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→ Abele - fratello VT 1 - odio I 1.2.
La famiglia umana
incorre continuamente in disgrazie collettive, è sempre sorpresa dalla loro
subitaneità, dalla loro ampiezza, dal loro cieco determinismo. L’eco di questa
*sofferenza risuona in tutta la Bibbia: *guerra, carestie, *diluvio, *uragani,
*fuoco, *malattia, *morte. All’uomo, che non può accontentarsi di dare a questi
fenomeni una spiegazione naturale, le apocalissi ne rivelano la dimensione
misteriosa e rivelano così l’uomo a se stesso.
1. La calamità nel disegno di Dio.
- Sia in profondità che in superficie, la calamità è uno squilibrio. Legata al
*castigo, nel senso che in ultima analisi proviene dal *peccato dell’uomo, se ne
distingue perché tocca tutta la creazione, e perché manifesta più chiaramente il
volto di *Satana, al quale il mondo è soggetto per il tempo della *prova (Giob
17, 12; Mt 24-22). La calamità è un «colpo» (naga’, colpire) collettivo, che
manifesta a qual punto il peccato agisce nella storia umana (Apoc 6; 8, 6-11,
19). Guerra, carestia, peste, morte, l’Apocalisse non presenta questi flagelli
come una semplice componente del tempo. Infatti, se, attraverso i suoi legami
letterari, si risale verso le apocalissi anteriori, si trova una corrente che,
dagli ultimi libri del giudaismo (Sap 10 - 19; Dan 9, 24-27; 12, 1), passando
attraverso i salmi (Sal 78; 105) ed ai profeti (Ez 14; 21; 38; Is 24; Sof 1, 2
s), giunge fino alle piaghe di *Egitto (Es 7 - 10). Allora il senso della
calamità diviene netto: essa è un elemento di quel grande *giudizio che è la
*Pasqua. La liberazione escatologica che noi viviamo è raffigurata dalla
liberazione della prima Pasqua e del primo *esodo. Considerata in questa luce
pasquale, la calamità si smaschera: il momento in cui trionfa in essa la potenza
di morte del peccato segna l’inizio della sua sconfitta e della *vittoria di
Cristo. In virtù dell’amore di Dio che opera nella *croce, la calamità cambia
senso (Rom 8, 31-39; Apoc 7, 3; 10, 7).
2. L’uomo dinanzi alla calamità.
- Se tale è la calamità, l’atteggiamento dell’uomo dev’essere uno sguardo di
verità. Egli non deve bestemmiare (Apoc 16, 9) né volgersi verso qualche idolo
che lo liberi (2 Re 1, 2-17; Is 44, 17; 47, 13). Deve riconoscervi un segno del
*tempo (Lc 12, 54 ss), l’espressione della sua *schiavitù sotto il peccato e
1’annunzio della *visita imminente del Salvatore (Mt 24, 33). La calamità,
anticipazione del *giorno di Jahvè, è un ultimatum in vista della *conversione (Apoc
9, 20 s), un appello a vegliare (Mt 24, 44). Ma soprattutto è l’inizio della
nostra liberazione totale: «Quando tali cose cominceranno a venire, alzatevi e
levate la testa, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21, 28). In questa
stessa linea escatologica è normale che la calamità accompagni lo sviluppo della
*parola nel mondo (Apoc 11, 1-13), poiché traduce a modo suo lo sviluppo
parallelo del mistero dell’*anticristo. Ma soprattutto essa dev’essere vissuta
dal cristiano nella certezza di essere amato (Lc 21, 8-19) e nella potenza di
Cristo (2 Cor 12, 9). Lo stato d’animo propriamente escatologico, che la
calamità deve mantenere in noi, è allora l’attesa; di fatto essa testimonia la
nascita d’un nuovo *mondo ed il lavoro dello *Spirito che avvia la creazione
intera verso la *redenzione totale (Mt 24, 6 ss; Rom 8, 19-23).
J. CORBON
→ castighi - diluvio - giudizio VT I 2, II 1 - ira B - sofferenza - visita.
→ giorno del Signore NT III 3 - sabato - settimana - tempo introd.; VT I; NT II 3.
l. Calice
di comunione.
- L’usanza orientale di far circolare durante i *pasti un calice a cui tutti
bevono, ne fa un simbolo di *comunione. Ora, nei banchetti sacrificali, l’uomo è
invitato alla mensa di Dio; il calice, che gli viene offerto, traboccante (Sal
23, 5), è il simbolo della sua comunione con il Dio dell’alleanza, che è la
porzione dei suoi fedeli (Sal 16, 5). Ma gli *empi, al culto di Dio e al calice
che egli offre loro, preferiscono il calice dei demoni (cfr. Deut 32, 17; 1 Cor
10, 21), con i quali comunicano in un culto idolatrico.
2. Calice d’ira.
- Questa empietà attira l’*ira di Dio; per esprimerne gli effetti i profeti
riprendono il simbolo del calice, il quale versa un *vino che rallegra il cuore
dell’uomo, ma il cui abuso porta all’*ebbrezza vergognosa. Una tale ebbrezza è
il *castigo riservato da Dio agli empi (Ger 25, 15; Sal 75, 9; cfr. Zac 12, 2).
La loro parte di calice, beveraggio di morte che essi devono bere loro malgrado,
è il vino dell’ira di Dio (Is 51, 17; Sal 11, 6; Apoc 14, 10; 15, 7 - 16, 19).
3. Calice di salvezza.
L’ira di Dio è riservata agli ostinati. La *conversione permette di sfuggirvi.
Già nel VT i sacrifici di *espiazione esprimono il pentimento del convertito; il
*sangue delle vittime, raccolto nei calici di aspersione (Num 4, 14), veniva
versato sull’altare e sul popolo; si rinnovava così l’alleanza tra il popolo
purificato e Dio (cfr. Es 24, 6 ss). Tali riti *figuravano il *sacrificio in cui
l’offerta del sangue di Cristo doveva realizzare la espiazione perfetta e
l’alleanza eterna con Dio. Questo sacrificio è il calice che il Padre dà da bere
al suo figlio Gesù (Gv 18, 11); questi, con una *obbedienza filiale, l’accetta
per salvare gli uomini, e lo beve rendendo grazie al Padre in nome di tutti
coloro che salva (Mc 10, 39; Mt 26, 27 s. 39-42 par.; Lc 22, 17-20; 1 Cor 11,
25). Ormai questo calice è il calice della *salvezza (Sal 116, 13), offerto a
tutti gli uomini affinché comunichino con il sangue di Cristo fino a che egli
ritorni, e benedicano per sempre il Padre che darà loro da bere alla mensa del
suo Figlio nel regno (1 Cor 10, 16; Lc 22, 30).
P. É. BONNARD
→ alleanza NT I - benedizione IV 2 - eucaristia - fame e sete NT 1 - ira B VT I
l; NT I 1, III 2 - sangue NT 2 - ubriachezza 1 - vendemmia 2 - vino II 2 a.
→ menzogna I - parola umana 1 -Satana 0.
→ correre - rimanere 0 - seguire - virtù e vizi 1 - via.
→ città VT 1 - eredità VT - Giosuè 1 - terra VT II.
→ benedizione III 5 - gloria V - lode - ringraziamento.
→ benedizione III 5 - gioia - lode II, III - preghiera V 1 - ringraziamento.
→ creazione VT II 2.3 - deserto 0 - mare 1 - veste I.
→ autorità - Chiesa V 1 - Corpo di Cristo III 2 - pastore e gregge - re - testa.
→ calamità 1 - fame e sete.
La parola carisma
è ricalcata sul greco chàrisma, che significa «dono gratuito» e si riallaccia
alla stessa radice di chàris «grazia». Nel NT la parola non ha sempre un senso
tecnico. Può designare tutti i doni di Dio, che sono irrevocabili (Rom 11, 29),
specialmente quel «dono di grazia» che ci viene da Cristo (Rom 5, 15 s) e
culmina nella vita eterna (Rom 6, 23). Di fatto, in Cristo, Dio ci ha «colmati
di grazia» (Ef 1, 6: charitòo) e ci «accorderà ogni sorta di doni» (Rom 8, 32:
charìzo). Ma il primo dei suoi doni è lo stesso Spirito Santo, che è effuso nei
nostri cuori e pone in essi la carità (Rom 5, 5; cfr. 8, 15). L’uso tecnico
della parola chàrisma s’intende essenzialmente nella prospettiva di questa
presenza dello Spirito, che si manifesta con ogni sorta di «doni gratuiti» (1
Cor 12, 1-4). L’uso di questi doni pone dei problemi che sono esaminati
soprattutto nelle lettere paoline.
I. L’ESPERIENZA DEI DONI DELLO SPIRITO
Già nel VT la presenza dello *Spirito di Dio si
manifestava, negli uomini che ispirava, con *doni straordinari, che andavano
dalla chiaroveggenza profetica (1 Re 22, 28) alle estasi (Ez 3, 12) ed ai
rapimenti misteriosi (1 Re 18, 12). In un ordine più generale Isaia collegava
pure allo Spirito i doni promessi al Messia (Is 11, 2), ed Ezechiele, il
mutamento dei cuori umani (Ez 36, 26 s), mentre Gioele annunziava l’universalità
della sua effusione sugli uomini (Gioe 3, 1 s). Bisogna aver presenti queste
*promesse escatologiche per comprendere l’esperienza dei doni dello Spirito
nella Chiesa primitiva: perché essa ne è il compimento.
1. Negli Atti degli Apostoli.
Negli Atti degli Apostoli lo Spirito si manifesta fin dal giorno della
*Pentecoste, quando gli apostoli divulgano in tutte le *lingue le grandi opere
di Dio (Atti 2, 4. 8-11), conformemente alle Scritture (2, 15-21). E’ il segno
che Cristo, esaltato dalla destra di Dio, ha ricevuto dal Padre lo Spirito
promesso e l’ha effuso sugli uomini (Atti 2, 33). In seguito, la presenza dello
Spirito si rivela in modi diversi: con la ripetizione dei segni della Pentecoste
(Atti 4, 31; 10, 44 ss), specialmente dopo il battesimo e l’imposizione delle
mani (Atti 8, 17 s; 19, 6); con l’azione dei *profeti (11, 27 s; 15, 32; 21, 10
s), dei dottori (13, 1 s), degli annunziatori del vangelo (6, 8 ss); con i
*miracoli (6, 8; 8, 5 ss) e le visioni (7, 55). Questi carismi particolari sono
accordati in primo luogo agli apostoli, ma si incontrano anche nelle persone che
li circondano, talvolta in connessione con l’esercizio di certe funzioni
ufficiali (Stefano, Filippo, Barnaba), sempre destinati al bene della comunità
che cresce sotto l’influsso dello Spirito Santo.
2. Nelle Chiese paoline.
Nelle Chiese paoline gli stessi doni dello Spirito appartengono all’esperienza
corrente. La predicazione dell’apostolo è accompagnata da Spirito e da opere di
*potenza, cioè da miracoli (1 Tess 1, 5; 1 Cor 2, 4); egli stesso parla in
lingue (1 Cor 14, 18) e ha visioni (2 Cor 12, 1-4). Le comunità riconoscono che
lo Spirito è dato loro dalle meraviglie che egli compie in mezzo a loro (Gal 3,
2-5), dai doni più vari che egli accorda loro (1 Cor 1, 7). Fin dall’inizio del
suo apostolato, Paolo ha grande stima di questi doni dello Spirito; si preoccupa
soltanto di discernere quelli che sono autentici: «Non spegnete lo Spirito, non
disprezzate le profezie, esaminate ogni cosa: ritenete ciò che è buono, e
astenetevi da ogni specie di male» (1 Tess 5, 19-22). Questi consigli
prenderanno maggior sviluppo quando Paolo si troverà di fronte al problema
pastorale posto dai carismi.
II. I CARISMI NELLA CHIESA
Il problema è sollevato nella comunità di Corinto
dall’eccessiva importanza attribuita al «parlare in *lingue» (1 Cor 12 - 14).
Questo entusiasmo religioso, che si manifesta con discorsi «in lingue diverse»
(cfr. Atti 2, 4), non è privo di ambiguità. L’ebbrezza (cfr. *ubriachezza)
causata dallo Spirito corre il rischio di essere confusa dagli spettatori con
l’ebbrezza da vino (Atti 2, 13), anzi con la stravaganza della follia (1 Cor 14,
23). Simile in apparenza ai trasporti entusiastici che praticavano i pagani in
taluni culti orgiastici, essa rischia pure di trascinare a stravaganze i fedeli
che non distinguessero l’azione dello Spirito divino dalle sue contraffazioni e
che le esaltassero al punto da favorire lo *scisma (1 Cor 12). Ma regolando
questa questione pratica, Paolo allarga la discussione e propone una dottrina
molto generale.
1. Unità e diversità dei carismi.
- I doni dello Spirito sono diversissimi, come sono diversi i
*ministeri nella Chiesa e le operazioni degli uomini. Ciò che crea la loro
*unità profonda è il fatto che provengono dall’unico Spirito, come i ministeri
provengono dall’unico *Signore, e le operazioni dall’unico *Dio (1 Cor 12, 4
ss). Gli uomini, ognuno secondo il suo carisma, sono gli amministratori di una
*grazia divina unica e multiforme (1 Piet 4, 10). Il paragone del corpo umano
permette di intendere più facilmente il riferimento di tutti i doni divini allo
stesso fine: sono dati in vista del bene comune (1 Cor 12, 7); concorrono tutti
assieme alla utilità della *Chiesa, *corpo di Cristo, così come tutte le membra
concorrono al bene del corpo umano, ognuno secondo il suo ufficio (12, 12-27).
La distribuzione dei doni è ad un tempo compito dello Spirito (12, 11) e compito
di Cristo, che dona la grazia divina secondo il suo intendimento (Ef 4, 7-10).
Ma nell’uso di questi doni ognuno deve pensare anzitutto al bene comune.
2. Classificazione dei carismi.
- Paolo non si è preoccupato di darci una classificazione ragionata dei
carismi, pur enumerandoli a più riprese (1 Cor 12, 8 ss. 28 ss; Rom 12, 6 ss; Ef
4, 11; cfr. 1 Piet 4, 11). Ma è possibile riconoscere i vari campi di
applicazione in cui i doni dello Spirito trovano posto. In primo luogo, taluni
carismi sono relativi alle funzioni del ministero (cfr. Ef 4, 12): quelli degli
*apostoli, dei *profeti, dei dottori, degli evangelisti, dei pastori (1 Cor 12,
28; Ef 4, 11). Altri concernono le diverse attività utili alla comunità:
servizio, insegnamento, esortazione, opere di misericordia (Rom 12, 7 s), parola
di sapienza o di scienza, fede eminente, dono di guarire o di operare miracoli,
parlare in lingue, discernimento degli spiriti (1 Cor 12, 8 ss)... Queste
operazioni carismatiche, che manifestano la presenza operante dello Spirito, non
costituiscono evidentemente delle funzioni ecclesiastiche particolari, e si
possono incontrare nei titolari di altre funzioni: così Paolo, l’apostolo, parla
in lingue e compie miracoli. La *profezia, ora è menzionata come un’attività
aperta a tutti (1 Cor 14, 29 ss. 39 ss), ora è presentata come una funzione (1
Cor 12 , 28; Ef 4, 11). Le *vocazioni particolari dei cristiani sono parimenti
fondate su carismi: l’uno è chiamato al celibato, l’altro riceve un altro dono
(1 Cor 7, 7). Infine, la pratica della carità, di questa principale tra le virtù
cristiane, è essa stessa un dono dello Spirito Santo (1 Cor 12, 31- 14, 1). Come
si vede, i carismi non sono una cosa eccezionale, anche se alcuni tra essi sono
doni straordinari, come il potere di fare miracoli. Tutta la vita dei cristiani
e tutto il funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche ne dipendono
interamente. Con essi lo Spirito di Dio governa il nuovo popolo su cui è stato
effuso in abbondanza, dando agli uni potere e grazia per compiere le loro
funzioni, agli altri potere e grazia per rispondere alla loro propria vocazione
e per essere utili alla comunità, affinché si edifichi il corpo di Cristo (Ef 4,
12).
3. Regole per l’uso.
- Se è necessario «non spegnere lo Spirito», bisogna
nondimeno esaminare l’autenticità dei carismi (1 Tess 5, 19 s) e «mettere alla
prova gli spiriti» (1 Gv 4, 1). Questo discernimento è esso stesso un frutto
della grazia (1 Cor 12, 10), ed è essenziale. A questo riguardo Paolo e Giovanni
pongono una prima regola che offre un criterio assoluto: i veri doni dello
Spirito si riconoscono dal fatto che si confessa che Gesù è il Signore (1 Cor
12, 3), che *Gesù Cristo, venuto nella carne, è da Dio (1 Gv 4, 1 ss). Questa
regola permette di eliminare ogni falso profeta, animato dallo spirito
dell’*anticristo (1 Gv 4, 3; cfr. 1 Cor 12, 3). Inoltre, l’uso dei carismi dev’essere
subordinato al bene comune e quindi deve rispettarne la gerarchia. Le funzioni
ecclesiastiche sono classificate secondo un ordine di importanza, a capo del
quale stanno gli apostoli (1 Cor 12, 28; Ef 4, 11). Le attività, a cui possono
aspirare tutti i fedeli, devono essere anche esse apprezzate non secondo il loro
carattere spettacolare, ma secondo la loro utilità effettiva. Tutti devono
ricercare anzitutto la carità, poi gli altri *doni spirituali. Tra questi viene
in primo luogo la *profezia (1 Cor 14, 1). Paolo si dilunga nel dimostrare la
sua superiorità sulla glossolalia; infatti, finchè l’entusiasmo religioso si
manifesta in modo inintelligibile, la comunità non ne è *edificata, e questa
edificazione di tutti rimane la cosa essenziale (1 Cor 14, 2-25; cfr. 1 Piet 4,
10 s). Anche i carismi autentici devono restare sottomessi a regole pratiche,
affinché regni il buon ordine nelle assemblee religiose (1 Cor 14,33). Paolo
quindi dà alla comunità di Corinto delle disposizioni da osservare strettamente
(1 Cor 14, 26-38).
4. I carismi e l’autorità ecclesiastica.
- Questo intervento dell’apostolo in un campo, in cui si manifesta
l’attività dello Spirito, dimostra che in ogni caso i carismi restano sottoposti
all’autorità ecclesiastica (cfr. 1 Gv 4, 6). Finchè vivono gli *apostoli, il
loro potere in questa materia proviene dal fatto che l’apostolato è il primo dei
carismi. Ma, dopo di essi, anche i loro delegati partecipano alla stessa
*autorità, come dimostrano le disposizioni raccolte nelle lettere pastorali
(specialmente 1 Tim 1, 18 - 4, 16). E ciò perché questi delegati hanno ricevuto
anch’essi un dono particolare dello Spirito mediante l’*imposizione delle mani
(1 Tim 4, 14; 2 Tim 1, 6). Se non possono possedere il carisma degli apostoli,
hanno nondimeno un carisma di governo, che conferisce loro il diritto di
prescrivere e di insegnare (1 Tim 4, 11), e che nessuno deve disprezzare (1 Tim
4, 12). Nella Chiesa tutto rimane così sottoposto ad una gerarchia di governo,
che è essa stessa d’ordine carismatico.
A. GEORGE e P. GRELOT
→ apostoli - Chiesa IV 1.2, VI - esortare 0 - grazia IV - insegnare NT II 3 -
lingua 2 – malattia-guarigione NT II l - ministero - miracolo III 3 b -
Pentecoste II 1 - profeta VT I; NT II 3 - scisma NT 1 - segno NT II 2 - Spirito
di Dio NT V 2 - verginità NT 3.
→ amore – carismi III 2.3 - comunione - coscienza 2 - dono - elemosina - fame e sete VT 2; NT 3 - opere NT II 2 - preghiera IV 4 - umiltà III - unità - vedove 3.
→ Elia VT 2 - monte lI 1.
Agli occhi di
taluni la condizione carnale dell’uomo sembra una inferiorità, e persino un
male. Questo pensiero non deriva se non molto indirettamente dalla Bibbia, la
quale di fatto non considera mai la carne come intrinsecamente cattiva; il suo
giudizio non si fonda su qualche speculazione filosofica circa la natura umana,
ma sulla luce della rivelazione: la carne è stata creata da Dio, la carne è
stata assunta dal Figlio di Dio, la carne è trasfigurata dallo Spirito di Dio, e
per questo il cristiano può affermare: «Credo nella *risurrezione della carne».
Dalle prime alle ultime pagine ispirate la carne (basar) designa la condizione
di creatura; ma con Paolo questo senso non è più unico: la carne può designare
non certo una natura cattiva, ma la condizione peccaminosa dell’uomo; ne
consegue che, al termine di questa evoluzione, questo termine (gr. sarx)
nasconde una ambiguità che è importante scoprire.
I. LA CREATURA DI FRONTE A DIO
Per il NT come per il VT, 1’*uomo non viene inteso come composto di due elementi
distinti: una «materia» (la carne o il corpo) e una «forma» (il corpo o
l’anima), che lo anima; l’uomo è colto nell’unità del suo essere personale.
Affermare che è carne, significa caratterizzarlo attraverso il suo aspetto
esteriore, corporeo, terreno, attraverso ciò che gli consente di esprimersi
attraverso questa carne che è il suo corpo e che caratterizza la persona umana
nella sua condizione terrestre.
1. Dignità della carne.
- Formata da Dio come da un tessitore (Giob 10, 11; Sal 139, 13 ss) od un vasaio
(Geo 2, 7; Ger 1, 5; Giob 10, 8 s), la carne, a questo titolo, è degna della
nostra ammirazione (Eccle 11, 5; 2 Mac 7, 22 s); sia che essa costituisca un
elemento del nostro essere corporeo - carne e sangue (Eccli 14, 18; Mt 16, 17),
ossa e carne (Gen 2, 23; Lc 24, 39), cuore e carne (Sal 84, 3; 73, 26) - sia che
designi l’insieme del *corpo, ad es. quando è ammalato (Sal 38, 4; Gal 4, 14),
sofferente (2 Cor 12, 7), in preda alle tribolazioni (1 Cor 7, 28), non si
scorge mai alcun accenno di disprezzo nei suoi confronti; al contrario, non la
si può odiare (Ef 5, 28 s). Così Ezechiele ne fa l’elogio definitivo quando
annunzia che Dio darà a Israele, in luogo del suo *cuore indurito come la
pietra, «un cuore di carne» (Ez 36, 26), docile ed accogliente.
2. La persona corporea.
- Dignità ancor più radicale, la carne può anche designare l’uomo nella
sua totalità completa. II semita, come fa con il termine *anima, parla
oggettivamente di «ogni carne» per designare tutta la creazione animata (Gen 6,
17; Sal 136, 25; Eccli 40, 8), l’umanità (Is 40, 5 s = Lc 3, 6; Gioe 3, 1 = Atti
2, 17; Mc 13, 20; Gv 17, 2). Può indicare ancora con essa l’intimo della
persona; così Adamo vede nella *donna che Dio gli conduce un altro se stesso; ma
non dice che essa ha come lui un’anima, bensì esclama: «Questa è osso delle mie
ossa e carne della mia carne» (Geo 2, 23; cfr. Eccli 36, 24). Queste ultime
parole esprimono la coscienza di una comunione profonda, che potrà estendersi ad
ogni parentela (Geo 29, 14; 37, 27; Rom 9, 3) e più specialmente all’essere
nuovo, alla «carne unica» che gli sposi diventano (Gen 2, 24 = Mt 19, 5 par.; 1
Cor 6, 16; Ef 5, 31). Si comprende quindi come lo stesso termine possa
significare la persona stessa, 1’«io» (Eccle 4, 5; 5, 5; 2 Cor 7, 5) e fin nelle
sue attività d’ordine psicologico, con una sfumatura certamente corporea, ma per
nulla peggiorativa: la carne soffre (Giob 14, 22), ha paura (Sal 119, 120),
langue di desiderio (Sal 63, 2) o grida di gioia (Sal 84, 3); vive
dell’insegnamento dei sapienti (Prov 4, 22); è persino dotata di volontà (Gv 1,
13).
3. La condizione terrestre.
- Designare l’uomo concreto mediante la sua carne significa infine manifestare
la sua origine terrestre. La sfumatura s’impone quando il termine è usato in
contrasto con il mondo celeste di Dio e dello spirito.
a) La creatura. - All’infuori di *Dio tutto è carne,
anche l’angelo (Ez 10, 12); al pari di numerosi Padri della Chiesa, Giuda (7)
non trova difficoltà in questa affermazione: si accontenta di precisare che la
carne angelica è diversa dalla nostra. Perciò non c’è neppure nulla di offensivo
nel qualificare «secondo la carne» i patriarchi (Rom 9, 5), il nostro padre
Abramo (Rom 4, 1) od i padroni temporali (Col 3, 22 = Ef 6, 5). Così pure,
vivere «nella carne» (2 Cor 10, 3; Gal 2, 20; Fil 1, 22 ss; 1 Piet 4, 1 s),
significa semplicemente vivere quaggiù, essere visibile (Col 2, 1),
concretamente presente (Col 2, 5). Per designare i giorni della vita terrena di
Gesù (1 Gv 4, 2; Ebr 5, 7), si dice che prese carne e sangue (Ebr 2, 14).
b) Caducità ed impotenza. Ordinariamente chi dice
carne dice fragilità di creatura. «Ogni carne è come l’erba... ma la parola di
Dio rimane in eterno» (Is 40, 6 s). La carne sta allo *spirito come il terrestre
al celeste; così Gesù Cristo, «nato dalla stirpe di David secondo la carne, è
stato costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santità» (Rom
1, 3 s; cfr. 1 Tim 3, 16). Creatura, l’uomo da solo è impotente ad entrare nel
regno di Dio: «ciò che è nato dalla carne è carne, ciò che è nato dallo spirito
è spirito» (Gv 3, 6; cfr. 1 Gv 15, 50). «Carne e sangue», l’uomo non può neppure
conoscere da solo le realtà divine (Mt 16, 17; cfr. Gal 1, 16; Ef 6, 12), e, se
pretende di giudicarle con la sua ragione, si dimostra un «sapiente secondo la
carne» (1 Cor 1, 26). In tutta verità, «è lo spirito che vivifica, la carne non
giova a nulla» (Gv 6, 63), ad es. per riconoscere dietro il rito eucaristico la
persona del Salvatore. Questa è la condizione terrestre che il *Figlio di Dio ha
voluto prendere; secondo la frase di Giovanni: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,
14), vero uomo di questo mondo, con i suoi limiti; ma anche uomo in cui il
credente riconosce il Salvatore ed il Figlio di Dio (1 Gv 4, 2; 2 Gv 7), e di
cui accetta di mangiare la carne ed il sangue in vista della vita eterna (Gv 6,
53-58).
4. Il mondo della carne.
- Per la sua carne, che non è che «polvere» (Gen 3, 19; Eccle 12, 7), l’uomo
appartiene così al mondo terrestre; per il soffio che Dio gli dona, è in
relazione con il mondo celeste. Duplice appartenenza che ha indotto gli
scrittori giudaici a distinguere il mondo degli spiriti e quello della carne;
come, sotto la penna del traduttore greco della Bibbia: «il Dio degli spiriti
che animano ogni carne» diventa «il Dio degli spiriti e di ogni carne» (Num 16,
22; 27, 16), così Ebr 12, 9 opporrà «il Padre degli spiriti» ai «padri secondo
la carne». Tuttavia questo dualismo cosmico non dev’essere confuso con un
dualismo antropologico, secondo il quale l’uomo unisce in sé i due mondi dello
spirito e della carne come due sostanze componenti. E’ opportuno interpretare
correttamente due testi che sembrano far eccezione. In Rom 7, 25, la ragione,
invocata da Paolo, non è come per i Greci una facoltà padrona di se stessa, ma
una spettatrice impotente di fronte al disordine del peccato insito nella carne.
In Mt 26, 41 par., lo spirito «magnanimo» non è una parte dell’uomo ma un dono
fatto a Dio (cfr. Sal 51, 14). Da nessuna parte la carne è presentata come uno
degli elementi di quel «composto» che sarebbe l’uomo. Il dualismo antropologico
non sarà adottato dal mondo giudaico che verso il sec. II-III con il rabbinismo
nascente.
II. IL PECCATORE DINANZI A DIO
Esiste nondimeno un dualismo di altro ordine, il dualismo morale, che tuttavia
dev’essere accuratamente distinto a seconda dell’ambiente da cui deriva. Presso
taluni Greci il corpo è una prigione per l’anima, e bisogna cercare di evaderne
come da una triste situazione naturale. Più tardi, in seguito alla controversia
epicurea, la carne diventa la sede stessa della sensualità, identificandosi con
la *sessualità, considerata come cattiva e degradante per lo spirito. La gnosi
licenziosa, che Giuda combatte, presenta probabilmente qualche rassomiglianza
con queste teorie epicuree (Giuda 4.7...); la carne, cattiva per natura, dev’essere
vinta. Se gli scrittori del tardo giudaismo e del NT predicano una simile lotta,
lo fanno in una prospettiva completamente diversa: la carne - questa condizione
di creatura, in cui l’uomo ha posto la sua fiducia - finisce per caratterizzare
un mondo in cui regna lo spirito del male.
1. La fiducia peccaminosa nella carne.
- Isaia proclama che Dio dev’essere il nostro solo sostegno: «I cavalli
dell’Egiziano sono carne e non spirito» (Is 31, 3); Geremia oppone i due tipi di
*fiducia: «Guai all’uomo che confida nell’uomo, che fa della carne il suo
sostegno ed il cui cuore si allontana da Jahvè» (Ger 17, 5 ss). E Paolo, sul
loro esempio: «Nessuna carne si glorifichi dinanzi a Dio» (1 Cor 1, 29); di
fronte ai Giudei, che traggono la loro *fierezza dal privilegio della
circoncisione (Rom 2, 25-29; Gal 6, 12 ss), Paolo non vuol trarre la propria
*gloria se non da Cristo (Fil 3, 3 s). Perciò, pur vivendo nella carne, egli non
si comporta più secondo la carne (2 Cor 10, 2 s), per non vantarsi di essa (2
Cor 11, 18); a questa condizione non si merita più l’epiteto di carnale (1 Cor
3, 1. 3; 2 Cor 1, 12), né nella propria volontà (2 Cor 1, 17), né nella propria
conoscenza di Cristo (2 Cor 5, 16). Infatti si può giudicare Cristo secondo la
carne, come Gesù ha rimproverato ai Giudei (Gv 8, 15): non avendo che occhi di
carne (Giob 10, 4), essi giudicano secondo l’apparenza (Gv 7, 24), trasformando
la loro fragile condizione di creatura in condizione peccaminosa. Perciò
Giovanni finirà per qualificare il *mondo come peccatore, e per denunciare la
concupiscenza (cfr. *cupidigia) della carne (1 Gv 2, 16). Ciò non significa
accusare la carne come tale, bensì la volontà dell’uomo che l’ha resa
peccatrice. Si possono distinguere due «spiriti», del male e del *bene, ciascuno
dei quali ha un mondo sotto il suo dominio, che si disputano il cuore dell’uomo
(così a Qumrân); tuttavia non si afferma un dualismo di natura, come se questa
lotta dovesse durare per sempre, quasi che lo spirito del bene non possa
trionfare del male.
2. La carne peccatrice e lo spirito di santità.
Questa lotta e questa vittoria sono state ridotte a sistema da Paolo mediante il
binomio carne-spirito. Questa opposizione tra carne e spirito corrisponde
soltanto apparentemente a quella che i Greci ponevano tra anima e corpo, tra
purità ed impurità. In effetti, essa si ispira direttamente all’opposizione
semitica tra terrestre e celeste, ma è trasformata da una duplice esperienza:
quella dello *Spirito Santo che è dato ai cristiani e quella del peccato a cui
la carne ci ha trascinati.
a) La lotta tra carne e spirito - La scoperta
dell’antitesi letteraria che caratterizza questa lotta avviene in due tappe,
segnate dalle lettere ai Galati ed ai Romani. I credenti sono figli di Abramo
per mezzo di Sara secondo lo spirito e non per mezzo di Agar secondo la carne,
dichiara Paolo (Gal 4, 21-31). Il VT ed il NT si distinguono come due periodi
antitetici della storia della salvezza, caratterizzati dalla *legge e dalla
*fede. Di qui deriva la distinzione tra due mondi ai quali il credente
partecipa: la carne appare come il residuo del peccato che la legge ha
moltiplicato, lo spirito come la personificazione di tutto ciò che era buono nel
progetto della legge e che fu portato a compimento dal dono dello Spirito. Tra
queste due potenze l’antagonismo è irriducibile nel cuore del cristiano (Gal 5,
17): egli può vivere secondo la carne, deve vivere secondo lo spirito, donde il
rischio continuo di pervertire una situazione che tuttavia è stabilita dallo
Spirito Santo. Nei capitoli 7 ed 8 della lettera ai Romani Paolo mostra come
agiscono le due fonti della morte e della vita. Queste due potenze, che abitano
successivamente nell’uomo (Rom 7, 17- 20; 8, 9 ss), determinano nel credente,
che pur tuttavia ha eliminato il peccato per mezzo di Cristo, un duplice modo di
vivere (8, 4-17). La possibilità di vivere secondo la carne è la traccia in noi
del peccato, è ciò tramite la carne, in cui un tempo ha dimorato il peccato.
b) La dominazione della carne. - Presa come norma
dell’esistenza, la carne detta all’uomo la sua condotta. Acquista una reale
autonomia, ereditando la potenza del *peccato, con le sue prerogative, con i
suoi desideri; rende suoi schiavi coloro che obbediscono alla «legge del
peccato» (Rom 7, 25). Con insolenza (Col 2, 23), essa manifesta allora i suoi
*desideri (Rom 8, 5 ss), le sue concupiscenze (Rom 13, 14; Gal 3, 3; 5, 13. 16
s), produce *opere cattive (Gal 5, 19). Questa è l’esistenza secondo la carne
(Rom 7, 5), tanto che lo stesso intelletto diviene carnale (Col 2, 18; cfr. 1
Cor 3, 3). E così pure il *corpo, che tuttavia, nel caso, è neutrale: dominato
dalla carne, esso si chiama «il corpo della carne» (Col 2, 11), si identifica
con il «corpo di peccato» (Rom 6, 6), è veramente plasmato dalla «carne di
peccato» (Rom 8, 3).
c) II trionfo di Cristo. - Ma il peccato è stato vinto
da Cristo che, prendendo «questo corpo di carne» (Col 1, 22), è divenuto peccato
(2 Cor 5, 21); venuto in una carne di condizione peccaminosa, egli ha condannato
il peccato nella stessa carne (Rom 8, 3). Ormai il cristiano ha crocifisso, in
Cristo, la carne (Gal 5, 24); la lotta che egli conduce (6, 8) non ha un esito
fatale, ma è una *vittoria assicurata, nella misura in cui, ritrovando la sua
condizione autentica di creatura, il credente non confida nella carne, nella sua
debolezza, bensì nella *forza della morte del Salvatore, fonte dello spirito di
vita.
X- LÉON-DUFOUR
→ anima - corpo I - Corpo di Cristo I 1 - cupidigia NT I - desiderio II, III -
morte - Parola di Dio NT III - peccato - pietra 2 - risurrezione - sangue 0 -
sessualità III 2 - spirito VT 3 - uomo.
L’uomo, per
vivere, ha bisogno di un ambiente favorevole e di un riparo protettore: una
famiglia ed una casa, entrambe designate da una stessa parola ebraica: bajit (bet,
nelle parole composte: ad es. Beth-el, casa di Dio). Ora Dio non si accontenta
di dare all’uomo una famiglia naturale ed una dimora materiale, ma vuol
introdurlo nella sua propria casa, non soltanto come servo, ma a titolo di
figlio; perciò, dopo aver dimorato in mezzo ad Israele nel tempio, Dio ha
mandato il suo Figlio unico a costruirgli una dimora spirituale fatta di pietre
vive ed aperta a tutti gli uomini.
I. LA CASA DEI FIGLI DEGLI UOMINI
1. La casa di famiglia.
- L’uomo aspira ad avere un luogo dove essere «a casa sua», un nido, come dice
il vecchio proverbio (Prov. 27, 8), un tetto che protegga la sua vita privata (Eccli
29, 21); e questo, nel suo paese (Gen 30, 25), là dov’è la sua casa paterna,
l’eredità che nessuno gli deve togliere (Mi 2, 2) e neppure desiderare (Es 20,
17 par.). In questa casa ben tenuta, dove splende il fascino della moglie (Eccli
26, 16), ma che una sposa malvagia rende inabitabile (25, 16), l’uomo vive coi
suoi figli che vi hanno domicilio, mentre i servi la possono lasciare (Gv 8,
35); ama accogliervi ospiti, forzando loro la mano se è necessario (Gen 19, 2 s;
Atti 16, 15). Una casa ha tanto valore che colui che l’ha appena edificata non
dev’essere privato del fruirne; perciò in Israele una legge umanissima lo
dispenserà dai rischi della guerra, anche se santa (Deut 20, 5; 1 Mac 3, 56).
2. Ciò che edifica e ciò che rovina.
- Ed ancora, costruire una casa non significa soltanto *edificarne le mura, ma
fondare un focolare, generare una discendenza e trasmetterle lezioni religiose
ed *esempi di *virtù; è questa un’opera di sapienza (Prov 14, 1) e fatica per la
quale una donna virtuosa è insostituibile (31, 10-31); ed è persino un’opera
divina che l’uomo non può condurre ad effetto da solo (Sal 127, 1). Ma l’uomo,
con la sua malvagità, è capace di attirare la sventura sulla sua casa (Prov 17,
13), e la donna insensata sconvolge la propria (14, 1). E questo perchè il
peccato, prima di distruggere la casa, ha già provocato un’altra rovina: quella
dell’uomo stesso, fragile dimora di fango (Giob 4, 19), vivificata dal soffio di
Dio (Gen 2, 7). L’uomo peccatore deve morire e rendere a Dio il suo soffio,
prima di andare a raggiungere i suoi padri nella tomba, casa di eternità (Gen
25, 8; Sal 49, 12. 20; Eccle 12, 5 ss); sopravvive tuttavia nella sua
discendenza, casa che Dio edifica ai suoi amici (Sal 127). Si vede la ragione
per cui edificare una casa senza poterla abitare è un simbolo del *castigo di
Dio, meritato dalla infedeltà (Deut 28, 30), mentre gli eletti, nella gioia
escatologica, abiteranno le loro case per sempre (Is 65, 21 ss).
II. LA CASA SIMBOLICA DI DIO
1. Casa di Israele e casa di David.
- Dio vuole abitare nuovamente tra gli uomini che il peccato ha separato da lui:
inaugura il suo disegno chiamando *Abramo a servirlo e traendolo da mezzo a
uomini che servono altri dèi (Gios 24, 2); perciò Abramo deve lasciare il suo
paese e la casa del padre suo (Gen 12, 1). Vivrà sotto la tenda, da nomade, ed i
suoi figli come lui (Ebr 11, 9. 13), fino al giorno in cui Giacobbe ed i suoi
figli si stabiliranno in Egitto; ma ben presto Israele aspirerà ad uscire da
questa «casa di servitù» e Dio ne lo libererà per fare alleanza con lui ed
abitare in mezzo al suo popolo nella tenda che si fa preparare; ivi si trova la
*nube che vela la sua *gloria e che manifesta la sua *presenza a tutta la casa
di Israele (Es 40, 34-38), Questo nome conviene ancora ai discendenti di
Giacobbe, divenuti più numerosi delle stelle (Deut 10, 22). Questo popolo si
raduna attorno alla tenda del suo Dio, chiamata perciò tenda di convegno (Es 33,
7); qui Dio parla a *Mosè, suo servo, che ha costantemente accesso alla sua casa
(33, 9 ss; Num 12, 7) e che guiderà il popolo fino alla terra promessa; di
questa *terra, che è tutta «la sua casa» (Os 8, 1; 9, 15; Ger 12, 7; Zac 9, 8),
Jahvè vuol fare il domicilio stabile del suo popolo (2 Sam 7, 10). David, a sua
volta, vuole collocare Dio in una casa simile al palazzo dove egli abita (7, 2).
Tuttavia Dio scarta questo progetto perché la tenda gli basta (7, 5 ss); ma
benedice l’intenzione del suo unto: se non desidera abitare in una casa di
pietra, vuole edificare a David una casa e consolidare la sua discendenza sul
suo trono (7, 11-16); edificare una casa a Dio è riservato al figlio di David
che avrà Dio per Padre (7, 13 s).
2. Dalla casa di pietra al tempio celeste.
- Salomone applicherà a se stesso questa profezia misteriosa; pur proclamando
che i *cieli dei cieli non possono contenere Dio che li abita (1 Re 8, 27), egli
costruirà una casa per il *nome di Jahvè, che vi sarà invocato, e per l’*arca,
simbolo della sua presenza (8, 19 ss. 29). Ma Dio non è legato a nessun luogo né
a nessuna casa; lo fa proclamare da Geremia nella casa stessa che porta il suo
nome (Ger 7, 2-14), e lo prova ad Ezechiele con due visioni: in una, la *gloria
di Dio lascia la sua casa profanata (Ez 10, 18; 11, 23); nell’altra essa appare
al profeta in terra pagana dov’è esiliata la casa di Israele (Ez 1). Ma a questa
casa che ha profanato il suo nome, Dio annunzia che egli la purificherà, la
radunerà, la unificherà e stabilirà in essa nuovamente la sua dimora (36, 22-28;
37, 15 s. 26 ss). Tutto ciò sarà effetto dell’effusione del suo *spirito sulla
casa di Israele (39, 29). Questa profezia principale lascia intravvedere qual è
la vera casa di Dio: non già il tempio materiale e simbolico, descritto
minuziosamente dal profeta (40 - 43), bensì la casa stessa di Israele, dimora
spirituale del suo Dio.
3. La dimora del Dio degli umili.
- D’altronde, al ritorno dall’esilio, una duplice lezione sarà data al
popolo per liberarlo dal suo particolarismo e dal suo formalismo; da una parte,
Dio apre la sua casa a tutte le *nazioni (Is 56, 5 ss; cfr. Mc 11, 17);
dall’altra, proclama che la sua casa è trascendente ed eterna e che, per esservi
introdotti, bisogna avere un cuore *umile e contrito (Is 57, 15; 66, 1 s; cfr.
Sal 15). Ma chi dunque può introdurre l’uomo in questa dimora celeste? La stessa
*sapienza divina che verrà tra gli uomini a costruire la propria casa e ad
invitarli ad entrarvi (Prov 8, 31; 9, 1-6).
III. LA CASA SPIRITUALE DEL PADRE E DEI SUOI FIGLI
1. Di fatto *Gesù Cristo è la sapienza di Dio (1 Cor 1, 24). È la
*parola di Dio che viene ad abitare tra noi facendosi *carne (Gv 1, 14).
Appartiene alla casa di David e viene a regnare sulla casa di Giacobbe (Lc 1,
27.33); ma a Betlemme, città di David, dove nasce, non trova casa per riceverlo
(2, 4- 7). Pur vivendo a Nazaret nella casa dei genitori (2, 51), attesta sin
dal suo dodicesimo anno che deve stare presso il Padre suo (2, 49), di cui il
tempio è casa (Gv 2, 16). In questa casa egli interverrà con l’autorità del
Figlio che vi è in casa propria (Mc 11, 17 par.); ma sa che essa è votata alla
rovina (13, 1 s par.) e viene a costruirne un’altra: la sua *Chiesa (Mt 16, 18;
cfr. 1 Tim 3, 15).
2. Durante il compimento di questa missione non avrà né «casa
propria» (Lc 9, 58), né famiglia (8, 21); sarà invitato e si inviterà nella casa
dei peccatori e dei pubblicani (5, 29-32; 19, 5-10); troverà in coloro che lo
ricevono un’accoglienza ora fredda ora amichevole (7, 36-50; 10, 38 ss); ma
sempre porterà in queste case l’appello alla conversione, la grazia del perdono,
la rivelazione della salvezza, unica cosa necessaria. Ai discepoli che, alla sua
chiamata, avranno lasciato la loro casa ed avranno rinunciato a tutto per
seguirlo (Mc 10, 29 s), darà la missione di portare la *pace nelle case che li
accoglieranno (Lc 10, 5 s), e nello stesso tempo l’appello a seguire Cristo, via
che conduce alla casa del Padre, nella quale promette di introdurci (Gv 14, 2-
6). Per aprirci l’accesso a questa casa di cui Dio è il costruttore ed alla cui
testa è egli stesso in qualità di figlio (Ebr 3, 3-6), Cristo, nostro sommo
sacerdote, ci precede penetrandovi mediante il suo sacrificio (6, 19 s; 10, 19
ss). D’altronde questa casa del Padre, questo santuario celeste, è una realtà
spirituale non lontana da noi; «siamo noi stessi», purchè conserviamo la
speranza (3, 6).
3. Certamente questa dimora di Dio non sarà ultimata se non
quando ognuno di noi, lasciata la dimora terrestre, si sarà rivestito della
dimora eterna e celeste, del proprio corpo glorioso ed immortale (2 Cor 5, 1 s;
cfr. 1 Cor 15, 53). Ma, fin d’ora, Dio ci invita a collaborare con lui per
costruire questa casa il cui fondamento è Gesù Cristo (1 Cor 3, 9 ss), pietra
angolare e vivente, e che è fatta delle *pietre viventi che sono i fedeli (1
Piet 2, 4 ss). Dandoci accesso al Padre, Cristo non ci ha fatti entrare soltanto
come *ospiti nella sua casa, ma ci ha dato di appartenere «alla casa» (Ef 2, 18
s), di essere inseriti nella costruzione e di crescere con essa; ciascuno
infatti diventa dimora di Dio quando è unito ai suoi fratelli nel Signore per
mezzo dello Spirito (2, 21 s). Ecco perché, nell’Apocalisse, la Gerusalemme
celeste non ha più tempio (Apoc 21, 22); essa, tutta, è la dimora di Dio con gli
uomini che sono divenuti suoi figli (21, 3. 7) e rimangono con Cristo nell’amore
del Padre suo (Gv 15, 10).
M. FENASSE e M. F. LACAN
→ città - edificare - ospitalità - padri e Padre I 1 - presenza di Dio
VT III 1 - rimanere - tempio VT 1 2; NT I 1.
II regno di Dio è
sotto il segno della beatitudine, ed ecco che la Bibbia parla di castighi
divini; il disegno di Dio mira a *riconciliare ogni creatura con Dio, ed ecco
l’inferno che separa da lui definitivamente. Scandalo intollerabile, non appena
si perde il senso teologico delle tre realtà soggiacenti al castigo: il
*peccato, l’ira, il *giudizio. Ma grazie ad esso, il credente adora il mistero
dell’amore divino che, con la sua pazienza e la sua misericordia, ottiene dal
peccatore la *conversione. *Calamità, *diluvio, *dispersione, *nemici, *inferno,
*guerra, *morte, *sofferenza, tutti questi castighi rivelano all’uomo tre cose:
una situazione, quella di peccatore; una logica, quella che porta dal peccato al
castigo; un volto personale, quello del Dio che giudica e salva.
1. Il castigo, segno del peccato.
- Attraverso al castigo che subisce in modo doloroso, la volontà della
creatura peccatrice capisce di essere separata da Dio. L’insieme della creazione
ne fa l’esperienza. Il serpente, seduttore ed omicida (Gen 3, 14 s; Gv 8, 44;
Apoc 12, 9 s); l’uomo, il quale scopre che «per un solo uomo, il *peccato è
entrato nel mondo e, per il peccato, la morte», la sofferenza, il *lavoro penoso
(Rom 5, 12; Gen 3, 16-19); le città castigate per la loro *incredulità: Babele,
Sodoma, Cafarnao, Gerusalemme, Ninive; i nemici del popolo di Dio: il faraone,
l’Egitto, le *nazioni, anche se Dio se ne serve per castigare il suo popolo (Is
10, 5): lo stesso popolo di Dio, nel quale deve apparire meglio la finalità
positiva del castigo (Bar 2, 6-10. 27-35); la *bestia e gli adoratori della sua
immagine (Apoc 14, 9 ss; 19, 20); e infine la *creazione materiale assoggettata
alla vanità in seguito al peccato di Adamo (Rom 8, 20).
2. Il castigo, frutto del peccato.
- Nella genesi del castigo si possono distinguere tre tempi. AI punto di
partenza c’è ad un tempo il *dono di Dio (creazione, elezione) ed il *peccato.
Poi l’appello di Dio alla *conversione è rifiutato dal peccatore (Ebr 12, 25),
che tuttavia, attraverso l’appello, spesso percepisce l’annunzio del castigo (Is
8, 5-8; Bar 2, 22 ss). Allora, dinanzi a questa ostinazione (cfr. *indurimento),
il giudice decide di castigare: «Ebbene...» (Os 13, 7; Is 5, 5; Lc 13, 34 s).
L’esito del castigo è duplice, secondo la apertura del *cuore: taluni castighi
sono «chiusi» e condannano - *Satana (Apoc 20, 10), *Babele (Apoc 18), Anania e
Safira (Atti 5, 7-11) - gli altri sono «aperti» e chiamano alla *conversione (1
Cor 5, 5; 2 Cor 2, 6). Così il castigo è uno sbarramento opposto al peccato: per
gli uni è il vicolo chiuso della condanna; per gli altri è l’invito a
«ritornare» a Dio (Os 2, 8 s; Lc 15, 14-20). Ma anche allora rimane condanna del
passato ed anticipazione della condanna definitiva, se il cuore non ritorna a
Dio. A separare quindi da Dio è il peccato, e non già il castigo che ne è la
*retribuzione, e ne indica con forza la incompatibilità con la *santità divina (Ebr
10, 29 s). Se dunque Cristo ha conosciuto il castigo, non fu a motivo di peccati
che avesse commesso, bensì a causa dei peccati degli uomini che egli porta e
toglie (1 Piet 2, 24; 3, 18; Is 53, 4).
3. Il castigo, rivelazione di Dio.
- In virtù della sua logica interna il castigo rivela Dio: è come la
teofania appropriata al peccatore. Chi non accoglie la *grazia della *visita
divina, urta contro la santità e si scontra con Dio stesso (Lc 19, 41-44). È
quel che ripete incessantemente il profeta: «Allora saprete che io sono Jahvè» (Ez
11, 10; 15, 7). II castigo, essendo rivelazione, è eseguito dal Verbo (Sap 18,
14 ss; Apoc 19, 11-16), e proprio dinanzi al crocifisso assume le sue vere
dimensioni (Gv 8, 28). Ordinato così al riconoscimento di Jahvè e di Gesù, il
castigo è tanto più terribile, in quanto colpisce colui che è più vicino a Dio (Lev
10, 1 ss; Apoc 3, 19). La stessa *presenza, dolce al cuore puro, diviene
dolorosa a quello ostinato, benchè non ogni *sofferenza sia castigo. Più ancora,
il castigo rivela le profondità del cuore di Dio: la sua gelosia, quando si è
entrati nella sua *alleanza (Es 20, 5; 34, 7), la sua *ira (Is 9, 11 ss), la sua
*vendetta nei confronti dei suoi *nemici (Is 10, 12), la sua *giustizia (Ez 18),
la sua volontà di *perdono (Ez 18, 31), la sua *misericordia (Os 11, 9), infine
il suo *amore incalzante: «e voi non siete ritornati a me!» (Am 4, 6-11; Is 9,
12; Ger 5, 3). Ma c’è un castigo al centro della nostra storia, in cui il
tentatore ed il peccato sono stati colpiti a morte, ed è la *croce in cui
risplende la *sapienza di Dio (1 Cor 1, 17 - 2, 9). Nella croce coincidono la
condanna «chiusa» di Satana, del peccato e della morte, e la sofferenza
«aperta», sorgente di vita (1 Piet 4, 1; Fil 3, 10). Questa sapienza si era
mantenuta per tutta l’antica alleanza (Deut 8, 5 s; Sap 10 - 12; Ebr 12, 5- 13);
1’*educazione della libertà non ha potuto compiersi senza «correzione» (Giudit
8, 27; 1 Cor 11, 32; Gal 3, 23 s). Il castigo è così legato alla *legge;
storicamente quest’epoca è superata, ma psicologicamente molti cristiani vi si
attardano ancora: il castigo è allora uno dei legami che continuano a unire il
peccatore a Dio. Ma il cristiano che vive dello Spirito è *liberato dal castigo
(Rom 8, 1; 1 Gv 4, 18). Se lo riconosce ancora come permesso dall’amore del
*Padre, si è in vista della *conversione (1 Tim 1, 20; 2 Tim 2, 25). E, nel
nostro tempo escatologico, il vero ed unico castigo è l’ostinazione,
1’*indurimento finale (2 Tess 2, 10s; Ebr 10, 26-29). Questa imminenza del
giudizio decisivo, che già è in atto, conferisce valore di segno al castigo
dell’uomo «carnale»: anticipa la condanna di tutto ciò che non può ereditare il
*regno. Ma per lo «spirituale», il giudizio è *giustificazione: il castigo
diventa allora *espiazione in Cristo (Rom 3, 25 s; Gal 2, 19; 2 Cor 5, 14);
accettato volontariamente, fa morire la *carne per vivere secondo lo *Spirito
(Rom 8, 13; Col 3, 5).
J. CORBON
→ acque II 1.2 - Babele-Babilonia 2 - calamità - diluvio - educazione - Egitto 2
- empio VT 3; NT 3 - esilio 1 - espiazione 1 - fuoco - giudizio VT I 2, II 1 -
giustizia A II VT - guerra VT III 2; NT III 2 - indurimento II 1 - inferi e
inferno VT II; NT I 0 - ira B - lebbra – malattia-guarigione VT 1 2 -
maledizione - misericordia VT 12 b - morte VT II 1.2; NT I, Il 1.2 - orgoglio 4
- peccato I 2 - penitenza-conversione VT I 1, II 3 - persecuzione 1 4 b -
prigionia I - profeta VT IV 1 - responsabilità 4 - retribuzione - sale 1 -
silenzio 1 - sterilità II - terra VT II 3 c - timor di Dio III - tristezza VT 2
- vendemmia 2 - visita VT l; NT 2 - volontà di Dio VT 0, II.
→ donna NT 2 - matrimonio NT II - sessualità - sterilità III - vedove 3 - verginità.
→ discepolo - insegnare VT I; NT II - predicare I 4 - tradizione.
→ carismi 2 - donna NT 2 - matrimonio NT II - sessualità I 2 - sterilità - verginità.
→ alleanza NT I - eucaristia - Pasqua II - pasto III.
La cenere, il cui
significato originale è molto discusso, benchè l’uso di essa sia diffuso nella
maggior parte delle antiche religioni, viene spesso associata alla polvere (i
Settanta traducono più di una volta «polvere» con «cenere») e simboleggia al
tempo stesso il peccato e la fragilità dell’uomo.
1. Il *cuore del *peccatore, in un primo tempo, è simile alla
cenere: Isaia definisce l’idolatra un «amatore di ceneri» (Is 44, 20) e il
Sapiente dice di lui: «Cenere, il suo cuore! Più miserabile della polvere, la
sua vita!» (Sap 15, 10). Per questo il salario del peccato non può che essere
cenere: gli orgogliosi si vedranno «ridotti in cenere sulla terra» (Ez 28, 18) e
i malvagi saranno calpestati come cenere dai giusti (Mal 3, 21). D’altronde il
peccatore che, anzichè ostinarsi nel proprio orgoglio (Eccli 10, 9), prende
coscienza della sua colpa, confessa appunto di non essere che «polvere e cenere»
(Gen 18, 27; Eccli 17, 32); e per dimostrare agli altri e a se stesso di esserne
convinto si siede in mezzo alla cenere (Giob 42, 6; Giona 3, 6; Mt 11, 21 par.)
e se ne ricopre il capo (Giudit 4, 11-15; 9, 1; Ez 27, 30).
2. Ma questo stesso simbolo di penitenza serve anche ad
esprimere la *tristezza dell’uomo annientato dalla sventura, indubbiamente
perché si suppone un nesso tra la sventura e il peccato. Tamar disprezzato (2
Sam 13, 19) si copre di cenere; lo stesso i Giudei minacciati di morte (Est 4,
1-4; cfr. 1 Mac 3, 47; 4, 39). L’uomo intende cosi mettere in evidenza la
condizione a cui è stato ridotto (Giob 30, 19) e arriva fino a cibarsi di cenere
(Sal 102, 10; Lam 3, 16). Ma, quando un lutto lo colpisce, è innanzitutto allora
che sperimenta il proprio nulla, e lo esprime coprendosi il capo di polvere e
cenere: «Figlia di Sion, rivesti il sacco, rotolati nella cenere, prendi il
lutto» (Ger 6, 26). Coprirsi di cenere, significa quindi mettere in atto una
specie di *confessione pubblica mimata (cfr. la liturgia del mercoledì delle
ceneri): attraverso il linguaggio di questa materia inanimata che ritorna in
polvere, l’uomo si riconosce peccatore e fragile, prevenendo in tal modo il
giudizio di Dio e attirandosi la sua misericordia. Per colui che confessa così
la propria nullità, risuona la promessa del Messia che ha trionfato sul peccato
e sulla morte, «consolare gli afflitti e donar loro, in luogo di cenere, un
diadema» (Is 61, 2 s).
G. BECQUET
→peccato – penitenza-conversione VT I 2.
«L’uomo si affatica a cercare senza mai
raggiungere» (Eccle 8, 17), ma Gesù proclama: «Chi cerca, trova» (Mt 7, 8). Al
fondo di tutta la sua inquietudine l’uomo cerca sempre Dio, ma sovente la sua
ricerca si smarrisce ed egli deve raddrizzarla. Scopre allora che se egli è in
tal modo alla ricerca di Dio, si è perché Dio per primo lo ricerca.
I. CERCARE DIO: DAL SENSO CULTUALE AL SENSO INTERIORE
All’origine «cercare Jahvè» o «cercare la sua
*parola» significava consultare Dio. Prima di prendere una grave decisione (1 Re
22, 5-8), per risolvere una lite (Es 18, 15 s) o per orientarsi in una
situazione critica (2 Sam 21, 1; 2 Re 3, 11; 8, 8; 22, 18), ci si reca alla
*tenda del convegno (Es 33, 7) od al *tempio (Deut 12, 5) e si interroga Jahvè,
generalmente per mezzo di un *sacerdote (cfr. Num 5, 11) o di un *profeta (Es
18, 15; 1 Re 22, 7; cfr. Num 23, 3). Questo passo potrebbe anche essere soltanto
una precauzione superstiziosa, un modo per mettere Dio nel proprio gioco. Ma il
linguaggio della Bibbia prova che esso ha potuto anche essere disinteressato ed
esprimere un vero *amore di Dio. Quel che cerca colui che sogna «di abitare
nella *casa di Jahvè tutti i giorni della (sua) vita», è «*gustare la dolcezza
di Jahvè», è «cercare la sua *faccia» (Sal 27, 4. 8). Senza dubbio si tratta di
partecipare alla liturgia del santuario (Sal 24, 3-6; Zac 8, 21), ma nella pompa
e nell’emozione del *culto l’Israelita fedele cerca di «*vedere la bontà di
Jahvè» (Sal 27, 13). Questo *desiderio della *presenza divina spinge gli
esiliati a ritornare da Babilonia (Ger 50, 4) ed a ricostruire il tempio (1 Cron
22, 19; 28, 8 s). Infine, cercare Dio è rendergli il culto autentico ed abolire
quello dei falsi dèi (Deut 4, 29). Appunto secondo questo criterio il Cronista
giudicherà i re di Israele (2 Cron 14, 3; 31, 21). Ma il rigetto dei falsi dèi
suppone la conversione; questo è il tema costante dei profeti. Non c’è ricerca
di Dio senza ricerca del *diritto e della *giustizia. Amos identifica:
«cercatemi e vivrete; non cercate Bethel» (Am 5, 4 s) e: «Cercate il bene e non
il male, affinché viviate... Odiate il male, amate il bene e fate regnare il
diritto alla porta» (5, 14 s). Così pure Osea: «Seminatevi la giustizia... è
tempo di cercare Jahvè» (Os 10, 12; cfr. Sof 2, 3). Per «cercare Jahvè mentre si
lascia trovare», bisogna «che il malvagio abbandoni la sua via ed il criminale i
suoi pensieri» (Is 55, 6 s), bisogna «cercarlo con tutto il cuore» (Deut 4, 29;
Ger 29, 13). Gesù non parla diversamente: «Cercate prima il regno di Dio e la
sua giustizia» (Mt 6, 33).
II. VERA E FALSA RICERCA
Anche in Israele, la ricerca di Dio ha conosciuto delle deviazioni. Certi membri
del popolo eletto sono andati verso falsi dèi (Baal: 2 Re 1, 2); altri hanno
utilizzato dei mediatori proibiti (indovini: Lev 19, 31; morti: Deut 18, 11;
negromanti: 1 Sam 28, 7; spiriti: Is 8, 19); molti hanno mancato a elementari
disposizioni interiori: erano «come una nazione che praticasse la giustizia, ma
dimenticasse il *diritto» (Is 58, 2). Nessuno di essi poteva trovare Dio; ne
erano tutti separati dalle loro iniquità (Is 59, 2). La vera ricerca di Dio
avviene nella *semplicità del *cuore (Sap 1, 1), nell’*umiltà e nella *povertà (Sof
2, 3; Sal 22, 27), con animo contrito e spirito umiliato (Dan 3, 39 ss.). Allora
Dio che è «buono per l’anima che lo cerca» (Lam 3, 25), si lascia trovare (Ger
29, 14), e «gli umili, i cercatori di Dio, giubilano» (Sal 69, 33). Gesù Cristo,
che rivela i pensieri intimi dei cuori (Lc 2, 35), opera la divisione tra la
vera e la falsa ricerca di Dio. L’atteggiamento assunto a suo riguardo (Gv 8,
21) opera la distinzione tra la vera e la falsa ricerca. Ormai cercare Dio e
cercare Gesù sono equivalenti. Per «guadagnare Cristo» e «prenderlo» (Fil 3, 8.
12) bisogna rinunciare a cercare la propria *giustizia (Rom 10, 3) e lasciarsi
prendere da lui nella *fede (Fil 3, 12). La ricerca di Gesù deve allora
proseguire anche dopo la sua partenza (Gv 13, 33) attraverso la ricerca delle
cose di lassù (Col 3, 1).
III. DIO ALLA RICERCA DELL’UOMO
Cercare Dio significa infine scoprire che egli, avendoci amati per primo (1 Gv
4, 19), si è posto alla nostra ricerca, ci attira per condurci al Figlio suo (Gv
6, 44). In questa iniziativa della *grazia di Dio non bisogna vedere soltanto
una preoccupazione gelosa di far rispettare un diritto sovrano. Tutta la Bibbia
mostra che questa priorità è quella dell’*amore, che la ricerca dell’uomo è il
moto profondo del cuore di Dio. Mentre Israele lo dimentica per correre dietro
ai suoi amanti, Dio medita sempre di «sedurre» l’infedele e di «parlare al suo
cuore» (Os 2, 15 s). Mentre di tutti i *pastori di Israele nessuno si pone alla
ricerca del gregge disperso (Ez 34, 5 s), Dio stesso annunzia il suo disegno:
andrà a radunare il suo gregge ed a «cercare la pecora perduta» (34, 12. 16).
Nel momento stesso delle infedeltà del suo popolo, il Cantico celebra queste
mosse di un Dio appassionato per la Sposa che lo ricerca (Cant 3, 1-4; 5, 6; 6,
3). Il Figlio di Dio ha rivelato fin dove giunge questa passione: «Il figlio
dell’uomo viene nel mondo per cercare e *salvare ciò che era perduto» (Lc 19,
10), per mettersi alla ricerca dell’unica pecorella smarrita (Mt 18, 12; cfr. Lc
15, 4-10); Gesù, al momento di lasciare i suoi, pensa al momento in cui
ritornerà a cercarli, per prenderli con sé, «affinché là dove io sono, siate
anche voi» (Gv 14, 3).
P. M. GALOPIN e J. GUILLET
→ desiderio - faccia 3 - fame e sete - pellegrinaggio VT 1 -
penitenza-conversione 0; VT III 1; NT II 2 - preghiera - preoccupazioni 1 -
presenza di Dio VT III 1 - virtù e vizi 1.
→ anticristo NT 3 - autorità NT 1 2, II 3 - Babele-Babilonia 6 - numeri II 2 - re NT I.