CONQUISTA - CUPIDIGIA - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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C: CONQUISTA - CUPIDIGIA

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    CONQUISTA (inizio)

    → disegno di Dio VT I - Giosuè 1 - guerra VT II 2 - terra VT II 2 - vittoria.

    CONSACRARE (inizio)

    → anatema – benedizione II 2 - imposizione delle mani VT, NT 2 - primizie - sacerdozio VT II 1 - sacrificio - sangue VT 3 d - santo - sigillo 2 b - Spirito di Dio VT III; NT I 1.2, V 5 - unzione III.

    CONSIGLIO (inizio)

    → disegno di Dio –sapienza.

    CONSOLARE (inizio)

    Nella *tristezza, nella *malattia, nel lutto, nella *persecuzione, l’uomo ha bisogno di conforto; cerca un consolatore. Certamente sono numerosi coloro che allora si allontanano da lui come da un appestato. Ma almeno i suoi congiunti ed i suoi amici, mossi da compassione, vengono a rendergli visita per condividere il suo dolore e lenirlo (Gen 37, 35; 2 Sam 10, 2 s; Gv 11, 19. 31); con le loro parole, con i loro gesti rituali, essi si sforzano di consolarlo (Giob 2, 11 ss; Ger 16, 5 ss). Ma troppo spesso queste buone parole pesano più di quanto non consolino (Giob 16, 2; 21, 34; Is 22, 4) e non possono far ritornare colui che è partito e che viene pianto (Ger 37, 35; Mt 2, 18). L’uomo rimane solo nel suo dolore (Giob 6, 15. 21; 19, 13-19; Is 53, 3); Dio stesso sembra allontanarsi da lui (Giob; Sal 22, 2 s; Mt 27, 46).
    1. L’attesa del Dio consolatore.
    - Nella sua storia Gerusalemme ha fatto l’esperienza di questo abbandono totale. Privata, nella sua rovina e nel suo *esilio, di ogni consolazione da parte dei suoi alleati della vigilia (Lam 1, 19), essa pensa di essere persino dimenticata dal suo Dio (Is 49, 14; 54, 6 ss), si abbandona allo scoraggiamento. Ma in realtà Dio non l’ha abbandonata «per un breve istante» (Is 54, 7) se non per farle comprendere che egli è il solo vero consolatore. Ecco che di fatto egli ritorna verso Gerusalemme: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (Is 40, 1; 49, 13...). Jahvè risponde così al lamento di Gerusalemme abbandonata. Dopo il *castigo dell’esilio egli interverrà in suo favore per mantenere le *promesse fatte dai suoi profeti (Ger 31, 13-16; cfr. Eccli 48, 24). Questo intervento salvifico è un atto d’amore, che si esprime con varie immagini. Dio consola il suo popolo con la bontà di un *pastore (Is 40, 11; Sal 23, 4), l’affetto di un *padre, l’ardore d’un fidanzato, d’uno *sposo Is 54), con la *tenerezza di una *madre (Is 49, 14 s; 66, 11 ss). Israele quindi esprimerà la sua speranza della *salvezza escatologica come l’attesa della consolazione definitiva (Zac 1, 13). Un inviato misterioso, il *servo, verrà a realizzare quest’opera (Is 61, 2), e la tradizione giudaica, attestata dallo stesso vangelo, chiamerà il *Messia Menahen, «consolazione di Israele» (Lc 2, 25 s). In attesa di questi giorni del Messia i fedeli sanno che Dio non li ha lasciati nella *solitudine: ha dato loro, per consolarli nel loro pellegrinaggio terreno, la sua *promessa (Sal 119, 50), il suo amore (119, 76), la legge ed i profeti (2 Mac 15, 9), le Scritture (1 Mac 12, 9; Rom 15, 4); così confortati, nelle loro *prove, essi vivono nella speranza.
    2. Cristo, consolatore degli afflitti.
    - Ecco che in Gesù, il Dio-che-consola viene verso gli uomini. Gesù si presenta come il servo atteso: «Lo Spirito del Signore è su di me...» (Lc 4, 18-21). Apporta agli afflitti, ai *poveri, il messaggio di consolazione, il *vangelo della felicità nel *regno del Padre loro (Mt 5, 5). Viene a ridare coraggio a coloro che sono oppressi dai loro *peccati o dalla *malattia che ne è il segno (Mt 9, 2. 22). Offre il *riposo a coloro che penano e piegano sotto il carico (Mt 11, 28 ss). Questa consolazione non ha fine con il suo ritorno al Padre: Gesù non abbandona i suoi. Lo Spirito della Pentecoste che ha donato loro, non cessa di colmare la comunità cristiana degli incoraggiamenti intimi che le consentono di affrontare ostacoli e *persecuzioni (Atti 9, 31). I pastori, ai quali ha affidato la sua Chiesa, a loro volta le assicurano la propria parola di conforto (15, 31). I miracoli del Signore in favore dei suoi sono infine segni del Dio che consola e fanno nascere la *gioia nel cuore dei fedeli (20, 12). L’apostolo Paolo ha gettato le basi di una teologia della consolazione: attraverso una prova terribile come la morte, egli ha scoperto che la consolazione nasce dalla stessa desolazione, quando questa è unita alla *sofferenza di Cristo (2 Cor 1, 8 ss). Questa consolazione si riversa a sua volta sui fedeli (1, 3-7), perché si alimenta alla fonte unica, alla *gioia del risorto. Di fatto Cristo è fonte di ogni consolazione (Fil 2, 1), particolarmente per coloro che dalla morte vengono ad essere separati dalle loro persone care (1 Tess 4, 18). Nella Chiesa la funzione di consolatore rimane essenziale, per testimoniare che Dio consola per sempre i poveri e gli afflitti (1 Cor 14, 3; Rom 15, 5; 2 Cor 7, 6; cfr. Eccli 48, 24).
    C. AUGRAIN
    → beatitudine - esortare - gioia - Paraclito 0 - riso - sofferenza - speranza VT II 2 - tristezza VT 4; NT 2.3.

    CONTEMPLARE (inizio)

    → faccia - gloria III 2, IV 0 - presenza di Dio NT III - vedere.

    CONTINENZA (inizio)

    → sessualità I - verginità.

    CONTRIZIONE (inizio)

    → confessione NT II –penitenza-conversione - tristezza VT 3 - umiltà II, IV.

    CONVERSIONE (inizio)

    → penitenza-conversione.

    CORAGGIO (inizio)

    → fierezza - forza - persecuzione II.

    CORONA (inizio)

    → retribuzione III 2 - vittoria NT 2.

    CORPO (inizio)

    Mentre nel VT carne e corpo sono designati con un termine unico (basar), nel geco del NT possono essere distinti mediante due parole: sarx e sòma; differenziazione che non assume il suo pieno valore se non con l’interpretazione della fede.
    1. Dignità del corpo.
    - Come in tutte le lingue, il corpo designa sovente la stessa realtà della carne: così la vita di Gesù si deve manifestare sia nel nostro corpo che nella nostra carne (2 Cor 4, 10 s). Per il semita esso merita la stessa stima della *carne, poiché l’uomo si esprime tutto intero sia con quello che con questa. In Paolo questa dignità del corpo si afferma. Egli si astiene così, a differenza degli altri scrittori nel NT (ad es. Mt 27, 52. 58 s; Lc 17, 37; Atti 9, 40), dall’usare il termine parlando del cadavere; riserva al corpo ciò che costituisce una delle dignità dell’uomo, la facoltà di generare (Rom 1, 24; 4, 19; 1 Cor 7, 4; 6, 13-20); infine il carattere perituro e caduco dell’uomo, tutto ciò che è puramente umano, soprattutto la vita peccaminosa, egli li attribuisce non al corpo ma alla carne. Così non compila liste dei peccati del corpo (in 1 Cor 6, 18 il «peccato contro il corpo» significa probabilmente un peccato contro la persona umana nel suo insieme). In sè, il corpo non merita che rispetto da parte di colui che esso esprime.
    2. Il corpo dominato dalla carne.
    - Or ecco che la carne, in cui abita il peccato (Rom 7, 20), si è asservita il corpo. Ormai esiste un «corpo di peccato» (Rom 6, 6), così come c’è una «carne di peccato» (Rom 8, 3); il peccato può dominare il corpo (Rom 6, 16), per modo che anche il corpo conduce alla morte (Rom 7, 24); è ridotto alla umiliazione (Fil 3, 21) ed al disonore (1 Cor 15, 43); pieno di concupiscenze (Rom 6, 12), commette anch’esso azioni carnali (Rom 8, 13). Secondo la teologia paolina il corpo è soggetto alle tre potenze che hanno ridotto la carne in schiavitù: la *legge, il *peccato, la *morte (cfr. Rom 7, 5). In questa prospettiva il corpo non esprime più soltanto la persona umana uscita dalle mani del creatore, manifesta una persona schiava della carne e del peccato.
    II. IL CORPO ED IL SIGNORE
    1. Il corpo è per il Signore.
    - I Corinzi, ai quali Paolo scriveva, erano tentati di pensare che la fornicazione fosse un atto indifferente, senza gravità. Per rispondere loro, Paolo non fa appello né alla spiritualità dell’*anima, né a qualche distinzione tra una vita vegetativa ed una vita più spirituale, che un simile comportamento possa mettere in pericolo. «Gli alimenti, dice, sono fatti per il ventre ed il ventre per gli alimenti; Dio distruggerà sia questi che quello. Ma il corpo non è fatto per la fornicazione, è per il Signore, e il Signore per il corpo» (1 Cor 6, 13). A differenza del ventre, cioè della carne peritura (cfr. Fil 3, 19), che non può ereditare il *regno di Dio (1 Cor 15, 50), il corpo deve risuscitare come il Signore (1 Cor 6, 14), è membro di Cristo (6, 15), *tempio dello Spirito Santo (6, 19); l’uomo deve quindi glorificare Dio nel proprio corpo (6, 20). Mentre la carne ritorna alla polvere, il corpo è votato al Signore: di qui la sua incomparabile dignità.
    2. Il corpo di Cristo.
    - Più precisamente, questa dignità proviene dal fatto che il corpo è stato redento da Cristo. Di fatto egli ha assunto il «corpo della carne» (Col 1, 22), che lo ha reso soggetto alla legge (Gal 4, 4). Con ciò, entrando nella «rassomiglianza della carne del peccato» (Rom 8, 3), egli è divenuto «*maledizione per noi» (Gal 3, 13), «è stato fatto *peccato per noi» (2 Cor 5, 21); infine è stato sottoposto alla potenza della *morte, ma la sua morte fu una morte al peccato, una volta per tutte (Rom 6, 10). Con la morte egli ha quindi vinto la carne ed il peccato; le potenze che hanno crocifisso Gesù sono state spogliate del loro potere (l Cor 2, 6. 8; Col 2, 15). Egli ha quindi condannato il peccato (Rom 8, 3), trasformando la maledizione della legge in benedizione (Gal 3, 13 s; Ef 2, 15). E non soltanto ci ha così liberati da una schiavitù, ma, propriamente parlando, ci ha incorporati in sé: la portata universale della sua vita e della sua passione redentrice fa sì che ormai non ci sia più che un «solo» corpo, il *corpo di Cristo.
    3. Il corpo del cristiano.
    - Perciò ogni credente unito a Cristo può ormai trionfare delle potenze cui fu un tempo soggetto - legge, peccato, morte - attraverso il corpo di Cristo. Egli è «morto nei confronti della legge» (Rom 7, 4), il suo «corpo di peccato è distrutto» (6, 6), eccolo «spogliato di questo corpo carnale» che va alla morte (Col 2, 11). Tutto l’itinerario di Cristo, che egli ha in tal modo percorso ricevendo il battesimo, il cristiano lo deve seguire nella sua vita ogni giorno; deve «offrire il suo corpo» in sacrificio vivente (Rom 12, 1). La dignità del corpo non raggiunge quaggiù il suo vertice: il corpo di questa miseria terrena e peccaminosa sarà trasformato in corpo di *gloria (Fil 3, 21), in un «corpo spirituale» (1 Cor 15, 44), incorruttibile, che ci farà «rivestire l’immagine dell’*Adamo celeste» (15, 49). Il passaggio dal corpo mortale al corpo del Cristo celeste noi ameremmo vederlo compiersi con una trasformazione immediata, «in un batter d’occhio», come nel giorno della parusia. Ma dobbiamo tenerci pronti ad un altro destino: il passaggio doloroso attraverso alla *morte. Dobbiamo quindi «preferire di lasciare questo corpo per andare a dimorare presso il Signore» (2 Cor 5, 8), in attesa della risurrezione del nostro corpo, per mezzo della quale formeremo infine e per sempre il corpo unico di Cristo.
    X. LÉON-DUFOUR
    → adorazione 0, I, II 3 - anima - apparizioni di Cristo 6 - carne - Corpo di Cristo - morte VT I 2; NT I 2, III 4 - risurrezione - sessualità II, 2, III 2 - uomo - veste.

    CORPO DI CRISTO (inizio)

    Secondo il NT, il corpo di Cristo svolge una funzione capitale nel mistero della redenzione. Ma l’espressione implica parecchi sensi; designa ora il corpo individuale di Gesù, ora il suo corpo eucaristico, ora il corpo di cui noi siamo membra e che è la Chiesa.
    I. IL CORPO INDIVIDUALE DI GESÙ
    1. Gesù nella sua vita corporale.
    - Gesù ha condiviso la nostra vita corporale: questo fatto fondamentale appare in tutte le pagine del NT. Secondo la carne, dice Paolo, egli è nato dai patriarchi e dalla posterità di David (Rom 1, 3; 9, 5); è nato da una donna (Gal 4, 4). Nei vangeli la realtà della sua natura umana si impone dovunque, senza che sia necessario menzionare esplicitamente il suo corpo: egli è soggetto alla *fame (Mt 4, 2 par.), alla fatica (Gv 4, 6), alla sete (4, 7), al *sonno (Mc 4, 38), alla *sofferenza... Per insistere su queste stesse realtà, Giovanni parla piuttosto della *carne di Gesù (cfr. Gv 1, 14), lanciando l’anatema contro coloro che negano «Gesù venuto nella carne» (1 Gv 4, 2; 2 Gv 7).
    2. La morte corporale di Gesù.
    - Questa attenzione al corpo di Gesù aumenta nei racconti della passione. Già nel banchetto di Betania il suo corpo è unto per la sepoltura (Mt 26, 12 par.). Infine egli muore sulla croce (Mt 27, 50 par.) ed è posto nel sepolcro (Mt 27, 58 ss par.; Gv 19, 38 ss). Ma questa fine banale, identica a quella di tutti gli uomini, ha nondimeno un significato particolare nel mistero della *salvezza: sulla *croce Gesù ha portato i nostri *peccati nel suo corpo (1 Piet 2, 24); Dio ci ha *riconciliati nel suo corpo di carne consegnandolo alla *morte (Col 1, 22). Il corpo di Cristo, vero *agnello pasquale (1 Cor 5, 7), è stato dunque lo strumento della nostra *redenzione; dal suo costato trafitto sono usciti il *sangue e l’acqua (Gv 19, 33 ss). Così pure, per presentare il *sacrificio di Cristo, la lettera agli Ebrei accorda un’attenzione particolare al suo corpo. Fin dal suo ingresso nel mondo Gesù si disponeva già ad offrirsi, perché Dio gli aveva «plasmato un corpo» (Ebr 10, 5), ed infine ci ha santificati una volta per sempre mediante «l’oblazione del suo corpo» (Ebr 10, 10).
    3. La glorificazione del corpo di Gesù.
    - Tuttavia il mistero non è terminato alla morte corporale di Gesù: si è consumato con la sua *risurrezione. Gli evangelisti sottolineano, nei racconti di *apparizioni, che il corpo di Cristo risorto è ben reale (Lc 24, 39. 42; Gv 20, 27), ma anche che non è più soggetto alle stesse condizioni di esistenza antecedenti la passione (Gv 20, 19. 26). Non è più un corpo «psichico» (1 Cor 15, 44), ma un «corpo di gloria» (Fil 3, 21), un «corpo spirituale» (1 Cor 15, 44). Con ciò si rivela in modo splendido il senso sacro del corpo di Gesù nella nuova economia inaugurata dall’incarnazione: distrutto e poi ricostruito in tre giorni, esso si è sostituito all’antico *tempio come segno della *presenza di Dio tra gli uomini (Gv 2, 18- 22).
    II. IL SACRAMENTO DEL CORPO DI CRISTO
    1. Questo è il mio corpo.
    - Dopo la risurrezione, il corpo di Cristo non ha soltanto un’esistenza celeste, invisibile, «alla *destra di Dio» (Ebr 10, 12); infatti, prima di morire, Gesù ha istituito un rito per perpetuare sotto segni la *presenza terrena del suo corpo sacrificato. I racconti della istituzione *eucaristica mostrano che questo rito è stato inaugurato nella prospettiva della croce imminente, manifestando in tal modo il senso della morte corporale di Gesù: «Questo è il mio corpo per voi» (1 Cor 11, 24 par.); «questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, sparso per una moltitudine» (Mc 14, 24 par.). Quel che i segni del *pane e del *vino renderanno ormai presente quaggiù è quindi il corpo di Gesù dato, il suo sangue sparso.
    2. L’esperienza eucaristica della Chiesa.
    - Di fatto lo stesso rito, ripetuto nella Chiesa, rimane il *memoriale della morte di Cristo (1 Cor 11, 24 ss). Tuttavia esso ora è posto nella luce della risurrezione, con la quale il corpo di Cristo è divenuto «spirito vivificante» (15, 45); ha inoltre un orientamento escatologico, perché annuncia il ritorno del Signore ed invita ad attenderlo (11, 26). Con questo rito la Chiesa fa quindi un’esperienza di natura particolare: la «comunione con il corpo di Cristo» le fa rivivere tutti gli aspetti essenziali del mistero della salvezza.
    III. LA CHIESA CORPO DI CRISTO
    1. Membra d’un corpo unico.

    - Per mezzo dell’esperienza eucaristica, noi acquistiamo pure coscienza di essere membra del corpo di Cristo. «Il pane che mangiamo non è una comunione col corpo di Cristo? Poiché non c’è che un solo pane, noi non formiamo che un solo corpo» (l Cor 10, 16 s). La nostra unione con Cristo dev’essere dunque intesa in modo molto realistico; siamo veramente sue membra, ed il cristiano che si abbandona alla fornicazione «prende un membro di Cristo per unirlo ad una prostituta» (1 Cor 6, 15). Quando Paolo dice che noi tutti formiamo un solo corpo (1 Cor 12, 12), che siamo membra gli uni degli altri (Rom 12, 5), non si tratta quindi di una semplice metafora, come «le membra e lo stomaco» nella favola greca che in questa occasione egli sfrutta (1 Cor 12, 14-26). È il suo proprio corpo ad unificare le membra molteplici del corpo formato dai fedeli mediante il *battesimo (1 Cor 12, 13. 27) e mediante la *comunione eucaristica (1 Cor 10, 17). In esso ogni cristiano ha una funzione particolare in vista del bene dell’insieme (1 Cor 12, 27-30; Rom 12, 4). In breve, attorno al corpo individuale di Gesù si realizza l’unità degli uomini, chiamati ad aggregarsi a questo corpo.
    2. Il corpo di Cristo, che è la Chiesa.
    - Nelle lettere della cattività Paolo riprende la stessa dottrina in una prospettiva più completa, che mette maggiormente in rilievo il Cristo come testa del corpo, e quindi della Chiesa (Col 1, 18), e insiste nello stesso tempo sulla sua funzione cosmica in quanto creatore (Col 1, 16 s; Ef 1, 22) e sulla sua superiorità nei confronti degli angeli (Col 1, 16; 2, 10; Ef 1, 21). Come il marito, che ne è il capo, la testa (Ef 5, 23), ama la moglie «come il suo proprio corpo» (Ef 5, 28), così Cristo, salvatore del corpo (Ef 5, 23), ha amato la Chiesa e si è dato per essa (Ef 5, 25). La Chiesa quindi è il suo corpo, la sua *pienezza (Ef 1, 23; Col 1, 24), ed egli stesso è la *testa (Col 1, 18; Ef 1, 22) che assicura l’unità di questo corpo (Col 2, 19). In questo corpo, di cui tutti siamo membra (Ef 5, 30), noi non formiamo più che *uno solo (Col 3, 15); infatti, qualunque sia la nostra origine, siamo tutti riconciliati per divenire un solo *popolo, un solo *uomo nuovo (Ef 2, 14-16). Tale è, nella sua totalità, lo sviluppo del corpo di Cristo. L’esperienza cristiana, fondata sulla realtà storica dei Cristo corporeo e sulla pratica eucaristica, permette di formulare in tutta la sua profondità mistero della Chiesa.
    3. Il corpo di Cristo ed i nostri corpi.
    - Innestati su Cristo, divenuti sue membra e templi dello Spirito Santo (1 Cor 6, 19), i nostri *corpi sono anch’essi chiamati ad entrare in questo mondo nuovo: risusciteranno con «Cristo, che trasfigurerà i nostri corpi di miseria per conformarli al suo corpo di gloria» (Fil 3, 20 s). Così terminerà la funzione del corpo di Cristo nella nostra redenzione.
    F. AMIOT
    → apparizioni di Cristo 4 b - Chiesa - comunione NT - corpo I, II 2.3 - edificare III - eucaristia - Gesu Cristo II 1 d - pane - pienezza 3 - scisma NT - tempio NT I 2, II 2 - testa 3 - unità III - uomo I 2 c - vite-vigna 3
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    CORRERE (inizio)

    Oltre al significato letterale - quando, per esempio, i corrieri a piedi della guardia reale (1 Sam 22, 17) si affrettano ad annunciare le notizie della battaglia (2 Sam 18, 9-27) -, la Bibbia conosce un uso metaforico del verbo «correre» (in greco: trècho; talvolta diòko: «affrettarsi alla volta di», «proseguire [la propria corsa]», e di qui «perseguitare») per caratterizzare il dinamismo della *parola di Dio o di coloro che l’annunciano. Più avanti, sotto l’influsso delle competizioni agonistiche praticate nel mondo greco, il termine designerà anche il «corso» della vita, la vita tesa verso un fine.
    1. La parola di Dio corre.
    - La parola di Dio è rapida, efficace, dinamica: «Dall’alto dei cieli, la tua parola onnipotente si slanciò dal trono regale» (Sap 18, 15; cfr. 1 Sam 22, 17). Essa piomba addosso a Giobbe come un prode (Giob 16, 14), secondo l’immagine del balzo che ha sostituito quella della rapidità del corridore: «Dio invia la sua parola sulla terra, rapida corre la sua parola» (Sal 147, 15; cfr. Is 55, 11). Paolo evoca forse questo brano quando chiede di pregare affinché «la parola del Signore compia la sua corsa» (2 Tess 3, 1). Dal canto loro, i *profeti, come corrieri del re (1 Sam 8, 11) corrono a proclamare la parola. «La mano di Jahvè fu sopra Elia, che si cinse i fianchi e corse dinanzi ad Akhab fino all’ingresso di Jizreel» (1 Re 18, 46). Fanno altrettanto anche i profeti che non sono stati inviati da Dio: «Essi corrono; io non ho detto loro nulla, ed essi profetizzano» (Ger 23, 21).
    2. La vita è una corsa.
    - L’esistenza umana, spesso paragonata a una marcia (Gv 8, 12; 1 Gv 1, 6- 7), diventa una corsa quando si vuole esprimere un’obbedienza pressante o una missione urgente. Talvolta si tratta ancora dell’annuncio della Parola, come per Giovanni Battista che ha concluso la sua corsa (Atti 13, 24 s), o per Paolo la cui corsa è l’annuncio della buona novella (20, 24). Ma il verbo può anche designare l’andamento allegro che dà una vita giusta, aggiungendo alla metafora della marcia sulle *vie di Dio una nota di gioia, di fretta, di vivacità: «Io corro sulla via dei tuoi comandamenti, perché tu mi hai dilatato il cuore» (Sal 119, 32); «A coloro che sperano in Jahvè..., spuntano delle ali come alle aquile: corrono e non sono, stanchi» (Is 40, 31). Trasferito nel linguaggio del Cantico dei cantici, questo *zelo di tutta un’esistenza al servizio di Jahvè diventa la frenesia della sposa rapita di gioia alla voce dello sposo: «Trascinami dietro a te, corriamo!» (Cant 1, 4). Non ci suggerisce un’idea del genere la corsa di Pietro e di Giovanni al sepolcro del Signore (Gv 20, 4)? Sotto la penna di Paolo, questa corsa diventa una gara sportiva che esige dei sacrifici per riportare la vittoria (1 Cor 9, 24-27). La stessa immagine, sia pur con un altro verbo, serve a caratterizzare l’intera avventura di Paolo. Sulla strada di Damasco, mentre egli stava perseguendo (diòko: nel senso di *perseguitare) i cristiani, viene raggiunto da Cristo: «Io proseguo la mia corsa (diòko) per cercare di afferrarlo, essendo stato a mia volta afferrato dal Cristo Gesù... Dimentico della via percorsa, proiettato con tutto il mio essere in avanti, io corro dritto verso la meta per riportare il premio della celeste chiamata di Dio in Cristo Gesù» (Fil 3,12 ss). Lungi dal lasciarci fermare dagli ostacoli (Gal 5, 7), «circondati come siamo da un così gran nugolo di testimoni (cioè dagli spettatori dello stadio, gli ex campioni)... corriamo (trèchomen) la gara propostaci, tenendo gli occhi fissi sul capo della nostra fede» (Ebr 12, 1 s), il nostro precursore (pròdromos, da èdramon, aoristo di trècho) (6, 20). Allora non si correrà invano (1 Cor 9, 26; Gal 2, 2; Fil 2, 16) e si potrà dire con Paolo: «Ho combattuto fino alla fine la buona lotta, ho concluso la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tim 4, 7). Ma in tutto ciò non bisogna dimenticare che tutto proviene solo da Dio: «Ciò non dipende né da colui che vuole né da colui che corre, ma da Dio che fa misericordia» (Rom 9, 16).
    X. LÉON-DUFOUR
    → Parola di Dio VT II 2 - via - zelo II 2.

    CORREZIONI (inizio)

    → castighi - educazione 0, I 2 b, III 2.

    COSCIENZA (inizio)

    Nelle lingue moderne il termine «coscienza» riveste diversi significati. Non si tratta qui della conoscenza intima che si ha di se stessi (ad es. la coscienza di Cristo) né del sentimento che si prova circa determinati valori («aver coscienza di...») ma della facoltà intuitiva in virtù della quale si giudica di un atto compiuto o da compiere. Piuttosto che una scienza teorica del *bene e del male, è il giudizio pratico in base al quale si dichiara che la tal cosa è (è stata) per me un bene o un male. La Bibbia conosce un termine scientifico che designi la coscienza solo a partire dal contatto avuto con il mondo greco. Syneìdesis appare infatti solo in Eccle 10, 20 (foro interno) e in Sap 17, 10 (testimonianza interiore dell’empietà). Il termine, assente nei vangeli, viene usato soprattutto da Paolo. Ma la realtà che la parola sta a significare esiste in tutta la Bibbia; essa appunto consente di valutare la differenza che separa il pensiero paolino dalla mentalità ellenistica.
    1. «Il mio cuore non mi rimprovera nulla».
    - Quando la funzione della coscienza arriva ad essere precisata, viene attribuita al *cuore o ai *reni. A David, il cuore battè forte all’idea di aver censito il popolo ed egli disse: «È un grave peccato quello che ho commesso» (2 Sam 24, 10); lo stesso quando ebbe tagliato il tessuto del mantello dell’unto del Signore (1 Sam 24, 6) o quando gli venne fatto presente che avrebbe potuto rimpiangere di aver versato il sangue (25, 31). Di colpo, il rimorso della coscienza è legato all’alleanza contratta con il Signore. Infatti, dall’occhio di Jahvè vengono giudicati gli atti dei re (1 Re 16, 7), di quel Jahvè che «scruta le reni e i cuori» (Ger 11, 20; 17, 10; Sal 7, 10) e a cui sono presenti tutte le azioni umane. Ma il giudizio della «coscienza» ha radice esclusivamente in questa vicinanza di Dio? Il dramma di Giobbe sembrerebbe contestarlo. Giobbe può proclamare, di fronte ai suoi detrattori, di fronte a Dio stesso, la purezza del suo cuore: «Io sono attaccato alla mia *giustizia e non la lascio, non ho motivo di arrossire dei miei giorni» (Giob 27, 6), che si può tradurre più liberamente: «Il mio cuore non ha nulla da rimproverarmi» e tuttavia non gli resta che pentirsi sulla polvere e sulla cenere (42, 6). La coscienza infatti, per quanto interiorizzata possa essere, tende a commisurare il mistero di Dio alla conoscenza che ha della sua *volontà espressa nella *legge. A differenza della giustizia di Giobbe, i *farisei che Gesù condanna, hanno proiettato la coscienza della propria giustizia in una pratica materiale della legge. Gesù non abolisce la legge, ma dimostra che è la purezza di intenti a doverne guidare la pratica; sgombra l’ingresso della coscienza insegnando a giudicare in base al cuore (Mt 15, 1-20 par.), grazie a un occhio sano (Lc 11, 34 ss), in presenza del Padre che vede nel segreto (Mt 6, 4. 6. 18). Con ciò, Gesù prepara l’avvento di una coscienza libera, per il giorno in cui, con Paolo, la legge non sarà più soltanto esterna all’uomo, ma troverà senso e forza grazie allo Spirito effuso nei cuori.
    2. La coscienza secondo Paolo.
    a) La parola syneìdesis è stata desunta da Paolo non già da qualche fonte letteraria né dalla filosofia stoica (il termine non compare in Epitteto, né in Plutarco né in Marco Aurelio), ma dal linguaggio religioso dell’epoca. Ai suoi occhi doveva esprimere il giudizio riflesso e autonomo insito nella nozione biblica di cuore. Il passaggio da un concetto all’altro è nettamente sottolineato nel consiglio che dà a Timoteo: «Promuovere la carità che procede da un cuore puro, da una coscienza retta e da una fede senza incertezze» (1 Tim 1, 5). Cuore, coscienza e *fede sono su basi diverse alla fonte dell’azione caritatevole. Se l’intenzione è retta, se la fede assicura una solida convinzione, allora la coscienza sarà soddisfatta. Così il cristiano *obbedisce all’*autorità civile «non soltanto per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza», perché la sua fede gli suggerisce che questa autorità «è al servizio di Dio» (Rom 13, 4 s). Così Paolo dichiara spesso di reputare la propria coscienza «irreprensibile» (2 Cor 1, 12; cfr. Atti 23, 1; 24, 16). Non ne consegue che questa coscienza sia autonoma alla maniera degli stoici: per essi, la coscienza è libera in virtù della scienza che si ha delle leggi della natura. Per Paolo, il giudizio della coscienza è sempre soggetto a quello di Dio: «La mia coscienza, è vero, non mi rimprovera nulla, ma io non sono tuttavia giustificato; il mio giudice è il Signore» (1 Cor 4, 4). Le sue affermazioni di buona coscienza sono in genere accompagnate dall’accenno a Dio (2 Cor 4, 2) o alla testimonianza dello Spirito Santo (Rom 9, 1). La coscienza è «teonoma». Qualificata come «buona» e «pura» è radicalmente illuminata dalla fede autentica (1 Tim 1, 5. 19; 3, 9; 4, 1s; 2 Tim 1, 3; cfr. Ebr 13, 18; 1 Piet 3, 16).
    b) Così il credente perviene alla perfetta *libertà. Mentre per i giudei, la legge imponeva la scelta tra questo o quel tipo di carne, tra questa o quella festa, per il cristiano «tutto è puro» (Rom 14, 20; Tito 1, 15), «tutto è permesso» (1 Cor 6, 12; 10, 23). La fede ha dato la «scienza» (8, 1) che fa riconoscere la bontà di ogni creatura (3, 21-23; 8, 6; 10, 25 s). Il cristiano ha una coscienza illuminata e si trova quindi ad essere libero nei confronti delle prescrizioni rituali della legge di Mosè: «Là dov’è lo Spirito del Signore, lì è la libertà» (2 Cor 3, 17), una libertà che non deriva dal giudizio di una coscienza estranea» (1 Cor 10, 29). La sua coscienza lo rende libero come lo stoico, ma in modo diverso ed entro limiti che adesso sarà bene precisare. All’adagio: «Tutto è permesso», Paolo aggiunge immediatamente «ma non tutto *edifica» (1 Cor 10, 23). Tra coscienze che non sono evolute nello stesso modo, allo stesso grado, può infatti insorgere un conflitto. Agli occhi di certi credenti, le carni consacrate agli idoli rimangono impure; per via della loro convinzione, sono quindi costretti a non mangiarne: questo è il verdetto della loro coscienza. Il credente che è «forte» (Rom 15, 1) dovrà fare di tutto piuttosto che urtare il fratello, che è ancora debole: «Non causare per questo tuo cibo la perdita di qualcuno per cui Cristo è morto!» (Rom 14, 15). «Certo, tutto è puro, però è male mangiare qualche cosa quando in questo modo si è causa di caduta» (14, 20; 1 Cor 8, 9-13). La scienza quindi deve cedere alla carità fraterna. La coscienza deve inoltre limitare la libertà in ragione della presenza divina che le conferisce il suo significato. «Tutto è in mio potere» riprendeva Paolo, sulla scia dei Corinti, «però io non mi farò schiavo di nessuno» (1 Cor 6, 12). Così, non posso unirmi a una prostituta: il mio corpo non mi appartiene. La scienza e la libertà sono ancora una volta limitate da qualcuno che, in un primo tempo, mi appare come diverso da me, ma che, a poco a poco, si rivela nella fede come colui che perfeziona l’io in verità. Così Paolo non si attiene a delle norme scritte, immutabili; quel che condiziona la sua coscienza, è il suo rapporto con il Signore e con i fratelli. Quel che riconosce, non è uno schema rigido imposto da una legge scritta, bensì la relazione elastica, e assai poco coercitiva con la Parola del Signore e con il prossimo. E questa, del resto, non è che renda inutili le leggi scritte, però toglie loro quel carattere assoluto che a volte assumono agli occhi degli spiriti timorati.
    c) Paolo doveva aver senza dubbio riflettuto a lungo sulla nuova libertà acquisita in Cristo, quando a contatto con il mondo pagano, esce nella seguente constatazione: «Quando dei pagani, senza possedere una *legge (rivelata) fanno per natura ciò che la legge ordina, essi, che non hanno legge, sono legge a se stessi. Dimostrano che l’opera voluta dalla legge è inscritta nei loro cuori; è la loro coscienza allora a dare testimonianza, così come i loro giudizi intimi che a volta a volta li accusano e li difendono» (Rom 2, 14 s). Questa affermazione reinserita nel suo contesto, significa prima di tutto che il giudizio di Dio verte non sulla scienza del bene e del male ma sulla sua pratica. E questa, in ultima istanza, è determinata non già dalla legge rivelata, bensì dalla coscienza del bene e del male: in essa si manifesta la volontà di Dio. Così Adamo, che ha disobbedito a Dio, ha coscienza della propria nudità e fugge dal cospetto di Dio (Gen 3, 8 ss). Questo presuppone inoltre, afferma Paolo, che il progetto di Dio è inscritto nel cuore di ogni uomo, ancor prima che la rivelazione lo precisi definitivamente. Anche se Dio non è stato riconosciuto come creatore (Rom 1, 19 ss); anche se non esiste legge rivelata, l’uomo nasce in dialogo con Dio, e, di fronte all’azione, reagisce secondo il disegno di Dio.
    3. Coscienza purificata dal culto.
    - La Lettera agli Ebrei utilizza in genere il termine in un contesto sacrificale. I *sacrifici del VT non avevano «il potere di rendere perfetto l’adoratore nella sua coscienza» (Ebr 9, 9); in altre parole, se gli officianti di questo culto non avessero più avuto coscienza di alcun peccato, il culto sarebbe cessato (10, 2). Viceversa, «il *sangue di Cristo purifica la nostra coscienza dalle opere morte affinché noi rendiamo un culto al Dio vivente» (9, 14). Questa *purificazione si verifica ora al battesimo (10, 22), perché, secondo Pietro, è il battesimo che assicura «l’impegno a Dio di una buona coscienza in virtù della risurrezione di Gesù Cristo» (1 Piet 3, 21). In definitiva, solo il sangue di Cristo e la risurrezione rendono possibile una coscienza pura.
    X. LÉON DUFOUR
    → bene e male - cuore - legge A 2; B IV; C III 1 2.3- liberazione-libertà I, III 3 c - peccato 1 2 - puro VT II; NT II 3 - reni 2 - responsabilità - spirito VT 3.4 - uomo II 1 d.

    COSTANZA (inizio)

    → pazienza - persecuzione II –prova-tentazione - speranza.

    COSTRUIRE (inizio)

    → casa I - edificare - pietra 1.4.6.

    CREAZIONE (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO
    I. IL CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA
    Leggendo i primi testimoni della letteratura biblica, si ha l’impressione che gli antichi Israeliti considerassero più volentieri Dio come il salvatore di Israele e l’autore dell’alleanza che come il creatore del *mondo e dell’*uomo. E’ tuttavia certo che l’idea della creazione risale in Israele alla più remota antichità. Di fatto, nell’ambiente orientale dove si è affermata la rivelazione biblica, essa esisteva ben prima dell’epoca di Abramo. In Egitto il racconto della creazione da parte di Atum era scolpito sulle pareti delle piramidi. In Mesopotamia testi accadici, dipendenti già da tradizioni sumeriche, riferivano parecchi racconti della creazione. A Ugarit il Dio supremo El era chiamato il «creatore delle creature». Indubbiamente, in questi tre casi, l’origine del mondo era legata a concezioni politeistiche. In Mesopotamia essa si collegava organicamente alla guerra degli dèi, che la mitologia poneva nel tempo primordiale. Nonostante tutto, i miti stessi attestavano preoccupazioni e nozioni che non potevano essere estranee ad Israele. Si è supposto che il *nome divino Jahvè, avesse primitivamente un senso causativo: «Colui che fa essere», quindi «il creatore». E una ipotesi verosimile. Ma la Genesi ci fornisce un punto di riscontro ancor più significativo. Melchisedech benedice Abramo «da parte del Dio altissimo che creò il cielo e la terra» (Gen 14, 19): l’espressione si ritrova per l’appunto nei testi fenici. Ora Abramo prende anche egli a testimone «il Dio altissimo che creò il cielo e la terra» (Gen 14, 22).Così nel Dio creatore del re di Salem i patriarchi ritrovavano il loro proprio Dio, anche se il politeismo ne aveva sfigurato i lineamenti.
    II. LA RAPPRESENTAZIONE BIBLICA DELLA CREAZIONE
    Due racconti complementari della creazione aprono il libro della Genesi. Vi stanno come una prefazione all’alleanza con Noè, Abramo, Mosè, o meglio, come il primo atto del dramma che, attraverso le manifestazioni varie della bontà di Dio e della infedeltà degli uomini, costituisce la storia della *salvezza.
     1. Il racconto più antico (Gen 2, 4-25)
    Il racconto più antico (Gen, 4-25) si diffonde soprattutto sulla creazione della prima coppia umana e della cornice in cui essa deve vivere. Dio fa uscire dal suolo l’umidità che lo feconderà, e vi pianta il giardino di Eden, il *paradiso; con la polvere del suolo modella il corpo dell’uomo, poi quello degli *animali; dal corpo dell’uomo trae la *donna. Tutto ciò che esiste risulta così dalla sua attività personale, ed il racconto sottolinea a suo modo il carattere concreto di questa attività: come un artigiano, Dio lavora a modo umano. Ma la sua *opera è di colpo perfetta: l’uomo è creato per vivere beato, con gli animali per servi, e con una compagna, altro se stesso. Soltanto il peccato introdurrà il disordine e la *maledizione in un mondo che all’origine è *buono.
    2. Nel racconto sacerdotale (Gen 1) il quadro è più grandioso.
    - All’inizio Dio trae l’universo (cielo e terra) dal caos primitivo (1, 1); vi fa poi apparire tutto ciò che ne costituisce la ricchezza e la bellezza. L’autore è stato colpito dall’ordine della creazione: regolarità del movimento degli astri, distinzione dei regni, leggi della riproduzione. Tutto ciò è opera del creatore, che, mediante la semplice *parola, ha messo al suo posto ogni cosa (Sal 148, 5). E questa opera culmina nella creazione dell’uomo che sarà ad *immagine, a somiglianza di Dio, e che deve dominare l’universo. Infine, terminata la sua opera, Dio si riposò e benedì il settimo giorno ormai destinato al *riposo. Quest’ultimo tratto fornisce il senso della cornice temporale in cui è posta la creazione, quello della *settimana, che dà alla vita dell’uomo un ritmo sacro: l’attività creatrice di Dio è il modello di ogni *lavoro umano. I tratti, che questo secondo racconto ha in comune con le tradizioni babilonesi (vittoria sull’abisso, separazione delle acque superiori e delle inferiori, creazione degli astri), non presentano alcuna traccia di mitologia. Dio agisce solo e delibera soltanto con se stesso. La sua vittoria sul caos non è l’esito di un vero combattimento. L’abisso (tehôm) non è una divinità cattiva come la Tiamat babilonese; non si tratta più di mostri, né di demoni vinti o incatenati da Dio. La creazione è l’azione spontanea di un Dio onni*potente, che agisce secondo un disegno stabilito in favore dell’uomo creato a sua immagine.
    3. La tradizione biblica.
    - La concezione della creazione, attestata da queste due diverse rappresentazioni, ha dominato il pensiero israelitico ancor prima di prendere forma nei racconti biblici attuali. I profeti vi fanno appello nelle loro polemiche contro gli *idoli, quando rimproverano loro di essere oggetti senza vita, fatti dalla mano d’uomo, incapaci di salvare (Ger 10, 1-5; Is 40, 19 s; 44, 9-20), mentre Jahvè è il creatore del mondo (Am 4, 13; 5, 8 s; 9, 5 s; Ger 10, 6-16; Is 40, 21-26). Dopo l’esilio, i sapienti vanno oltre nella riflessione teologica. Non contento di affermare che Dio ha creato il mondo con sapienza, intelligenza e scienza (Prov 3, 19 s; cfr. Sal 104, 24), l’editore dei Proverbi mostra nella *sapienza personificata la prima opera di Dio generata fin dall’inizio (Prov 8, 22 ss). Essa era presente quando tutte le cose furono create, in funzione di architetto (Prov 8, 24-30); si ricreava nell’universo prima di compiacersi nel frequentare gli uomini (Prov 8, 31). Nutrito di questa dottrina, il Siracide insiste a sua volta sulla creazione della sapienza prima di tutte le cose (Eccli 1, 9; 24, 9). Similmente il libro della Sapienza vede in essa l’artefice dell’universo (Sap 8, 6; cfr. 9, 9). In una linea di pensiero molto affine, i salmisti attribuiscono la creazione alla *parola ed allo *spirito di Dio personificati (Sal 33, 6;104, 30; cfr. Giudit 16, 14). Queste nuove prospettive hanno la loro importanza perché preludono alla rivelazione del Verbo e dello Spirito Santo. Infine, nell’epoca greca, si giunge all’idea esplicita di un mondo tratto dal nulla: «Considera il cielo e la terra, e vedi ciò che è in essi, e sappi che Dio li ha fatti dal nulla, e che la razza degli uomini è fatta allo stesso modo» (2 Mac 7, 28). Ma a questa epoca, la teologia della creazione si congiunge all’apologetica giudaica: di fronte ad un mondo pagano per il quale tutto era Dio, salvo Dio stesso, Israele afferma la grandezza del Dio unico, che si lascia scorgere attraverso alle sue *opere (Sal 13, 1-5).
    III. LA CREAZIONE NEL DISEGNO DI DIO
    1. Creazione e storia.

    - VT non s’interessa alla creazione per soddisfare la curiosità umana risolvendo il problema delle origini. Vi vede innanzitutto il punto di partenza del *disegno di Dio e della storia della salvezza, il primo dei grandi atti divini la cui serie continua nella storia di Israele. *Potenza creatrice e padronanza della storia sono correlative: come creatore e padrone del mondo Jahvè può scegliere Nabuchodonosor (Ger 27, 4-7) o Ciro (Is 45, 12 s) per eseguire i suoi disegni quaggiù. Gli avvenimenti non si compiono mai se non in dipendenza da lui; alla lettera, egli li crea (Is 48, 6 s). Ciò vale specialmente per gli avvenimenti principali che hanno determinato il corso del destino di Israele: *elezione del popolo di Dio, creato e formato da lui (Is 43, 1-7), liberazione dell’esodo (cfr. Is 43, 16-19). Perciò nelle loro meditazioni sulla storia sacra, i salmisti li uniscono alle meraviglie della creazione per comporre un quadro completo dei *miracoli di Dio (Sal 135, 5-12; 136, 4-26). Inserito in una simile cornice, l’atto creativo sfugge totalmente alle concezioni mitiche che lo sfiguravano nell’Oriente antico. Perciò, per darne una rappresentazione poetica, gli autori sacri possono riprendere impunemente le immagini dei vecchi miti: esse hanno perso il loro veleno. Il creatore diventa l’eroe di un combattimento gigantesco contro le *bestie che personificano il caos, Rahab o Leviathan. Questi mostri sono stati schiacciati (Sal 89, 11), trafitti (Is 51, 9; Giob 26, 13), spezzati (Sal 74, 13). Non sono definitivamente distrutti, ma assopiti (Giob 3, 8), incatenati (Giob 7, 12; 9, 13), relegati nel mare (Sal 104, 26); la creazione fu per Dio la sua prima *vittoria. Nella storia continua la serie dei combattimenti che le stesse immagini possono servire a rappresentare: l’esodo non comportò una nuova vittoria sul mostro del grande abisso (Is 51, 10)? Così, mediante l’interpretazione dei simboli, si ritrova sempre la stessa assimilazione dei grandi atti storici di Dio al suo grande atto originale.
    2. Salvezza e nuova creazione.
    - La storia sacra non si ferma al presente: cammina verso un termine evocato dalla escatologia profetica. Anche qui si impone un riferimento all’atto creativo di Dio, se si vuol comprendere esattamente ciò che sarà la *salvezza finale. La conversione di Israele sarà una vera ri-creazione: «Jahvè crea *nuovamente sulla terra: la donna ricerca il proprio marito» (Ger 31, 22). Così pure la futura liberazione (Is 45, 8), che sarà accompagnata dai prodigi di un nuovo esodo (Is 41, 20); la nuova *Gerusalemme, dove il nuovo popolo troverà una felicità paradisiaca (Is 65, 18); e la stabilità delle leggi fissate da Dio nell’universo sono un pegno sicuro che questo ordine nuovo durerà in eterno (Ger 31, 35 ss). Infine l’intero universo parteciperà al rinnovamento della faccia delle cose: Jahvè creerà cieli nuovi ed una nuova terra (Is 65, 17; 66, 22 s). Prospettiva grandiosa in cui il termine dei disegni di Dio raggiunge la perfezione delle origini dopo la lunga parentesi aperta dal peccato umano. Senza usare esplicitamente il verbo «creare», Ezechiele vi si conformava già quando mostrava Jahvè che negli ultimi tempi cambia il *cuore dell’uomo per reintrodurlo nella gioia dell’Eden (Ez 36, 26-35; cfr. 11, 19). Perciò il salmista, appoggiandosi su una simile promessa, può supplicare Dio di «creare in lui un cuore mondo» (Sal 51, 12): in questo rinnovamento del suo essere egli presenta a giusto titolo una anticipazione concreta della nuova creazione che avverrà in Gesù Cristo.
    IV. L’UOMO DINANZI AL CREATORE
    1. Situazione dell’uomo.
    - La dottrina biblica della creazione non è una speculazione di teologia astratta. È una nozione religiosa che impone un atteggiamento dell’anima. Attraverso l’opera l’uomo scopre l’artefice (cfr. Sap 13, 5), e ne risulta in lui un sentimento profondo di ammirazione e di riconoscenza. In taluni salmi la contemplazione della bellezza delle cose porta ad una lode entusiastica (Sal 19, 1-7; 89, 6-15; 104). Altrove l’uomo è come schiacciato dalla grandezza divina, che scopre attraverso a queste meraviglie stupende. Tale è il senso dei discorsi di Dio nel libro di Giobbe (38 - 41); così richiamato alla realtà, come non si inabisserebbe Giobbe in una *umiltà profonda (42, 1-6)? Alla fine l’*uomo si pone al suo vero posto di creatura. Dio lo ha plasmato, impastato, modellato come l’argilla (Giob 10, 8 ss; Is 64, 7; Ger 18, 6). Che cosa è egli dinanzi a Dio, la cui misericordia gli è così necessaria (Eccli 18, 8-14)? Invano cercherebbe di fuggire la *presenza divina; in ogni istante è tra le mani del suo creatore, e nulla di ciò che fa gli sfugge (Sal 139). Questo è il sentimento fondamentale, sul quale si può edificare una *pietà autentica; di fatto esso dà il tono a tutta la pietà del VT.
    2. La via della fiducia.
    Prendendo così coscienza della sua vera situazione dinanzi a Dio, l’uomo può trovare la via della *fiducia. Infatti, come ripete Isaia, lo stesso Dio che ha creato il cielo e la terra intende pure annientare i *nemici del suo popolo, dargli la salvezza, restaurare la nuova Gerusalemme (ls 44, 24-28; cfr. Is 51, 9 ss). Il fedele deve eliminare ogni paura: il soccorso gli viene dal Signore che fece il cielo e la terra (Sal 121, 2).
    NUOVO TESTAMENTO
    I. IL DIO CREATORE
    Elaborata nel VT, la dottrina del Dio creatore conserva nel NT il suo posto essenziale, anzi vi giunge a compimento.
    1. Eredità del VT.
    - Creando il mondo con la sua parola (cfr. 2 Cor 4, 6), Dio chiamò il nulla all’esistenza (Rom 4, 17). Egli continua questa operazione primaria vivificando le sue creature: in lui noi abbiamo la vita, il movimento, l’essere (Atti 17, 28; 1 Tim 6, 13). Egli ha creato il mondo «e tutto ciò che esso racchiude» (Apoc 10, 6; Atti 14, 15; 17, 24); tutto esiste per mezzo suo e per lui (1 Cor 8, 6; Rom 11, 36; Col 1, 16; Ebr 2, 10). Perciò ogni creatura è buona: tutto ciò che è di Dio è *puro (1 Cor 10, 25 s; cfr. Col 2, 20 ss). Perciò anche le leggi dell’ordine naturale devono essere rispettate dall’uomo: il divorzio, ad es., contraddice al disegno di colui che creò l’uomo e la donna all’inizio (Mt 19, 4-8). Questa dottrina occupa naturalmente un posto importante nella predicazione cristiana rivolta ai pagani: su questo punto la Chiesa primitiva non fa che sostituire il giudaismo (Atti 14, 15; 17, 24-28). Infatti, «con la fede non comprendiamo che i mondi sono stati formati con una parola di Dio» (Ebr 11, 3) e allo stesso modo le perfezioni invisibili di Dio traspaiono a tutti gli sguardi, se si sa scoprire il senso delle creature (Rom 1, 19 s). Nel credente la stessa dottrina finisce in *lode (Apoc 4, 8-11) e crea la fiducia (Atti 4, 24).
    2. Gesù Cristo e la creazione.
    - Su un punto fondamentale il NT porta a compimento le virtualità del VT. Il Dio creatore, che Israele conosceva, si è rivelato ora come il *Padre di *Gesù Cristo. Strettamente associato al Padre nella sua attività creatrice, Gesù è «il solo *Signore per mezzo del quale tutto esiste e per mezzo del quale noi siamo» (1 Cor 8, 6), il principio delle opere di Dio (Apoc 3,14). Essendo la sapienza di Dio (1 Cor 1, 24), «fulgore della sua gloria ed effigie della sua sostanza» (Ebr 1, 3), «immagine del Dio invisibile e primogenito di ogni creatura» (Col 1, 15), egli è colui che «sostiene l’universo per mezzo della sua parola potente» (Ebr 1, 3), perché in lui sono state create tutte le cose ed in lui sussistono (Col 1, 16 s). Essendo la *parola di Dio, il Verbo che esisteva fin dall’inizio con Dio prima di farsi carne alla fine dei tempi (Gv 1, 1 s. 14), egli ha fatto tutto e dall’inizio è *vita e *luce nell’universo (Gv 1, 3 s). Così la dottrina della creazione trova il suo culmine in una contemplazione del *Figlio di Dio, per mezzo della quale si vede in lui l’artefice, il modello e il fine di tutte le cose.
    II. LA NUOVA CREAZIONE
    1. Nel Cristo.
    - Più ancora del VT, il NT ha coscienza del dramma introdotto nella creazione, così bella, a causa del peccato umano. Sa che il mondo attuale è chiamato a dissolversi ed a sparire (1 Cor 7, 31; Ebr 1, 11 s; Apoc 6, 12 ss; 20, 11). Ma in Cristo una *nuova creazione è già stata inaugurata, quella stessa che gli oracoli profetici annunziavano. Ciò vale anzitutto per l’*uomo rinnovato internamente mediante il *battesimo ad immagine del suo creatore (Col 3, 10), divenuto in Cristo «nuova creatura» (Gal 6, 15): in lui l’essere vecchio è sparito, un essere nuovo è presente (2 Cor 5, 17). Ciò vale pure dell’universo; infatti il *disegno di Dio è di ricondurre tutte le cose sotto un solo capo, Cristo (Ef 1, 10), e in lui riconciliarle con se stesso (2 Cor 5, 18 s; Col 1, 20). Così, parlando della funzione di Cristo nei confronti del mondo, si passa insensibilmente dalla sua azione nella creazione originale alla sua azione nella ricreazione escatologica delle cose. Creazione e *redenzione si congiungono: noi siamo «l’opera di Dio, creata in Cristo Gesù in vista delle buone opere» (Ef 2, 10).
    2. Dalla prima creazione all’ultima.
    - È possibile precisare meglio il modo secondo cui è effettuata questa creazione di una nuova umanità (cfr. Ef 2, 15; 4, 24) in Gesù Cristo. Esiste infatti un parallelismo sorprendente tra la prima creazione e l’ultima. Alle origini Dio aveva fatto di Adamo il capo della sua razza, e gli aveva affidato il mondo affinché lo dominasse. Alla fine dei tempi il Figlio di Dio fatto uomo è entrato nella storia come il nuovo *Adamo (1 Cor 15, 21. 45; Rom 5, 12. 18). Dio ha fatto di lui il capo dell’umanità redenta, che è il suo *corpo (Col 1, 18; Ef 1, 22 s); gli ha dato ogni potere in terra (Mt 28, 18; Gv 17, 2), ha rimesso tutto nelle sue mani e lo ha stabilito erede di tutte le cose (Ebr 1, 2; 2, 6-9), per modo che tutto deve essere instaurato in Cristo, sia gli esseri celesti che i terrestri (Ef 1, 10). Infatti Cristo, avendo in sé la *pienezza dello Spirito (Mc 1, 10 par.; Lc 4, 1), lo comunica agli altri uomini per rinnovarli interiormente e fare di essi una nuova creatura (Rom 8, 14-17; Gal 3, 26 ss; cfr. Gv 1, 12).
    3. Nell’attesa della vittoria.
    - Tuttavia questa nuova creazione inaugurata nella Pentecoste, non ha ancora raggiunto il suo termine. L’uomo, ricreato internamente, geme nell’attesa della redenzione del suo *corpo nel giorno della risurrezione (Rom 8, 23). Attorno a lui l’intera creazione, attualmente soggetta alla vanità, aspira ad essere liberata dalla schiavitù della corruzione per accedere alla libertà della gloria dei figli di Dio (Rom 8, 18-22). La storia cammina verso questo termine, verso questi cieli nuovi e questa nuova terra, già annunziati dalle Scritture (2 Piet 3, 13), e di cui l’Apocalisse dà in anticipo una splendida evocazione: «Il primo cielo e la prima terra sono spariti... Allora colui che siede in trono dichiarò: Ecco, faccio nuove tutte le cose» (Apoc 21, 1-5). Tale sarà la creazione finale di un universo trasfigurato, dopo la vittoria definitiva dell’agnello.
    P. AUVRAY
    → Adamo I - adorazione 0 - animali I - astri 2 - braccio e mano 1 - carne I - Chiesa II 1 - colomba 3 - conoscere VT 4; NT 3 - crescita 1 - Dio VT I - donna VT I - figura VT II 3 - gloria III 1 - lavoro I 1, IV 2.4 - luce e tenebre VT I 1; NT I 3 - mare 1.2 - mondo VT I; NT I 1 - nuovo - opere - paradiso - parola di Dio VT II 2 b - Pasqua I 6 a - potenza II - riconciliazione VT I 3, II 2 - sapienza VT III 3 - settimana 2 - tempo introd.; VT I 1 - terra VT I 1 - vita II 1.

    CRESCITA (inizio)

    1. La crescita nella *creazione.
    - La crescita è la legge della *vita. Agli animali, come agli uomini, Dio ordina di moltiplicarsi. Ma gli uomini non devono soltanto crescere di numero, hanno anche il compito di aumentare il loro dominio sul mondo (Gen 1, 22. 28; 9, 7); devono d’altra parte ricordarsi che la loro crescita dipende da Dio come quella del giunco dipende dall’acqua (Giob 8, 11 ss). La *benedizione del Creatore permane il principio della vita e del progresso. Il *peccato dell’uomo, attirando la maledizione divina, inaridirebbe la vita sulla terra (Gen 3, 17; 6, 5 ss) se nella sua misericordia Dio non rinnovasse la propria benedizione (Gen 9, 1-7). Essa, attraverso Abramo, si estenderà a tutte le nazioni (Gen 12, 3; Gal 3, 8).
    2. La crescita nella storia della salvezza.
    a) Crescita del male nel mondo.- Il male, non soltanto è presente nella creazione, ma continua a crescere; la guerra mette l’uno contro l’altro i fratelli e l’innocente perisce (Gen 4, 8); lo spirito di vendetta aumenta smisuratamente e moltiplica i crimini (Gen 4, 24); la malvagità invade la terra; se vari castighi denunciano la malizia degli empi (Gen 6, 13; 11, 9; 19, 24 s), questi molto spesso vedono accrescersi la loro prosperità (Sal 73, 3-12; Ger 12, 1) e la loro posterità (Giob 21, 7 s). Dio, non soltanto tollera questo scandalo, ma impedisce ai suoi servi di opporsi alla crescita del male pretendendo di estirpare i malvagi (Mt 13, 30). Il suo metodo è quello di trionfare del male col bene (Rom 12, 21); là dove il peccato abbonda, bisogna che sovrabbondi la grazia (Rom 5, 20).
    b) Crescita del popolo eletto. - In mezzo al mondo peccatore, Dio si sceglie un popolo, nato da Giacobbe. Poiché ha dato ad esso il mandato di moltiplicarsi (Gen 35, 11), si compiacerà di far crescere il suo popolo, purché questi sia fedele all’alleanza; in caso diverso ne decreterebbe la rovina (Lev 26, 9; Deut 28, 63; 30, 16). È vero che Dio, nella sua bontà, non si comporta con Israele come con gli altri popoli: lo corregge prima che i peccati abbiano raggiunto la misura colma (2 Mac 6, 12-16); e lo scopo di questo castigo è una conversione che apre i cuori alla salvezza; allora Dio concederà al suo popolo di progredire in numero e in gloria (Ger 30, 19; Ez 36, 10 s. 37 s; Is 54, 1 ss).
    c) Crescita del Salvatore e della sua *Parola. - Per portare a termine questo disegno di salvezza, Dio invia appunto nel mondo suo Figlio Gesù, pieno di grazia e di verità. Egli è tuttavia soggetto alle leggi della condizione umana: è in un primo tempo un bambino che cresce in forza e in sapienza (Lc 2, 40. 52); se la sua parola rivela agli uomini il mistero della sua missione e della sua personalità, lo fa progressivamente e urta contro un’opposizione sempre crescente, fino al momento in cui le *tenebre sembrano trionfare (Lc 6, 11; 11, 53 s; 19, 47 s; 22, 2. 53); in quest’ora, Gesù reca tuttavia a termine la sua opera portando ai limiti estremi il suo amore e rivelando pienamente agli uomini quanto il Padre li ami (Gv 3, 16; 13, l; 15, 13; 17,4; 19, 30). Come il seme gettato in terra vi muore per moltiplicarsi (Gv 12, 24), così il buon pastore muore per donare alle sue pecorelle la sovrabbondanza della vita (Gv 10, 10 s). La sua parola, seminata nei cuori, vi porterà frutto (Lc 8, 11. 15); per questo Luca esprimerà i progressi della Chiesa nascente, ora facendo vedere che il numero dei credenti è in aumento (Atti 2, 41; 5, 14; 6, 7; 11, 24), ora parlando della crescita della Parola (Atti 6, 7; 12, 24; 19, 20).
    d) Crescita della *Chiesa e del cristiano in essa. - La crescita è la legge della vita cristiana come di ogni forma di vita. Il cristiano deve crescere, non già isolato, ma nella Chiesa, in cui è inserito come una *pietra viva; mentre cresce per la salvezza, la casa spirituale, che è la Chiesa, si *edifica (1 Piet 2, 2-5). Paolo invita il cristiano a crescere nella fede (2 Cor 10, 15) e nella conoscenza di Dio, fruttificando in ogni opera buona e crescendo nella carità (Col 1, 10; Fil 1, 9; 1 Tess 3, 12). Questo progresso nella conoscenza di Dio è innanzitutto crescita nella sua grazia (2 Piet 3, 18), perché il Signore ne è l’autore; gli apostoli, veri collaboratori di Dio, si limitano tuttavia a seminare e innaffiare; è Dio che opera la crescita (1 Cor 3, 6-9). È lui inoltre che consente ad ogni santo di progredire verso Cristo, loro *testa, mediante la pratica di una carità autentica, cooperando così alla costruzione del corpo di Cristo, che attua la propria crescita edificandosi nella carità (Ef 4, 11-16). Perché la crescita di ciascuno dipende dalla sua unione a Cristo; ciascuno, come diceva Giovanni Battista, deve diminuire perché Cristo aumenti e assuma in lui la sua piena dimensione (Gv 3, 30; Ef 4, 13) e perché, nel Signore e nello Spirito, la Chiesa si edifichi e si innalzi come un tempio sacro in cui Dio ha la propria dimora (Ef 2, 21 s).
    3. Verso il *regno di Dio.
    - Se il credente è senza posa teso verso il fine (Fil 3, 12 ss) e desideroso di passare dall’infanzia spirituale alla *perfezione (1 Cor 3, 1 s; Ebr 5, 12 ss), se il vangelo deve incessantemente portare frutti e crescere nell’universo (Col 1, 6), il regno di Dio deve esso pure crescere? Senza dubbio, le *parabole presentano questo regno come un punto di arrivo di un progresso: progresso dell’azione di un lievito nella pasta (Mt 13, 33), crescita di un seme che diventa una spiga carica, addirittura un albero (Mt 13, 23. 32) e questo grazie alla forza che ha in sé (Mc 4, 28). Ma anziché di un progresso del regno in sé, non si tratta forse di un progresso della Chiesa verso il regno che preannuncia, di cui è il germe e che attende come un dono di Dio? Questo *dono, ognuno deve riceverlo come un bambino, credendo al vangelo che ne è l’annuncio (Mc 10, 15; cfr. 1, 15), al fine di poter entrare nella comunione con Dio in cui consiste il regno, al momento della venuta del figlio dell’uomo nella gloria per giudicare l’universo (Mt 25, 31-34). Allora Dio regnerà, perché la comunione con lui sarà perfetta: egli sarà tutto in tutti (1 Cor 15, 24-28). Il suo regno non cresce; è la meta verso la quale tende ogni crescita spirituale e la cui attrattiva la suscita; il suo avvento come la *risurrezione di Gesù, è il dono del Padre.
    J. RADERMAKERS e M. F LACAN
    → Chiesa III 2 - compiere - edificare - fecondità - frutto II - messe - nascita (nuova) 3 - perfezione NT 5 - pienezza - regno NT II 2 - seminare.

    CRISTIANO (inizio)

    → Chiesa - discepolo NT - immagine V - nuovo III 3 b - santo NT II, IV - vocazione III.

    CRISTO (inizio)

    Gesù Cristo II - messia - mistero NT II - unzione III 5.

    CROCE (inizio)

    Gesù è morto crocifisso. La croce, che fu lo strumento della redenzione, è divenuta, assieme alla *morte, alla *sofferenza, al *sangue, uno dei termini essenziali che permettono di evocare la nostra *salvezza. Essa non è più una ignominia, ma un’esigenza e un titolo di gloria, in primo luogo per Cristo, poi per i cristiani.
    I. LA CROCE DI GESÙ CRISTO
    1. Lo scandalo della croce.
    - «Noi predichiamo un Cristo crocifisso, *scandalo per i Giudei e *follia per i pagani» (1 Cor 1, 23). Con queste parole Paolo esprime la reazione spontanea di ogni uomo posto alla presenza della croce redentrice. La salvezza verrebbe al mondo grecoromano per mezzo della crocifissione, supplizio riservato agli schiavi (cfr. Fil 2, 8), che non era soltanto una morte crudele, ma una ignominia (cfr. Ebr 12, 2; 13, 13)? La redenzione sarebbe procurata ai Giudei da un cadavere, una impurità di cui bisognava sbarazzarsi al più presto (Gios 10, 26 s; 2 Sam 21, 9 ss; Gv 19, 31), da un condannato appeso al patibolo, che portava su di sé il segno della *maledizione divina (Deut 21, 22 s; Gal 3, 13)? Sul Calvario, per gli spettatori era facile beffarsi di lui, invitandolo a discendere dalla croce (Mt 27, 39-44 par.). Quanto ai discepoli, si può prevedere la loro reazione atterrita. Pietro, che tuttavia aveva riconosciuto in Gesù il Messia, non poteva tollerare l’annuncio della sua sofferenza e della sua morte (Mt 16, 21 ss par.; 17, 22 s par.): come avrebbe ammesso la sua crocifissione? Perciò, alla vigilia della passione, Gesù annunzia che tutti si sarebbero scandalizzati al suo riguardo (Mt 26, 31 par.).
    2. Il mistero della croce.
    - Se Gesù, e dopo di lui i discepoli, non hanno attenuato lo scandalo della croce, si è perché un mistero nascosto gli conferiva un senso. Prima di Pasqua, Gesù era solo ad affermarne la necessità, per *obbedire alla *volontà del Padre (Mt 16, 21 par.). Dopo la Pentecoste, illuminati dalla gloria del risorto, i suoi discepoli proclamano a loro volta questa necessità, collocando lo scandalo della croce al suo vero posto nel *disegno di Dio. Se il *Messia è stato crocifisso (Atti 2, 23; 4, 10), «appeso al legno» (5, 30; 10, 39) in modo scandaloso (cfr. Deut 21, 23), fu senza dubbio a motivo dell’*odio dei suoi fratelli. Ma questo fatto, una volta illuminato dalla profezia, acquista una nuova dimensione: *compie «ciò che era stato scritto del Cristo» (Atti 13, 29). Perciò i racconti evangelici della morte di Gesù contengono tante allusioni ai Salmi (Mt 27, 33-60 par.; Gv 19, 24. 28. 36 s): «bisognava che il Messia soffrisse», conformemente alle *Scritture, come il risorto spiegherà ai pellegrini di Emmaus (Lc 24, 25 s).
    3. La teologia della croce.
    - Paolo sapeva dalla tradizione primitiva che «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15, 3). Questo dato tradizionale fornisce un punto di partenza alla sua riflessione teologica: riconoscendo nella croce la vera *sapienza, egli non vuole conoscere che Gesù crocifisso (2, 2). Con ciò, infatti, risplende la sapienza del disegno di Dio, già annunziata nel VT (1, 19 s); attraverso la debolezza dell’uomo si manifesta la *forza di Dio (1, 25). Sviluppando questa intuizione fondamentale, Paolo scopre un senso alle modalità stesse della crocifissione. Gesù fu «appeso all’*albero» come un maledetto, per riscattarci dalla maledizione della legge (Gal 3, 13). Il suo cadavere esposto sulla croce, «*carne simile a quella del *peccato», ha permesso a Dio di «condannare il peccato nella carne» (Rom 8, 3); la sentenza della *legge è stata eseguita, ma nello stesso tempo Dio «l’ha soppressa inchiodandola alla croce, ed ha spogliato le potestà» (Col 2, 14 s). Così, «mediante il sangue della sua croce», Dio ha *riconciliato con sé tutti gli esseri (1, 20); sopprimendo le antiche divisioni causate dal peccato, ha ristabilito la *pace e l’*unità tra Giudei e pagani, affinché non formino più che un solo *corpo (Ef 2, 14-18). La croce s’innalza quindi alla frontiera tra le due economie del VT e del NT.
    4. La croce, elevazione verso la gloria.
    - Nel pensiero di Giovanni la croce non è più semplicemente una *sofferenza, una umiliazione, che trova non di meno un senso mediante il disegno di Dio e i suoi effetti salutari; è già la *gloria di Dio anticipata. Del resto la tradizione anteriore non la menzionava mai senza evocare poi la glorificazione di Gesù. Ma per Giovanni, Gesù trionfa già in essa. Riprendendo, per designarla, il termine che fino allora indicava la esaltazione di Gesù al cielo (Atti 2, 33; 5, 31), egli vi mostra il momento in cui il *figlio dell’uomo è «innalzato» (Gv 8, 28; 12, 32 s), come un nuovo serpente di bronzo, segno di salvezza (3, 14; cfr. Num 21, 4-9). Nel suo racconto della passione si direbbe che Gesù muove verso di essa con maestà. Vi sale trionfalmente, perché in essa egli fonda la sua Chiesa «donando lo *Spirito» (19, 30) e lasciando fluire dal suo costato il *sangue e l’*acqua (19, 34). Ormai bisogna «guardare verso colui che è stato trafitto» (19, 37), perché la *fede è rivolta al crocifisso, la cui croce è il segno vivente della salvezza. Nello stesso spirito sembra che l’Apocalisse abbia visto, attraverso questo «legno» salvatore, il «legno della vita», attraverso «l’albero della croce», «l’albero di vita» (Apoc 22, 2. 14. 19)
    II. LA CROCE, SEGNO DEL CRISTIANO
    1. La croce di Cristo.

    - Rivelando che i due testimoni erano stati martirizzati «là dove Cristo fu crocifisso» (Apoc 11, 8), l’Apocalisse identifica la sorte dei *discepoli e quella del maestro. Lo esigeva già Gesù: «Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi *segua» (Mt 16, 24 par.). Il discepolo non deve soltanto *morire a se stesso: la croce che porta è il segno che egli muore al *mondo, che ha spezzato tutti i suoi legami naturali (Mt 10, 33-39 par.), che accetta la condizione di *perseguitato, a cui forse si toglierà la vita (Mt 23, 34). Ma nello stesso tempo essa è pure il segno della sua gloria anticipata (cfr. Gv 12, 26).
     2. La vita crocifissa.
    - La croce di Cristo, che, secondo Paolo, separava le due economie della *legge e della *fede, diventa nel cuore del cristiano la frontiera tra i due mondi della *carne e dello *spirito. Essa è la sua sola *giustificazione e la sua sola *sapienza. Se si è convertito, è stato perché ai suoi occhi furono dipinti i tratti di Gesù in croce (Gal 3, 1). Se è giustificato, non è per le *opere della legge, ma per la sua fede nel crocifisso; infatti egli stesso è stato crocifisso con Cristo nel *battesimo, cosicché è morto alla legge per vivere a Dio (Gal 2, 19) e non ha più nulla a che vedere con il *mondo (6, 14). Egli pone quindi la sua *fiducia nella sola *forza di Cristo, altrimenti si mostrerebbe «nemico della croce» (Fil 3, 18).
    3. La croce, titolo di gloria del cristiano.
    - Nella vita quotidiana del cristiano, «l’*uomo vecchio è crocifisso» (Rom 6, 6), cosicché è pienamente liberato dal peccato. Il suo giudizio è trasformato dalla sapienza della croce (1 Cor 2). Mediante questa sapienza egli, sull’*esempio di Gesù, diventerà umile ed «*obbediente fino alla morte, ed alla morte di croce» (Fil 2, 1-8). Più generalmente, egli deve contemplare il «modello» del Cristo, che «sul legno ha portato le nostre colpe nel suo corpo, affinché, morti alle nostre colpe, viviamo per la giustizia» (I Piet 2, 21-24). Infine, se è vero che deve sempre temere l’apostasia, che lo porterebbe a «crocifiggere nuovamente per proprio conto il Figlio di Dio» (Ebr 6, 6), egli può tuttavia esclamare fieramente con Paolo: «Per me, non sia mai ch’io mi glori d’altro all’infuori della croce del nostro Signore Gesù Cristo, grazie al quale il mondo è per me crocifisso, ed io lo sono per il mondo» (Gal 6, 14).
    J. AUDUSSEAU e X. LÉON-DUFOUR
    → albero 3 - amore I NT 2 b - castighi 3 - disegno di Dio NT I 1 II, III 1 - follia - Gesù Cristo II 1 b - gioia NT I 2, II 2 - incredulità II 2 - morte NT II, III - persecuzione - predicare II 3 - prova-tentazione NT I - redenzione NT - sacrificio NT I, II 1 - sangue NT 2 - sapienza NT II I - seguire 2 b - servo di Dio III - sofferenza - via III - vittoria NT 1.

    CULTO (inizio)

    In tutte le religioni il culto stabilisce relazioni tra l’uomo e Dio. Secondo la Bibbia l’iniziativa di queste relazioni parte dal Dio vivente che si rivela; in risposta, l’uomo *adora Dio con un culto che assume una forma comunitaria. Questo culto non esprime soltanto il bisogno che l’uomo ha del creatore, dal quale dipende totalmente, ma soddisfa pure ad un dovere: di fatto Dio ha scelto un popolo che lo deve «*servire», e con ciò diventare suo testimone; il popolo eletto deve quindi assolvere la sua missione rendendo un culto a Dio (In ebraico la parola culto deriva dalla radice ‘abad che significa «servire»).
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. IL CULTO DEL VERO DIO NELLA STORIA
    Il culto biblico si evolve, e nel corso della sua storia si vedono apparire gli elementi comuni a tutti i culti: luoghi, oggetti e persone sacri (santuari, *arca, *altari, *sacerdoti), tempi sacri (*feste, *sabato), atti cultuali (purificazioni, consacrazioni, *circoncisione, *sacrifici, offerta di *profumi, *preghiera in tutte le sue forme), prescrizioni cultuali (*digiuno, interdetti...). Prima del peccato le relazioni dell’uomo con Dio sono semplici; a condizione di non trasgredire la proibizione concernente l’*albero della scienza del bene e del male, e di dimostrare così la propria dipendenza, l’uomo può mangiare dell’albero della vita (Gen 2, 9; 3, 22); potrebbe così, con un atto di tipo cultuale, comunicare con Dio. Lo stesso albero della vita si ritrova nella Gerusalemme celeste, dove il culto non comporta più intermediari tra Dio ed i suoi servi (Apoc 22, 2 s). Dopo il peccato il sacrificio compare nel culto; i patriarchi invocano Jahvè e gli erigono *altari (Gen 4, 26; 8, 20; 12, 8). Ma Dio non gradisce un culto qualsiasi; non soltanto considera le disposizioni interne di colui che offre (Gen 4, 3 ss), ma esclude talune forme esteriori come i sacrifici umani (Gen 22; 2 Re 16, 3; Lev 20, 2 s) o la prostituzione sacra (1 Re 22, 47; Deut 23, 18), nonché la fabbricazione di immagini simboleggianti il Dio invisibile (Deut 4, 15-18; cfr. Es 32, 4 s). Dopo che l’alleanza ha fatto di Israele il popolo di Dio, il suo culto è sottoposto ad una legislazione sempre più precisa ed esigente. Il centro di questo culto è l’arca, simbolo della *presenza di Dio in mezzo al suo popolo; da prima mobile, l’arca si fissa poi in diversi santuari (ad es. Silo: Gios 18, 1); infine David la stabilisce a Gerusalemme (2 Sam 6) dove Salomone costruisce il *tempio (1 Re 6); al tempo della riforma deuteronomica esso diventerà il luogo unico del culto sacrificale.Dopo l’esilio il culto del secondo tempio è regolato da prescrizioni rituali che si fanno risalire a Mosè, come si fa risalire ad Aronne la genealogia dei sacerdoti, per indicare il legame del culto con l’alleanza che ne costituisce il fondamento. Questo legame sarà sottolineato dal sapiente Ben Sira poco prima della lotta condotta dai Maccabei, affinché il popolo possa rimanere fedele alla legge e al culto del solo vero Dio (1 Mac 1, 41-64). La liturgia sinagogale, fatta di canti e di preghiere, e destinata a nutrire dopo l’esilio la vita di preghiera comunitaria nei Giudei della dispersione, completa la liturgia del tempio. Non toglie tuttavia al tempio unico il suo privilegio; e se una setta, come quella di Qumrân, si separa dal sacerdozio di Gerusalemme, lo fa perché aspira ad un culto purificato in un tempio rinnovato.
    II. I RITI CULTUALI E L’EDUCAZIONE DEL POPOLO DI DIO
    Il popolo di Dio ha attinto a rituali vicini che riflettono la vita di pastori nomadi o di agricoltori sedentari; ma ai riti che adotta conferisce un senso nuovo, collegandoli all’atto dell’*alleanza (ad es. Deut 16, l-8 per la Pasqua; Lev 23, 43 per i Tabernacoli) ed al sacrificio che l’ha suggellata (Es 5, 1 ss; 24, 8; Sal 50, 5). Il culto diventa in tal modo una pedagogia permanente, che dà alla vita religiosa di Israele le sue tre dimensioni storiche ed il suo movimento. Il culto ricorda anzitutto i fatti del passato, di cui rinnova la celebrazione; nello stesso tempo li attualizza e ravviva così la fede del popolo in un Dio che è presente e potente come per il passato (Sal 81; 106; discorsi di Deut 1-11; rinnovazione dell’alleanza: Gios 24); infine stimola la speranza del popolo e la sua attesa del giorno in cui Dio inaugurerà il suo regno e le *nazioni saranno unite ad Israele liberato, nel culto del vero Dio. Questa prospettiva del futuro acquista tutta la sua ampiezza soltanto a poco a poco, grazie ai profeti che annunciano la nuova alleanza (Ger 31, 31 ss). Il Dio unico rivela il suo *disegno soprattutto nel libro della consolazione (Is 45) e nelle profezie postesiliche (Is 66, 18-23; Zac 14, 16-21): egli vuole manifestarsi a tutti i popoli per ottenerne il culto che gli è dovuto come creatore e salvatore universale. I *profeti, testimoni di questo disegno, proclamano nello stesso tempo le esigenze del Dio dell’alleanza, che non gradisce un culto senz’anima. Così essi combattono ad un tempo il particolarismo nazionale ed il formalismo rituale che minacciano di impedire al culto di Israele di essere la testimonianza efficace che Dio attende dal suo popolo.
    III. L’ANIMA DEL VERO CULTO. LA FEDELTÀ ALL’ALLEANZA
    II culto di Israele diverrà spirituale a mano a mano che esso diventerà cosciente, grazie ai profeti, del carattere interiore delle esigenze dell’alleanza. Questa fedeltà del cuore è appunto la condizione di un culto autentico e la prova che Israele non ha altro *Dio che Jahvè (Es 20, 2 s par.). Il Dio salvatore dell’esodo e del decalogo è *santo ed esige che il popolo, di cui vuole fare un popolo *sacerdotale, sia santo (Lev 19, 2). Ricordandolo, i profeti non rigettano i riti, esigono che sia loro dato il vero senso. I doni dei nostri sacrifici devono esprimere il nostro *ringraziamento a Dio, fonte di ogni *dono (Sal 50). Già Samuele affermava che Dio rigetta il culto di coloro che disobbediscono (l Sam 15, 22). Amos ed Isaia lo ripetono con forza (Am 5, 21-26; Is I, 11-20; 29, 13), e Geremia in pieno tempio proclama la vanità del culto che vi si celebra, denunciando la corruzione dei cuori (Ger 7, 4-15. 21 ss). Ezechiele, il profeta-sacerdote, pur annunziando la rovina del tempio contaminato dalla idolatria, descrive il nuovo tempio della nuova alleanza (Ez 37, 26 ss), che sarà il centro culturale del popolo fedele (Ez 40-48). Il profeta del ritorno indica a quale condizione Dio gradirà il culto del suo popolo: dev’essere una comunità veramente fraterna (Is 58, 6 s. 9 s. 13; 66, 1 s). Questa comunità si apre ai pagani che temono Dio e ne osservano la legge (Is 56, 1-8). Più ancora, il culto universale dovrà essere decentralizzato (Mal 1, 11). Ben Sira, pur essendo superato da queste prospettive, si rivela non di meno come l’erede della tradizione profetica, unendo intimamente la fedeltà alla legge ed il culto rituale (Eccli 34, 18 ss; 35, 1-16). Ed in un Israele particolarista e formalista, che si chiuderà al suo messaggio, Cristo troverà dei cuori *poveri, in cui i salmi avranno nutrito sia il senso della vera giustizia, condizione del vero culto (Lc 1, 74 s), sia l’attesa del Messia che inaugurerà questo culto perfetto (Mal 3, 1-4).

    NUOVO TESTAMENTO
    I. LA FINE DEL CULTO ANTICO
    1.
    Gesù pone termine al culto antico portandolo a compimento. Anzitutto egli lo rinnova, conformandosi ai suoi riti e permeandoli del suo spirito di preghiera filiale. Presentato al tempio alla nascita (Lc 2, 22 ss), vi sale per le feste durante tutta la sua vita (Lc 2, 41; Gv 2, 13; 10, 22); predica sovente nei luoghi di riunione cultuale (Mc 14, 49; Gv 18, 20). Come i profeti, esige che si sia fedeli allo spirito del culto (Mt 23, 16-23): senza la purezza del cuore le purificazioni rituali sono vane (Mt 23, 25 s; 5, 8. 23 s). Ma egli va oltre il culto antico mediante il suo *sacrificio. E se attesta il suo rispetto del tempio antico purificandolo (Gv 2, 14 ss), annunzia nello stesso tempo che a questo, rovinato per colpa dei Giudei, succederà un nuovo tempio, il suo corpo risorto (2, 19 ss). Allora avrà fine il culto di Gerusalemme (Gv 4, 21).
    2. La Chiesa nascente non la rompe con il culto *figurativo del tempio se non superandolo. Al pari di Gesù, anche gli apostoli pregano nel tempio e vi insegnano (Atti 2, 46; 5, 21). Ma, come proclama Stefano, il vero tempio è quello in cui abita Dio ed in cui regna Gesù (Atti 6, 13 s; 7, 48 ss. 55 s). Anche Paolo che, per riguardo ai Giudei convertiti, accetta di partecipare a pratiche cultuali cui quelli sono fedeli (Atti 21, 24. 26; cfr. 1 Cor 10, 32 s), predica senza posa che la *circoncisione è priva di valore e che il cristiano non è più soggetto alle osservanze antiche. Il culto cristiano è nuovo (Gal 5, 1. 6).
    II. LE ORIGINI DEL NUOVO CULTO
    1. Gesù definisce il nuovo culto che annuncia; il vero culto è spirituale: non necessariamente senza riti, ma impossibile senza lo *Spirito Santo, che ne rende capaci coloro che sono rinati per mezzo suo (Gv 4, 23 s; cfr. 7, 37 ss; 4, 10. 14). Il sacrificio di Gesù che suggella la nuova alleanza (Mc 10, 45; 14, 22 ss) dà il loro pieno senso alle formule del culto antico ormai superato (Ebr 10, 1-18; cfr. Sal 40, 7 ss); crea pure il nuovo culto, perché ha *espiato veramente i peccati del mondo e comunica la vita eterna a coloro che comunicano con la *carne e il *sangue di Cristo (Gv 1, 29; 6, 51), il quale, alla cena, ha inaugurato egli stesso questo banchetto sacrificale ed ha comandato di rinnovarlo (Lc 22, 19 s).
    2. La Chiesa ha obbedito. Nelle loro riunioni cultuali i primi discepoli coronano le loro preghiere ed il loro pasto con la «frazione del pane» (Atti 2, 42; 20, 7. 11), rito eucaristico il cui senso tradizionale e le cui esigenze sono ricordate da Paolo a coloro che le dimenticano (1 Cor 10, 16; 11, 24). Per partecipare all’*eucaristia bisogna essere stati aggregati alla Chiesa mediante il rito *battesimale, prescritto da Gesù (Mt 28, 19) come condizione della nuova vita (Mc 16, 16; Gv 3, 5), e compiuto dagli apostoli a partire dal giorno della Pentecoste (Atti 2, 38-41). Infine, mediante l’atto della *imposizione delle mani, gli apostoli danno lo Spirito ai battezzati (Atti 8, 15 ss). A questi tre riti fondamentali del culto cristiano si aggiungono usanze tradizionali d’importanza diversa: celebrazione della domenica, «primo giorno della *settimana» (Atti 20, 7; 1 Cor 16, 2), «*giorno del Signore» (Apoc 1, 10); regole di disciplina, come per le *donne portare il velo od il tacere nelle assemblee cultuali, regole istituite in vista del buon ordine e della pace (1 Cor 11, 5-16; 14, 34. 40).
    III. STRUTTURA E TRIPLICE ASPETTO DEL CULTO CRISTIANO
    Il culto della Chiesa, come quello di Israele, ha un triplice aspetto; commemora un’opera divina del passato; l’attualizza; permette così al cristiano di vivere nella speranza del giorno in cui, in Cristo, sarà manifestata pienamente la gloria di Dio. Ma, nonostante che taluni riti siano desunti dal culto antico, il culto cristiano non è una semplice *figura del culto futuro, ne è l’*immagine; la novità del culto cristiano deriva dal suo fondamento che è il *sacrificio perfetto e definitivo di Cristo, Figlio di Dio (Ebr 1, 2. s). Per mezzo suo il Padre è perfettamente glorificato; per mezzo suo tutti gli uomini che sperano in lui sono purificati dai loro peccati, e possono unirsi al culto filiale che Cristo rende al Padre in cielo e la cui realtà è la vita eterna (Ebr 7, 26; 8, 1 s; 9, 14. 26).
    1. L’azione passata, che il culto cristiano commemora, è l’offerta di Cristo per la nostra salvezza, offerta i cui frutti sono la risurrezione e il dono dello Spirito. Questa azione pone termine al culto antico destinato ad esprimere ed a nutrire l’attesa umile e fiduciosa della *salvezza, che è ormai consumata (Ebr 7, 18-28). Cristo ci dà il mezzo di ricevere il frutto del sacrificio che ha offerto sull’altare della *croce, partecipando all’eucaristia (Ebr 13, 10).
    2. Di fatto, presentemente, si realizza una *comunione che ci prepara alla comunione eterna del cielo; il rito *eucaristico, centro del nuovo culto e canale della nuova vita, ne è il segno ed il mezzo. Mediante questo rito Cristo glorioso si rende misteriosamente presente, affinché ci uniamo al corpo ed al sangue ch’egli ha offerto e siamo così tutti un solo *corpo, glorificando il Padre per mezzo di Cristo e con Cristo, sotto la mozione dello Spirito Santo (1 Cor 10, 16 s; 11, 24 ss; Fil 3, 3). In tal modo abbiamo accesso al santuario celeste (Ebr 10, 19 ss) dove dimora Cristo, sacerdote eterno (Ebr 7, 24 s; 9, 11 s. 24); qui è celebrata l’*adorazione del Padre in spirito e verità, solo culto degno del Dio vivente (Gv 4, 23 s; Ebr 9, 14). Essa è celebrata dall’*agnello immolato, dinanzi al trono di Dio, nel cielo, vero tempio di Dio, dov’è la vera *arca dell’alleanza (Apoc 5, 6; 11, 19). Gli eletti che glorificano Dio con il Sanctus, di cui Isaia intese l’eco (Apoc 4, 2-11; Is 6, 1 ss), glorificano pure l’agnello che è il Figlio suo (Apoc 14, 1) e che ha fatto di essi un regno di sacerdoti per unirli al suo culto perfetto (Apoc 5, 9-13). Ora i riti che ci uniscono a Cristo ed al suo culto celeste implicano esigenze morali. Per mezzo del *battesimo noi siamo morti al *peccato per vivere della vita santa di Cristo risorto (Rom 6, 1-11; Col 3, 1-10; 1 Piet 1, 14 s). Peccare significa quindi rendersi indegni di comunicare col corpo e col sangue del Signore; se lo si fa, significa condannarsi (1 Cor 11, 27 ss). Invece, *seguire Cristo, unirsi con una fedeltà costante all’*amore che ha ispirato il suo sacrificio, significa essere una vittima vivente che Dio gradisce (Ef 5, 1 s; Rom 12, 1 s; 1 Piet 2, 5; Ebr 12, 28); allora il nostro culto liturgico, con i suoi canti di *lode, esprime il culto spirituale del nostro *ringraziamento permanente al Padre per mezzo del suo Figlio, il Signore Gesù (Col 3, 12-17).
    3. Nell’ultimo giorno avranno fine i riti che lo annunziano e che noi celebriamo «fino a che venga» l’agnello, rispondendo all’appello della sua sposa (Marana tha = Vieni, o Signore!) per consumare le sue nozze con essa (1 Cor 11, 26; 16, 22; Apoc 19, 7; 22, 17). Allora non ci sarà più tempio per simboleggiare la presenza di Dio; nella Gerusalemme celeste la *gloria del Signore non si manifesterà più mediante *segni (Apoc 21, 22). Infatti nella città santa dell’eternità i servi di Dio che gli renderanno un culto non saranno più dei peccatori, ma dei *figli, che, nell’universo rinnovato ed illuminato dalla gloria di Dio e dell’agnello, vedranno il Padre loro faccia a faccia e berranno alla sua fonte l’*acqua viva dello *Spirito (Apoc 21, 1-7. 23; 22, 1-5).
    M. F. LACAN
    → adorazione - alleanza VT I 3, II 1 - altare - animali II 3 - astri 1.3 - benedizione III 3 - cercare I - comunione VT 1 - coscienza 3 - digiuno 2 - esilio II 2 - eucaristia - feste - figura VT II 4 - fuoco VT II 1; NT II 2 - gioia VT II 1 - giorno del Signore 0; VT I; NT III 3 - idoli I - Legge A 1; B 2; C IV 1 - lode III, IV - magia 2 c - memoria 1 b. 4 b - monte II 2 - olio 1 - pane II - Pasqua I 5, III 1 - penitenza-conversione VT I 2, III 1 - pietà VT 2; NT - popolo A II 6; B II 6 - preghiera - presenza di Dio VT III 1; NT II - profeta VT III 3 - profumo 2 - puro VT I - ringraziamento - sabato - sacerdozio - sacrificio - sangue VT 3 - santo VT II: NT IV - segno VT II 1 - sepoltura 1 - servire II 1 - tempio - vedere VT I 2 - vino 1 2.

    CUORE (inizio)

    Le risonanze destate dalla parola «cuore» non sono identiche in ebraico e nelle lingue moderne. Certo, il significato fisiologico è lo stesso (2 Sam 18, 14; Os 13, 8), però le altre utilizzazioni della parola differiscono sensibilmente. Nel nostro attuale modo di esprimerci, in pratica «cuore» non evoca che la vita affettiva. L’ebreo concepisce il cuore come 1’«interno» dell’uomo, in un senso molto più lato. Oltre ai sentimenti (2 Sam 15, 13; Sal 21, 3; Is 65, 14), il cuore comprende anche i ricordi e le idee, i progetti e le decisioni. Dio ha dato agli uomini «un cuore per pensare» (Eccli 17, 6); il salmista evoca «i pensieri del cuore» di Dio stesso, cioè il suo programma di salvezza che sussiste di epoca in epoca (Sal 33, 11). «Larghezza di cuore» (1 Re 5, 9), esprime l’ampiezza del sapere; «dammi il tuo cuore» può significare «prestami attenzione» (Prov 23, 26) e «cuore indurito» esprime il concetto di mente ottusa. A seconda del contesto, il significato può limitarsi all’aspetto intellettuale (Mc 8, 17) o dilatarsi (Atti 7, 51). Bisogna spesso risalire oltre le distinzioni psicologiche fino al centro dell’essere, là dove l’uomo dialoga con se stesso (Gen 17, 17; Deut 7, 17), si assume le proprie responsabilità, si apre o si chiude a Dio. Nell’antropologia concreta e globale della Bibbia, il cuore dell’uomo è la fonte stessa della sua personalità cosciente, intelligente e libera, il centro delle sue opzioni decisive, quello della legge non scritta (Rom 2, 15) e dell’azione misteriosa di Dio. Nel VT, come nel NT, il cuore è il luogo in cui l’uomo incontra Dio, incontro che diventa pienamente fattivo nel cuore umano del Figlio di Dio.
    I. IL CUORE DELL’UOMO
    1. Cuore ed apparenza.
    - Nei rapporti tra persone è chiaro che ciò che conta è l’atteggiamento interno. Ma il cuore è sottratto agli sguardi. Normalmente l’esterno dell’uomo deve manifestare ciò che egli ha in cuore. Si conosce così il cuore indirettamente, da ciò che ne esprime il volto (cfr. *faccia) (Eccli 13, 25), da ciò che ne dicono le *labbra (Prov 16, 23), da ciò che ne attestano gli atti (Lc 6, 44 s). Tuttavia, invece di manifestare il cuore, parole e comportamenti possono anche dissimularlo (Prov 26, 23-26; Eccli 12, 16): l’uomo ha la terribile possibilità della doppiezza. Per ciò stesso anche il suo cuore è doppio, perché è il cuore che comanda una determinata espressione in superficie, pur attenendosi internamente a disposizioni ben diverse. Questa doppiezza è un male profondo che la Bibbia denuncia con forza (Eccli 27, 24; Sal 28, 3 s).
    2. Dio ed il cuore.
    - Alle prese con la chiamata di Dio, l’uomo cerca anche qui di salvarsi con la doppiezza. «Dio è un fuoco divoratore» (Deut 4, 24): come far fronte alle sue esigenze troppo radicali? Lo stesso popolo eletto non cessa di ricorrere a sotterfugi. Per dispensarsi dalla conversione autentica, cerca di accontentare Dio con un *culto esteriore (Am 5, 21...) e con belle parole (Sal 78, 36 s). Soluzione illusoria: non si può ingannare Dio come s’inganna l’uomo; «l’uomo guarda all’apparenza, ma Dio guarda al cuore» (1 Sam 16, 7). Dio «scruta il cuore e prova i *reni» (Ger 17, 10; Eccli 42, 18) e smaschera la *menzogna constatando: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29, 13). Dinanzi a Dio l’uomo si sente così chiamato in causa nel più profondo dell’io (Ebr 4, 12 s). Entrare in relazione con Dio significa «arrischiare il proprio cuore» (Ger 30, 21).
    3. Bisogno di un nuovo cuore.
    - Israele ha sempre più compreso che una religione esteriore non può bastare. Per trovare Dio occorre «*cercarlo con tutto il cuore» (Deut 4, 29). Israele ha compreso che deve, una volta per sempre, «fissare il suo cuore in Jahvè» (1 Sam 7, 3) ed «*amare Dio con tutto il suo cuore» (Deut 6, 5), vivendo in una profonda docilità alla sua *legge. Ma tutta la sua storia attesta la sua sostanziale impotenza a realizzare un simile ideale. E questo perché il male giunge fino al suo cuore. «Questo popolo possiede un cuore traviato e indocile» (Ger 5, 23), «un cuore *incirconciso» (Lev 26, 41), «un cuore diviso» (Os 10, 2). Invece di mettere la loro fede in Dio «essi hanno seguito l’inclinazione del loro cuore malvagio» (Ger 7, 24; 18, 12), cosicché calamità senza fine si sono abbattute su di essi. Non rimane più loro che «lacerare il loro cuore» (Gioe 2, 13) e presentarsi dinanzi a Dio con un «cuore contrito, umiliato» (Sal 51, 19), pregando il Signore di «creare loro un cuore mondo» (Sal 51, 12).
    II. IL CUORE NUOVO
    1. Promessa.

    - È questo appunto il disegno di Dio, il cui annuncio conforta Israele. Di fatto il *fuoco di Dio è un fuoco d’amore; Dio non può aver di mira la distruzione del suo popolo; a questo solo pensiero il suo cuore si rivolta in lui (Os 11, 8) Se egli ha condotto nel deserto la sua sposa infedele, lo ha fatto per parlare nuovamente al suo cuore (Os 2, 16). Sarà quindi posto un termine alle prove, ed inizierà un’altra epoca, contrassegnata da un rinnovamento interiore che Dio stesso opererà. «Egli *circonciderà il tuo cuore ed il cuore della tua posterità, così che tu ami Jahvè tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, affinché tu viva» (Deut 30, 6). Gli Israeliti non saranno più ribelli perché Dio, stabilendo con essi una nuova alleanza, «porrà la sua legge in fondo al loro essere e la scriverà nel loro cuore» (Ger 31, 33). Meglio ancora: Dio darà loro un altro cuore (Ger 32, 39), un cuore per *conoscerlo (Ger 24, 7; cfr. Deut 29, 3). Dopo aver aggiunto: «Fatevi un cuore nuovo» (Ez 18, 31), Dio promette di realizzare egli stesso ciò che esige: «Io vi purificherò. Io vi darò un cuore nuovo, io porrò in voi uno *spirito nuovo; toglierò dalla vostra carne il cuore di *pietra e vi darò un cuore di *carne» (Ez 36, 25 s). Così sarà assicurata tra Dio e il suo popolo una unione definitiva.
    2. Dono.
    - Questa promessa è stata adempiuta da *Gesù Cristo.
    a) Nei Vangeli sinottici, Gesù di Nazaret, riprendendo l’insegnamento dei profeti, mette in guardia contro il formalismo dei *farisei; richiama l’attenzione sul vero male, quello che viene dal cuore: «Dal cuore procedono cattivi pensieri, omicidi, adulteri...: ecco le cose che rendono l’uomo impuro» (Mt 15,19 s). Gesù ricorda che Dio esige la generosità interiore: bisogna ricevere la parola con un cuore ben disposto (Lc 8, 15), amare Dio con tutto il cuore (Mt 22, 37 par.), perdonare al proprio fratello dal profondo del cuore (Mt 18, 35). Ed ai cuori puri Gesù promette la visione di Dio (Mt 5, 8). Ma, e qui va oltre tutti i profeti, egli stesso, «mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29), conferisce questa *purezza ai suoi discepoli (Mt 9, 2; 26, 28). Risorto, li illumina: ardeva in essi il cuore, mentre egli parlava loro (Lc 24, 32).
    b) Oramai la *fede in Cristo, adesione del cuore, procura il rinnovamento interiore, diversamente inaccessibile. È quanto afferma Paolo: «Se il tuo cuore crede che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Perché la fede del cuore ottiene la giustizia» (Rom 10, 9 s). Mediante la fede gli occhi del cuore sono illuminati (Ef 1, 18); mediante la fede Cristo abita nei cuori (Ef 3, 17). Nei cuori dei credenti è versato uno spirito *nuovo, «lo Spirito del Figlio che grida: Abba, Padre» (Gal 4, 6), e con lui «l’amore di Dio» (Rom 5, 5). Così «la pace di Dio, che eccede ogni intelligenza, custodisce i nostri cuori» (Fil 4, 7). Questa è la nuova alleanza, fondata sul sacrificio di colui che ha avuto il cuore infranto dall’insulto (Sal 69, 21).
    c) Giovanni non parla del cuore se non per bandirne il turbamento ed il timore (Gv 14, 27), ma proclama, con altri termini, il compimento delle stesse promesse: parla di *conoscenza (1 Gv 5, 20; cfr. Ger 24, 7), di *comunione (1 Gv 1, 3), di amore e di vita eterna. Tutto ciò viene a noi per mezzo di Gesù, crocifisso e glorificato: dall’interno di Gesù (Gv 7, 38; cfr. 19, 34) sgorga una fonte che rinnova intimamente il fedele (4, 14). Gesù in persona viene dentro i suoi, per farli vivere (6, 56 s). Si potrebbe persin dire che, secondo Giovanni, Gesù è il cuore del nuovo Israele, cuore che mette in relazione intima con il Padre e che stabilisce fra tutti l’unità: «lo in essi e tu in me, affinché siano perfetti nell’unità» (17, 23; cfr. 11, 52; Atti 4, 32); «affinché l’amore, con cui tu mi hai amato, sia in essi ed io in essi» (Gv 17, 26).
    J. DE FRAINE e A. VANHOYE
    → amore I VT 2, NT 3; II NT 1 - anima I 3 - circoncisione VT 3; NT 2 - conoscete VT 3 - coscienza 1.2 a - desiderio II, III - faccia 1 - giudizio NT I 2 - indurimento - labbra 1 - legge A; B IV; C III 3, IV 1 - lingua - penitenza-conversione - puro VT II 3; NT I 3 - reni 2 - semplice 2 - spinto - Spirito di Dio - VT IV ; NT V 4 - virtù e vizi.

    CUPIDIGIA (inizio)

    Il nostro termine cupidigia è quello che corrisponde meglio al greco pleonexìa (da plèon èchein, avere di più), che nei LXX e nel NT designa la sete di possedere sempre di più senza occuparsi degli altri, e persino a loro spese. La cupidigia coincide ampiamente con la bramosia, perversione del *desiderio (epithymìa), ma sembra accentuarne certi caratteri è una bramosia violenta e quasi frenetica (Ef 4, 19), particolarmente contraria all’amore del prossimo, soprattutto dei poveri, e vertente in primo luogo sui beni materiali, le ricchezze, il denaro. Come i filosofi greci, la Bibbia descrive i mali generati dalla cupidigia, ma penetra fino alla sua essenza religiosa, collocandosi, per giudicarla, ad altezze inaccessibili al paganesimo: la cupidigia, oltre a ferire il prossimo, per il fatto che offende il Dio dell’alleanza, costituisce una vera e propria forma di idolatria.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Manifestazioni e conseguenze.
    - Narratori, profeti e sapienti denunciano gli attentati ai diritti del prossimo provocati dalla cupidigia. È la cupidigia a indurre il mercante, spesso disonesto (Eccli 26, 29 - 27, 2), a truccare le bilance, a speculare e a far denaro su tutto (Am 8, 5 s), il ricco ad esigere riscatti (5 12), ad accaparrarsi proprietà (Is 5, 8; Mi 2, 2. 9; cfr. 1 Re 21), a sfruttare i poveri (Neem 5, 1-5; cfr. 2 Re 4, 1; Am 2, 6), persino mediante il rifiuto del meritato salario (Ger 22, 13), il capo e il giudice ad esigere mance (Is 33, 15; Mi 3, 11; Prov 28, 16) per violare il *diritto (Is 1, 23; 5, 23; Mi 7, 3; 1 Sam 8, 3). Essa appare così in diretto contrasto con l’amore del prossimo, e soprattutto dei *poveri, che la legge deve proteggere contro di essa (Es 20, 17; 22, 24 ss; Deut 24, 10-21). Mentre Jahvè prescrive: «Non renderai indurito il tuo cuore» (Deut 15, 7), il cupido è un malvagio dall’anima inaridita (Eccli 14, 8 s), che si mostra spietato (21, 1). Sedotti dal loro esclusivo interesse, i capi cupidi «come lupi che dilaniano la preda», ricorrono persino alla *violenza per accrescere i loro «lucri» (ebr. besa’; gr. pleonexìa: Ab 2, 9; Ger 22, 17) e affermare la propria volontà di dominio (Ez 22, 27).
    2. Essenza religiosa.
    - Ma le pecore che i lupi dilaniano sono proprietà di Jahvè, il Dio dell’alleanza (Ez 34, 6-16). È lui, quindi, che la cupidigia in definitiva colpisce: essa è una sprezzante bestemmia (Sal 10, 3). Ma c’è di più: Il VT ne avverte il carattere idolatrico, e la tradizione Jahvista presta il volto della cupidigia (Gen 3, 6) all’atto col quale Adamo ed Eva, volendo essere «come dèi» (3, 5), respinsero la fiducia e la dipendenza di creature. La Genesi suggerisce così che la cupidigia è alla fonte di ogni *peccato (cfr. Giac 1, 14 s): volendo godere egoisticamente e reputando che non dipenda che da lui ciò che proviene in realtà da Dio per il suo servizio, il peccatore mette un bene creato, e alla fine se stesso, al posto di Dio. Per questo il Targum, commentando il precetto di non desiderare (Es 20, 17; Deut 5, 21), identifica i pagani, peccatori per eccellenza (Gal 2, 15), con «quelli che bramano». Quanto a Paolo, avendo probabilmente presente il racconto di Gen, riconduce allo stesso precetto tutta la legge (Rom 7, 7) e riassume tutti i peccati della generazione del deserto (1 Cor 10, 6) nella cupidigia (cfr. Num 11, 4. 34), espressione del rifiuto dell’esperienza spirituale imposta da Dio (Deut 8, 3; cfr. Mt 4, 4). Correndo dietro beni precari (Eccle 6, 2; Prov 23, 4 s; 28, 22), sempre insoddisfatto (Prov 27; 20; Eccle 4, 8), il cupido sarà punito per il suo disprezzo verso Dio e per i torti inflitti al prossimo: «La cupidigia porta alla rovina coloro che ne sono posseduti» (Prov 1, 19), mentre «colui che ha in odio la cupidigia vedrà prolungati i suoi giorni» (28, 16).
     NUOVO TESTAMENTO
    Il NT approfondisce il messaggio del VT su tre punti principali. Rivelando le dimensioni dell’agape, di cui la cupidigia è l’antitesi, e smascherando l’idolatria che vi si cela, penetra nel cuore della sua malizia. Rivelando la vita futura che svaluta i beni terreni, mette in evidenza tutta la follia del cupido.
    1. Manifestazioni e conseguenze.
    - I Vangeli non usano la parola pleonexìa, ad eccezione di Mc 7, 22, in cui fa parte di una lista di *peccati di cui Gesù svela la fonte intima, e di Lc 12, 15: «Guardatevi bene da ogni cupidigia». Questo mezzo versetto, compendio di un insegnamento caro a Luca, funge da transizione tra il rifiuto del Maestro di arbitrare una disputa di eredità (v. 13 s) e la parabola che descrive la mancanza di oculatezza del ricco che si compiace di quello che ha ammassato, come se il domani gli appartenesse (v. 15b-21). Secondo Luca, la cupidigia consiste quindi al tempo stesso nel voler accrescere sempre di più i propri averi, sia pure a spese degli altri, e nell’attaccarsi per «avarizia» (cfr. 2 Cor 9, 5) ai beni che già si possiedono. Paolo la menziona più spesso e l’associa ai disordini sessuali (1 Cor 5, 10 s; 6, 9 s; Rom l, 29; Col 3, 5; Ef 5, 3. 5; cfr. 1 Tess 4, 6: pleonektèin, «sfruttare», a proposito dell’impurità). Accostamento significativo: si tratti di profitto materiale o di piacere dei sensi, ci si serve del prossimo anziché servirlo. In un caso e nell’altro, si tratta di una «bramosia» colpevole, che soffoca la Parola di Dio (Mc 4, 19) e schiera il peccatore dalla parte del paganesimo (Rom 1, 24. 29), del *mondo (Tito 2, 12; 1 Gv 2, 16 s; 2 Piet 1, 4), del male (Col 3, 5), della *carne (Gal 5, 16; Rom 13, 14; Ef 2, 3; 1 Piet 2, 11), del vecchio uomo (Ef 4, 22), del corpo perituro (Rom 6, 12). Il cupido sacrifica gli altri a se stesso se necessario con la violenza: «Desiderate e non possedete? Allora siete pronti ad uccidere» (Giac 4, 2). Al contrario di Cristo, che, nel suo amore per noi, «non considerò lo stato di parità con Dio come una preda da carpire» (Fil 2, 6), egli «carpisce» e conserva gelosamente quel che eccita il suo desiderio. Al contrario di Gesù, che, «da ricco si è fatto povero al fine di arricchirci tramite la sua povertà» (2 Cor 8, 9), spoglia i poveri a proprio vantaggio (Giac 5, 1-6; Lc 20, 47 par.). La cupidigia, indegna di ogni cristiano, sarebbe particolarmente scandalosa nell’apostolo, tenuto per vocazione a farsi «schiavo di tutti» (Mc 10, 44; 1 Cor 9, 19). Paolo, dal canto suo, afferma di non aver avuto la minima riserva mentale di cupidigia (1 Tess 2, 5); lungi dal desiderare i beni dei fedeli (Atti 20, 33), ha *lavorato con le sue mani per non vivere a carico loro, come ne avrebbe avuto il diritto (20, 34; 1 Tess 2, 9; 1 Cor 9, 6-14; 2 Cor 11, 9 s; 12, 16 ss) e per porre in tal modo il proprio disinteresse al di sopra di ogni sospetto (1 Cor 9, 12; cfr. Fil 4, 17). Questo comportamento deve essere di esempio ai *ministri sottoposti (Atti 20, 34 s). Né l’episcopo (1 Tim 3, 3; Tito 1, 7) né i diaconi (1 Tim 3, 8) siano amici del denaro e dei turpi guadagni! L’avidità, al contrario, caratterizza i falsi dottori (Tito 1, 11; 2 Tim 3, 2), che, senza ombra di pietà, ricercano i vantaggi senza accontentarsi di ciò che possiedono (1 Tim 6, 5 s). In 2 Piet 2, 3. 14 viene definito «cupidigia» il loro traffico di parole menzognere, non scevro da propositi immorali (2, 2. 10. 18; cfr. Giuda 16). L’ideale dei veri servi del vangelo sarà sempre quello di essere reputati persone che non hanno nulla, loro che possiedono tutto (2 Cor 6, 10).
    2. Essenza religiosa.
    - Se Paolo attribuisce una particolare gravità alla cupidigia, è perché ha capito chiaramente quello che il VT aveva solo presentito: la cupidigia è una *idolatria (Col 3, 5). Si mette in tal modo sulle orme di Gesù, per cui essere «amico del denaro» (Lc 16, 14), significa concentrare su beni creati un cuore che appartiene solo a Dio (Mt 6, 21 par.), considerare questi beni come padroni disprezzando l’unico vero Signore che è Dio (6, 24 par.). Il proverbio: «La radice di ogni male è l’amore del denaro» (1 Tim 6, 10) assume allora una tragica profondità: scegliendo un falso dio, ci si distacca dall’unico vero e ci si vota alla perdizione (6, 9), come Giuda, il traditore cupido (Gv 12, ; Mt 26, 15 par.), «il figlio di perdizione» (Gv 17, 12). D’altra parte, i beni perituri sono ora svalutati in rapporto alla vita futura (Lc 6, 20. 24), un tempo ignorata dai sapienti. Perciò il NT è in grado di dimostrare assai meglio di quelli fino a che punto sia insensato il comportamento del cupido (12, 20; Ef 5, 17; cfr. Mc 8, 36 par.): il Mammone è «iniquo» (Lc 1, 9. 11), in altre parole - secondo il probabile sostrato aramaico - falso e ingannatore; è una *follia basarsi su beni perituri (cfr. Mt 6, 19 s), perché la morte, passaggio alla vita eterna che la *ricchezza fa dimenticare, determinerà un rovesciamento delle situazioni (Lc 16, 19-26; 6, 20-26).
    P. TERNANT
    → carne II 1.2 b - desiderio II - follia - giustizia A I VT 1 - idoli II 3 - peccato - poveri VT II, III - ricchezza II, III - sessualità III - violenza II - virtù e vizi.

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