoscere (gnorizo), mettere in luce (photizo),
spiegare (exeghèoinai), mostrare (deiknuo/-mi), o semplicemente, dire; e gli
apostoli proclamano (kerysso), insegnano (didasko), questa rivelazione che
costituisce ora la *parola, il *vangelo, il *mistero di fede. Tutti questi temi
si ritrovano nei diversi gruppi di scritti del NT.
I. I SINOTTICI E GLI ATTI
1. La rivelazione di Gesù Cristo.
a) Rivelazione con i fatti. - Anche nel VT, la conoscenza del
disegno di Dio rimaneva avvolta di ombra; la sua consumazione finale, benché
promessa, non era evocata se non in *figure. Ciò che ora strappa i veli e
dissipa l’ambiguità della promessa è il fatto di Cristo. Il destino storico di
Gesù, coronato dalla sua morte e dalla sua risurrezione, fa effettivamente
conoscere il contenuto reale di questa promessa, realizzandola nei fatti.
b) Rivelazione con le parole. - Tuttavia la
rivelazione con i fatti resterebbe incompresa se Gesù non spiegasse con le sue
parole il senso dei suoi atti e della sua vita. Nelle *parabole del regno, egli
«proferisce le cose nascoste dall’inizio del mondo» (Mt 13, 35); se per la folla
vale ancora il suo insegnamento sotto simboli, rivela chiaramente ai suoi
discepoli il *mistero di questo regno (Mc 4, 11 par.), che è il termine del
disegno di Dio. Così pure rivela loro il senso nascosto delle Scritture, quando
fa loro vedere che il figlio dell’uomo deve soffrire, esser messo a morte e
risuscitare il terzo giorno (Mt 16, 21 par.). In grazia sua la rivelazione va
dunque verso la sua pienezza: «Nulla di segreto che non debba essere rivelato;
nulla di nascosto che non debba essere svelato» (Mc 4, 22 par.).
c) Rivelazione mediante la persona di Gesù. - Al di là
delle parole di Gesù, al di là dei fatti della sua vita, gli uomini accedono
fino al centro misterioso del suo essere; qui trovano finalmente la rivelazione
divina. Non soltanto Gesù contiene in sé il regno e la salvezza che annunzia, ma
è la rivelazione vivente di *Dio. Essendo il *Figlio del Dio vivente (Mt 16,
16), egli è il solo a conoscere il Padre ed a poterlo rivelare (Mt 11, 27 par.).
In compenso, il mistero della sua persona rimane inaccessibile alla «*carne ed
al sangue»: impossibile penetrarlo senza una rivelazione del Padre (Mt 16, 17),
che è rifiutata ai sapienti ed agli scaltri, ma è accordata ai piccoli (Mt 11,
25 par.). Questi rapporti intimi del Figlio e del *Padre, di cui il VT non aveva
conoscenza, costituiscono il punto culminante della rivelazione apportata da
Gesù. Tuttavia il mistero del Figlio si vela ancora sotto un’umile apparenza:
quella del *figlio dell’uomo chiamato a soffrire (Mc 8, 31 ss par.). Anche dopo
la sua risurrezione, Gesù non si manifesterà al mondo nella pienezza della sua
gloria.
2. La rivelazione comunicata.
a) La rivelazione nella Chiesa. - Gli atti e le parole
di Gesù non sono stati conosciuti direttamente che da un piccolo numero di
persone. Più piccolo ancora fu il numero di coloro che credettero in lui e
divennero suoi discepoli. Ora la rivelazione che egli apportava era destinata al
mondo intero. Perciò Gesù l’ha affidata ai suoi apostoli, con *missione di
comunicarla agli altri uomini (cfr. già Mt 10, 26 s); essi andranno nel mondo
intero a portare il vangelo a tutte le *nazioni (Mt 28, 19 s; Mc 16, 15). Quindi
egli fa di essi i suoi *testimoni grazie alle *apparizioni di cui beneficiano
(Atti 1, 8). Non soltanto nel senso che, avendolo visto coi loro occhi ed avendo
sentito le sue parole, potranno riferire esattamente ciò che ha detto e fatto
(cfr. Lc 1, 2); ma nel senso che Gesù autentica la loro testimonianza: «Chi
ascolta voi, ascolta me» (Lc 10, 16). Il libro degli Atti fa vedere come, grazie
a questi testimoni, la rivelazione di Gesù Cristo è penetrata nella storia del
mondo intero. Vi si vede la parola diffondersi da Gerusalemme fino alle
estremità della terra. Abbozzo concreto che annunzia l’azione della *Chiesa,
prolungamento di quella degli *apostoli, dalla Pentecoste fino alla fine dei
tempi.
b) La rivelazione e l’azione dello Spirito Santo. -
Gli Atti mostrano inoltre lo stretto rapporto che esiste tra la comunicazione
della rivelazione nella Chiesa e l’azione dello *Spirito Santo in terra. Fin dal
giorno della Pentecoste lo Spirito è dato ed assicura la validità della
testimonianza apostolica (Atti 1, 8; 2, 1-21). Sotto la sua luce gli apostoli
scoprono nello stesso tempo il significato totale delle Scritture e quello
dell’esistenza di Gesù, e su questo duplice oggetto verte quindi la loro
testimonianza (cfr. 2, 22-41). Essendo così notificata agli uomini la
rivelazione, quelli tra essi che sono docili allo Spirito l’accoglieranno con
fede e, mediante il loro *battesimo, entreranno nella vita della *salvezza (2,
41. 47).
3. Verso la rivelazione perfetta.
- La rivelazione fatta da Gesù e comunicata dai suoi apostoli e dalla sua Chiesa
rimane ancora imperfetta, perché le realtà divine vi sono velate sotto segni. Ma
essa annunzia la rivelazione totale che avverrà al termine della storia. Allora
il figlio dell’uomo si rivelerà nella sua gloria (Lc 17, 30; cfr. Mc 13, 26
par.) e gli uomini passeranno dal «mondo presente» al «mondo futuro».
II. LE LETTERE APOSTOLICHE
1. La rivelazione di Gesù Cristo.
a) Rivelazione della salvezza. - Se le allusioni alle parole
di Gesù sono rare nelle lettere apostoliche, in compenso il fatto di Cristo, e
specialmente la sua morte e la sua risurrezione, vi occupano un posto centrale.
E ciò perché, in questo fatto, si è rivelata la *salvezza promessa anticamente
ad Israele. Cristo, *agnello immacolato predestinato fin dalla fondazione del
mondo, è stato manifestato negli ultimi tempi per noi (l Piet 1, 20). È stato
manifestato una volta per tutte allo scopo di abolire il peccato mediante il suo
sacrificio (Ebr 9, 26). Con questa apparizione del nostro salvatore, Cristo
Gesù, la *grazia di Dio è stata manifestata (2 Tim 1, 10). In lui è stata
manifestata la *giustizia salvifica di Dio, attestata dalla legge e dai profeti
(Rom 3, 21; cfr. 1, 17). In lui si è rivelato il *mistero nascosto alle
generazioni precedenti (Rom 16, 26; Col 1, 26; 1 Tim 3, 16); Dio ce l’ha fatto
conoscere (Ef 1, 9), come lo ha pure notificato ai principati e alle potestà (3,
10). Questo mistero è l’ultimo segreto del disegno di salvezza.
b) Rivelazione del mistero di Dio. - Oltre il mistero
stesso della salvezza, in Cristo si rivela a noi l’essere stesso di *Dio. La
creazione era stata una prima manifestazione delle sue perfezioni invisibili,
presto cancellata nello spirito degli uomini peccatori (Rom 1, 19 ss). Poi il VT
aveva apportato una rivelazione, ancora parziale, della sua *gloria. Infine «Dio
ha fatto risplendere la conoscenza della sua gloria sul volto di Cristo Gesù» (2
Cor 4, 6), realizzando così l’oracolo profetico di Is 40, 5. Questo è il senso
profondo di Cristo, nei suoi atti e nella sua persona.
2. La rivelazione comunicata.
- Gli apostoli non hanno compreso tutto ciò da soli, ma grazie ad una
rivelazione interna, che ne ha dato loro la conoscenza (cfr. Mt 16, 17). Paolo
ha ricevuto il suo vangelo da una rivelazione di Gesù Cristo, quando piacque a
Dio rivelare in lui il suo Figlio (Gal 1, 12. 16). Lo spirito, che scruta sin
nelle profondità di Dio, gli ha rivelato il senso della *croce, che è la vera
sapienza (l Cor 2, 10). Per rivelazione, il mistero di Cristo gli è stato
notificato, come a tutti gli apostoli e profeti, nello spirito (Ef 3, 3 ss).
Ecco perché il vangelo dell’apostolo non è di indole umana (Gal 1, 11): eco
della *parola di Dio stesso, è «una forza divina per la salvezza dei credenti»
(Rom 1, 16). Notificando il mistero del vangelo (Ef 6, 19), Paolo pone in luce
agli occhi di tutti la dispensazione di questo mistero, un tempo nascosto ed ora
rivelato (3, 9 s). Questo è il senso della parola apostolica: essa comunica agli
uomini la rivelazione divina per portarli alla *fede che assicurerà loro la
salvezza.
3. Verso la rivelazione perfetta.
- Tuttavia il regime della fede non avrà che un tempo. Ha per
fondamento «l’apparizione dell’amore di Dio nostro salvatore» nella vita terrena
di Gesù (Tito 3, 4). continua mentre Gesù è già entrato nella gloria. Avrà fine
con «l’apparizione in gloria del nostro grande Dio e salvatore, Cristo Gesù»
(Tito 2, 13; cfr. Lc 17, 30). Questa rivelazione finale di Gesù (1 Piet 1, 7.
13), questa manifestazione del capo dei pastori (1 Piet 5, 4), costituisce
l’oggetto della *speranza cristiana (2 Tess 1, 7; 1 Cor 1, 7; cfr. Tito 2, 13).
Di fatto, quando sarà manifestato Cristo che è la nostra vita, anche noi saremo
manifestati con lui nella gloria (Col 3, 4). A questa rivelazione escatologica
dei figli di Dio aspira con noi tutta la creazione (Rom 8, 19-23). Avvenimento
misterioso, che non è possibile descrivere, dopo il quale la visione diretta si
sostituirà al regime della fede (l Cor 13, 12; 2 Cor 5, 7).
III. VANGELO E LETTERE DI GIOVANNI
Nel vocabolario giovanneo, il tema della rivelazione è espresso soprattutto con
il verbo «manifestare» (phaneròo), ma l’idea affiora dovunque nei testi.
1. La rivelazione di Gesù Cristo.
a) La manifestazione sensibile di Gesù. - Al centro della
rivelazione si trova la persona di *Gesù, *Figlio di Dio venuto nella carne.
Giovanni Battista aveva testimoniato «affinché egli fosse manifestato ad
Israele» (Gv 1, 31). Effettivamente «egli si è manifestato» (1 Gv 3, 5. 8), cioè
è diventato oggetto di esperienza sensibile. Non fu una manifestazione
splendente agli occhi del mondo, come quella che i suoi fratelli avrebbero
desiderato (Gv 7, 4), ma una manifestazione quasi segreta, paradossale, che
culminò nella elevazione sulla *croce (Gv 12,32), perché mirava essenzialmente a
togliere il peccato ed a distruggere l’opera del demonio (1 Gv 3, 5. 8).
Soltanto dopo la sua risurrezione Gesù si manifestò in gloria; ed ancora non lo
fece che per i suoi discepoli (Gv 21, 1. 14).
b) La manifestazione di Dio in Gesù Cristo. - La
manifestazione sensibile di Gesù aveva una portata trascendente: era la
rivelazione suprema di *Dio. Rivelazione mediante le parole di Gesù: egli che,
come Figlio, ha visto Dio, ha spiegato Dio agli uomini (Gv 1, 18), dapprima in
termini velati, poi, alla vigilia della sua partenza, chiaramente e senza figure
(16, 29). Rivelazione mediante gli atti: i suoi *miracoli erano *segni, con i
quali egli manifestava la sua gloria affinché si credesse in lui (2, 11), perché
questa *gloria era quella che egli aveva dal Padre come Figlio unico (1, 14).
Per questa duplice via egli ha manifestato agli uomini il *nome di Dio (17, 6),
cioè il mistero del suo essere, coronando con ciò tutta la rivelazione del VT
(cfr. 1, 17). L’evangelista che ha visto, sentito, toccato il Verbo di vita (1
Gv 1, 1), così riassume il senso della sua esperienza: in Gesù si è manifestata
la *vita (1, 2), in Gesù si è manifestato l’*amore di Dio per noi (4, 9).
2. La rivelazione comunicata.
- La rivelazione di Gesù Cristo non è stata accolta da tutti gli uomini: Non
solo perché soltanto un piccolo numero l’ha conosciuto, ma soprattutto perché
l’accoglierlo esigeva una *grazia interiore: «Nessuno viene a me se il Padre che
mi ha mandato non lo attrae» (Gv 6, 44). Ora sono poco numerosi coloro che
«ascoltano l’insegnamento del Padre» (6, 45); molti rifuggono dalla luce e
preferiscono le tenebre (3, 19 ss), perché appartengono al *mondo malvagio. Gesù
quindi non ha manifestato il nome del Padre se non a coloro che il Padre aveva
egli stesso tratto dal mondo per donarglieli (17, 6). Ma a questi ha affidato
una *missione: quella di *testimoniare per lui (16, 27). compito difficile, che
esigerà una conoscenza profonda di ciò che Gesù ha detto e fatto. Perciò, dopo
la sua partenza, egli manderà loro lo Spirito Santo affinché li guidi verso
tutta la verità (16, 12 ss). Grazie al *Paraclito, la testimonianza apostolica
farà conoscere a tutti gli uomini la rivelazione di Gesù Cristo, affinché
credano ed abbiano la vita: «La vita si è manifestata, noi l’abbiamo vista e le
rendiamo testimonianza» (1 Gv 1. 2); «noi abbiamo visto ed attestiamo che il
Padre ha mandato il Figlio suo, il salvatore del mondo» (4, 14). Accogliendo
questa testimonianza ogni uomo potrà, come i primi testimoni, «entrare in
*comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1, 3 s).
3. Verso la rivelazione perfetta.
- Attraverso il mistero del Verbo fatto carne, la gloria divina non e
ancora contemplata se non nella fede. L’uomo «*rimane in Dio», ma non ha
raggiunto il termine. «Fin d’ora siamo figli di Dio, ma non è stato manifestato
ciò che saremo». Giorno verrà in cui Cristo si manifesterà in gloria nella sua
venuta (cfr. 2, 28); allora anche noi saremo manifestati con lui e «diventeremo
simili a Dio perché lo vedremo com’è» (3, 2). Questo è l’oggetto della *speranza
cristiana.
IV. L’APOCALISSE
L’Apocalisse di Giovanni è, per la stessa definizione, una rivelazione (Apoc 1,
1). Non più accentrata sulla vita terrena di Gesù, ma orientata verso la sua
manifestazione finale, di cui la storia della Chiesa e del mondo intero contiene
i prodromi. Profezia cristiana (1, 3), essa suppone che sia conosciuta la
rivelazione della salvezza mediante la croce e la risurrezione di Cristo. A
questa luce il veggente rilegge le antiche Scritture profetiche (cfr. 5, 1; 10,
8 ss). Possedendone ormai la chiave, se ne serve per esporre in tutta la sua
pienezza il mistero di Cristo, dalla nascita (12, 5) e dalla immolazione in
croce (1, 18; 5, 6), fino al suo avvento in gloria (19, 11-16). L’essenziale
della sua testimonianza verte su quest’ultimo oggetto, questa venuta di Cristo a
cui la Chiesa aspira (22, 17). Il suo libro nasce così al punto d’incontro di
due rivelazioni divine, ugualmente sicure: quella che le Scritture condensano, e
quella di Cristo che le ha compiute. Illuminando l’una con l’altra queste due
fonti della conoscenza di fede, il veggente apporta loro un ultimo complemento.
In grazia sua la Chiesa può veder chiaro nel suo destino storico, in cui la
*persecuzione paradossalmente serve di mezzo alla *vittoria di Dio sul mondo e
su Satana. Nel bel mezzo della loro prova i cristiani contemplano già nella fede
la Gerusalemme celeste, in attesa che essa si riveli loro pienamente (22, 2...).
Così la rivelazione di Gesù Cristo, che è «identico ieri, oggi e per sempre» (Ebr
13, 8), illumina tutta la storia del mondo, dall’inizio alla fine.
B. RIGAUX e P. GRELOT
→ apparizioni di Cristo 1 - ascoltare 1 - castighi 3 - conoscere - Dio - disegno
di Dio - fuoco - gloria III - immagine - Jahvè - luce e tenebre - mistero -
monte II 1 - parabola II 1, III - parola di Dio VT II 1; NT I 1 - profeta VT I 2
- sapienza VT II 3; NT III 1 - segno - sogni - tradizione VT I - trasfigurazione
- vedere - verità.
→ autorità VT II 2; NT II 3 - obbedienza II 1, IV - peccato - zelo Il.
Paolo, quando
identifica il Signore Gesù con la roccia del deserto (1 Cor 10, 4), riunisce due
temi fino allora distinti. Dio è la «roccia di Israele» (2 Sam 23, 3); dalla
roccia, segno di aridità, Dio ha fatto scaturire l’acqua che dà la vita.
1. Dio, saldo come la pietra.
- La durezza della roccia ne fa un rifugio sicuro come il *monte per il
fuggiasco. La cavità della roccia offre rifugio e salvezza (Ger 48, 28). Dio è
chiamato la roccia d’Israele perché gli assicura la salvezza. Gli altri titoli
divini che lo accompagnano sottolineano questo senso: Dio è cittadella, rifugio,
bastione, scudo, torre munita (2 Sam 22, 2; Sal 18, 3. 32; 31, 4; 61, 4; 144,
2); in lui bisogna porre la propria *fiducia, perché egli è la roccia eterna (Is
26, 4; 30, 29) ed unica (44, 8). Rifugio sicuro, la roccia è anche un fondamento
solido: Dio è roccia per la sua *fedeltà (Deut 32, 4; Sal 92, 16). Colui che ha
*fede in lui, non vacillerà (Is 28, 16), ma colui che rifiuta di appoggiarsi su
questa roccia, vi urterà contro, si spezzerà contro la pietra di *scandalo (Is
8, 14). Nel NT Cristo è la *pietra di base (Rom 9, 33; 1 Piet 2, 6 ss), colui
grazie al quale possiamo mantenerci saldi, non in virtù di una sicurezza umana
ma per la grazia del Dio fedele (1 Cor 10, 12 s). L’uomo che *ascolta la sua
parola *edifica sulla pietra (Mt 7, 24). *Pietro, roccia sulla quale è fondata
la Chiesa, è partecipe di questa stabilità (Mt 16, 18).
2. La roccia sotto la mano di Dio.
- La roccia, su cui non spunta nulla, è simbolo della *sterilità. *Abramo era
una pietra, perché era *solo, prima che Dio lo benedicesse e lo moltiplicasse (Is
51, l s; cfr. Mt 3, 9). L’esistenza del popolo di Israele, tagliato in questa
pietra, è un segno della onni*potenza di Dio. Sotto la sua *mano le rocce di
Palestina portano messi (Deut 32, 13); più ancora, nel *deserto dell’aridità Dio
attesta il suo dominio delle creature che ai nostri occhi appaiono in
opposizione, facendo scaturire il liquido dal suolo arido: l’acqua zampilla
dalla roccia di Meriba (Es 17, 6; Num 20, 10 s). In quest’*opera di Dio la pietà
vede un’anticipazione delle meraviglie escatologiche (Sal 78, 15- 20; 105, 41;
Is 43, 20). Al tempo della salvezza, un fiume uscirà dal tempio e trasformerà la
terra santa in paradiso (Ez 47, 1-12; Zac 14, 8). Questo miracolo di grazia si
realizza nel vangelo: Gesù, su cui lo Spirito ha riposato, apre ai suoi la fonte
dell’acqua viva donando loro lo *Spirito (Gv 7, 37 ss; 19, 34); egli è la roccia
del popolo nuovo in cammino verso la liberazione. Fin dal VT, afferma Paolo,
egli era la roccia da cui il popolo traeva le vere *benedizioni del deserto (1
Cor 10, 4).
M. PRAT
→ altare 1 - Dio VT IV – forza I 1 - ombra II 1 - pietra - Pietro (S.) -
scandalo 1 1.
→ Babele-Babilonia 6.
→ esodo VT 2; NT 1 - mare 2.
→ acqua I – cielo IV.