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→ monte I 3.
→ nemico II 3 - perdono III - vendetta 2.4 - violenza III 1, IV 3.
→ alleanza VT I 3 - arca d'alleanza 0, II - legge B - libro II - testimonianza VT 2.
→ ubriachezza - vino.
In tutte le
religioni il tempio è il luogo sacro dove si pensa che la divinità diventi
presente agli uomini per ricevere il loro *culto e farli partecipare ai suoi
favori ed alla sua vita. Indubbiamente la sua residenza ordinaria non appartiene
a questo mondo; ma il tempio si identifica in qualche modo con essa, cosicché in
grazia sua l’uomo entra in comunicazione con il mondo degli dèi. Questo
simbolismo fondamentale si ritrova nel VT, dove il tempio di Gerusalemme è il
*segno della *presenza di Dio fra gli uomini. Ma non si tratta che di un segno
provvisorio al quale, nel NT, si sostituirà un segno di altro tipo: il corpo di
Cristo e la sua Chiesa.
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL TEMPIO DI GERUSALEMME
1. L'antico santuario di Israele.
- Gli Ebrei dell’epoca patriarcale non conoscevano tempio, quantunque avessero
luoghi sacri, dove «invocavano il nome di Jahvè», come Bethel (=casa di Dio: Gen
12, 8; 28, 17 s), Bersabea (Gen 26, 25), Sichem (Gen 33, 18 ss). Il Sinai
dell’esodo è ancora un luogo di questo tipo, consacrato da una manifestazione di
Dio (Es 3; 19, 20). Ma in seguito Israele possiede un santuario portatile,
grazie al quale Dio può risiedere in permanenza in mezzo al popolo che ha
guidato attraverso il deserto. Il tabernacolo, di cui Es 26-27, dà una
descrizione idealizzata, parzialmente ispirata dal tempio futuro, è il luogo di
incontro del popolo con Dio (Num l, l; 7, 89...). Dio vi dimora tra i cherubini,
sopra il propiziatorio che ricopre l’*arca dell’alleanza Vi enuncia i suoi
oracoli, donde il nome di «tenda della testimonianza» dato al tabernacolo (Es
38, 21; cfr. 25, 22; 26, 33). La sua presenza vi è ad un tempo sensibile e
velata: dietro la *nube (Es 33, 7-l l; 40, 36 ss) si nasconde la sua gloria
luminosa (Num 14, 10; 16, 19). Così il ricordo dell’alleanza sinaitica si
conserva in un santuario centrale per tutta la confederazione israelitica. Dopo
che questa si è stabilita in Canaan, il santuario comune delle tribù viene
fissato successivamente a Gilgal, a Sichem (Gios 8, 30-35; 24, 1-28), a Silo (1
Sam1-4), conservando della sua origine un carattere arcaico che lo distingue
nettamente dai luoghi di culto cananei, generalmente contrassegnati da templi
costruiti in pietra: il Dio del Sinai non si mescola alla civiltà pagana di
Canaan.
2. Il progetto di David.
- Appunto questo santuario confederale David stabilisce a *Gerusalemme
dopo aver liberato l’arca dalle mani dei Filistei (2 Sam 6); la capitale
politica, che egli ha conquistato, sarà così anche il centro religioso del
popolo di Jahvè. Allora, come ha intrapreso l’organizzazione della sua monarchia
alla stregua dei regni contemporanei - senza tuttavia perdere di vista il
carattere proprio di Israele -, egli pensa pure a modernizzare il luogo di culto
tradizionale: dopo essersi costruito un palazzo, pensa di edificare un tempio a
Jahvè (2 Sam 7, 1-3). Dio vi si oppone: non David costruirà a Jahvè una *casa (=
un tempio), ma Jahvè gliene costruirà una (= una dinastia) (2 Sam 7, 4-17).
Questa reazione ha una duplice spiegazione. Per il popolo dell’alleanza il
santuario ideale rimane il tabernacolo del passato, che ricorda esplicitamente
il soggiorno nel deserto (2 Sam 7, 6 s). Inoltre il culto autentico del Dio
unico non si adatta ad essere una copia servile dei culti pagani, i cui templi
aspirano ad esercitare una specie di controllo sulla divinità (così le zikkurat
babilonesi, cfr. Gen 11, 1-9) e sono contaminati dalle pratiche idolatriche,
magiche o immorali.
3. La realizzazione di Salomone.
- Tuttavia, già durante il regno di Salomone, il progetto di David si
realizza senza che si manifesti alcuna opposizione profetica (1 Re 5, 15-7, 51).
La religione di Jahvè è abbastanza forte per arricchirsi degli elementi che la
civiltà cananea le offre, senza essere infedele alla tradizione del Sinai.
Questa d’altronde si afferma con forza nel tempio: l’arca dell’alleanza ne è il
centro (8, l-9), ed il santuario di Gerusalemme prolunga così l’antico luogo di
culto centrale delle tribù. D’altronde Dio, manifestandovi la sua *gloria in
mezzo alla *nube (8, 10-13), indica visibilmente di gradire questo tempio come
la dimora (cfr. *rimanere) dov’egli «fa abitare il suo *nome» (7, 16-21).
Certamente egli non è legato a questo segno sensibile della sua presenza: i
cieli non potrebbero contenerlo, tanto meno una casa terrena (8, 27)! Ma per
permettere al suo popolo di incontrarlo in modo sicuro, egli ha scelto questa
dimora di cui dice: «Là è il mio nome» (8, 29).
4. La funzione del tempio nel popolo di Dio.
- Ormai il tempio di Gerusalemme, senza rendere ancora caduchi tutti gli altri
santuari, sarà il centro del culto di Jahvè. Vi si viene in *pellegrinaggio da
tutto il paese «per contemplare la *faccia di Dio» (Sal 42, 3), ed esso è per i
fedeli oggetto di un amore commovente (cfr. Sal 84; 122). Indubbiamente si sa
che la residenza divina è «in *cielo» (Sal 2, 4; 103, 19; 115, 3; ecc.); ma il
tempio è come una replica del suo palazzo celeste (cfr. Es 25, 40), che egli
rende in qualche modo presente quaggiù. Il culto che vi si svolge possiede
quindi un valore ufficiale: per mezzo di esso re e popolo compiono il servizio
del Dio nazionale.
II. DAL TEMPIO DI PIETRA AL TEMPIO SPIRITUALE
1. Ambiguità del segno del tempio.
- Nell’epoca regia, pur svolgendo questa funzione essenziale nel culto di
Israele, il segno del tempio non è tuttavia privo di ambiguità. Per uomini dal
senso religioso superficiale, le cerimonie che vi si svolgono tendono a
diventare atti vuoti. Inoltre l’attaccamento che essi hanno nei suoi confronti
minaccia di trasformarsi in fiducia superstiziosa. Si dirà: «Tempio di Jahvè!
Tempio di Jahvè!» (Ger 7, 4), come se Dio fosse in obbligo di difenderlo a
qualunque costo, anche se il popolo che lo frequenta non pratica la *legge.
Queste deviazioni spiegano come l’atteggiamento dei profeti nei confronti del
tempio presenti sfumature diverse. Certamente è in esso che Jahvè si rivela ad
Isaia nella sua visione inaugurale (Is 6), e lo stesso profeta annuncia che
questo luogo non potrebbe essere distrutto dall’empio Sennacherib (Is 37, 16-20.
33 ss). Ma Isaia, Geremia ed Ezechiele fanno a gara nel denunciare il carattere
superficiale del *culto che vi si svolge (Is 1, 11-17; Ger 6, 20; 7, 9 ss),
nonché le pratiche idolatriche che vi si introducono (Ez 8, 7-18). Infine essi
prevedono l’abbandono da parte di Jahvè di questa dimora da lui scelta, e ne
annunciano la distruzione, in punizione del peccato nazionale (Mi 3, 12; Ger 7,
12-15; Ez 9 - 10). Di fatto il carattere autentico del culto di Israele è più
importante del segno materiale al quale Jahvè per qualche tempo aveva legato la
sua presenza.
2. Dal primo tempio al secondo.
- Effettivamente il tempio di Gerusalemme partecipa alle vicissitudini del
destino nazionale. Tentativi di riforma religiosa ne fanno a tutta prima
aumentare l’importanza: sotto Ezechia (2 Re 18, 4; 2 Cron 29 - 31), e
soprattutto sotto Giosia, che realizza a suo favore l’unità di santuario (2 Re
23, 4-27). Ma infine le minacce profetiche si realizzano (25, 8-17): la gloria
di Jahvè ha abbandonato la sua dimora profanata (cfr. Ez 10, 4. 18). È questa la
fine del segno del tempio? Per niente, perché gli oracoli escatologici dei
profeti gli hanno dato un posto importante nei loro quadri del futuro. Isaia ha
visto in esso il futuro centro religioso di tutta l’umanità, riconciliata nel
culto del vero Dio (Is 2, 1-4). Ezechiele ha minuziosamente previsto la sua
ricostruzione, al tempo della restaurazione nazionale (Ez 40- 48). La prima cura
quindi dei Giudei rimpatriati, al termine dell’esilio, è di ricostruirlo, con
l’incoraggiamento dei profeti Aggeo e Zaccaria (Esd 3-6), e nuovi oracoli ne
cantano la gloria futura (Agg 2, 1-9; Is 60, 7-11). In questo secondo tempio il
culto riprende quindi come per il passato: il tempio è il centro del giudaismo,
tornato ora alla sua struttura teocratica delle origini; è nuovamente il segno
della presenza divina tra gli uomini; vi si sale in pellegrinaggio ed il
Siracide celebra con accenti entusiastici lo splendore delle sue cerimonie (Eccli
50, 5-21). Perciò quando il re Antioco lo profana e vi stabilisce un culto
pagano, i Giudei si sollevano per difenderlo, ed il primo scopo della loro
guerra santa è di purificarlo per riprendervi il culto tradizionale (1 Mac 4,
36-43). Ancora qualche decennio, ed Erode il Grande lo ricostruirà con
magnificenza. Ma più importante di questo splendore esterno è la *pietà sincera
che si manifesta liberamente nelle sue cerimonie.
3. Verso il tempio spirituale.
- Nonostante questo attaccamento al tempio di pietra, una nuova
corrente di pensiero ha incominciato ad affermarsi dalla fine dell’epoca
profetica. Le minacce di Geremia contro il tempio (Ger 7), poi la distruzione
dell’edificio e soprattutto l’esperienza dell’esilio, hanno contribuito a porre
in evidenza la necessità di un *culto più spirituale, corrispondente alle
esigenze della «religione del *cuore» predicata dal Deuteronomio e da Geremia (Deut
6, 4 ss; Ger 31, 31 ...). In terra d’esilio si constata meglio che Dio è
presente dovunque regna, dovunque è adorato (Ez 11, 16): la sua gloria non si è
forse manifestata ad Ezechiele in Babilonia (Ez 1)? Quindi, alla fine
dell’esilio, si vedono taluni profeti porre in guardia i Giudei contro un
attaccamento eccessivo al tempio di pietra (Is 66, 1 s). Come se il culto
spirituale richiesto da Dio - quello dei *poveri e dei cuori contriti (66, 2) -
convenisse meglio ad una *presenza spirituale di Dio, distaccata dai segni
sensibili. Jahvè risiede in cielo, e di là ascolta le preghiere dei suoi fedeli
in qualunque luogo siano pronunciate (cfr. Tob 3, 16). L'esistenza di una simile
corrente spiega come, poco prima della venuta di Cristo, la setta essenica possa
romperla con il culto di un tempio che stima contaminato da un sacerdozio
illegittimo, e considerare se stessa come un tempio spirituale in cui Dio riceve
un’adorazione degna di lui. È l’epoca in cui le apocalissi apocrife descrivono,
in *cielo, questo tempio che non è fatto dalla mano dell’uomo: qui Dio risiede;
il tempio terreno non ne è che l’immagine imperfetta (cfr. Sap 9, 8); ed esso
apparirà quaggiù alla fine dei tempi per essere la dimora divina nel «mondo
futuro».
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ CRISTO, NUOVO TEMPIO
1. Gesù ed il tempio antico.
- Gesù, al pari dei profeti, professa per il tempio antico il più
profondo rispetto. Vi è presentato da Maria (Lc 2, 22-39). Vi si reca per le
solennità, come ad un luogo d'incontro con il Padre suo (Lc 2, 41-50; Gv 2, 14;
ecc.). Ne approva le pratiche cultuali, pur condannandone il formalismo che
minaccia di viziarle (Mt 5, 23 s; 12, 3-7 par.; 23, 16-22). Per lui il tempio è
la *casa di Dio, una casa di preghiera, la casa del Padre suo, e si indigna che
se ne faccia un luogo di traffico; quindi, con un gesto profetico, ne scaccia i
mercanti di *colombe per purificarlo (Mt 21, 12-17 par.; Gv 2, 16 ss; cfr. Is
56, 7; Ger 7, 11). E tuttavia annunzia la rovina dello splendido edificio, di
cui non rimarrà pietra su pietra (Mt 23, 38 s; 24, 2 par.). Durante il processo,
gli si rimprovererà perfino di aver dichiarato che distruggerebbe questo
santuario fatto dalla mano dell’uomo, ed in tre giorni ne ricostruirebbe un
altro non fatto dalla mano dell’uomo (Mc 14, 58 par.), e la stessa accusa è
ripresa in modo ingiurioso mentre agonizza sulla Croce (Mt 27, 39 s par.). Ma
qui si tratta di una frase misteriosa, di cui soltanto il futuro spiegherà il
senso. Nell’attesa, al momento del suo ultimo respiro, il laceramento del velo
del santissimo mostra che il santuario antico perde il suo carattere sacro: il
tempio giudaico ha finito di svolgere la sua funzione di segno della presenza
divina.
2. Il nuovo tempio.
- Di fatto questa funzione è svolta ormai da un altro segno, che è il *corpo
stesso di Gesù. Il vangelo di S. Giovanni colloca nel contesto della
purificazione del tempio la frase misteriosa sul santuario distrutto e
ricostruito in tre giorni (Gv 2, 19). Ma aggiunge: «Parlava del santuario del
suo corpo», ed i suoi discepoli, dopo la sua risurrezione, lo compresero (2, 21
s). Ecco dunque il tempio nuovo e definitivo, che non è fatto dalla mano
dell’uomo, quello in cui il Verbo di Dio stabilisce la sua dimora tra gli uomini
(1, 14) come un tempo nel tabernacolo di Israele. Tuttavia, affinché il tempio
di pietra sia decaduto, bisogna che Gesù stesso muoia e risusciti: il tempio del
suo corpo sarà distrutto e ricostruito, tale è la volontà del Padre suo (10, 17
s; 17, 4). Dopo la *risurrezione questo corpo, segno della presenza divina in
terra, conoscerà un nuovo stato trasfigurato che gli permetterà di rendersi
presente a tutti i luoghi ed a tutti i secoli nella celebrazione *eucaristica.
Allora il tempio antico non avrà più che da sparire, e la distruzione di
Gerusalemme nel 70 verrà ad indicare in modo decisivo che la sua funzione è
ormai terminata.
II. LA CHIESA, TEMPIO SPIRITUALE
1. I cristiani ed il tempio giudaico.
-Durante il periodo di transizione che segue la Pentecoste, gli apostoli ed i
fedeli che credono alla parola continuano a frequentare il tempio di Gerusalemme
(Atti 2, 46; 3, 1-11; 21, 26). Infatti, finché il Giudaismo, nei suoi capi e
nella sua massa, non ha ancora rigettato definitivamente il vangelo, l’antico
luogo di culto no ha perso ogni legame con il nuovo culto inaugurato da Gesù; il
popolo giudaico, convertendosi, potrebbe svolgere una funzione nella conversione
del mondo intero. Si osservano tuttavia sintomi di rottura. Stefano, nella sua
apologia del culto spirituale, fa presentire il decadimento del santuario fatto
dalla mano dell’uomo (Atti 7, 48 ss), e queste parole sono considerate come una
bestemmia meritevole di morte. D’altronde, ancora qualche anno e la rovina di
Gerusalemme accelererà l’indurimento del giudaismo e il tempio sarà distrutto.
2. Il tempio spirituale.
- Ma, prima che ciò avvenga, i cristiani avranno preso coscienza di
costituire essi stessi il nuovo tempio, il tempio spirituale, come prolungamento
del corpo di Cristo. Tale è l’insegnamento esplicito di S. Paolo: la *Chiesa è
il tempio di Dio, edificato su Cristo, fondamento, *testa e *pietra angolare (1
Cor 3, 10-17; 2 Cor 6, 16 ss; Ef 2, 20 ss); tempio insigne in cui Giudei e
pagani hanno accesso senza distinzione presso il Padre in uno stesso Spirito (Ef
2, 14-22). Ogni cristiano è a sua volta tempio di Dio in quanto membro del corpo
di Cristo (1 Cor 6, 15; 12, 27) e il suo corpo è il tempio dello Spirito Santo
(1 Cor 6, 19; cfr. Rom 8, 11). Le due affermazioni sono collegate: poiché il
corpo risorto di Gesù, in cui abita corporalmente la divinità (Col 2, 9), è il
tempio di Dio per eccellenza, i cristiani membra di questo corpo sono con esso
il tempio spirituale; devono, nella fede e nella carità, cooperare alla sua
crescita (Ef 4, 1-16). Così Cristo è la *pietra vivente rigettata dagli uomini
ma scelta da Dio. I fedeli, anch’essi pietre viventi, costituiscono con lui un
edificio spirituale, per un sacerdozio santo, al fine di offrire *sacrifici
spirituali (1 Piet 2, 4 s; cfr. Rom 12, 1). Ecco il tempio definitivo, che non è
fatto dalla mano dell’uomo: la Chiesa, Corpo di Cristo, luogo dell’incontro tra
Dio e gli uomini,segno della presenza divina in terra. Di questo tempio il
santuario antico non era dunque che una *figura, suggestiva ma imperfetta,
provvisoria ed ora superata.
III. IL TEMPIO CELESTE
1. La lettera agli Ebrei.
- Tuttavia il NT sfrutta pure in un’altra direzione il simbolismo del tempio
antico. Già il giudaismo vi vedeva la replica umana della residenza celeste di
Dio, quella che le apocalissi si compiacevano di descrivere partendo dal tempio.
In questa cornice la lettera agli Ebrei descrive il *sacrificio di
Cristo-sacerdote, realizzato mediante la sua morte, la sua risurrezione e la sua
ascensione. Al termine della sua vita terrena, egli è penetrato nel santuario
del cielo, non con il sangue delle vittime animali come nel culto figurativo, ma
con il suo proprio *sangue (Ebr 9, 11-14. 24). Vi è entrato come precursore per
darci accesso presso Dio (4, 16; 10, 19 s). Uniti a questo sacerdote unico,
potremo dunque fruire a nostra volta della *presenza divina, in quel santo dei
santi dove Dio dimora, e dove già abbiamo accesso mediante la fede (6, 19 s).
2. L'Apocalisse di S. Giovanni.
- Nell’Apocalisse l’immagine del tempio celeste si intreccia con quella
del tempio terrestre che è la Chiesa. C’è quaggiù un tempio, dove i fedeli
rendono il loro culto a Dio: i pagani ne calpestano gli atrii esterni, immagine
della *persecuzione che si accanisce contro la Chiesa (Apoc 11, 1 s). Ma c'è
pure in alto un tempio dove siede in trono l’*agnello immolato e dove si celebra
una liturgia di preghiera e di lode (5, 6-14; 7, 15). Ora, alla fine dei tempi,
questa dualità non esisterà più. Di fatto, quando la Gerusalemme celeste
discenderà in terra, fidanzata dell’agnello ornata per le nozze eterne, non ci
sarà più bisogno in essa di tempio: il suo tempio sarà Dio stesso e l’agnello
(21, 22). I fedeli raggiungeranno allora Dio senza aver bisogno di segno alcuno!
o meglio, lo *vedranno faccia a faccia per partecipare pienamente alla sua vita.
F. AMIOT
→ acqua III - alleanza VT I 3, II 1 - altare 2 - arca d'alleanza - casa -
Chiesa II 2, V - colomba 1 - corpo di Cristo I 3, III 3 - culto - David 2.3 -
edificare - espiazione 2 - Gerusalemme - lode III - mediatore II 1 - nome VT 4 -
nube 2 - pellegrinaggio - pietra 4 - porta VT II - profeta NT II 2 - presenza di
Dio VT III 1; NT I, II - rimanere II 1 - sacerdozio VT I 3.4, III 1 - sacrificio
VT I 1 - santo NT III - Spirito di Dio NT V 4 - testa 1.4.
La Bibbia,
rivelazione del Dio trascendente, si apre e si chiude con annotazioni temporali:
«In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1, 1), «Sì, vengo presto» (Apoc
22, 20). Così in essa Dio non è colto in modo astratto, nella sua essenza
eterna, come avviene in Platone od Aristotele, ma nei suoi interventi in terra,
che fanno della storia del mondo una storia sacra. Per questo la rivelazione
biblica può rispondere alle questioni religiose che la coscienza umana,
contrassegnata dal divenire, si pone a proposito del tempo, perché ha essa
stessa struttura storica.
INTRODUZIONE
1. «In principio».
- La Genesi, per incominciare, evoca l’atto creativo di Dio. Questo
atto segna un inizio assoluto, di modo che, a partire da esso, ogni durata
appartiene all’ordine delle cose create. Questo modo di vedere è in netto
contrasto con la concezione dell’«inizio» che si nota nei paganesimi vicini. Ad
esempio, nel poema babilonese della creazione, si vede il dio Marduk stabilire
le cornici del tempo cosmico ed umano: astri, costellazioni, cicli della natura;
allora íncomincia il tempo astronomico misurabile. Ma prima di questo, in un
tempo primordiale che è il modello dell’altro, gli dèi avevano già avuto una
storia, la sola storia sacra che il pensiero babilonese conosca e che è
dell’ordine del mito. Da una coppia divina primitiva, Aspu e Tiamat, erano
uscite genealogie successive; una lotta aveva messo gli dèi alle prese tra
loro;l’apparizione del mondo e degli uomini era il risultato finale di questa
lotta. Così gli dèi sono conglobati in una stessa genesi con il cosmo intero,
come se non fossero essi stessi che imperfettamente sottratti alla categoria del
tempo. Nella Genesi biblica, invece, la trascendenza di Dio si afferma in modo
radicale: «In principio Dio creò...» (Gen 1, 1); «Nel giorno in cui Jahvè-Dio
fece la terra ed il cielo...» (2, 5). Non c’è un tempo primordiale in cui si
svolga una storia divina, perché le grandi immagini della lotta cosmica in cui
Dio affronta le forze del caos (Sal 74, 13 s; 89, 11) non evocano la sua storia,
ma quella del mondo nel quale mette ordine. L'atto creatore segna l’inizio
assoluto del nostro tempo, che è buono, come tutto il resto della creazione; ma
a questo tempo Dio preesisteva. Ciò che si svolgerà nel tempo è il suo *disegno,
che ordina da prima tutta la creazione in vista dell’uomo, poi dirige il destino
dell’uomo in vista di una fine misteriosa.
2. Tempo ed eternità.
a) Il tempo. - Opera di Dio, il tempo serve quindi di
cornice ad una storia che ci concerne. Ciò si nota già nel racconto biblico
della *creazione. I sette giorni della Genesi hanno indubbiamente una
giustificazione pedagogica: inculcano la santificazione del *sabato. Ma
forniscono pure una visione religiosa della durata in cui a poco a poco
l’universo si completa. Dio inserisce progressivamente le sue creature nel
tempo; a poco a poco si riempie la cornice che accoglierà infine 1’uomo, la cui
apparizione darà un senso a tutto ciò che l’aveva preceduto. Si vede così come
il tempo non è una forma vuota, una pura successione di istanti giustapposti. È
la misura della durata terrestre, tale quale si presenta in concreto: da prima
una durata cosmica, polarizzata dalla venuta dell’uomo, poi una durata storica,
ritmata da *generazioni, in cui l’umanità camminerà verso la sua fine.
b) L'eternità. - Dio rimane trascendente in
rapporto a questa duplice durata. L'uomo vive nel tempo, Dio nell’eternità. La
parola ebraica ‘Ôlam, tradotta in modo vario (secolo, eternità, mondo...),
designa una durata che supera la misura umana: Dio vive «per sempre», «nei
secoli dei secoli». Per far comprendere la natura di questa durata di cui non
abbiamo l’esperienza, la Bibbia la oppone al carattere transitorio del tempo
cosmico («Ai tuoi occhi mille anni sono come il giorno di ieri una volta
passato, come una vigilia della notte», Sal 90, 4) e del tempo umano («I miei
giorni sono come l’ombra che declina..., ma tu, o Jahvè, siedi in eterno», Sal
102, 12 s). Una meditazione di questo genere affina il senso della trascendenza
divina, che si vede espressa nettamente nei testi più recenti. Mentre la Genesi
considerava Dio «in principio», nel suo atto creativo, i Proverbi lo contemplano
prima del tempo, «dall’eternità», quando non aveva presso di sé che la sapienza
(Prov 8, 22 ss). Questa eternità confonde Giobbe (Giob 38, 4), ed il salmista
proclama: «Di secolo in secolo tu sei Dio» (Sal 90, 2). La Bibbia riesce quindi
a conciliare la coscienza della trascendenza di Dio con la certezza del suo
intervento nella storia. Sfugge così ad una duplice tentazione: sia di
divinizzare il tempo (il dio Cronos del pantheon greco), sia di negargli ogni
significato dinanzi a Dio, come fa l’Islam.
VECCHIO TESTAMENTO
Due aspetti si sovrappongono nell’esperienza umana del tempo: quello regolato
dai cicli della natura (tempo cosmico) e quello che si svolge nel fluire degli
avvenimenti (tempo storico). Dio li governa allo stesso modo e li orienta
assieme verso una stessa fine.
I. IL TEMPO COSMICO
1. Misure del tempo.
- Lo stesso Dio creatore ha stabilito i ritmi ai quali obbedisce la
natura: l’avvicendarsi del giorno e della notte (Gen 1, 5), il movimento degli
*astri che presiede all’uno e all’altra (1, 14), il ritorno delle stagioni (8,
22). Il fatto che questi cicli ritornino ad intervalli regolari è un segno
dell’ordine che egli ha posto nella sua creazione (cfr. Eccli 43). Tutti i
popoli hanno preso questi cicli come base della misura del tempo. Sotto questo
aspetto il calendario ebraico non ha alcuna originalità, salvo l’uso della
*settimana con il *sabato finale. Per il resto esso è costituito da elementi
presi in prestito e sembra aver subito molte variazioni nel corso delle età. Nel
VT oscilla tra il computo solare e quello lunare. La divisione dell’anno in
dodici mesi corrisponde al ciclo solare. Ma il mese, per il suo nome e le sue
divisioni, segue il ciclo lunare perché inizia con la neomenia o luna nuova (Eccli
43, 6 ss). L’anno ebraico dapprima cominciava in autunno, nel mese di tišri (Es
23, 16; 34, 22), poi in primavera, nel mese di nisan (Es 12, 2). Quanto agli
anni, essi furono da prima contati in base ad avvenimenti notevoli: regni (Is 6,
1), accidenti naturali (Am 1, 1). Solo in epoca tarda si pervenne all’adozione
di un’era: l’era dei Seleucidi (1 Mac 1, 10; 14, 1; 16, 14), poi, all’epoca
rabbinica, l’era giudaica che parte dalla creazione del mondo.
2. Sacralizzazione del tempo.
- Il tempo cosmico misurato dal calendario non è una cosa puramente
profana. Tutte le religioni antiche gli conferiscono carattere sacro.
Riconoscono ai cicli della natura un significato sacro perché, così pensano,
potenze divine li dirigono e si manifestano attraverso ad essi. Questa
sacralizzazione mitica impone che si stabilisca il calendario delle *feste: esse
seguono il ritmo delle stagioni e dei mesi. Una simile concezione dei tempi
sacri costituì per Israele una tentazione permanente, denunciata dai profeti (Os
2, 13). Ma eliminando dal suo calendario religioso tutti i riferimenti ai miti
politeistici, il VT non ha tuttavia rigettato la sacralità naturale dei cicli
cosmici. Ha conservato la celebrazione della luna nuova (1 Sam 20, 5; Am 8, 5;
Is 1, 13) e la Pasqua dei nomadi in primavera (Es 12). Ha rispettato le usanze
agricole del calendario cananeo: feste degli azzimi in primavera, all’inizio
della messe dell’orzo (Es 23, 15; cfr. Deut 16, 8); offerta delle *primizie (Deut
26, 1) e del primo covone (Lev 23, 10 s); festa della messe, detta delle
settimane o della Pentecoste (Es 23, 16; 34, 22; Lev 23, 16), e del racconto in
autunno, con i suoi festeggiamenti di fine stagione (Es 23, 16; Deut 16, 13; Lev
23, 34-43). Ma a queste celebrazioni tradizionali la rivelazione ha dato a poco
a poco un nuovo contenuto, che trasforma il loro carattere sacro; ne ha fatto i
memoriali dei grandi atti di Dio nella storia. La *Pasqua e gli azzimi hanno
ricordato l’uscita dall’Egitto (Es 12, 17. 26 s) e l’ingresso di Canaan (Gios 5,
10 ss); la *Pentecoste, l’alleanza al Sinai; la festa d'autunno, il soggiorno
nel deserto (Lev 23, 43). Poi nuove feste sono venute a commemorare altri
ricordi della storia sacra (ad es. la dedicazione: 1 Mac 4, 36-59). Oltre
l’anno, prendono posto altri cicli più lunghi: decime triennali (Deut 14, 28 s),
anno sabbatico e giubilare (Lev 25). Da una festa all’altra continua il ciclo
regolare delle settimane. Infine la consacrazione religiosa del tempo penetra
nel ciclo giornaliero, dove i rituali prevedono sacrifici, offerte e preghiere
ad ore fisse (2 Re 16, 15; Ez 46, 13 s; Num 28, 3-8). Tutta l’esistenza
dell’uomo è così racchiusa in una rete di riti che la santificano. Il posto del
calendario sacro nella vita d’Israele è così importante che, attentandovi, il re
persecutore Antioco Epifane si leverà contro Dio stesso (Dan 7, 25; 1 Mac 1, 39.
43. 55), perché alla sacralizzazione del tempo sanzionata dalla rivelazione
vorrà sostituire una sacralizzazione pagana.
II. IL TEMPO STORICO
1. Cicli cosmici e tempo storico.
- Il tempo cosmico è di natura ciclica. Il pensiero orientale e greco è
stato talmente colpito dall’inserimento della vita umana in questi cicli del
cosmo che del ritorno eterno delle cose ha fatto la legge fondamentale del
tempo. Senza giungere a questa conclusione di ordine metafisico, Qohelet è stato
vivamente impressionato dallo stesso fatto: la vita umana è dominata da tempi
ineluttabili («un tempo per nascere e un tempo per morire», Eccle 3, 1-8), da
una ripetizione incessante degli stessi eventi («ciò che fu, è quello stesso che
sarà; ciò che avvenne, è quello che avverrà», 1, 9; 3, 15). Così vengono
indicati i limiti dello sforzo umano, nonché la difficoltà di percepire l’azione
del governo divino nel ritorno perpetuo delle cose. Ma questo pessimismo è
l’eccezione, perché la Bibbia è dominata da un’altra concezione del tempo, che
corrisponde alla sua rappresentazione della storia. La storia non obbedisce alla
legge del ritorno eterno. È orientata nel suo fondo dal *disegno di Dio che vi
si svolge e vi si manifesta; è costellata da eventi che hanno un carattere unico
e non si ripetono, che si depositano nelle *memorie. L’umanità, così arricchita
a poco a poco dalla sua esperienza della durata, diventa capace di progresso.
Per tal modo il tempo storico differisce qualitativamente dal tempo cosmico, che
assume trasfigurandolo ad immagine dell’uomo. Esso ha le sue particolari misure
di grandezza, che sono in rapporto con la vita umana. Primitivamente Israele
aveva della durata una nozione familiare: si contava per *generazioni (e la
stessa parola tôledôth designa praticamente la storia, Gen 2, 4; 5, 1; ecc.). A
partire dalla monarchia si conta per regni. Più tardi verranno le ere. In questi
computi storici appare più di una volta un certo gusto delle cifre. Tuttavia, in
mancanza di riscontri sicuri, i *numeri citati non corrispondono sempre a ciò
che noi ci attendiamo attualmente dalla storia. Taluni sono approssimativi o
schematici (i 400 anni di Gen 15, 13). Altri hanno un valore simbolico (i 365
anni della vita di Enoch, Gen 5, 23). Mostrano non di meno la preoccupazione
degli scrittori sacri di far vedere la rivelazione inserita nel tempo.
2. Sacralizzazione del tempo storico.
- Nelle religioni pagane il tempo storico non ha sacralità se non nella
misura in cui un evento particolare riproduce la storia primordiale degli dèi,
come fanno i cicli della natura. Si tratta di una sacralità mitica. Su questo
punto la rivelazione biblica apporta innovazioni radicali. Dio vi si manifesta
effettivamente mediante la storia sacra; gli eventi di cui questa è intessuta
sono i suoi atti in terra. Perciò il tempo in cui questi eventi si inscrivono ha
di per sé un valore sacro: non già in quanto ripete il tempo primordiale in cui
Dio ha creato il mondo una volta per sempre; ma in quanto apporta del nuovo, a
mano a mano che le tappe del disegno di Dio si succedono, e ciascuna ha il suo
significato particolare. Ciò che conferisce un senso a tutti questi punti del
tempo non è d’altronde la rete dei fattori storici che vi si incrociano; la
Bibbia quindi presta poca attenzione a questo aspetto delle cose. Esclusivamente
l’intenzione divina li orienta verso una fine misteriosa, in cui il tempo
raggiungerà il suo termine e nello stesso tempo la sua pienezza.
III. IL TERMINE DEL TEMPO
1. L’inizio e la fine.
- La storia sacra, che comprende tutto il destino del popolo di Dio, si
inscrive tra due termini correlativi: un inizio ed una fine. Il pensiero antico,
quando si è raffigurata la perfezione umana, l’ha collocata generalmente alle
origini, come un’età aurea seguita da una degradazione progressiva nel tempo. Ha
visto talora una reviviscenza di questa età aurea nel ritorno del grande anno
(egloga IV di Virgilio), il che si riferiva ancora ad una concezione ciclica del
tempo. Anche la Bibbia colloca alle origini umane una perfezione primitiva (Gen
2). Ma per essa, la perdita di questo stato iniziale non è affatto dovuta ad un
processo naturale di evoluzione cosmica; è stato il *peccato dell’uomo a causare
tutto il dramma. Da allora la storia è travagliata da due movimenti contrari. Da
una parte vi si nota lo sviluppo progressivo del male, una decadenza spirituale,
che chiama infallibilmente il *giudizio di Dio. Così fu nella preistoria, dalle
origini al *diluvio, giudizio-tipo; così è nel corso dei secoli, tanto che le
apocalissi possono estendere al presente ed al futuro questa interpretazione
catastrofica del tempo (Dan 2; 7). Ma dall’altra parte si nota pure un progresso
verso il bene, che prepara infallibilmente la *salvezza degli uomini. Così fu
già nella preistoria, quando Dio sceglieva Noè per salvarlo e fare alleanza con
lui. Così sarà, infine, quando la perfezione primitiva ritornerà in terra al
termine della storia sacra; certamente non con un semplice processo di ritorno
automatico alle origini, ma con un atto sovrano di Dio, che compirà assieme il
giudizio del mondo peccatore e la salvezza dei giusti. Per strappare Israele
all’attrattiva del paganesimo e della sua concezione della durata umana, i
profeti insisteranno su questo termine del tempo e sulle preparazioni morali che
esige.
2. Ciò che sarà la fine.
- Il *giorno di Jahvè, prima nozione escatologica chiaramente espressa
(Am 5, 18; Is 2, 12), appare dapprima come una minaccia costantemente imminente,
sospesa sul mondo peccatore. Tuttavia la sua data, fissata nei segreti di Dio,
rimane ignota. Per designarla i profeti parlano semplicemente della «fine dei
giorni» (Is 2, 2); oppure oppongono al «primo tempo», il passato, un «ultimo
tempo» che vi farà contrasto (Is 8, 23). Il periodo attuale, quello del mondo
peccatore, sarà chiuso da un *giudizio definitivo. Incomincerà allora una nuova
età, di cui i testi ci danno descrizioni incantevoli: età di giustizia e di
felicità, che introdurrà nuovamente in terra la perfezione del *paradiso (Os 2,
20 ss; Is 11, 1-9). Il futuro non avrà quindi misura comune con il tempo
presente; tuttavia, all’inizio, i profeti non stabilivano una discontinuità
radicale tra i due: i tempi nuovi, di durata indefinita (Is 9, 6), avrebbero
coronato la storia senza lasciare il piano in cui essa attualmente si svolge.
Dopo l’esilio si accentua progressivamente la differenza tra il «secolo (od il
*mondo) presente» ed il «secolo venturo»: quest’ultimo sarà inaugurato dalla
*creazione dei «nuovi cieli» e della «nuova terra» (Is 65, 17); in altre parole,
si troverà su un piano radicalmente *nuovo, quello dei *misteri divini, la cui
*rivelazione costituisce l’oggetto proprio delle apocalissi.
3. Quando verrà la fine.
- Effettivamente le apocalissi guardano con passione a questo termine
(Dan 9, 2), a questo «tempo della fine» (11, 40), che la *speranza giudaica
attende con impazienza. Lo scorgono sempre in un futuro prossimo, che succede
senza transizione alla scottante realtà presente. Ma i «tempi ed i momenti»
fissati da Dio rimangono un suo segreto (cfr. Atti 1, 7). Le speculazioni
*numeriche che vengono proposte a questo riguardo sono di ordine simbolico, dai
settant’anni di Geremia (Ger 29, 10) alle settanta settimane di anni di Daniele
(Dan 9), periodi il cui significato è correlativo a quello dell’anno *sabbatico
e dell’anno giubilare (cfr. Is 61, 2; Lev 25, 10). Con ciò l’annunzio biblico
degli ultimi tempi si distingue totalmente dalle speculazioni escatologiche, cui
i periodi agitati hanno sempre dato occasione. Ciò che il VT fornisce non è una
determinazione matematica della data in cui nascerà Gesù Cristo o arriverà la
fine del mondo. È una visione in profondità della totalità del tempo - passato,
presente e futuro - che ne scopre l’orientamento segreto e ne rivela così il
senso. L'uomo non potrebbe trarne alcuna soddisfazione per la sua curiosità
inquieta, ma soltanto una coscienza delle esigenze spirituali che il tempo in
cui vive comporta.
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ ED IL TEMPO
1. Gesù vive nel tempo storico.
- Con *Gesù è giunta la fine verso la quale erano orientati i tempi
preparatori. Quest’ultimo atto di Dio si inserisce in modo preciso nella durata
storica: Gesù nasce «nei giorni del re Erode» (Mt 2, 1); la predicazione di
Giovanni incomincia «l’anno quindicesimo del regno di Tiberio Cesare» (Lc 3, 1);
Gesù «rende la sua bella testimonianza sotto Ponzio Pilato» (1 Tim 6, 13).
Poiché quest’ultimo è l’evento per eccellenza della storia sacra, verificatosi
«una volta per sempre» (Rom 6, 10; Ebr 9, 12), tutte le confessioni di fede
cristiane riportano il momento in cui esso ha preso posto nel tempo umano.
D’altronde Gesù, durante la sua vita in terra, ha accettato gli indugi normali
che ogni maturazione umana esige (Lc 2, 40. 52). Ha quindi partecipato
pienamente alla nostra esperienza del tempo. La sua coscienza profetica gli fa
però dominare il corso degli eventi, cosicché egli vive con gli occhi fissi
sulla morte a cui «deve» giungere per poi risuscitare (Mc 8, 31; 9, 31; 10, 33 s
par.). Questa è la sua *ora (Gv 17, 1), che l’obbedienza al Padre gli vieta di
anticipare (Gv 2, 4).
2. Il tempo di Gesù, pienezza dei tempi.
- È essenziale comprendere il significato di questo tempo di Gesù.
D’altronde egli, fin dall’inizio della sua predicazione, lo proclama
chiaramente: «I tempi sono *compiuti ed il regno di Dio è vicino» (Mc 1, 15;
cfr. Lc 4, 21). Durante tutto il suo ministero egli sollecita quindi i suoi
uditori a comprendere i *segni del tempo in cui vivono (Mt 16, 1 ss). Infine
piangerà su Gerusalemme che non ha saputo riconoscere il tempo in cui Dio la
*visitava (Lc 19, 44). Gesù corona quindi l’attesa giudaica. Con lui è giunta
«la *pienezza dei tempi» (Gal 4, 4; Ef 1, 10). Egli ha introdotto nella storia
di Israele l’elemento definitivo che la predicazione del vangelo porrà in piena
luce: «Ora, senza la legge, si è manifestata la giustizia di Dio attestata dalla
legge e dai profeti» (Rom 3, 21). Nello svolgimento del disegno di Dio si è
verificato un evento in funzione del quale tutto si definisce in termini di
«prima» e di «dopo»: «prima eravate senza Cristo, estranei alle alleanze della
promessa» (Ef 2, 12); «ora egli vi ha riconciliati nel suo corpo di carne» (Col
1, 22). Il tempo di Gesù non è quindi soltanto al centro della durata terrena:
portando il tempo al suo compimento, lo domina tutto intero.
II. IL TEMPO DELLA CHIESA
1. Prolungamento della escatologia.
- Nella visuale del VT la fine era considerata in modo globale: il disegno di
Dio sarebbe giunto a termine istituendo in terra nello stesso tempo il giudizio
e la salvezza. Il NT introduce una complessità all’interno di questa fine. Con
Gesù l’evento decisivo del tempo si è verificato, ma non ha ancora portato tutti
i suoi frutti. Gli ultimi tempi sono soltanto inaugurati; ma, a partire dalla
risurrezione, essi si dilatano in un modo che i profeti e le apocalissi non
avevano esplicitamente previsto. Nelle parabole Gesù aveva già lasciato
intravvedere il cammino del *regno verso una pienezza futura, il che supponeva
un certo lasso di tempo (Mt 13, 30 par.; Lc 4, 26-29). Dopo la risurrezione, la
missione che egli dà agli apostoli suppone lo stesso prolungamento della
escatologia (Mt 28, 19 s; Atti 1, 6 s). Infine la scena dell’*ascensione
distingue nettamente il momento in cui Gesù prende posto «alla *destra di Dio»
da quello in cui ritornerà in gloria per consumare la realizzazione delle
*promesse profetiche (Atti 1, 11). Tra i due momenti starà un tempo intermedio,
qualitativamente diverso sia dal «tempo dell’ignoranza» in cui erano immersi i
pagani (Atti 17, 30), sia dal tempo della pedagogia in cui viveva fino allora il
popolo di Israele (Gal 3, 23 ss; 4, 1 ss). È il tempo della Chiesa.
2. Significato del tempo della Chiesa.
- Questo tempo della Chiesa è una epoca privilegiata. È il tempo dello Spirito (Gv
16, 5-15; Rom 8, 15 ss), il tempo in cui il vangelo è notificato a tutti gli
uomini, Giudei o pagani, affinché tutti possano beneficiare della salvezza.
Situazione veramente paradossale. Da una parte questo tempo appartiene
all’ordine definitivo delle cose annunciato dalle Scritture: per noi, che vi
siamo entrati mediante il battesimo, la «fine dei tempi» è giunta (1 Cor 10,
11). Ma dall’altra parte esso coesiste con il «secolo presente» (Tito 2, 12),
che deve passare, così come passerà la figura di questo mondo (1 Cor 7, 29 ss).
La conversione al vangelo di Gesù Cristo rappresenta per ogni uomo un mutamento
di era: è un passaggio dal «mondo presente» al «mondo futuro», dal tempo antico
che corre verso la rovina al tempo nuovo che cammina verso la sua piena
manifestazione. L’importanza del tempo della Chiesa deriva dal fatto che esso
rende possibile questo passaggio. È «il tempo accetto, il giorno della
salvezza», posto ormai alla portata di tutti (2 Cor 6, 1 s). È 1'«oggi» di Dio,
durante il quale ogni uomo è invitato alla *conversione e nel quale è necessario
essere attenti alla voce divina (Ebr 3, 7 - 4, 11). E come, nel VT, il disegno
di salvezza si svolgeva secondo le volontà misteriose di Dio, così il tempo
della Chiesa obbedisce anche esso ad un certo piano, di cui alcuni testi fanno
intravvedere l’economia. Ci sarà da prima un «tempo dei pagani» che comporterà
due aspetti: da una parte «*Gerusalemme [simbolo di tutto l’antico Israele] sarà
calpestata dai pagani» (Lc 21, 24); dall’altra parte questi stessi pagani si
convertiranno progressivamente al vangelo (Rom 11, 25). Poi verrà il tempo di
*Israele, quando a sua volta «tutto Israele sarà salvato» (Rom 11, 26), ed
allora sarà la fine. Questo è, nel suo sviluppo completo, il mistero del tempo
che ricopre tutta la storia umana. Gesù, che lo domina, è il solo capace di
aprire il *libro dai sette sigilli in cui sono scritti i destini del mondo (Apoc
5).
3. Sacralizzazione del tempo della Chiesa.
- Il tempo della Chiesa è sacro in sé, per il solo fatto di appartenere al «modo
futuro». Si sa tuttavia che, per essere effettiva, la sacralizzazione del tempo
da parte degli uomini deve manifestarsi con *segni visibili: i «tempi sacri» e
le *feste religiose, il cui ritorno annuale si collega ai ritmi del tempo
cosmico. Il VT aveva già cercato per questi segni una nuova fonte di sacralità
nella commemorazione dei grandi fatti della storia sacra. Dopo la venuta in
terra di Gesù, questi stessi fatti hanno solo più valore di *figure, perché
l’evento della salvezza si è inserito nel tempo storico. Questo evento unico la
Chiesa attualizza quindi ora nei cicli del suo calendario liturgico, per
santificare il tempo umano. Ogni domenica, *giorno del Signore (Apoc 1, 10; Atti
20, 7; 1 Cor 16, 2), diventa, nella cornice della *settimana, una celebrazione
della risurrezione di Gesù. La celebrazione assume un carattere più solenne
quando ritorna annualmente la data di *Pasqua, la festa per eccellenza (1 Cor 5,
8), anniversario della morte e della risurrezione del Signore (cfr. 5, 7). Si
trovano così nel NT i primi lineamenti dei cicli liturgici cristiani, che si
svilupperanno nella Chiesa. Con ciò tutta la vita umana sarà messa in rapporto
con il mistero della salvezza entrata nella storia, vero tempo esemplare
sostituito infine al «tempo primordiale» delle mitologie pagane.
III. LA CONSUMAZIONE DEI SECOLI
1. L'escatologia cristiana.
- Tuttavia il tempo della Chiesa non è fine a se stesso. In rapporto al
VT esso fa già parte degli «ultimi tempi», ma è non di meno teso verso una
pienezza futura, orientato verso un termine che è il *giorno del Signore. Ora
che lo *Spirito è stato dato agli uomini, l’intera creazione aspira alla
rivelazione finale dei figli di Dio, alla *redenzione dei loro corpi (Rom 8,
18-24). Soltanto allora avrà termine l’opera di Cristo, che è l’alfa e l’omega,
«colui che è, che era e che viene» (Apoc 1, 8). In quel giorno, «secolo
presente» e tempo della Chiesa avranno fine insieme. Il primo, scomparendo in
una catastrofe definitiva, quando il settimo angelo verserà la sua coppa e una
voce griderà: «È fatto» (16, 17). Il secondo, giungendo alla sua totale
trasfigurazione, quando appariranno i cieli *nuovi e la nuova terra (21, 1). In
essi non ci sarà più né sole né luna per segnare il tempo come nel mondo antico
(21, 23), perché gli uomini saranno entrati nell’eternità di Dio.
2. Quando verrà la fine.
- Gesù non ha fatto conoscere la data in cui deve giungere questa
consumazione dei secoli, questa fine del mondo: essa costituisce un segreto noto
solo al Padre (Mc 13, 32 par.), e non spetta agli uomini conoscere i tempi ed i
momenti che egli ha fissato di sua propria autorità (Atti 1, 7). La Chiesa
nascente, nella sua ardente speranza della parusia del Signore, è vissuta
nell’impressione costante della sua prossimità: «Il tempo è breve» (1 Cor 7, 9);
«la salvezza è ora più vicina a noi di quando siamo venuti alla fede, la *notte
è avanzata, il *giorno è vicino» (Rom 13, 11 s). L'impressione era così forte
che, pur usando questo linguaggio, Paolo ha dovuto mettere i Tessalonicesi in
guardia contro ogni calcolo preciso della data fatidica (2 Tess 2, 1 ss).
Soltanto a poco a poco, sotto la pressione dell’esperienza, si è acquistata
coscienza dell’allungarsi degli «ultimi tempi». Ma l’imminenza del ritorno del
Signore è rimasta una componente essenziale nella psicologia della *speranza: il
figlio dell’uomo viene come un ladro notturno (Mt 24, 43; 1 Tess 5, 2; Apoc 3,
3). Il tempo della Chiesa, che si svolge sotto i nostri occhi, è anch’esso
connotato dai segni precursori della fine (2 Tess 2, 3-12; Apoc 6 - 19). Così il
NT completa la visione profetica della storia umana che il VT aveva abbozzata.
M. JOIN LAMBERT e P. GRELOT
→ astri 1.2 - compiere VT 3; NT 3 - culto NT III disegno di Dio - feste VT I; NT
II - figura VT II 1 - generazione - giorno del Signore - memoria - mondo VT I -
nuovo II - ora - parola di Dio VT II 1 c. 2 c - pienezza 1 - settimana -
tradizione.
TENDA (inizio)
→ arca d'alleanza - casa II 1 - feste - rimanere - tempio VT I 1 - testimonianza VT II 2.
→ luce e tenebre.
Le viscere (rahamîm),
plurale di intensità di rehem, il ventre materno, stanno a significare la
tenerezza: quella delle donne per il frutto della propria carne (1 Re 3, 26),
quella di tutti gli esseri umani per i loro figli o familiari (Gen 43, 30),
quella soprattutto di Dio stesso per le sue creature.
1. La tenerezza di Dio.
- Dio infatti è *padre (Sal 103, 13) e *madre (Is 49, 14 s; 66, 13). La sua
tenerezza, che trascende quella degli uomini, è creatrice di figli fatti a sua
immagine (Gen 1, 26; 5, 1-3); essa è gratuita (Dan 9, 18), sempre desta (Os 11,
8; Ger 31, 20; Is 63, 15), immensa (Is 54, 7; Bar 2, 27; Eccli 51, 3),
inestinguibile (Sal 77, 10; Neem 9, 19. 27. 31), nuova ogni mattino (Lam 3, 22
s), inalterabilmente fedele (Sal 25, 6; Lc: 1, 50), testimoniata a tutti senza
eccezione (Eccli 18, 12; Sal 145, 9), in particolare ai più diseredati, agli
orfani (Os 14, 4), e in grado di riunire i credenti fedeli anche oltre la morte
(2 Mac 7, 29). Questo amore che nulla riesce ad arrestare si manifesta con
benefici di ogni genere (Is 63, 7), col dono della vita (Sal 119, 77. 156),
della salvezza, della liberazione (Deut 30, 3; Zac 1, 16) e anche con le prove
educative (Lam 3, 32; Sap 11, 9). Ma è innanzitutto il *perdono a rivelare la
tenerezza infinita del Signore, la sua *misericordia (Is 55, 7; Dan 9, 9). Ogni
peccatore, sia esso l’intero popolo (Os 2, 25) o l’individuo (Sal 51, 3), può e
deve fare sempre affidamento su questa sconcertante bontà, non certo per peccare
di più (Eccli 5, 4-7), ma per ritornare al Padre che lo sta aspettando (Sal 79,
8; Lc 15, 20). «Dio tenero e grazioso» è il primo titolo rivendicato da Jahvè e
che gli riconosceranno, dopo l’Esodo (34, 6), il Deuteronomio (4, 31), i Salmi
(86, 15; 103, 8; 111, 4; 145, 8), i profeti (Gioe 2, 13; Giona 4, 2), i libri
storici (2 Cron 30, 9; Neem 9, 17. 31) e i sapienti (Eccli 2, 11; Sap 15, 1).
L'aggettivo «tenero», ad eccezione di una volta in cui viene applicato all’uomo
(Sal 112, 4), è perciò riservato a Dio (cfr. Sal 78, 38; 116, 5). Il fedele può
quindi appoggiarsi sul Signore, come un bimbo sulla madre (Sal 131) e questo
atteggiamento filiale sarà quello di Gesù, nel quale e per mezzo del quale si
rivela pienamente la tenerezza di Dio.
2. La tenerezza di Dio in e attraverso Cristo.
- In Gesù è apparsa la bontà di Dio (Lc l, 78; Tito 3, 4-7); in lui si è
rivelato il Padre delle compassioni (2 Cor 1, 3; Rom 12, 1), che ci ha offerto
la suprema testimonianza della sua tenerezza con la risurrezione di suo Figlio,
pegno della nostra (Ef 2, 4-6; 1 Piet 1, 3). Gesù, infatti, non soltanto
beneficia della tenerezza divina ma la fa sua e la effonde su di noi: simile a
Dio di fronte al suo miserabile gregge (Ez 34, 16), è mosso da pietà di fronte
alle pecorelle affamate di vangelo (Mc 6, 34) come il pane (8, 2); freme di
compassione di fronte ai più diseredati, lebbrosi (Mc 1, 41), ciechi (Mt 20,
34), madri o sorelle in lutto (Lc 7, 13; Gv 11, 33); la tenerezza di Gesù,
instancabile come quella di Dio, trionfa del peccato e si spinge fino al perdono
per i più sventurati di tutti: i peccatori (Lc 23, 34).
3. La tenerezza di Dio in e attraverso il cristiano.
- Dio vuol far penetrare questa sua tenerezza nel cuore degli uomini (Zac
7, 9; Sal 112, 1. 4; Eccli 28, 1-7). Poiché essi sono incapaci di
appropriarsene, la dona loro (Zac 12, 10) come regalo di fidanzamento (Os 2,
21), nella nuova alleanza suggellata tramite Gesù. La tenerezza di Dio, divenuta
quella del Figlio di Dio fatto uomo, può da questo momento diventare quella
degli uomini rinati figli di Dio in Gesù. S. Paolo non ha che un desiderio: fare
propri i sentimenti di Cristo (Fil 1, 8; Filem 20). Può quindi invitare i
cristiani a «rivestire le viscere compassionevoli» di Dio e di suo Figlio (Col
3, 12; Ef 4, 32; cfr. 1 Piet 3, 8). Gli evangelisti si esprimono con lo stesso
spirito; chiudere le proprie viscere ai fratelli, significherebbe escludersi
dall’amore del Padre (1 Gv 3, 17); rifiutare il perdono al proprio simile,
equivale a rifiutare a se stessi il perdono di Dio (Mt 18, 23-35). Tutti i figli
di Dio devono imitare il Padre loro (Lc 6, 36), avendo come lui un cuore mosso
da compassione per il prossimo (Lc 15, 20. 31), cioè per tutti gli uomini senza
eccezione, secondo l’amore esemplare, non solo affettivo ma anche effettivo, del
buon samaritano (Lc 10, 33). Solo così si introducono nel movimento della divina
tenerezza, che viene loro dal Padre, attraverso Gesù, grazie allo Spirito
d'amore (Fil 2, 1), e che li trasporta verso la felicità senza fine, al di là
del peccato e della morte, secondo la speranza espressa dalla preghiera
eucaristica del messale romano: «E noi, peccatori, che riponiamo la nostra
speranza nella tua inesauribile misericordia (tenerezza)...».
P. É. BONNARD
→ umore - bambino I - consolazione - latte 1 - madre II 1 - misericordia - padri
e Padre III 3 - perdono
→ Adamo II 1 - Satana.
→ prova-tentazione.
→ apparizioni di Cristo 1 - ascensione II 4 - fuoco VT I - giorno del Signore VT; NT I - gloria III 2 - luce e tenebre VT I 2, II 2; NT I 3 - Pentecoste II 1 - presenza di Dio VT II - risurrezione NT 1 2 - rivelazione - trasfigurazione - uragano - vedere VT I 1.
La vita dell’uomo
dipende interamente dalle ricchezze che la terra nasconde e dalla fertilità del
suo suolo; essa è la cornice provvidenziale della sua vita: «i cieli
appartengono a Jahvè, ma la terra egli l’ha data ai figli di Adamo» (Sal 115,
16). Tuttavia la terra non è che la cornice della vita dell’uomo: tra essa e lui
c’è un legame intimo. Egli è sorto da questa ‘adamah (Gen 2, 7; 3, 19; cfr. Is
64, 7; Ger 18, 6), da cui trae il nome: *Adamo. Tutte le antiche civiltà hanno
percepito quest’intimo legame tra la terra e l’uomo, al punto da esprimerlo con
l’immagine molto realistica della terra-madre o della terra-donna; anche
Israele. Dio utilizza appunto l’esperienza che l’uomo farà, nell’ambito
dell’alleanza, dei suoi legami con la terra, per portarlo a scoprire quelli che
attraverso di essa egli intende stabilire con lui. Non deve quindi sorprendere
vedere la terra e i suoi beni occupare un posto importante nella *rivelazione:
essa è associata all’uomo in tutta la storia della salvezza, dalle origini fino
all’attesa del regno futuro.
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL MISTERO DELLE ORIGINI
1. La terra, creazione e proprietà di Dio.
- «In principio», Dio creò il cielo e la terra (Gen 1, 1). La Bibbia
presenta due quadri successivi di questa genesi, anteriore all’uomo, ma a lui
ordinata. Da una parte Dio separa dalle acque il continente che chiama «terra»,
poi lo popola (1, 9-25); dall’altra parte la terra è un deserto vuoto e sterile
(2, 4-6) in cui Dio pianterà un giardino per collocarvi l’uomo. Ad ogni modo la
terra dipende interamente da lui; è cosa sua: «a lui appartiene la terra» (Sal
24, l; 89, 12; cfr. Lev 25, 23). Dio, essendo il creatore della terra, ha su di
essa un diritto assoluto: egli solo dispone dei suoi beni (Gen 2, 16 s),
stabilisce le sue leggi (Es 23, 10), la fa fruttificare (Sal 65; 104). Egli è il
suo Signore (Giob 38, 4-7; Is 40, 12. 21-26); essa ne è lo sgabello (Is 66, 1;
Atti 7, 49). Come tutta la creazione essa gli deve una lode (Sal 66, 1-4; 96;
98, 4; Dan 3, 74) che prende forma e linguaggio sulle labbra dell’uomo (Sal
104).
2. La terra, dominio dell’uomo.
- Dio ha tratto e fatto emergere l’uomo dalla terra, soffiando in lui
un alito di vita, per affidargli questa terra e renderlo padrone di essa. L’uomo
deve dominarla (1, 28 s); essa è come un giardino di cui egli è costituito
amministratore (2, 8. 15; Eccli 17, 1-4). Di qui quel legame intimo tra essi,
che lascia tante risonanze nella Scrittura. Da un lato l’uomo, col suo *lavoro,
imprime sulla terra il suo segno. Ma dall’altro la terra è una realtà vitale che
plasma in qualche modo la psicologia dell’uomo. Il suo pensiero ed il suo
linguaggio ricorrono continuamente ad immagini terrene: «Seminatevi la
giustizia, *mietete frutti di amore... Perché avete coltivato l’empietà?» (Os
10, 12 s). Isaia, nella sua parabola del coltivatore (Is 28, 23 ...), spiega le
prove necessarie alla *fecondità soprannaturale partendo dalle leggi della
coltura,mentre il salmista paragona il suo spirito angosciato ad una terra
assetata di Dio (Sal 63, 2; 143, 6).
3. La terra, maledetta a causa del peccato.
- Se il legame tra l’uomo e la terra è così stretto, donde viene dunque
l’ostilità tra l’uomo e la natura ingrata, che tutte le generazioni possono
successivamente sperimentare? La terra non è più per l’uomo un *paradiso. È
intervenuta una prova misteriosa, ed il *peccato ha viziato i loro rapporti.
Certo la terra rimane attualmente governata dalle stesse leggi provvidenziali
che Dio ha stabilito alle origini (Gen 8, 22), e quest’ordine del mondo rende
testimonianza al creatore (Rom 1, 19 s; Atti 14, 17). Ma il peccato ha causato
alla terra una vera *maledizione che le fa produrre «spine e cardi» (Gen 3, 17
s). Essa è un luogo di *prova, in cui l’uomo *soffre fino a che ritorni infine
alla zolla da cui è stato tratto (3, 19; Sap 15, 8). Continua così ad affermarsi
la solidarietà dell’uomo con la terra, sia nel bene che nel male.
II. IL POPOLO DI DIO E LA SUA TERRA
Legata all’uomo per le sue origini, la terra conserverà la sua funzione nella
rivelazione biblica: a modo suo essa rimane al centro della storia della
salvezza.
1. L’esperienza patriarcale.
- Tra *Babilonia, terra straniera e pericolosa di dove Dio trae Abramo (Gen 11,
31 - 12, 1), e l’Egitto, terra tentatrice e luogo di schiavitù donde Dio trarrà
la sua posterità (Es 13, 9...), i patriarchi troveranno in Canaan un luogo di
soggiorno che rimarrà per la loro posterità la terra promessa, «dove scorre
latte e miele» (Es 3, 8). Questa terra Dio di fatto la promette ad Abramo (Gen
12, 7). Sul suo esempio gli antenati di Israele la percorrono, prima che essa
diventi loro *eredità (Gen 17, 8). Essi vi sono ancora soltanto come *stranieri
in soggiorno provvisorio: li guidano unicamente i bisogni dei greggi. Ma più
ancora che pascoli o pozzi essi vi trovano il luogo dove si manifesta loro il
*Dio vivente. Le querce (Gen 18), i pozzi (26, 15 ss; cfr. 21, 3 s), gli *altari
costruiti (12, 7) sono *testimoni che conservano il ricordo di queste
manifestazioni. Taluni di questi luoghi portano il suo nome: Bethel, «*casa di
Dio» (28, 17 ss), Penuel, «*faccia di Dio» (32, 31). Con la grotta di Macpela
(23), Abramo inaugura il possesso giuridico di una piccola porzione di questa
terra promessa; Isacco, Giacobbe, Giuseppe vorranno riposarvi, facendo così di
Canaan la loro *patria.
2. Il dono della terra.
- La *promessa di Dio rinnovata (Gen 26, 3; 35, 12; Es 6, 4) ha conservato negli
Ebrei la *speranza della terra dov’essi si stabiliranno. Jahvè li fa uscire
dall’Egitto, terra straniera (cfr. Gen 46, 3); tuttavia, per entrare nella terra
promessa, è necessaria prima la spogliazione, «la splendida solitudine del
*deserto» (Deut 32, 10). Israele, il «popolo scelto fra tutte le nazioni che
sono sulla terra» (Deut 7, 6), non deve aver altro possesso che Dio. Purificato,
può conquistare allora, sotto la guida di *Giosuè, Canaan, «luogo in cui nulla
manca di ciò che si può avere sulla terra» (Giud 18, 10). Jahvè interviene in
questa conquista sicché, paradossalmente si può dire che sia stata ottenuta
«senza fatica». È lui che dà la terra al suo popolo (Sal 135, 12); essa è un
dono gratuito, una *grazia, come l’alleanza da cui deriva (Gen 17, 8; 35, 12; Es
6, 4. 8). Ed Israele si entusiasma, perché Dio non lo ha deluso. «È una terra
buona, ottima» (Num 14, 7; Giud 18, 9) che contrasta con l’aridità e la
monotonia del deserto; è il *paradiso terrestre ritrovato. Il popolo quindi si
attacca di colpo a questa «terra felice di torrenti e di fonti,... terra di
frumento e di orzo, di viti, di fichi, di melograni, terra di oliveti, di olio,
di miele, terra in cui il pane non è misurato» (Deut 8, 7 ss). Non l’ha forse da
Dio come una *eredità (Deut 15, 4), da quel Dio che solo egli vuole servire (Gios
24, 16 ss)? La terra ed i suoi beni saranno così per esso un ricordo permanente
dell’*amore e della *fedeltà di Dio alla sua alleanza. Chi possiede la terra
possiede Dio; infatti Jahvè non è più soltanto il Dio del deserto: Canaan è
diventato la sua dimora. A mano a mano che i secoli passano, lo si crede così
ben legato alla terra di Israele che David non ritiene possibile adorarlo in
terra straniera, appartenente ad altri dèi (1 Sam 26, 19), e Naaman porta con sé
a Damasco un po’ di terra di Israele per poter rendere culto a Jahvè (2 Re 5,
17).
3. Il dramma di Israele nella sua terra.
a) La legge della terra. - La terra promessa è stata
data a Israele come suo «dominio» (Deut 12, 1; 19,14), un dominio che deve
procurargli la felicità. Ma non senza sforzo da parte sua: il *lavoro è una
legge per chi vuole ricevere le benedizioni divine, ed i libri sacri non sono
teneri verso i pigri che «dormono al tempo della messe» (Prov 10, 5; 12, 11; 24,
30-34). Fittavolo di Dio su un suolo dove rimane «*straniero ed *ospite» (Lev
25, 23; Sal 119, 19), Israele deve inoltre soddisfare a diverse obbligazioni. In
primo luogo deve manifestare a Dio la sua *lode, il suo *ringraziamento, la sua
dipendenza. È questo il senso delle *feste agricole (Es 23, 14...) che associano
la sua vita cultuale ai ritmi stessi della natura: feste degli azzimi, della
messe, delle *primizie (Es 23, 16), del raccolto. In più, l’uso dei prodotti del
suolo è soggetto a regole precise: si deve lasciar spigolare il povero e lo
straniero (Deut 14, 29; 24, 19-21); per non esaurire il suolo, bisogna
abbandonarne i prodotti ogni sette anni (Es 23, 11). Questa legge della terra,
ad un tempo religiosa e sociale, indica l’autorità di Dio a cui il suolo
appartiene di diritto. La sua osservanza deve differenziare Israele dai
contadini pagani che lo circondano.
b) Tentazione e peccato. - Ora, proprio qui, Israele
si troverà alle prese con la *prova e la tentazione. Alla sua terra ha legato la
propria attività e la propria vita, imperniate su campo, casa e moglie (Deut 20,
5 ss). Divenuto possidente e sedentario, ridurrebbe facilmente il suo modo di
comprendere Dio alle dimensioni del proprio campo e della propria vigna. Israele
fa l’esperienza della terra-madre e della terra-donna, nel senso pagano di
queste immagini. Mentre impara dai Cananei le leggi della sua vita agricola,
tende ad adottarne i costumi religiosi, idolatrici, materialistici. E Jahvè
diventa sovente per esso un Baal (signore del paese) protettore e garante della
fertilità (Giud 2, 11). Di qui la reazione violenta di un Gedeone (6, 25-32), e
più tardi quella dei profeti, che fustigano «coloro che aggiungono casa a casa e
uniscono campo a campo» (Is 5, 8); essi metteranno in guardia contro i pericoli
della sedentarizzazione e della proprietà, in cui vedranno una fonte di furti
(cfr. 1 Re 21, 3- 19), di rapine (Mi 2, 2), di ingiustizie, di differenze di
classi, di arricchimento provocante l’orgoglio e la invidia (cfr. Giob 24,
2-12). Come potrebbe il Dio santo sopportare queste cose? Non è evidente che,
invece di trovare nella sua terra un segno della bontà di Dio per elevare il
proprio cuore fino a lui, Israele vi si è attaccato egoisticamente, come tutti
gli altri membri dell’umanità peccatrice? Questo appello al dialogo scaturisce
dall’immagine significativa utilizzata dai profeti della terra-sposa (Os 2, 5;
Is 45, 8; 62, 4; cfr. Cant 4, 12; 5, 1; 6, 2. 11) e non della terra-donna; la
terra che all’occorrenza serve a designare gli uomini, perché se Dio ne è lo
sposo, non è in virtù di essa, ma degli uomini (cfr. 2 Mac 5, 19). c)
Ammonizioni e castighi. - Ma Israele non è ancora in grado di capirlo.
Perciò, dinanzi a questa situazione, le ammonizioni dei profeti si uniscono alle
grida d'angoscia del Deuteronomio: «Guardati dal dimenticare Jahvè, tuo Dio!» (Deut
6, 12; 8, 11; 11, 16). Di fatto il popolo che fruisce di una terra meravigliosa
(6, 10 s) ha dimenticato donde gli veniva questo beneficio: «Perché Jahvè ha
amato i tuoi padri... ti ha fatto entrare in questo paese» (4, 37 s; 31, 20). A
quale altro scopo quel vagabondare attraverso i paesi stranieri, se non per
ricevere infine il dono della terra e per fare l’esperienza dell’amore divino?
«Ricordati del cammino che Jahvè ti ha fatto compiere durante quarant’anni nel
deserto per umiliarti... e conoscere il fondo del tuo cuore» (8, 2). Il diritto
di Dio sulla terra è esigente. L’uomo deve rimanere umile, fedele, obbediente
(5, 32 - 6, 25). Se agisce in tal modo, riceverà in ricompensa le *benedizioni:
«Saranno benedetti i prodotti del suo suolo... il frutto del suo bestiame» (28,
4...), perché «Jahvè ha cura di questo paese... i suoi occhi rimangono fissi su
di esso dall’inizio dell’anno fino al termine» (15, 12). *Maledizione, invece,
se Israele si svia (Deut 28, 33; Os 4, 3; Ger 4, 23-28)! Si intravvede persino
la peggiore delle minacce, la perdita della terra: «Sarete strappati dalla terra
dove stai per entrare» (Deut 28, 63). Questa minaccia che i profeti precisano
con forza (Am 5, 27; Os 11, 5; Ger 16, 18) si realizza infine come un duro
*castigo divino in mezzo alle angosce della guerra e dell’*esilio.
4. Promesse di un futuro.
- Tuttavia il castigo, per quanto radicale, non è mai considerato dai profeti
come assoluto e definitivo. Sarà una prova purificatrice, come lo fu quella del
deserto. Al di là sussiste una *speranza il cui oggetto riveste tutti i tratti
dell’esperienza passata: la terra vi ha ancora una parte capitale. Questa terra
sarà da prima quella di Israele, dove il *popolo nuovo sarà ricollocato da Jahvè.
Purificata ed integralmente sacralizzata (Ez 47, 13 - 48, 35; Zac 14), questa
«terra santa» (Zac 2, 16; 2 Mac 1, 7; Sap 12, 3) potrà essere chiamata, come la
sua capitale Gerusalemme, la *sposa di Jahvè (Is 62, 4). Ma oltre la terra
santa, la terra intera parteciperà con essa alla salvezza: religiosamente
accentrata su *Gerusalemme (Is 2, 2 ss; 66, 18-21; Sal 47, 8 ss), essa diventerà
la «terra di delizie» (Mal 3, 12) di una nuova umanità in cui le *nazioni si
congiungeranno ad Israele per ritrovare l’*unità primitiva. Più ancora, soltanto
le origini offrono una rappresentazione adeguata di questa terra trasfigurata. I
«cieli nuovi e la terra nuova» che Dio allora creerà (Is 65, 17) daranno al
soggiorno degli uomini i tratti del *paradiso primitivo, con la sua fertilità e
le sue meravigliose condizioni di vita (Am 9, 13; Os 2, 23 s; Is 11, 6-9; Ger
23, 3; Ez 47, 1 s; Gioe 4, 18; Zac 14, 6-11). In questa prospettiva il possesso
della terra assumerà quindi un significato escatologico, che è ancora accentuato
dal passaggio dal piano collettivo al piano individuale, iniziato in Is 57, 13;
60, 21, e sviluppato dai sapienti:«la terra» designa allora ad un tempo quella
promessa ad Abramo ed alla sua discendenza, ed un'altra realtà più alta, ma
ancora imprecisa; tale è il retaggio dell’uomo giusto che pone tutta la sua fede
in Dio (Sal 25, 13; 37, 3...). Innalzato progressivamente dalle preoccupazioni
terra terra ad aspirazioni spirituali più pure, Israele è maturo per ricevere il
messaggio di Gesù: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5, 4).
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ E LA TERRA
Gesù condivide la sovranità di Dio sulla terra (Col 1, 15 s; Ef 4, 10); senza di
lui non è stato fatto nulla (Gv 1, 3); «a lui è stato dato ogni potere in cielo
ed in terra» (Mt 28, 18). Tuttavia egli, uomo tra gli uomini, è legato alla
terra di Israele con tutte le fibre del suo essere.
1. Egli viene a rivelare agli uomini un messaggio di salvezza
universale; ma lo fa con il linguaggio di un paese e di una civiltà particolare.
I paesaggi e gli usi di Palestina hanno plasmato in qualche modo l’immaginazione
di colui che li ha creati. Nelle sue *parabole egli ricorre quindi sovente ad
immagini che li riflettono: immagine del *seminatore e della *messe, della
*vigna e del fico, della zizzania e del granello di senapa, del *pastore e delle
pecore, della pesca che si praticava sul lago... Senza contare gli insegnamenti
che egli dà in occasione degli spettacoli della vita: «Guardate gli uccelli del
cielo... ed i gigli» (Mt 6, 26 ss), le spighe strappate (Mt 12, l-8 par.), il
fico sterile (Mt 21, 19).
2. Ma al di là di queste immagini, Gesù fornisce un
insegnamento sull’atteggiamento dell’uomo di fronte alle realtà terrene. Con lui
l’aspirazione a possedere la terra diventa aspirazione ad entrare in possesso
dei beni spirituali (Mt 5, 4); il regno terrestre fa posto alla realtà da esso
prefigurata, il *regno dei Cieli (Mt 5, 3). Ormai bisogna saper Cristo e il
vangelo più dei propri campi (Mc 10, 29 s): le prospettive strettamente terrene
delle promesse profetiche sono quindi definitivamente superate. Non già che le
cose di questa terra in cui viviamo siano condannate in se stesse; ma sono
rimesse al loro vero posto, secondario in rapporto all’attesa del regno (Mt 6,
33). Se così è, tutto si stabilisce nell’ordine e la volontà di Dio è fatta
«sulla terra come in cielo» (Mt 6, 10). In questo modo paradossale Gesù
restituisce il suo valore sacro alla terra degli uomini, opera delle mani di
Dio, segno della sua *presenza e del suo amore. Se gli uomini se ne sono serviti
e se ne serviranno ancora per sviarsi da Dio, per «nascondervi il loro talento»
(Mt 25, 18), egli ne riprende la responsabilità con amore (cfr. Col l, 20) e la
rende capace di portare il suo mistero: giunge fino a prendere del *pane, frutto
della terra (Sal 104, 14), per lasciare quaggiù sotto un segno la presenza del
suo *corpo.
3. Egli è venuto a portare il *fuoco sulla terra (Lc 12, 49).
Per propagarlo ha trovato i suoi primi discepoli tra la massa dei contadini di
Galilea e di Transgiordania: essi sono «il sale della terra» (Mt 5, 13). Ecco
dunque il vangelo fortemente impiantato in un angolo particolare del nostro
universo, in quella stessa terra santa che Dio aveva dato ad Israele. Colà pure,
nella capitale *Gerusalemme, egli pianterà la sua croce per infiammare la terra
intera: allora, «innalzato da terra, trarrò a me tutti gli uomini» (Gv 12, 32).
In tal modo la terra santa rimarrà per sempre il centro geografico donde sarà
partita la salvezza per conquistare l’intera umanità.
II. IL NUOVO POPOLO E LA TERRA
1. Ormai il disegno di salvezza universale abbozzato alle origini è
restaurato. Dalla terra di Israele il vangelo si estenderà al mondo intero
secondo il piano indicato da Gesù: «Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in
tutta la Giudea e la Samaria, e fino ai confini della terra» (Atti 1, 8; cfr. Mt
28, 16 ss).
2. Con ciò Gesù opera il passaggio non soltanto dalla terra di
Israele, racchiusa nei suoi confini, all’universo, ma anche dalla terra
materiale a ciò che essa figurava: la Chiesa e il regno dei cieli. Il popolo del
VT aveva creduto alle promesse per entrare in possesso della terra di riposo;
ora, questa non era che una *figura della salvezza futura. Siamo noi, ora, ad
entrare, mediante la fede, nella vera terra del *riposo (Ebr 4, 9), in quella
dimora celeste dove Gesù risiede dopo la sua risurrezione e di cui abbiamo una
pregustazione nella sua Chiesa.
3. In questa nuova prospettiva si rivela il senso che ormai è
connesso con il *lavoro umano e con la liturgia. Sull’esempio di Cristo il nuovo
popolo è già penetrato con la speranza nella terra di riposo che gli era
destinata. Ciò comporta una trasformazione della sua attività terrena. Esso deve
ancora «dominare la terra», corre ancora il rischio di impantanarsi nella
felicità che essa gli procura (Lc 12, 16-34); ma, con gli occhi fissi su Cristo
salito al *cielo, deve ormai«pensare alle cose dell’alto, non a quelle della
terra» (Col 3, 2); non per disprezzo, ma per «usarne come se non ne usasse» (1
Cor 7, 31). Lo sguardo celeste del credente non nega, ma porta a compimento la
terra dandole il suo vero senso. Di fatto la preghiera liturgica dà una voce
alla terra, a tutto ciò che essa contiene, a ciò che essa permette di produrre
con il lavoro. Con ciò l’uomo solleva in qualche modo la terra e la fa salire a
Dio. Infatti il nuovo popolo non ha perduto le sue radici terrene; tutto al
contrario «regna sulla terra» (Apoc 5, 10), e finché compie quaggiù il suo
pellegrinaggio, non può rimanere sordo al «gemito» della creazione materiale che
attende anch'essa la salvezza (Rom 8, 22).
III. LA TERRA NELLA SPERANZA CRISTIANA
Di fatto la terra è associata alla storia del nuovo popolo, come fu
coinvolta un tempo nel dramma dell’umanità peccatrice. Anch’essa «attende» «la
rivelazione dei figli di Dio... con la *speranza d'essere anch’essa liberata
dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei
figli di Dio» (Rom 8, 19 ss). Solidale con l’uomo fin dalle origini, essa rimane
tale fino al termine; al pari di esso è oggetto di *redenzione, quantunque in
modo misterioso. Infatti la terra, nel suo stato attuale, «passerà» (Mi 24, 35
par.), «sarà consumata con le opere che racchiude» (2 Piet 3, 10). Ma per essere
sostituita dalla «nuova terra» (Apoc 21, 1) «che noi aspettiamo secondo la
promessa di Dio e in cui abiterà la giustizia» (2 Piet 3, 13).
G. BECQUET
→ Adamo I 1 - carne I 3 - casa II 1 - cielo - città - deserto - elezione VT I 3
c - eredità - esilio - esodo - feste VT I; NT II - Gerusalemme VT I 2 - Giosuè -
incredulità I 2 - latte 2 - mondo VT 0 - paradiso 2 - patria - popolo A II 4; B
II 3.4 - primizie I - rimanere - regno - riposo II 1 - seminare 1 1 - vita III 1
- vite-vigna.
TESTA (inizio)
L'interesse di questa espressione deriva
in gran parte dal suo uso cristologico nelle lettere paoline. Per descrivere la
sovranità di *Gesù Cristo, Paolo non teme di giocare sulla complessità di questo
tema e di utilizzare le diverse applicazioni di questa immagine.
1. Cristo testa d’angolo.
- Al di là del significato specifico dell’ebr. ro'š e del gr. kefalè, che
indicano la testa di un uomo o di un animale, al di là della loro utilizzazione
per descrivere degli atteggiamenti e dei sentimenti di gioia, di cordoglio o di
facezia, si rileva un uso metaforico nell’applicazione di questa parola a tutto
ciò che, nel mondo inanimato, si presenta per primo (inizio di una strada, di un
anno, facciata di una casa), il meglio o il più alto (cima di un albero, di una
montagna, apice di un monumento: Gen 11, 4; Zac 4, 7). Probabilmente in
quest’ultimo senso si deve appunto interpretare l’immagine del Sal 118, 22: «La
pietra respinta dai costruttori è divenuta testa d'angolo». Ora, questa immagine
viene ripresa spesso dagli autori del NT, che l’applicano a Cristo: non è forse
egli la pietra principale che corona il nuovo *tempio, ne assicura la coesione e
gli conferisce un senso (Mt 21, 42.; Atti 4, 11; 1 Piet 2, 7; Ef 2, 20)?
Tuttavia alcuni autori preferiscono vedere in questa pietra d'angolo il
fondamento su cui poggia tutto l’edificio.
2. Cristo, testa dell’universo.
- Secondo un altro uso metaforico, la parola testa viene applicata agli
uomini che camminano avanti (cfr. la testa contrapposta alla coda in Deut 28,
13. 43 s; Is 9, 13) e soprattutto ai capi (Es 6, 14; 1 Sam 15, 17; Giob 29, 25;
Dan 7, 6; Apoc 12, 3). Questo significato si ritrova in 1 Cor 11, 3: «La testa
di ogni uomo è Cristo, la testa della donna è l’uomo, e la testa di Cristo è
Dio»; sempre a questo significato di capo si riferiscono le allusioni al primato
di Cristo su tutti gli esseri (1 Cor 11, 3; Col 2, 10; cfr. Ef 1, 10. 22).
3. Cristo, testa della Chiesa.
- Quando Cristo viene definito da Paolo testa del corpo, cioè della Chiesa (Col
1, 18; 2, 19; Ef 1, 22 s; 4, 15), pare che questa rappresentazione, in cui la
testa costituisce d'altra parte, non già un membro tra gli altri, bensì un
principio di vita, di coesione e di crescita (Col 2, 19; Ef 4, 15 s), implichi
un’evoluzione dell’ecclesiologia paolina. Secondo 1 Cor, infatti, la Chiesa,
mediante il battesimo e l’eucaristia, si unisce a Cristo in modo da diventarne
il *corpo. Tuttavia, all’interno di questa unità, esiste una reale differenza
tra Cristo, già pervenuto al termine, che esercita la propria azione
vivificante, e il complesso dei cristiani che da lui ricevono tutto. Senza
dubbio è stato per tener conto di questa differenza nell’unità che Paolo è
giunto a vedere in Cristo la testa del corpo, come in Ef 5, 23 vede in Cristo lo
Sposo, cioè la testa, della Chiesa.
4. Legami tra queste rappresentazioni.
- Tuttavia Paolo ha spesso collegato queste diverse rappresentazioni di Cristo,
testa d'angolo del nuovo tempio; testa dell’universo, testa del corpo della
Chiesa. Il primo appellativo, il più antico senza dubbio e il più tradizionale
(Atti 4, 11; Mt 21, 42 par.), si trova specialmente in Ef, associato al terzo
(cfr. il parallelismo di vocabolario tra la descrizione del tempio in Ef 2, 20 s
e quella del corpo in Ef 4, 16. Si noti in quest’ultimo versetto, nonché al v.
12, l’uso della parola costruzione). Infine, non è per caso che Cristo appare
nelle lettere paoline al tempo stesso testa della Chiesa e testa dell’universo.
Come abbiamo visto, tra queste due rappresentazioni non c’è equivalenza e
soltanto la Chiesa è quella parte di universo che può onerarsi del titolo di
corpo di Cristo e di sposa di Cristo: quindi Cristo ne è la testa in un senso
privilegiato. Tuttavia, ancor prima di accettare di unirsi alla Chiesa e di
lasciarsi quindi trasformare in corpo di Cristo, in sposa immacolata e in tempio
santo, l’universo, che lo voglia o no, si trova soggetto al primato di colui
che, avendo ricondotto tutte le cose sotto un solo capo (Ef 1, 10), vuole
purificarle, vivificarle sotto una sola testa e assicurare personalmente la
coesione di questo tempio santo.
P. LA MARCHE
→autorità - Chiesa V 1 - corpo di Cristo III 2 - mondo II 2 - pietra 4 -
Sposo-sposa NT l.
→ addii - alleanza NT.
VECCHIO
TESTAMENTO
I. LA TESTIMONIANZA DEGLI UOMINI
Testimoniare significa attestare la realtà di una fatto, dando alla
propria affermazione tutta la solennità che le circostanze esigono. Un
*processo, una contestazione, sono la cornice naturale della testimonianza.
Taluni oggetti possono svolgere questo ufficio in virtù di una convenzione: così
il tumulo di Galaad, per il trattato tra Giacobbe e Labano (Gen 31, 45-52), ed i
pegni ricevuti da Tamar quando è accusata di cattiva condotta (38, 25). Ma la
Bibbia si occupa soprattutto della testimonianza degli uomini, sottolineandone
la gravità. La legge ne regola l’uso: non c’è possibilità di condanna senza
deposizione di testimoni (Num 5, 13); per prevenire l’errore o la malevolenza,
si esige che ce ne siano almeno due (Num 35, 30; Deut 17, 6; 19, 15; cfr. Mt 18,
16); nelle cause capitali essi, avendo la responsabilità della condanna, devono
essere i primi ad eseguirla (Deut 17, 7; cfr. Atti 7, 58). Ora la *menzogna può
insinuarsi in questo atto in cui l’uomo impegna la sua *parola: i salmisti si
lamentano delle false testimonianze che li opprimono (Sal 27, 12; 35, 11), e si
conoscono processi tragici in cui esse hanno la parte essenziale (1 Re 21,
10-13; Dan 13, 34-41). Già nel decalogo la falsa testimonianza è severamente
proibita (Deut 5, 20); il Deuteronomio la sanziona secondo il principio del
taglione (Deut 19, 18 s); l’insegnamento dei sapienti la stigmatizza (Prov 14,
5. 25; 19, 5. 9; 21, 28; 24, 28; 25, 18), perché è una cosa che Dio abbomina (Prov
6, 19).
II. LA TESTIMONIANZA DI DIO
1. Dio è testimone.
- Al di sopra della testimonianza degli uomini c'è quella di Dio, cui
nessuno potrebbe contraddire. In occasione del matrimonio egli è testimone tra
l’uomo e la donna della sua giovinezza (Mal 2, 14). Così pure è garante degli
impegni umani contratti dinanzi a lui (Gen 31, 53 s; Ger 42, 5). Egli può essere
preso a testimone in un'affermazione solenne (1 Sam 12, 5; 20, 12). È il
testimone supremo a cui si può fare appello per rifiutare le false testimonianze
degli uomini (Giob 16, 7 s. 19).
2. La testimonianza di Dio nella legge è per mezzo dei profeti.
- Tuttavia la testimonianza di Dio è intesa soprattutto in un altro
senso, strettamente legato alla dottrina della *parola. In primo luogo, Dio
rende testimonianza a se stesso, quando rivela a Mosè il significato del proprio
*nome (Es 3, 14) o quando attesta di essere il Dio unico (Es 20, 2 s).
Testimonianza prestata sotto *giuramento (Is 45, 21-24) che sta a fondamento del
monoteismo di Israele. Ma Dio dà anche testimonianza dei comandamenti racchiusi
nella *legge (2 Re 17, 13; Sal 19, 8; 78, 5. 56; 119, passim). Per questo le
tavole della legge sono chiamate la testimonianza (Es 25, 16... 31, 18); esse,
collocate nell’arca dell’alleanza, ne fanno l’arca della testimonianza (25, 22;
40, 3. 5. 21 s), ed il tabernacolo diventa la dimora della testimonianza (38,
21; Num 1, 50-53). C’è infine una testimonianza divina di cui sono portatori i
profeti. Si tratta qui di un'attestazione solenne (cfr. Is 43, 10 LXX), che ha
per cornice il *processo intentato da Dio al suo popolo infedele (cfr. Sal 50,
7). Dio, testimone cui nulla sfugge, denunzia tutti i peccati di Israele (Ger
29, 23); si fa testimone a carico (Mi 1, 2; Am 3, 13; Mal 3, 5) per ottenere la
conversione dei peccatori.
III. I TESTIMONI DI DIO
Come nei patti umani, gli impegni di Israele verso Dio sono attestati
da oggetti-*segni, che testimoniano contro il popolo in caso di infedeltà: così
il libro della legge (Deut 31, 26) ed il cantico di Mosè (Deut 31, 19 ss). Il
cielo e la stessa terra potrebbero rendere questa testimonianza (Deut 4, 26; 31,
28). C'è tuttavia una missione di testimone che soltanto gli uomini possono
svolgere. Ma bisogna che Dio ve li chiami. È il caso dei *profeti. È pure il
caso di David, che Dio ha stabilito come testimone *fedele (Sal 89, 37 s; cfr. 1
Sam 12, 5), testimone per le *nazioni (Is 55, 4). È il caso di tutto il popolo
di Israele, il quale è incaricato quaggiù di testimoniare per Dio dinanzi agli
altri popoli, di attestare che egli solo è Dio (Is 43, 10 ss; 44, 8), in
opposizione agli idoli i quali non possono produrre testimoni in loro favore
(43, 9). Le infedeltà di Israele a questa vocazione di popolo-testimone non
eliminano la ragion d'essere della sua partecipazione; esso deve trovare in
quella vocazione una fonte di fiducia (44, 8).
NUOVO TESTAMENTO
I. DALLA TESTIMONIANZA DEGLI UOMINI ALLA TESTIMONIANZA DI DIO
Il NT, come il VT, condanna la falsa testimonianza di cui si trovano
ancora esempi nei processi di Gesù (Mt 26, 59-65 par.) e di Stefano (Atti 6, 11
ss). Per la sua disciplina interna la comunità cristiana riprende la regola dei
due o tre testimoni, formulata dal Deuteronomio (Mt 18, 16; 2 Cor 13, l; 1 Tim
5, 19). Ma la nozione di testimonianza si allarga soprattutto in una direzione
meno giuridica: all’uomo buono, coloro che lo conoscono rendono una buona
testimonianza. Così i Giudei nei confronti di Gesù (Lc 4, 22), di Cornelio (Atti
10, 22), di Anania (22, 12); la comunità cristiana nei confronti dei primi
diaconi (6, 3), di Timoteo (16, 2), di Demetrio (3 Gv 12; cfr. 3. 6), dello
stesso Paolo (1 Tess 2, 10); e Paolo, dal canto suo, nei confronti delle chiese
di Corinto (2 Cor 8, 3) e di Galizia (Gal 4, 15). Qui la testimonianza assume un
netto valore religioso. La nostra vita cristiana non fa di noi degli isolati. Si
svolge alla presenza di una moltitudine di testimoni, che ci incoraggiano al
fervore; non soltanto i viventi (1 Tim 6, 12), ma coloro che ci hanno preceduti
nella fede (Ebr 12, 1 ss). Dio stesso è il primo di questi testimoni: accorda
buona testimonianza sia ai santi del VT (Atti 13, 22; Ebr 11, 2. 4 s. 39), sia
ai convertiti recenti venuti dal paganesimo (Atti 15, 8).
II. LA TESTIMONIANZA DI GESÙ
Attorno a Gesù si accentra ora il problema della testimonianza, nel senso che
aveva nella legge e nella predicazione profetica. Gesù è il testimone fedele per
eccellenza (Apoc 1, 5; 3, 14); egli è venuto nel mondo per rendere testimonianza
alla verità (Gv 18, 37). Testimonia ciò che ha *visto e sentito presso il Padre
(3, 11. 32 s); testimonia contro il *mondo malvagio (7, 7), e testimonia ciò che
è egli stesso (8, 13 s). La sua *confessione dinanzi a Pilato è una
testimonianza suprema (l Tim 6, 13) che rende manifesto il disegno divino della
salvezza (2, 6). Ora questa testimonianza, contestata dal *mondo incredulo (Gv
3, 11; 8, 13), possiede giuridicamente un valore incontestabile, perché altre
testimonianze l’appoggiano: testimonianza di Giovanni Battista, che riassume
tutta la sua missione (1, 6 ss. 15. 19; 3, 26 ss; 5, 33-36); testimonianza delle
*opere, compiute da Gesù per ordine del Padre (5, 36; 10, 25); testimonianza del
Padre stesso (5, 31 s. 37 s; 8, 16 ss), manifestata chiaramente da quella delle
*Scritture (5, 39; cfr. Ebr 7, 8. 17; Atti 10, 43; 1 Piet 1, 11), e che dev’essere
accolta se non si vuol fare di Dio un mentitore (1 Gv 5, 9 ss). A tutto questo
si aggiunge, nell’esperienza cristiana, la testimonianza dell’*acqua battesimale
e del *sangue eucaristico, che attestano nel loro linguaggio di segni la stessa
cosa attestata in noi dallo Spirito Santo (1 Gv 5, 6 ss). Infatti lo Spirito che
ci è dato rende testimonianza a Gesù (Gv 15, 26) e testimonia pure che noi siamo
figli di Dio (Rom 8, 6). Tale è il fascio delle testimonianze che corroborano
quella di Gesù. Chi le accetta, diventa docile alla testimonianza di Gesù ed
entra nella vita di fede.
III. I TESTIMONI DI GESÙ
1. La testimonianza apostolica.
- Per giungere agli uomini la testimonianza assume una forma concreta: la
*predicazione del *vangelo (Mt 24, 14). Per portarla a tutto il mondo gli
*apostoli sono costituiti testimoni di Gesù (Atti 1, 8): dovranno attestare
solennemente dinanzi agli uomini tutti i fatti avvenuti dal battesimo di
Giovanni fino alla ascensione di Gesù, e specialmente la *risurrezione che ha
consacrato la sua sovranità (1, 22; 2, 32; ecc.). La missione di Paolo viene
definita negli stessi termini: sulla via di Damasco egli è stato costituito
testimone di Cristo dinanzi a tutti gli uomini (22, 15; 26, 16); in terra pagana
egli attesta dovunque la risurrezione di Gesù (1 Cor 15, 15), e la fede nasce
nelle comunità con l’accettazione di questa testimonianza (2 Tess 1, 10; 1 Cor
1, 6). Stessa identificazione del vangelo e della testimonianza negli scritti
giovannei. Il racconto evangelico è un’attestazione data da un testimone oculare
(Gv 19, 35; 21, 24); ma la testimonianza, ispirata dallo Spirito (Gv 16, 13),
verte pure sul *mistero che i fatti nascondono: il *mistero del Verbo di vita
venuto nella carne (l Gv 1, 2; 4, 14). I credenti che hanno accettato questa
testimonianza apostolica hanno ormai in sé la testimonianza stessa di Gesù, che
è la profezia dei tempi nuovi (Apoc 12, 17; 19, 21). Perciò i testimoni
incaricati di trasmetterla riprendono i tratti dei profeti antichi (11, 3-7).
2. Dalla testimonianza al martirio.
- La funzione dei testimoni di Gesù è messa ancor più in evidenza quando devono
rendere testimonianza dinanzi alle autorità ed ai tribunali, secondo la
prospettiva che Gesù apriva già ai Dodici (Mc 13, 9; Mt 10, 18; Lc 21, 13 s).
Allora l’attestazione assume un carattere solenne, ma prelude sovente alla
*sofferenza. Di fatto, se i credenti sono *perseguitati, si è «a motivo della
testimonianza di Gesù» (Apoc 1, 9). Stefano per primo ha suggellato la sua
testimonianza con il suo sangue versato (Atti 22, 20). La stessa sorte attende
quaggiù i testimoni del vangelo (Apoc 11, 7): quanti saranno sgozzati «per la
testimonianza di Gesù e la parola di Dio» (6, 9; 17, 6)! *Babilonia, la potenza
nemica che si accanisce contro la città celeste, si inebrierà del sangue di
questi testimoni, di questi martiri (17, 6). Ma riporterà soltanto una vittoria
apparente. In realtà saranno essi ad aver vinto, con Cristo, il *diavolo,
«mediante il sangue dell’agnello e la parola della loro testimonianza» (12, 11).
Il *martirio è la testimonianza della fede consacrata dalla testimonianza del
sangue.
M. PRAT e P. GRELOT
→ altare 1 - amen - apostoli - apparizioni di Cristo 7 - arca d'alleanza II -
confessione 0; VT 1; NT 1 - esempio - Giovanni Battista - giuramento - libro II
- martire - menzogna I 1 - missione - mondo NT III 2 - Paraclito 2 -
persecuzione - predicare II 2 a - processo - scisma VT 2; NT 2 - Spirito di Dio
VT II.
Il VT viene
caratterizzato sovente come legge del timore ed il NT come legge di amore.
Formula approssimativa, che lascia fuori campo molte sfumature. Se il timore
rappresenta nel VT un valore importante, la legge d’amore vi ha già le sue
radici. D’altra parte il timore non è abrogato dalla nuova legge, in quanto esso
costituisce il fondamento di ogni atteggiamento religioso autentico. Nei due
Testamenti timore ed *amore si intrecciano quindi realmente, benché
diversamente. È più importante distinguere il timore religioso dalla paura che
ogni uomo può provare di fronte ai flagelli della natura od agli attacchi del
nemico (Ger 6, 25; 20, 10). Soltanto il primo ha posto nella rivelazione
biblica.
I. DALLA PAURA UMANA AL TIMORE DI DIO
Dinanzi ai fenomeni grandiosi, anormali, terrificanti, l’uomo prova
spontaneamente il sentimento di una presenza che lo trascende e dinanzi alla
quale si sprofonda nella sua piccolezza. Sentimento ambiguo, in cui il sacro
appare sotto l’aspetto del tremendum, senza rivelare ancora la sua natura
profonda. Nel VT questo sentimento è equilibrato dalla conoscenza autentica del
*Dio vivente, che manifesta la sua grandezza terribile attraverso i *segni di
cui la sua creazione è piena. Il timore di Israele dinanzi alla teofania del
Sinai (Es 20, 18 s) ha innanzitutto come causa la maestà del Dio unico,
precisamente come il timore di Mosè dinanzi al roveto ardente (Es 3, 6) e quello
di Giacobbe dopo la sua visione notturna (Gen 28, 17). Tuttavia ad esso, quando
nasce in occasione di segni cosmici che evocano l’ira divina (*uragano,
terremoto), si mescola un terrore d'origine meno pura. Appartiene allo scenario
abituale del *giorno di Jahvè (Is 2, 10. 19; cfr. Sap 5, 2). È ancora il terrore
delle guardie del sepolcro al mattino di Pasqua (Mt 28, 4). Invece il timore
riverenziale che si traduce con l’*adorazione è la reazione normale dei credenti
dinanzi alle manifestazioni divine: quello di Gedeone (Giud 6, 22 s), di Isaia
(6, 5), o degli spettatori dei miracoli compiuti da Gesù (Mc 6, 51 par.; Lc 5,
9-11; 7, 16) e dagli apostoli (Atti 2, 43). Il timore di Dio comporta quindi
modalità diverse, che concorrono, ciascuna al suo livello, ad avviare l’uomo
verso una *fede più profonda.
II. TIMORE DI DIO E FIDUCIA IN DIO
Nella vita autentica di fede il timore trova d'altronde l’equilibrio grazie ad
un sentimento contrario: la *fiducia in Dio. Anche quando *appare agli uomini,
Dio non vuole terrorizzarli. Li rassicura: «Non temere!» (Giud 6, 23; Dan 10,
12; cfr. Lc l, 13. 30), frase ripresa da Cristo che cammina sulle acque (Mc 6,
50). Dio non è un potente geloso del suo potere; circonda gli uomini di una
*provvidenza paterna che veglia sui loro bisogni. «Non temere!» dice ai
patriarchi notificando loro le sue *promesse (Gen 15, 1; 26, 24); la stessa
espressione accompagna le promesse escatologiche rivolte al popolo sofferente (Is
41, 10. 13 s; 43, 1. 5; 44, 2) e le promesse di Gesù al «piccolo gregge» che
riceve il regno dal Padre (Lc 12, 32; Mt 6, 25-34). In termini simili Dio
conforta i profeti affidando loro una dura missione: essi incontreranno
opposizione negli uomini, ma non devono temerli (Ger 1, 8; Ez 2, 6; 3, 9; cfr. 2
Re 1, 15). Così la fede in lui è la fonte di una sicurezza che elimina persino
la semplice paura umana. Quando Israele in guerra deve affrontare il nemico, il
messaggio divino è ancora: «Non temere!» (Num 21, 34; Deut 3, 2; 7, 18; 20, 1;
Gios 8, 1). Quando il pericolo è più grave, Isaia ripete la stessa cosa ad Achaz
(Is 7, 4) e ad Ezechia (Is 37, 6). Agli apostoli, che la persecuzione attende,
Gesù ripete di non temere neppure coloro che uccidono il corpo (Mt 10, 26-31
par.). Una lezione ripetuta così spesso finisce per passare nella vita. Forti
della loro fiducia in Dio, i veri credenti eliminano ogni timore dal loro cuore
(Sal 23, 4; 27, 1; 91, 5-13).
III. TIMORE DEI CASTIGHI DIVINI
C'è tuttavia un aspetto di Dio che può ispirare agli uomini un timore
salutare. Nel VT egli si è rivelato come *giudice, e la proclamazione della
*legge sinaitica è accompagnata dalla minaccia di sanzioni (Es 20, 5 ss; 23,
21). Lungo tutta la storia le disgrazie di Israele sono presentate dai profeti
come altrettanti segni provvidenziali che riflettono il corruccio di Dio: serio
motivo per tremare dinanzi a lui! In questo senso la legge divina appare
veramente come una legge di timore. Così pure, ricordando la minaccia dei
*castighi divini, il Sal 2 invita le nazioni straniere a sottomettersi all’unto
di Jahvè (Sal 2, 11 s). Questo aspetto della dottrina non potrebbe essere
eliminato, perché anche il NT dà un posto importante all’*ira e al *giudizio di
Dio. Ma dinanzi a questa prospettiva terribile devono tremare soltanto i
peccatori ostinati (cfr. *indurimento) nel male (Giac 5, 1; Apoc 6, 15 s). Per
gli altri, che si riconoscono profondamente peccatori (cfr. Lc 5, 8), ma hanno
fiducia nella *grazia giustificante di Dio (Rom 3, 23 s), il NT ha inaugurato un
atteggiamento nuovo: non più un timore di schiavo, ma uno spirito di figlio
adottivo di Dio (Rom 8, 15), una disposizione d'*amore interiore che elimina il
timore, perché il timore suppone un castigo (1 Gv 4, 18); e colui che ama non ha
più paura del castigo, anche se il suo cuore lo condannasse (1 Gv 3, 20 s). In
questo senso il NT è una legge d'amore. Ma al tempo del VT c’erano già uomini
che vivevano sotto la legge d'amore, ed anche adesso ve ne sono ancora di quelli
che non hanno superato la legge del timore.
IV. TIMORE DI DIO E RELIGIONE
Tutto sommato, il timore di Dio può essere inteso in un senso abbastanza largo
ed abbastanza profondo per identificarsi con la religione semplicemente. Il
Deuteronomio lo associa già in modo caratteristico all’amore di Dio,
all’osservanza dei suoi comandamenti, al suo servizio (Deut 6, 2. 5. 13), mentre
la 11, 2 vi vede uno dei frutti dello *spirito di Dio. Esso, dicono i sapienti,
sta all’inizio della *sapienza (Prov 1, 7; Sal 111, 10), ed il Siracide ne
enuncia una litania che mostra in esso l’equivalente pratico della *pietà (Eccli
1, 11-20). A questo titolo esso merita la beatitudine che gli attribuiscono
parecchi salmi (Sal 112, l; 128, 1), perché «la *misericordia di Dio si estende
di età in età su coloro che lo temono» (Lc 1, 50; cfr. Sal 103,17); il tempo del
*giudizio, che farà tremare di paura i peccatori, sarà pure il tempo in cui Dio
«ricompenserà coloro che temono il suo nome» (Apoc 11, 18). Il NT, pur
conservando talvolta alla parola una sfumatura di timore riverenziale in cui non
manca del tutto la prospettiva del Dio-giudice (2 Cor 7, l; Ef 5, 21; Col 3,
22), specialmente se si tratta di persone che «non temono Dio» (Lc 18, 2. 4; 23,
40), la intende piuttosto in quel senso profondo che ne fa una *virtù
essenziale: «Dio non mostra parzialità per nessuno, ma in ogni nazione colui che
lo teme e pratica la giustizia gli è accetto» (Atti 10, 34 s). Il timore così
inteso è la via della salvezza.
P. AUVRAY e P. GRELOT
→ Abramo I 2 - adorazione - angoscia - beatitudine VT I 2 - fiducia - pietà VT
2; NT 2 - preoccupazioni 2 - presenza di Dio VT II - santo VT II - sapienza VT I
3.
→ figura.
→ Babele-Babilonia 5.6 - orgoglio - potenza III 1.
→ città VT 2 - penitenza-conversione NT II.
→ risurrezione NT I 1.2 - sepoltura.
→ legge.
→ amico 1 - delusione III - pasto I - tristezza NT 2.
L'esistenza di
una tradizione è un fatto comune a tutte le società umane. Ciò che assicura la
loro continuità spirituale è il fatto che vi si trasmettono in modo stabile
idee, usanze, ecc. da una generazione all’altra (traditio = trasmissione).
Specialmente dal punto di vista religioso, credenze, riti, formulari di
preghiera o di canto, ecc., sono trasmessi con una cura tutta particolare. Nelle
società che circondano il mondo della Bibbia, la tradizione religiosa è
d’altronde inserita in tutto l’insieme delle tradizioni umane che costituiscono
la civiltà. Tuttavia il vocabolario moderno uso il termine tradizione in due
sensi diversi: designa con esso ora un contenuto trasmesso di età in età (ad es.
la tradizione cultuale dell’ Egitto), ora un modo di trasmissione,
caratterizzato dalla sua fortissima stabilità, in cui la scrittura svolge
soltanto una funzione secondaria, anzi talvolta nulla (in tal senso la civiltà
sumerica può essere qualificata come tradizionale, e più ancora le civiltà
puramente orali). In rapporto a questo fatto generale la tradizione propria alla
rivelazione biblica presenta a un tempo somiglianze e particolarità originali.
VECCHIO TESTAMENTO
I. TRASMISSIONE DI UN DEPOSITO SACRO
Sotto la legge antica, non c’è dubbio che esiste in Israele una
trasmissione di un deposito sacro, quindi una tradizione. Conformemente allo
statuto particolare che è allora quello del *popolo di Dio, questo deposito
abbraccia tutti gli aspetti della vita; sia i ricordi storici che le credenze
che vi si fondano, sia le forme della preghiera che la sapienza regolatrice
della vita pratica, sia i riti e gli atti cultuali che le usanze ed il diritto.
Appunto la trasmissione di questo deposito conferisce ad Israele la sua
fisionomia propria e gli assicura la continuità spirituale dall’epoca
patriarcale sino alle soglie del NT. Questo deposito è sacro non soltanto perché
è un legato delle generazioni passate, come in tutte le tradizioni umane; ma in
primo luogo perché è di origine divina: alla base delle credenze c’è una
*rivelazione data ad Israele dagli inviati di Dio; alla base del diritto e degli
usi da esso regolati, ci sono prescrizioni positive enunciate in nome di Dio dai
depositari delle sue volontà. Questi elementi positivi dovuti alla rivelazione
non escludono evidentemente taluni elementi più antichi, desunti dall’ambiente
orientale ed assunti dalla stessa rivelazione; ma questa sola crea il carattere
sacro della tradizione che da essa dipende. Così definita nel suo rapporto con
la rivelazione, che ne costituisce la originalità, la tradizione del popolo di
Dio combina due caratteri complementari. Da una parte, la stabilità: i suoi
elementi fondamentali sono fissi, in materia di credenze, di *diritto, di *culto
(monoteismo, dottrina dell’ *alleanza, usi provenienti dai patriarchi e legge
mosaica, ecc.). Dall’altra parte, il progresso: la rivelazione stessa si
sviluppa, a misura che nuovi inviati divini completano l’opera dei loro
predecessori in funzione dei bisogni concreti del loro tempo. Questo progresso
segue naturalmente il cammino della storia, ma non è soggetto ai soli casi
fortuiti dell’evoluzione culturale, come avviene nelle altre tradizioni
religiose, dove è di regola il sincretismo. Anche qui la tradizione di Israele
afferma la sua originalità.
II. MODO DI TRASMISSIONE
1. Forme letterarie ed ambienti di vita.
- Questo deposito sacro, per trasmettersi, assume necessariamente forma
letteraria: racconti, leggi, sentenze, inni, rituali, ecc., sono i suoi mezzi di
espressione. Ora tali forme sono anch’esse determinate dall’uso e, a questo
titolo, tradizionali. Per una gran parte corrispondono ai generi letterari usati
nelle civiltà dei popoli vicini (Canaan, Mesopotamia, Egitto). Tuttavia vi si
riflettono le particolarità della tradizione dottrinale di Israele: la
letteratura biblica ha il suo modo proprio di trattare taluni generi comuni,
come le *leggi o gli oracoli profetici; possiede un suo fondo originale di
espressioni, di schemi, cui ricorrono più o meno tutti gli autori; ha i suoi
generi prediletti, adatti al messaggio che deve trasmettere. Lo studio di questi
generi è quindi indispensabile all’intelligenza della stessa tradizione, perché
permette di cogliere al vivo la storia della sua redazione. Esso permette pure
di vedere per quali canali la tradizione si trasmette attraverso le generazioni.
Di fatto le forme che assume sono in stretto rapporto con gli ambienti che la
portano e con le funzioni che svolge nella vita del popolo di Dio: insegnamento
dei *sacerdoti, custodi della legge e del culto; predicazione dei *profeti;
*sapienza pratica degli scribi... Ogni ambiente ha le sue proprie tradizioni ed
i suoi generi preferiti; ma si notano pure numerose interferenze, dovute ai
contatti tra i diversi ambienti ed all’unità fondamentale della stessa
tradizione israelitica. Al punto di partenza, i materiali tradizionali sono
trasmessi per via orale, in forme adatte a questo modo di trasmissione: racconti
religiosi legati ai santuari od alle feste; formulari giuridici; rituali, inni,
formulari di preghiera; discorsi sacerdotali o profetici; sentenze sapienziali,
ecc. Infine, nella cornice di questa tradizione orale, nascono testi scritti che
ne sono in gran parte alimentati. Così la tradizione biblica si cristallizza a
poco a poco nelle *Scritture sacre, che col tempo assumono una crescente
importanza: composte sotto l’influsso dello *Spirito Santo, esse forniscono al
popolo di Dio la regola divina della sua fede e della sua vita.
2. Scrittura e tradizione.
- Nel giudaismo vicino all’era cristiana, il legato della tradizione antica è
essenzialmente conservato in questa forma scritta. Tuttavia il *popolo di Dio
non è una semplice aggregazione di credenti raccolta attorno ad un *libro: è una
istituzione organizzata. Perciò vi sussiste, parallelamente alla Scrittura, una
tradizione viva, che a modo suo continua quella dei secoli passati, benché in
linea di diritto non possa pretendere di avere la stessa autorità normativa
della Scrittura. La si trova negli ambienti sacerdotali, nei dottori, e persino
nelle sette in cui si divide il giudaismo. Costituisce l’oggetto di una vera
tecnica di trasmissione, essenzialmente fondata sul contatto personale tra il
maestro e i suoi *discepoli: il maestro trasmette, consegna (ebr. masar) - ed il
discepolo riceve (aram. qabbel) - Ciò che a sua volta dovrà ripetere (ebr. šanah;
aram. tenah). Questa tradizione nel senso stretto della parola (ebr. qabbala;
gr. paràdosis) è nota al NT: Marco cita la «tradizione degli antichi» (Mc 7, 5.
13 par.), e Paolo le «tradizioni dei miei *padri» (Gal 1, 14). Questo legato si
aggiunge alle Scritture per formare «le tradizioni tramandate da Mosè» (Atti 6,
14), perché gli scribi ne fanno risalire l’origine al più lontano passato, allo
scopo di rafforzarne l’autorità. La sua trasmissione orale costituisce
d'altronde la culla di una nuova letteratura, che si sviluppa attorno alla
Bibbia, dalla traduzione della Bibbia in greco (Settanta) ed in aramaico (Targum)
fino agli scritti rabbinici, passando attraverso i libri apocrifi e la
produzione letteraria delle sette (ad es. Qumrân). Ma la tradizione posteriore
testimoniata da questi libri non si deve confondere con la tradizione orale
primitiva alla quale gli scritti canonici si sono alimentati.
NUOVO TESTAMENTO
I. LA TRADIZIONE ALLE ORIGINI CRISTIANE
1. Gesù e la «tradizione degli antichi».
- Fin dall’inizio Gesù accentua la propria indipendenza nei confronti della
tradizione giudaica del suo tempo. L'essenziale del legato tradizionale
conservato nelle Scritture non è in causa: la legge ed i profeti non devono
essere aboliti ma portati a compimento (Mt 5, 17). Per contro, la «tradizione
degli antichi» non fruisce dello stesso privilegio: è cosa completamente umana,
che minaccia persino di annullare la legge (Mc 7, 8- 13); Gesù quindi permette
ai suoi discepoli di liberarsene e ne proclama egli stesso la caducità. Ma nello
stesso tempo si comporta anch’egli come un maestro che *insegna, non a modo
degli scribi - ripetendo una tradizione ricevuta -, ma da persona rivestita di
*autorità (cfr. Mc 1, 22. 27); ed i suoi discepoli ricevono la missione di
ripetere i suoi insegnamenti (Mt 28, 19 s). Più ancora, egli innova sin nei suoi
atti: perdona i peccati (Mt 9, 1-8), comunica agli uomini la grazia della
salvezza, inaugura nuovi segni che comanda di ripetere dopo di lui (1 Cor 11, 23
ss). Con le sue parole e con i suoi atti egli sta così all’origine di una
tradizione nuova, che si sostituisce a quella degli antichi come base di
interpretazione delle scritture.
2. La tradizione apostolica.
- Effettivamente si constata nella Chiesa l’esistenza di questa tradizione,
definita con un vocabolario desunto dal giudaismo. Il fatto si nota soprattutto
in Paolo, che per la sua formazione primitiva è esperto delle tecniche della
pedagogia giudaica. Ai Tessalonicesi, egli ha «dato istruzioni» da patte del
Signore Gesù (1 Tess 4, 2), ed essi hanno «ricevuto il suo insegnamento» (1 Tess
4, 1). Li scongiura di «custodire fedelmente le tradizioni (paradòseis) che
hanno appreso da lui, oralmente o per lettera» (2 Tess 2, 15). Dice ai
Filippesi: «Ciò che avete appreso, ricevuto, sentito da me, e constatato in me,
ecco ciò che dovete praticare» (Fil 4, 9). Precisa ai Corinzi: «Vi ho trasmesso
anzitutto ciò che io stesso avevo ricevuto» (1 Cor 15, 3), «Ho ricevuto dal
Signore ciò che a mia volta vi ho trasmesso» (11, 23); nel primo caso si tratta
di un sommario dottrinale relativo alla morte e alla risurrezione di Cristo; nel
secondo, di un racconto liturgico della cena. L’oggetto della tradizione
apostolica consiste quindi sia in atti che in parole. Tali fatti permettono di
pensare che i materiali essenziali di questa tradizione, sia già prima di Paolo
che poi nella cornice della sua predicazione, sono stati sottoposti ad una
tecnica di trasmissione analoga a quella della tradizione giudaica. Ora questi
materiali costituiscono la sostanza stessa della vita della Chiesa e la materia
del *vangelo, regola della fede e della condotta cristiana. Luca può quindi
scrivere nella prefazione alla sua opera che «molti hanno posto mano a comporre
un racconto degli avvenimenti [evangelici], quali sono stati trasmessi da coloro
che furono fin dall’inizio testimoni e servi della parola» (Lc 1, 2). Le
raccolte evangeliche non fanno quindi altro che consegnare per iscritto una
tradizione già esistente. Parallelamente ad esse la vita della Chiesa conserva
gli atti e gli usi trasmessi da Cristo e praticati dagli apostoli.
3. Dalla tradizione alla Scrittura.
- La tradizione apostolica ha i suoi organi di trasmissione. In primo
luogo gli *apostoli, che l’hanno ricevuta da Cristo stesso; tra essi è Paolo,
grazie alla rivelazione della via di Damasco (Gal 1, l. 16). Poi i maestri, che
gli apostoli inviano ed ai quali commettono l’autorità nelle comunità cristiane
(1 Tim 1, 3 ss; 4, 11; 2 Tim 4, 2; Tito 1, 9; 2, l; 3, 1. 8). Questa tradizione
riveste forme varie in rapporto con la sua natura e con le diverse funzioni che
svolge nelle comunità cristiane: dai racconti su Gesù alle professioni di fede
(1 Cor 15, 1 ss), dai formulari liturgici (1 Cor 11, 23 ss; Mt 28, 19) alle
preghiere comuni (Mt 6, 9-13) ed agli inni cristiani (Fil 2, 6-11; Ef 5, 14; 1
Tim 3, 16;Apoc 7, 12; ecc.), dalle regole di vita provenienti da Gesù agli
schemi di omelie battesimali (1 Piet 1, 13...), e così via. Lo studio della
tradizione apostolica esige quindi un'attenzione costante ai generi letterari
attestati nel NT. Di fatto questo, nella sua diversità, ne è la redazione
occasionale, effettuata in modo definitivo sotto il *carisma della ispirazione.
Come nel VT, la tradizione partita da Cristo e trasmessa dagli apostoli finisce
così nella *Scrittura.
II. CARATTERE DELLA TRADIZIONE CRISTIANA
1. Fonte: l’autorità di Cristo.
- Nel VT, la tradizione cristallizzatasi infine nella Scrittura aveva per
fondamento l’autorità degli inviati di Dio. Nel NT, essa si distingue dalla
«tradizione degli antichi» (Mt 15, 21) e da ogni «tradizione umana» (Col 2, 8)
in quanto si fonda sull’*autorità di Cristo. Egli ha parlato ed agito (Atti 1,
1), dando ai suoi discepoli un’interpretazione normativa delle Scritture antiche
(Mt 5, 20-48), istruendoli circa quel che avrebbero dovuto insegnare in suo
*nome (28, 20), dando loro un *esempio vivo di ciò che avrebbero dovuto fare (Gv
13, 15; Fil 2, 5; 1 Cor 11, 1). Come la dottrina da lui predicata non era sua,
ma di colui che l’aveva mandato (Gv 7, 16), così la tradizione apostolica
custodisce sempre in sé questa autorità di Cristo salvatore, di cui conserva
esattamente lo spirito, le prescrizioni, gli atti. Anche quando un apostolo, non
avendo una parola precisa di Cristo (cfr. 1 Cor 7, 25), enuncia un parere
personale per risolvere un problema pratico posto dalla vita cristiana, lo fa
con la stessa autorità: non ha egli forse «il pensiero di Cristo» (1 Cor 2, 16)?
Di fatto lo *spirito di Cristo risorto rimane con i suoi per insegnare loro ogni
cosa (Gv 14, 26) e guidarli in tutta la verità (Gv 16, 13). Non c’è quindi
differenza tra l’autorità degli apostoli e quella del loro maestro: «Chi ascolta
voi, ascolta me; chi rigetta voi, rigetta me, e rigetta colui che mi ha mandato»
(Lc 10, 16).
2. Tradizione apostolica e tradizione della Chiesa.
- Se la tradizione apostolica fruisce così di un’autorità unica, che spetta
nello stesso tempo alle Scritture in cui si è cristallizzata, non bisogna
tuttavia opporla alla tradizione della Chiesa, facendo di questa una tradizione
puramente umana, analoga a quella del giudaismo che Cristo ha abolito. Tra l’una
e l’altra c’è una reale continuità.
a) Continuità nell’oggetto cbe vi è trasmesso. - Senza
essere, propriamente parlando, creatrice, la tradizione dell’età apostolica
costituiva ancora un ambiente in cui la rivelazione progrediva, a misura che gli
apostoli esplicitavano il senso delle parole e degli atti di Gesù. La tradizione
ecclesiastica è soltanto conservatrice. La sua norma è già fissata nel NT:
«Custodisci il deposito» (1 Tim 6, 20; 2 Tim 1, 12. 14), e questo deposito è la
tradizione apostolica. Essa non può più ricevere elementi veramente nuovi: la
*rivelazione è chiusa. Il suo sviluppo nella storia della Chiesa è di altro
ordine; non fa che esplicitare le virtualità racchiuse nel deposito apostolico.
Naturalmente la Scrittura, testimone ispirato della tradizione apostolica, ha
una parte capitale in questa conservazione fedele del deposito: ne è la pietra
di paragone essenziale. Tuttavia nulla ci assicura che tutti gli elementi del
deposito originale vi siano stati esplicitamente consegnati. Più ancora, la
tradizione vivente conserva, essa sola, una cosa che la Scrittura non basta a
dare: l’intelligenza profonda dei testi ispirati, opera dello *Spirito che
agisce nella Chiesa. Grazie ad essa, la *parola fissata nella Scrittura rimane
così la parola sempre viva di Cristo Signore.
b) Continuità negli organi di trasmissione. - La
tradizione della Chiesa non si trasmette in una collettività anonima, ma in una
società strutturata e gerarchica; e questa non è una semplice organizzazione
umana, ma il *corpo stesso di Cristo governato dal suo Spirito, in cui le
funzioni di governo perpetuano attraverso i secoli quelle degli apostoli,
disponendo della loro autorità. Anche qui le lettere pastorali fissano norme (ad
es. 1 Tim 4, 6 s. 16; 5, 17 ss; 6, 2-14; 2 Tim 1, 13 s; 2, 14 ss; 3, 14 - 4, 5;
Tito 1, 9 ss; 2, 1. 7 s). Esse fanno vedere che il criterio dell’autentico
deposito apostolico conservato nella tradizione della Chiesa non è la sola
Scrittura, ma, congiuntamente, la garanzia di coloro che hanno ricevuto la
missione di vegliare su di esso e la grazia per svolgere questo compito: lo
stesso Spirito che ha ispirato le Scritture continua ad assisterli (1 Tim 4, 14;
2 Tim 1, 6).
c) Continuità nelle forme fondamentali in cui la tradizione
si è fissata letterariamente. - Questa permanenza delle forme traduce in
modo sensibile la permanenza delle funzioni e degli ambienti di vita nella
Chiesa. Senza dubbio i generi si evolveranno nella letteratura ecclesiastica con
i tempi e con le civiltà. Ma al di là di questa evoluzione, le opere più diverse
resteranno connotate profondamente dalle forme della tradizione apostolica
fissata nel NT, e taluni documenti antichissimi, senza fruire di un’autorità
identica a quella della Scrittura, possono anche fare eco in modo molto diretto
alla stessa tradizione apostolica (simboli e formulari liturgici dell’età
sub-apostolica). Ciò detto, è importante fare due osservazioni. 1) È essenziale
alla tradizione ecclesiastica evolversi nelle sue forme contingenti, per
conservare il deposito apostolico adattandone la presentazione alle epoche ed
alle mentalità degli uomini ai quali lo trasmette. - 2) È importante non
attribuire alla tradizione in cui la Chiesa come tale è impegnata tutte le forme
contingenti che essa ha potuto rivestire, e tutte le tradizioni - di valore
molto diverso - che sono potute nascere nel corso delle età seguenti. Ma
evidentemente non bisogna domandare al NT la soluzione diretta dei problemi
teologici posti da questa tradizione ecclesiastica, perché, per definizione,
essa non emerse se non a partire dal momento in cui il canone dei libri ispirati
fu chiuso.
P. GRELOT
→ discepolo - farisei 1 - insegnare - legge B III 5; C I 1 - memoria 4 -
profeta VT I 2, III 2 - rivelazione - sacerdozio VT III 0 - scrittura -
vecchiaia 2.
TRASFIGURAZIONE (inizio)
1.
Situazione.
- Nei vangeli la trasfigurazione di Cristo è collocata in un momento decisivo,
quello in cui Gesù, riconosciuto dai suoi discepoli come *Messia, rivela loro
come si compirà la sua opera: la sua glorificazione sarà una risurrezione, il
che implica il passaggio attraverso la sofferenza e la morte (Mt 17, 1-9 par.;
cfr. 16, 13-23 par.). Questo contesto dà alla scena il suo significato nella
vita di Cristo e la sua fecondità nella vita del cristiano. Gesù vi appare
realizzante le Scritture (cfr. Lc 24, 44 ss) ed i loro oracoli sul Messia, sul
servo di Dio e sul figlio dell’uomo.
2. Il mistero.
- Gesù sceglie come testimoni dell’avvenimento coloro che saranno testimoni
della sua agonia: Pietro (cfr. 2 Piet 1, 16 ss), Giacomo e Giovanni (Mc 14, 33
par.; cfr. 5, 37). La scena evoca le teofanie di cui furono testimoni *Mosè ed
*Elia sul *monte di Dio (Sinai-Horeb, cfr. Es 19, 9; 24, 15-18; 1 Re 19, 8-18).
Dio non manifesta soltanto la sua presenza parlando dalla *nube e dal *fuoco (Deut
5, 2-5); ma, in presenza di Mosè e di Elia, Gesù appare ai discepoli
trasfigurato dalla *gloria di Dio. Questa gloria suscita il loro spavento,
*timore religioso dinanzi al divino (cfr. Lc 1, 29 s); ma provoca pure una
suggestiva riflessione di Pietro, che esprime la sua gioia dianzi alla gloria di
colui del quale ha confessato la messianità; Dio abiterà con i suoi, come hanno
annunciato i profeti dei tempi messianici. Tuttavia la gloria non è quella
dell’ultimo *giorno; essa non fa che illuminare le *vesti e la *faccia di Gesù,
come un tempo irradiava il volto di Mosè (Es 34, 29 s. 35). È la gloria stessa
di Cristo (Lc 9, 32) che è il *Figlio diletto, come proclama la voce che esce
dalla nube. Nello stesso tempo questa voce ratifica la rivelazione che Gesù ha
fatto ai suoi discepoli e che è l’oggetto del suo colloquio con Mosè ed Elia:
l’«esodo» di cui Gerusalemme sarà il punto di partenza (Lc 9, 31), il passaggio
attraverso la *morte, necessario all’ingresso nella gloria (cfr. Lc 24, 25 ss);
infatti la voce divina comanda di *ascoltare colui che è il Figlio, l’eletto di
Dio (Lc 9, 35). La parola che echeggia sul nuovo Sinai rivela che una nuova
*legge prenderà il posto della legge data anticamente; questa parola evoca tre
oracoli del VT: uno che concerne il *Messia e la sua filiazione divina (Sal 2,
7), l’altro che riguarda il *servo di Dio, il suo *eletto (Is 42, 1), il terzo
in cui è annunciato un nuovo *Mosè (Deut 18, 15; cfr. Gv 1, 17 s): «Jahvè tuo
Dio susciterà... un *profeta come me: lui ascolterete». Ascoltarlo, significa di
fatto ascoltare il Verbo fatto carne, nel quale il credente vede la gloria di
Dio (cfr. Gv 1, 14).
3. Scopo e frutto dell’avvenimento.
- La trasfigurazione conferma la confessione di Cesarea e consacra la
rivelazione di Gesù, figlio dell’uomo sofferente e glorioso, la cui morte e
risurrezione realizzeranno le Scritture. Rivela la persona di Gesù, Figlio
diletto e trascendente, che possiede la gloria stessa di Dio. Manifesta Gesù e
la sua *parola come la nuova legge. Anticipa e prefigura l’avvenimento pasquale,
che, per la via della croce, introdurrà Cristo nella piena manifestazione della
sua gloria e della sua dignità filiale. Questa esperienza anticipata della
gloria di Cristo è destinata a sostenere i discepoli nella loro partecipazione
al mistero della *croce. Resi partecipi, mediante il *battesimo, del mistero di
risurrezione prefigurato dalla trasfigurazione, i cristiani sono chiamati fin
d’ora ad essere sempre più trasfigurati dall’azione del Signore (2 Cor 3, 18),
in attesa di esserlo totalmente con il loro *corpo al momento della parusia (Fil
3, 21). Nella loro partecipazione terrena alle *sofferenze di Cristo, ogni
incontro autentico con il Signore Gesù ha un po', per il sostegno della loro
*fede, la stessa funzione della trasfigurazione per il sostegno della fede dei
discepoli.
P. DE SURGY
→ apparizioni di Cristo 1 - bianco 2 - Elia NT 3 - gloria IV 3 - luce e
tenebre NT I 3 - monte III 1 - Mosè 3 - nube 4 - veste II 3.
→ anticristo NT - cercare III - eresia - errore - ipocrita - menzogna II 3 - pastore e gregge - Satana.
→ calamità - persecuzione - prova-tentazione - sofferenza.
→ Israele VT 1 b - padri e Padre I 2 - popolo - re VT 0.
→ amore I NT 4 - battesimo IV 2 - Dio NT IV.
Al contrario
della *gioia, che è legata alla *salvezza ed alla *presenza di Dio, la tristezza
è un frutto amaro del *peccato che separa da Dio. Le sue cause apparenti sono
varie: una *prova indicante che Dio nasconde la sua *faccia (Sal 13, 2 s), una
sposa deludente per la sua cattiveria (Eccli 25, 23), un figlio male allevato
(30, 9 s), un amico *traditore (37, 2), la propria *follia (22, 10 ss) o
perversità (36, 20), la maldicenza altrui (Prov 25, 23). La Bibbia non si
accontenta di riferire la continua delusione dell’uomo, votato a «nutrirsi di un
pane di lacrime» (Sal 80, 6), senza trovare consolatori (Eccle 4, 1); dietro
l’immensa pena degli uomini essa scopre il peccato che ne è la vera causa e fa
vedere nel salvatore il rimedio: se la tristezza viene dal peccato, la gioia è
il frutto della salvezza (Sal 51, 14).
VECCHIO TESTAMENTO
1. Buon senso e tristezza.
- La rivelazione non si innalza a simili altezze di primo acchito; riporta pure
la reazione terra terra, di tipo stoico, che cerca di fuggire la tristezza, pur
sapendo che soltanto il *timore del Signore assicura la gioia della vita (Eccli
1, 12 s). La tristezza deprime il cuore (Prov 12, 25), abbatte lo spirito (15,
13), dissecca le ossa (17, 22), ancora più della malattia (18, 14). I sapienti
quindi consigliano: «Non ti abbandonare alle idee nere» (Eccli 30, 21), «scaccia
la tristezza che ha perso molta gente» e le *preoccupazioni che fanno
invecchiare prima del tempo (30, 22). Certamente bisogna «affliggersi con gli
afflitti» (Eccli 7, 34; cfr. Prov 25, 20); ma di fronte alla perdita di una
persona cara, non bisogna lamentarsi oltre misura: «consolati non appena il suo
spirito è partito» (Eccli 38, 16-23); il *vino consola da tante amarezze (Prov
31, 6 s; Eccle 9, 7; 10, 19); e se «ogni gioia ben presto finisce in pena» (Prov
14, 13), non dimenticare che «c’è un tempo per piangere e un tempo per ridere» (Eccle
3, 4). Per quanto prosaici, questi consigli possono aiutare a smascherare
l’artificio che si insinua subdolamente nella tristezza; preparano ad una
rivelazione più alta.
2. La tristezza, segno del peccato.
- Di fatto la storia dell’alleanza è, sotto un certo aspetto,
educazione di Israele partendo dalla tristezza causata dai *castighi meritati:
essa significa che si è acquistata coscienza di una separazione da Dio. Come
sanzione del peccato di idolatria al Sinai, Jahvè «non accompagnerà di persona»
il popolo; le *vesti festive dovranno essere tolte in segno di lutto e di
separazione (Es 36, 4 ss). All’ingresso nella terra promessa (Gios 7, 6 s. 11
s), durante il periodo dei Giudici (Giud 2), si fa sentire un identico ritmo:
peccato, allontanamento di Dio, castigo che genera la tristezza. I profeti hanno
l’incarico di rivelare questa tristezza, denunziando la *pace illusoria del
popolo peccatore; lo fanno dapprima lasciandosi cadere essi stessi in un abisso
di tristezza. Geremia è un modello, e le sue grida di dolore dovrebbero essere
quelle del popolo: dinanzi alla guerra che viene (Ger 4, 19), alla carestia (8,
18), alla sventura (9, 1), egli è la coscienza contrita del popolo peccatore (9,
18; 13, 17; 14, 17). Vive separato dal popolo, in testimonianza contro di esso
(15, 17 s; 16, 8 s); anche Ezechiele, ma al contrario: egli non deve piangere
sulla «gioia dei suoi occhi», sulla sua moglie, tanto è indurito il cuore di
pietra di Israele (Ez 24, 15-24).
3. La tristezza secondo Dio.
- I profeti hanno quindi la missione di assicurare una vera compunzione. Di
fatto la tristezza si esprime con grande quantità di grida e di gesti: *digiuno
(Giud 20, 26), *vesti lacerate (Giob 2, 12), sacco e cenere (2 Sam 12, 16; 1 Re
20, 31 s; Lam 2, 10; Gioel, 13 s; Neem 9, 1; Dan 9, 3), grida e lamenti (Is 22,
12; Lam 2, 18 s; Ez 27, 30 ss; Est 4, 3). Queste liturgie di *penitenza meritano
talora di essere stigmatizzate dai profeti (Os 6, 1-6; Ger 3, 21- 4, 22),
perché, se bisogna piangere, non è tanto sui doni perduti, quanto sul Signore
assente (Os 7, 14), bisogna farlo a condizione di essere fedeli alla legge (Mal
2, 13), per esprimere un’autentica contrizione: «Lacerate i vostri cuori e non
le vostre vesti!» (Gioe 2, 12 s). Allora queste dimostrazioni sono valide (Neem
9, 6-37; Esd 9, 6-15; Dan 9, 4-19; Bar 1, 15 - 3, 8; Is 63, 7 - 64, 11); i
pianti attirano la compassione di Dio (Lam 1, 2; 2, 11. 18; Sal 6, 7 s); la
tristezza è una confessione del peccatore: «Signore, raccogli le mie lacrime nel
tuo otre!» (Sal 56, 9).
4. Tristezza e speranza.
- La contrizione del cuore non uccide la *speranza ma, al contrario, fa appello
al salvatore che vuole non la morte, bensì la vita del peccatore (Ez 18, 23).
Attraverso l’ *esilio, riconosciuto come il castigo esemplare dei peccati
commessi, Israele intravede che un giorno cesserà definitivamente la tristezza.
Rachele ha pianto i suoi figli deportati; non voleva essere consolata, ma Jahvè
interviene: «Smetti il tuo lamento! Asciuga i tuoi occhi!» (Ger 31, 15 ss). Di
fatto il profeta delle lamentazioni, subito mutato in messaggero di
*consolazione, sbandiera una speranza: «Erano partiti nelle lacrime; li
riconduco nella consolazione; cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò, li
rallegrerò dopo le loro pene» (31, 12 s). Allora nel cuore di Sion, che non
voleva più cantare allegramente in esilio (Sal 137), il Libro della Consolazione
verserà il suo balsamo (Is 40-55; 35, 10; 57, 18; 60, 20; 61, 2 s; 65, 14; 66,
10. 19). «Coloro che seminano nelle lacrime, mietono cantando» (Sal 126, 5; cfr.
Bar 4, 23; Tob 13, 14). Certamente il peccato e la tristezza potranno ancora
sopraggiungere (Esd 10, 1), ma si spera che sommergeranno soltanto più la *città
del male (Is 24, 7-11), mentre sul monte di Dio «il Signore asciugherà le
lacrime da tutti i volti» (25, 8). Non è questa tuttavia l’ultima parola del VT.
Questa prospettiva paradisiaca, che l’Apocalisse riprenderà (Apoc 21, 4), non
nasconde ancora la realtà dolorosa della via della gioia senza fine: bisognerà
un giorno fare un lamento sul «trafitto», perché la fonte inesauribile della
gioia sia aperta sul fianco della città (Zac 12, 10 s).
NUOVO TESTAMENTO
1. La tristezza di Gesù Cristo.
- Bisognava che colui, il quale toglieva il peccato del mondo, fosse oppresso
dall’immensa tristezza degli uomini, senza esserne tuttavia schiacciato. Al pari
dei profeti, egli è stato profondamente attristato dall’*indurimento dei Farisei
(Mc 3, 5), si è lamentato per l’incoscienza di Gerusalemme che non conosceva
l’ora della sua *visita (Lc 19, 41). Oltre a questa tristezza sul popolo eletto,
Gesù ha pianto sulla *morte, su Lazzaro, il suo amico morto da qualche giorno (Gv
11, 35). Non si tratta soltanto dell’amicizia puramente umana che i *Giudei
pensano di vedervi (11, 36 s), perché Gesù freme di nuovo internamente (11, 38),
senza dubbio perché amava Lazzaro di un amore che viene dal Padre (15, 9). Ma
aveva già avuto un primo fremito e si era turbato (11, 33. 38) in occasione dei
singhiozzi che esprimevano nel suo orrore la realtà della morte che egli stava
per affrontare al sepolcro di un Lazzaro già in putrefazione. Non soltanto
dinanzi alla morte, ma nella morte stessa Gesù ha voluto subire «tristezza ed
angoscia», «essere triste da morire» (Mt 26, 37 s par.), di una tristezza che
equivaleva alla morte: la sua volontà non sarebbe venuta a trovarsi in conflitto
con quella del Padre, scavando un fosso che soltanto una preghiera ostinata
avrebbe potuto colmare? Ma, avendo così raccolto nella sua supplica i clamori e
le lacrime degli uomini dinanzi alla morte, egli è stato esaudito (Ebr 5, 7);
quando, sulla croce, esprimerà l’abbandono del Padre in cui si sente morire, lo
farà con il salmo di fiducia del giusto perseguitato (Mt 27, 46 par.): secondo
l’interpretazione che ne ha dato Luca, lo farà per abbandonarsi a colui che
sembrava abbandonarlo (Lc 23, 46). La tristezza è vinta allora da colui che,
senza essere peccatore, vi si abbandonò.
2. Beati coloro che piangono (Lc 6, 21)!
- Colui che doveva sprofondare in tal modo nell’abisso della tristezza
poteva in anticipo proclamare *beato non il dolore come tale, ma la tristezza
unita alla sua gioia di redentore. È importante distinguere tristezza e
tristezza. «La tristezza secondo Dio produce un pentimento di cui non ci si
rammarica; la tristezza del mondo invece produce la morte» (2 Cor 7, 10). Questa
sentenza paolina è illustrata da esempi ben conosciuti. Da un lato, ecco un
giovane che se ne va triste perché preferisce le sue *ricchezze a Gesù (Mt 19,
22), preannunziando i ricchi che Giacomo condanna promettendo loro la morte
eterna (Giac 5, 1); ecco i discepoli al Getsemani, oppressi di *sonno e di
mestizia, cioè maturi per abbandonare il loro maestro (Lc 22, 45); infine Giuda,
disperato di essersi separato, con il tradimento, da Gesù (Mt 27, 3 ss): tale è
la tristezza del *mondo. Al contrario, la tristezza secondo Dio affligge i
discepoli al pensiero del tradimento che minaccia Gesù (Mt 26, 22), Pietro che
singhiozza per aver rinnegato il suo Signore (26, 75), i discepoli di Emmaus che
camminano tristi al pensiero di Gesù che li ha lasciati (Lc 24, 17), Maria che
singhiozza perché hanno portato via il suo Signore (Gv 20, 11 ss). Ciò che
distingue le due tristezze è l’amore di Gesù; il peccatore deve passare
attraverso la tristezza che lo separa dal mondo per unirlo a Gesù, mentre il
convertito non vuol conoscere tristezza se non nella separazione da Gesù.
3. Dalla tristezza nasce la gioia.
- La beatitudine prometteva la *consolazione a coloro che piangono; tuttavia
Gesù aveva annunziato che si sarebbe pianto quando lo sposo fosse tolto via (Mt
9, 15), Il discorso dopo la cena rivela il senso profondo della tristezza. Gesù
era stato la causa dei pianti rinnovati di Rachele sui bambini innocenti (Mt 2,
18); non aveva neppure avuto timore di contristare la propria madre quando gli
affari del Padre suo lo esigevano (Lc 2, 48 s). Ora egli non nega che la sua
partenza sia fonte di tristezza, altrimenti non sarebbe colui senza il quale la
vita non è che morte; sa pure che il *mondo si rallegrerà della sua scomparsa (Gv
16, 20). Riprendendo il paragone usato sovente per descrivere la nascita di un
mondo nuovo (Is 26, 17; 66, 7-14; Rom 8, 22), egli evoca la gioia della donna
che è passata attraverso la tristezza della sua ora mettendo al mondo un uomo (Gv
16, 21). Così «la vostra tristezza diventerà gioia» (16, 20), è passata, o
meglio, si è trasformata in gioia, al pari delle ferite che segnano per sempre
l’agnello celeste come sgozzato (Apoc 5, 6); la tristezza termina oramai in una
gioia, che nessuno può togliere (Gv 16, 22), perché viene da colui che sta ritto
al di là delle porte della morte. Essa sgorga dal turbamento fatale (14, 27),
dalle tribolazioni (16, 33). I discepoli di Gesù non sono più tristi, perché non
sono mai nella *solitudine di orfani in cui sembravano abbandonati (14, 18), in
balia del mondo persecutore (16, 2 s): il risorto dà loro la sua propria gioia
(17, 13; 20, 20). Ormai, prove (Ebr 12, 5-11; 1 Piet 1, 6 ss; 2, 19),
separazione dai fratelli defunti (1 Tess 4, 13), od anche increduli (Rom 9, 2),
nulla può più scalfire la gioia del credente, né separarlo dall’amore di Dio
(Rom 8, 39). Apparentemente triste, in realtà sempre lieto (2 Cor 6, 10), il
discepolo del salvatore, pur percorrendo le vie della tristezza, conosce la
gioia celeste, quella che riempirà gli eletti con i quali Dio rimarrà per
sempre, asciugando ogni lacrima dagli occhi (Apoc 7, 17; 21, 4).
M. PRAT e X. LÉON-DUFOUR
→ cenere 2 - consolazione - delusione - gioia - preoccupazioni 2 -
sofferenza.
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→ cercare.