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→ Chiesa I - giudeo II.
→ alleanza VT I - fuoco VT I - legge B I 1, II 2 - monte II 1.3, II 2 - nube 2 - trasfigurazione 2.
→ giuramento - ipocrita - labbra 1 - lingua 1 - menzogna - parola umana - semplice 2 - verità VT 2; NT 1.
→ Gerusalemme - madre II 3 - Maria I 2, III 4, V 2 - monte 0, II 2.3, III - patria VT 2 - servo di Dio II 1 - unità II.
→ ubriachezza - vegliare I 2, II 2 - vino I.
→ dono - elemosina - grazia - salvezza.
→ alleanza VT 0 - autorità VT II - Chiesa - città - diritto - donna VT 1 - fratello - generazione - giustizia A I - lavoro I 3 - liberazione-libertà II 4, III 2.0 - matrimonio VT Il 1 - popolo - schiavo I - sessualità I 1 - unità I - uomo I 1 c. 2 c - veste I 1.
→ castighi 1 - città VT 2 - fuoco VT III - inferi e inferno VT Il.
«Io provo
diletto... nelle necessità, nelle angustie» (2 Cor 12, 10), osa scrivere Paolo
ai convertiti di Corinto. Il cristiano non è uno stoico, per cantare «la maestà
delle sofferenze umane», ma è discepolo del «capo della nostra fede» che «invece
della gioia che gli era proposta, tollerò una croce» (Ebr 12, 2). Il cristiano
vede ogni sofferenza attraverso Gesù Cristo; in Mosè, «che stimò come una
ricchezza superiore ai tesori dell’Egitto l’obbrobrio di Cristo» (Ebr 11, 26),
riconosce la passione del Signore. Ma quali significati assume la sofferenza in
Cristo? In che modo la sofferenza, così spesso *maledizione nel VT, diventa
*beatitudine nel NT? Come può Paolo «sovrabbondare di gioia in tutte le
tribolazioni» (2 Cor 7, 4; cfr. 8, 2)? La fede sarebbe insensibile, oppure
esaltazione morbosa?
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA SERIETÀ DELLA SOFFERENZA
La Bibbia prende sul serio la sofferenza; non la minimizza, la
compatisce profondamente e vede in essa un male che non dovrebbe esistere.
1. Le grida della sofferenza.
- Lutti, sconfitte e *calamità fanno innalzare nella Scrittura un
immenso concerto di grida e di lamenti. Il gemito vi è così frequente che ha
dato origine ad un genere letterario proprio, quello della lamentazione. Per lo
più queste grida salgono a Dio. Certamente il popolo grida presso il faraone per
avere pane (Gen 41, 55), e i profeti gridano contro i tiranni. Ma gli schiavi
d'Egitto gridano verso Dio (Es 1, 23 s), i figli di Israele gridano verso Jahvè
(14, 10; Giud 3, 9), ed i salmi sono pieni di queste grida di angoscia. Questa
litania della sofferenza si prolunga fino al «forte gemito ed alle lacrime» di
Cristo dinanzi alla morte (Ebr 5, 7).
2. Il giudizio sulla sofferenza.
Il giudizio dato sulla sofferenza risponde a questa rivolta della
sensibilità: la sofferenza è un male che non dovrebbe esistere. Certamente, si
sa che è universale: «L'uomo nato dalla donna ha la vita breve, ma tormenti a
sazietà» (Giob 14, 1; cfr. Eccli 40, 1-9), però non vi si rassegna. Si sostiene
che *sapienza e salute vanno di pari passo (Prov 3, 8; 4, 22; 14, 30), che la
salute è un beneficio di Dio (Eccli 31, 20) del quale gli si rende lode (Eccli
17, 28) e per il quale lo si prega (Giob 5, 8; 8, 5 ss; Sal107, 19). Parecchi
salmi sono preghiere di *malati che domandano la guarigione (Sal 6; 38; 41; 88).
La Bibbia non ama il dolore per se stesso; fa l’elogio del medico (Eccli 38,
1-15); attende l’era messianica come un tempo di guarigione (Is 33, 24) e di
risurrezione (26, 19; 29, 18; 61, 2). La guarigione è una delle opere di Jahvè
(19, 22; 57, 18) e del *Messia (53, 4 s). Il serpente di bronzo (Num 21, 6-9)
non diventa forse una figura del Messia (Gv 3, 14)? Tutte le sventure pubbliche
e private, siccità, perdita di beni, lutti, guerre, schiavitù, esilio, sono
sentite come dei mali di cui si attende di venir liberati nei giorni del messia.
Il VT non conosce sofferenza volontaria, nel senso ascetico e paolino.
II. LO SCANDALO DELLA SOFFERENZA
Profondamente sensibile alla sofferenza, la Bibbia, per spiegarla, non può
ricorrere, come tante religioni attorno ad essa, alle liti tra i diversi dèi o
alle soluzioni dualistiche. Certamente era grande la tentazione per gli esiliati
di Babilonia, oppressi dalle loro *calamità «immense come il mare» (Lam 2, 13),
di credere che Jahvè fosse stato vinto da uno più forte; tuttavia i profeti, per
difendere il vero Dio, non pensano a scusarlo, ma a sostenere che la sofferenza
non gli sfugge: «Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il benessere e
provoco la sciagura» (Is 45, 7; cfr. 63, 3-6). La tradizione israelitica non
abbandonerà mai l’audace principio formulato da Amos: «Succede una disgrazia in
città senza che Jahvè ne sia l’autore?» (Am 3, 6; cfr. Es 8, 12-28; Is 7, 18).
Ma questa intransigenza scatena reazioni terribili: «Non c'è Dio!» (Sal 10, 4;
14, 1), conclude l’empio dinanzi al male del mondo, oppure un Dio «incapace di
conoscenza» (73, 11); e la moglie di Giobbe, logica: «Maledici Dio!» (Giob 2,
9). Indubbiamente si sa distinguere ciò che nella sofferenza può avere una
spiegazione. Le ferite possono essere prodotte da agenti naturali (Gen 34, 25,
Gios 5, 8; 2 Sam 4, 4), le infermità della *vecchiaia sono normali (Gen 27, 1;
48, 10). Nell’universo ci sono potenze malvagie, ostili all’uomo, quelle della
maledizione e di *Satana. Il *peccato porta la sventura (Prov 13, 8; Is 3, 11;
Eccli 7, 1) e si tende a ricercare una colpa all’origine di ogni sventura (Gen
12, 17 s; 42, 21; Gios 7, 6-13): è la convinzione degli amici di Giobbe.
All’origine del male che pesa sul mondo bisogna porre il primo peccato (Gen 3,
14-19). Il capriccio con cui la *morte colpisce senza preavviso le situazioni
più diverse è avvertito dolorosamente (Giob 21, 28-33; Prov 11, 4; Am 5, 19).
Peggiore ancora è lo scandalo della morte del giusto e della longevità
dell’empio (Eccle 7, 15; Ger 12, 1 s). Questo mondo è veramente uno sviamento
dalla giustizia (Ab 1, 2-4; Mal 2, 17; Sal 37; 73). Però nessuno di questi
agenti, né la natura, né il caso (Es 21, 13), né la fatalità della vita
dell’uomo (Giob 4, 1 ss; cfr. 4, 7); né la fecondità funesta del peccato, né la
maledizione (Gen 3, 14; 2 Sam 16, 5), né Satana stesso, sfuggono alla potenza di
Dio, cosicché Dio stesso è fatalmente in causa. I profeti non possono
comprendere la fortuna degli empi e la disgrazia dei giusti (Ger 12, 1-6; Ab 1,
13; 3, 14-18), ed i giusti perseguitati si credono forzatamente dimenticati (Sal
13, 2; 31, 13; 44, 10- 18). Giobbe intenta un *processo contro Dio e lo sfida a
spiegarsi (Giob 13, 22; 23, 7). Un salmista intenta con violenza lo stesso
processo, ma questa volta a motivo delle ingiuste sventure della nazione (Sal
44, 10-27). Tuttavia, malgrado le peggiori catastrofi, il pessimismo ad Israele
non ha mai trionfato; è significativo che l’autore di Giobbe non riesca a
concludere il suo libro sulla nota di disperazione, e neppure il malinconico
Ecclesiaste, il quale consiglia, malgrado tutto, di godersi la vita (Eccle 3, 2.
24; 9, 7-10; 11, 7-10), e neppure i profeti più foschi, nei quali si scopre
sempre un moto di speranza e di gioia (Ger 9, 16-23). Presentimenti ancora
indistinti della trionfale *risurrezione sembrano percorrere come un afflato
tutta la Bibbia (Gen 22; Sal 22; 49; 73; Rom 4, 18-21).
III. IL MISTERO DELLA SOFFERENZA
Provati dalla sofferenza, ma sostenuti dalla loro *fede, profeti e sapienti
entrano progressivamente «nel *mistero» (Sal 73, l7). Scoprono il valore
purificatore della sofferenza, come quello del *fuoco che libera il metallo
dalle sue scorie (Ger 9, 6; Sal 65, 10), il suo valore educativo, quello di una
correzione paterna (Deut 8, 5; Prov 3, 11 s; 2 Cron 32, 26. 31), e finiscono per
vedere nella prontezza del *castigo come un effetto della benevolenza divina (2
Mac 6, 12-17; 7, 31-38). Imparano a ricevere nella sofferenza la *rivelazione di
un *disegno divino che ci confonde (Giob 42, 1-6; cfr. 38, 2). Prima di Giobbe,
Giuseppe ne faceva testimonianza dinanzi ai suoi fratelli (Gen 50, 20). Un
simile disegno può spiegare la *morte prematura del sapiente, preservato in tal
modo dal peccatore (Sap 4, 17-20). In questo senso il VT conosce già una
*benedizione della donna sterile e dell’eunuco (Sap 3, 13 s). La sofferenza e la
persecuzione possono essere *espiazione del peccato (Is 40, 2). La sofferenza,
posta dalla fede nel *disegno di Dio, diventa una *prova altissima, che Dio
riserva ai *servi di cui è fiero, ad *Abramo (Gen 22), a Giacobbe (1, 11; 2, 5),
a Tobia (12, 13), per insegnare loro ciò che egli vale e quel che si può
soffrire per lui. Così Geremia passa dalla rivolta ad una nuova conversione (Ger
15, 10-19). Infine la sofferenza ha valore di intercessione e di *redenzione.
Questo valore appare nella figura di *Mosè, nella sua preghiera dolorosa (Es 17,
11 ss; Num 11, 1 s) e nel sacrificio che egli offre della sua vita per salvare
un popolo colpevole (32, 30-33). Tuttavia Mosè ed i profeti maggiormente provati
dalla sofferenza, come Geremia (Ger 8, 18. 21; 11, 19; 15, 18), non sono che
figure del servo di Jahvè. Il *servo conosce la sofferenza nelle sue forme più
terribili, più scandalose. Essa ha compiuto su di lui tutte le sue devastazioni
e lo ha sfigurato al punto da non provocare neppure più la compassione, ma
l’orrore ed il disprezzo (Is 52, 14 s; 53, 3); non è in lui un accidente, un
momento tragico, ma la sua esistenza quotidiana ed il suo segno distintivo:
«uomo dei dolori» (53, 3); non sembra potersi spiegare se non con una colpa
mostruosa ed un *castigo esemplare del Dio *santo (53, 4). Di fatto c'è colpa, e
di proporzione inaudita, ma non in lui: in noi, in tutti noi (53, 6). Egli è
innocente: questo è il colmo dello *scandalo. Ora proprio qui sta il *mistero,
«il successo del disegno di Dio» (53, 10). Innocente, «egli intercede per i
peccatori» (53, 12) offrendo a Dio non soltanto la supplica del cuore, ma «la
sua propria vita in espiazione» (53, 10), lasciandosi confondere tra i peccatori
(53, 12) per prendere su di sé le loro colpe. Così lo scandalo supremo diventa
la meraviglia inaudita, la «rivelazione del *braccio di Jahvè» (53, 1). Tutta la
sofferenza e tutto il peccato del mondo si sono concentrati su di lui e, poiché
li ha portati nell’obbedienza, egli ottiene per tutti la pace e la guarigione
(53, 5).
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ E LA SOFFERENZA DEGLI UOMINI
Gesù, l’uomo dei dolori, in cui si incarna la misteriosa figura del
servo sofferente, si dimostra sensibile a ogni dolore umano; non può essere
testimone di una sofferenza senza esserne profondamente commosso, di una
*misericordia divina (Mt 9, 36; 14, 14; 15, 32); se egli fosse stato presente,
Lazzaro non sarebbe morto: Marta e Maria glielo ripetono (Gv 11, 21. 32) ed egli
stesso l’ha lasciato capire ai Dodici (11, 14). Ma allora, dinanzi ad una
emozione così evidente - «quanto lo amava!» -, come spiegare questo scandalo:
«non poteva egli far sì che quest’uomo non morisse?» (11, 36 s).
1. Gesù Cristo vincitore della sofferenza.
- Le guarigioni e le risurrezioni sono i segni della sua missione messianica (Mi
11, 4; cfr. Lc 4, 18 s), i preludi della vittoria definitiva. Nei *miracoli
compiuti dai Dodici, Gesù vede la sconfitta di *Satana (Lc 10, 18). Egli
realizza la profezia del *servo «carico delle nostre *malattie» (Is 53, 4)
guarendole tutte (Mi 8, 17). Ai suoi discepoli dà il potere di guarire in suo
*nome (Mc 15, 17) e la guarigione dell’infermo della porta Bella attesta la
sicurezza della Chiesa nascente a questo riguardo (Atti 3, 1-10).
2. Gesù Cristo dichiara beata la sofferenza.
- Tuttavia Gesù non sopprime nel mondo né la *morte, che egli viene tuttavia a
«ridurre all’impotenza» (Ebr 3, 14), né la sofferenza. Rifiuta di stabilire un
nesso sistematico tra la *malattia o l’accidente ed il *peccato (Lc 13, 2 ss; Gv
9, 3), ma lascia che la *maledizione dell’Eden porti i suoi *frutti. E questo
perché è capace di cambiarli in gioia; non sopprime la sofferenza, ma la
*consola (Mt 5, 5); non sopprime le lacrime, ne asciuga soltanto qualcuna sul
suo passaggio (Lc 7, 13; 8, 52), il segno della *gioia che unirà Dio ed i suoi
figli il giorno in cui «asciugherà le lacrime di tutti i volti» (Is 25, 8; Apoc
7, 17; 21, 4). La sofferenza può essere una *beatitudine, perché prepara ad
accogliere il regno, permette di «rivelare le opere di Dio» (Gv 9, 3), «la
gloria di Dio» e quella del «Figlio di Dio» (11, 4).
II. LE SOFFERENZE DEL FIGLIO DELL'UOMO
Gesù è «familiare con il patire» (Is 53, 3); soffre per la folla
«incredula e perversa» (Mt 17, 17) come una «razza di vipere» (Mt 12, 34; 23,
33), soffre del rifiuto dei suoi che «non l’hanno riconosciuto» (Gv 1, 11).
Piange dinanzi a *Gerusalemme (Lc 19, 41; cfr. Mt 23, 37); «si turba» al
pensiero della passione (Gv 12, 27). La sua sofferenza diventa allora
un’angoscia mortale, una «agonia», un combattimento nell’angoscia e nella paura
(Mc 14, 33 s; Lc 22, 44). La passione concentra tutta la sofferenza umana
possibile, dal tradimento fino all’abbandono di Dio (Mt 27, 46). Questo apice
coincide con la grande offerta redentrice di Cristo, il dono espiatorio della
sua vita (Mt 20, 28) per il quale è stato inviato nel mondo secondo gli eterni
disegni del Padre (Atti 3, 18); Gesù vi si sottomette obbedientemente (Ebr 3,
7-8), amorosamente (Gv 14, 31; 15, 13): «Bisogna», deî, questa breve parola,
sempre associata alla sofferenza, riassume la sua vita e ne chiarisce il
mistero; ritorna come un leitmotiv sulle labbra di Gesù quando annuncia la sua
passione, senza preoccuparsi dello scandalo di Pietro e dei discepoli (Lc 17,
25; cfr. Mc 8, 31 ss; Mt 17, 22 s; Lc 9, 42-45). Ma la passione redentrice
rivela la gloria del Figlio (Gv 17, 1; 12, 31 s); riunisce «intorno a lui
nell’*unità i figli di Dio dispersi» (11, 52). Colui che nei giorni della sua
vita mortale, ha potuto «venire in aiuto ai provati» (Ebr 2, 18), nel *giorno
del giudizio, quando ritornerà in gloria, vorrà identificarsi con tutti i
sofferenti della terra (Mt 25, 35-40).
III. LE SOFFERENZE DEI DISCEPOLI
Dopo la vittoria di Pasqua, una illusione minaccia i Cristiani: niente
più morte, niente più sofferenza; ed essi rischiano di essere scossi nella loro
fede dalle realtà tragiche dell’esistenza (cfr. 1 Tess 4, 13). La *risurrezione
non abolisce gli insegnamenti del vangelo, ma li conferma. Il messaggio delle
*beatitudini, l’esigenza della *croce quotidiana (Lc 9, 23) assumono tutta la
loro urgenza alla luce del destino del Signore. Se la sua stessa madre non è
stata risparmiata dal dolore (Lc 2, 35), se il maestro, «per entrare nella sua
gloria» (Lc 24, 26), ha conosciuto tribolazioni e *persecuzioni, i discepoli
devono seguire la stessa *via (Gv 15, 20; Mt 10, 24), e l’era messianica è un
tempo di tribolazioni (Mt 24, 8; Atti 14, 22;
1 Tim 4, 1). 1. Soffrire con Cristo.
- Come il cristiano, se vive, «non è più [lui] che vive, ma Cristo che vive in
[lui]» (Gal 2, 20), così le sofferenze del cristiano sono «le sofferenze di
Cristo in [lui]» (2 Cor 1, 5). Il cristiano appartiene a Cristo con il suo
stesso *corpo, e la sofferenza configura a Cristo (Fil 3, 10). Come Cristo, «pur
essendo Figlio, imparò, per le cose patite, l’obbedienza» (Ebr 5, 8), così
bisogna che noi «affrontiamo con costanza la *prova che ci è proposta, fissando
i nostri occhi sul capo della nostra fede... che tollerò una croce» (Ebr 12, 1
s). Cristo si è fatto solidale con coloro che soffrono, e lascia ai suoi la
stessa legge (1 Cor 12, 26; Rom 12, 15; 2 Cor 1, 7).
2. Per essere glorificati con Cristo.
- Se «noi soffriamo con lui», lo facciamo «per essere pure glorificati con lui»
(Rom 8, 17), se «noi portiamo dovunque e sempre nel nostro corpo le sofferenze
di morte di Gesù», lo facciamo «affinché la *vita di Gesù sia anch’essa
manifestata nel nostro corpo» (2 Cor 4, 10). «La grazia di Dio che ci è stata
data [non è] soltanto di credere in Cristo, ma di soffrire per lui» (Fil 1, 29;
cfr. Atti 9, 16; 2 Cor 11, 23-27). Dalla sofferenza sopportata con Cristo non
nasce soltanto «il peso eterno di *gloria preparato al di là di ogni misura» (2
Cor 4, 17; cfr. Atti 14, 21) oltre la morte, ma, fin d'ora, la *gioia (2 Cor 7,
4; cfr. 1, 5-7). Gioia degli apostoli che fanno a Gerusalemme la loro prima
esperienza e scoprono «la gioia di essere stati giudicati degni di subire
oltraggi per il nome» (Atti 5, 41); appello di Pietro alla gioia di «partecipare
alle sofferenze di Cristo» per conoscere la presenza dello «Spirito di Dio,
Spirito di gloria» (1 Piet 4, 13 s); gioia di Paolo «nelle sofferenze che
sopporta» di poter «completare nella [sua] carne ciò che manca alle prove di
Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa» (Col l, 24).
M. L. RAMLOT e J. GUILLET
→ bene e male I l.4, II 3 - calamità - castighi - consolazione - croce II 2
- lavoro II – malattia - guarigione - maledizione I - martire 1 - morte -
pazienza II 1 - persecuzione - poveri - prova-tentazione - tristezza - vergogna.
SOFFIO → anima I 1, II 1 - spirito VT 2.3 - Spirito di Dio 0 - uomo - vita II 2.
SOGNI (inizio)
L'antichità e la
scienza moderna attribuiscono grande importanza ai sogni. Per ragioni diverse:
la prima vi vede un mezzo per l’uomo di entrare in comunicazione con il mondo
soprannaturale; la seconda, una manifestazione della sua personalità profonda.
Queste due prospettive non sono incompatibili: Dio, quando agisce sull’uomo,
agisce nel più profondo del suo essere.
VECCHIO TESTAMENTO
Le popolazioni che precedono e circondano Israele vedono nel sogno una
*rivelazione divina: e presso di essi la frequenza dei sogni è così
considerevole che i re di Egitto e di Mesopotamia tengono al proprio servizio
degli interpreti di sogni (Gen 41, 8; Ger 27, 9). Il VT accenna anche per
Israele a rivelazioni attraverso i sogni, a cui bisogna aggiungere le *parole e
le *visioni notturne di Dio. Queste rivelazioni sono indirizzate soprattutto a
persone private (Giob 4, 12-21; Eccli 34, 6), persino a pagani (Gen 40 - 41; Dan
4). Ma la maggior parte riguarda il *disegno di Dio sul suo popolo: esse
illuminano i patriarchi (Gen 15, 12-21; 20, 3-6; 28, 11-22; 37, 5-11; 46, 2-4: e
così di seguito nella tradizione elohista), Gedeone (Giud 6, 25 s), Samuele (1
Sam 3), Natan (2 Sam 7, 14-17), Salomone (1 Re 3). Dopo l’esilio, Zaccaria (1 -
6) e Daniele (2; 7) vi ricevono l’annuncio della salvezza. Gioele promette dei
sogni per il tempo dell’effusione dello Spirito (3, 1). Israele, a differenza
dei suoi vicini pagani, non sembra aver avuto interpreti ufficiali dei sogni.
Abramo, Isacco, Giacobbe, Samuele, Natan, Salomone... li capiscono da soli; e
non si trovano interpreti né nel tempio, né alla corte dei re. Ma quando Jahvè
invia dei sogni ai re pagani, sono i servi del vero Dio che ne spiegano i
misteri rimasti inaccessibili agli interpreti non Giudei (Gen 41; Dan 2; 4). I
pagani perciò sono costretti a riconoscere che soltanto Jahvè è il padrone dei
misteri: li rivela esclusivamente ai suoi. La riflessione profetica, così come
fa distinzione fra veri e falsi profeti, denuncia anche dei sogni menzogneri (Deut
13, 2-6; Ger 23, 25-32; Zac 10, 2), senza tuttavia negare l’origine divina dei
sogni degli antenati. Ma il fatto che la Bibbia non faccia cenno a sogni, lungo
i secoli che intercorrono tra Salomone e Zaccaria, cioè nel corso di tutta la
grande tappa del profetismo, ha un suo significato: suggerisce che in quel
momento il sogno è considerato come una forma secondaria di rivelazione,
destinata sia all’individuo (i patriarchi in epoca anteriore hanno avuto dei
sogni, ma al tempo loro non esisteva né popolo, né profetismo) sia ai pagani: la
parola profetica, invece, è la forma per eccellenza della rivelazione
indirizzata al popolo.
NUOVO TESTAMENTO
Il NT non riferisce nessun sogno di Gesù: senza dubbio perché indugia
poco sulla psicologia del Maestro, ma soprattutto perché vede in lui, colui che
«*conosce» il Padre senza intermediari. Il sogno tuttavia non è assente dal NT.
Alla Pentecoste, Pietro annuncia il compimento della profezia di Gioe 3, 1, in
cui il sogno appare come una manifestazione dello Spirito negli ultimi giorni (Apoc
2, 17). Il libro degli Atti riferisce diverse visioni notturne di Paolo (16, 9
s; 18, 9; 23, 11; 27, 23); queste apparizioni confortano e guidano l’apostolo
nella sua missione, ma non gli apportano nessun messaggio dottrinale. Matteo
riferisce diversi sogni analoghi a quelli del VT; sia in vista di rivelazioni a
pagani (Mt 27, 19) sia per guidare Giuseppe durante l’infanzia di Gesù (1, 20;
2, 13. 19. 22: si tratta per tre volte di apparizioni dell’angelo del Signore
sullo stile del VT). Il NT conosce quindi questo metodo di rivelazione usato da
Dio nelle lontane ere del VT. Come i profeti, vi vede una rivelazione destinata
ad illuminare un individuo (e talvolta un pagano), rivelazione che però resta
subordinata alla parola che viene rivolta a tutta la Chiesa e si manifesta per
eccellenza in Gesù Cristo.
A. GEORGE
→ apparizioni di Cristo 1 - mistero VT 2 a - parola di Dio VT I 1 - rivelazione
VT I 1 - segno VT II 3 - sonno I 2 - visita VT 2.
→ astri - luce e tenebre VT II 1.3; NT I 1 - settimana 1 - tempo VT I 1.
→ Adamo - generazione - padri e Padre I 2, II - responsabilità 1 - retribuzione II 1.2 - sofferenza NT III 1 - uomo I 10.
→ amen - fedeltà - pietra - roccia 1 - verità VT.
L'uomo, creato ad
*immagine di Dio che, Padre, Figlio e Spirito, è *fecondità sovrabbondante di
*amore, deve vivere in *comunione con Dio e con i suoi simili, e così portare
*frutto. Per sé, quindi, la solitudine è un male che viene dal peccato; tuttavia
può diventare fonte di comunione e di fecondità, se è unita alla solitudine
redentrice di Gesù Cristo.
I SOLITUDINE DELL'UOMO
1. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18).
- Secondo Dio, la solitudine è un male. Essa mette alla mercé dei
malvagi il povero, lo straniero, la *vedova e l’orfano (Is 1, 17. 23); Dio
quindi esige che essi siano particolarmente protetti (Es 22, 21 ss); considera i
loro protettori come suoi figli e li ama più che una madre (Eccli 4, 10); in
mancanza di appoggi umani, Dio si farà il *vendicatore di questi *poveri (Prov
23, 10 s; Sal 146, 9). La solitudine espone quindi alla *vergogna colui che
rimane *sterile; in attesa che sia rivelato il senso della *verginità, Dio
invita a rimediare a questa vergogna con la legge del levirato (Deut 25, 5-10);
talvolta interviene persino di persona per rallegrare la derelitta (1 Sam 2, 5;
Sal 113, 9; Is 51, 2). La prova della solitudine è un appello alla *fiducia
assoluta in Dio (Est 4, 17 z [4, 19 LXX]).
2. Dio vuole che il peccatore sia solo.
- La solitudine rivela pure all’uomo il suo essere peccaminoso; diventa allora
un appello alla *conversione. È quel che può insegnare la esperienza della
*malattia, della *sofferenza e della *morte prematura: separato dalla società
degli uomini (Giob 19, 13-22), l’infelice riconosce di essere in stato di
*peccato. Per altra via Dio rivela pure che abbandona il peccatore alla
solitudine. Abbandona la sua *sposa infedele (Os 2, 5; 3, 3); il profeta Geremia
con il celibato deve indicare che Israele è sterile (Ger 16, 2; 15, 17); infine
l’*esilio fa comprendere che Dio solo può strappare alla solitudine rendendo
fecondi (Is 49, 21; 54, l ss).
II. DALLA SOLITUDINE ALLA COMUNIONE
1. La solitudine accettata da Gesù Cristo.
- Dio ha dato agli uomini il suo Figlio unico (Gv 3, 16) affinché gli uomini,
attraverso l’Emmanuel (= «Dio con noi», Is 7, 14), ritrovino la comunione con
Dio. Ma, per strappare l’umanità alla solitudine del peccato, Gesù ha assunto su
di sé questa solitudine e innanzitutto quella di Israele peccatore. È stato nel
*deserto a vincere l’avversario (Mt 4, 1-11; cfr. 14, 23), ha pregato solitario
(Mc 1, 35-45; Lc 9, 18; cfr. 1 Re 19, 10). Sul Getsemani infine, urta contro il
*sonno dei discepoli che si rifiutano di partecipare alla sua preghiera (Mc 14,
32-41) e affronta da solo l’*angoscia della morte. Dio stesso sembra
abbandonarlo (Mt 27, 46). In realtà, non è solo e il Padre è sempre con lui (Gv
8, 16. 29; 16, 32); come un seme di grano caduto in terra, egli non resta solo
ma porta frutto (Gv 12, 24): «riunisce nell’*unità i figli di Dio *dispersi»
(11, 52) e «attira a sé tutti gli uomini» (12, 32). Ha trionfato la comunione.
2. Solo con Gesù Cristo per essere con tutti.
- Questo raduno del popolo messianico, Gesù l’ha inaugurato chiamando i
discepoli a «stare con lui» (Mc 3, 14). Venuto a cercare la pecorella smarrita,
sola (Lc 15, 4), restaura la comunione spezzata intavolando dialoghi «da solo a
solo» con i discepoli (Mc 4, 10; 6, 2), con le peccatrici (Gv 4,27; 8, 9).
L'amore che esige è unico, superiore ad ogni altro (Lc 14, 26), simile a quello
prescritto da Jahvè, Dio unico (Deut 6, 4; Neem 9, 6). La Chiesa, come il suo
Sposo e Signore, si trova sola in un *mondo al quale non appartiene (17, 16) e
deve fuggire nel deserto (Apoc 12, 6); ma ormai non c'è più vera solitudine:
Cristo, mediante il suo Spirito, non ha lasciato «orfani» i discepoli (Gv 14,
18), fino al giorno in cui, dopo aver trionfato della solitudine che impone la
morte degli esseri cari, «saremo per sempre riuniti ad essi... e con il Signore»
(1 Tess 4, 17).
M. PRAT e X. LÉON-DUFOUR
→ deserto - monte III 1 - sterilità - tristezza VT 2; NT 3 - vedove 1.
→ Aronne - sacerdozio VT I 4.5 - veste I 2.
Il sonno,
elemento necessario e misterioso della vita umana, presenta un duplice aspetto:
è riposo che rigenera l’uomo, è uno sprofondare nella notte tenebrosa. Fonte di
vita e figura della morte, esso presenta per tal fatto diversi significati
metaforici.
I. IL RIPOSO DELL'UOMO
In virtù del ritmo imposto dal creatore alla sua esistenza, l’uomo è
soggetto all’avvicendamento del *giorno e della *notte, della *veglia e del
*riposo.
1. Segno di fiducia e di abbandono.
- Conviene apprezzare la dolcezza del sonno che riposa il *lavoratore (Eccle 5,
11) e compiangere coloro che le *preoccupazioni delle ricchezze, la *malattia o
la cattiva coscienza espongono alle insonnie (Sal 32, 4; Eccli 31, 1 s). Bisogna
soprattutto conservare un legame tra *giustizia e sonno. Di fatto il giusto, che
nelle sue veglie medita la legge (Sal 1, 2; Prov 6, 22) ed imprime la sapienza
nel suo cuore (Prov 3, 24), «si addormenta in pace non appena si corica» (Sal 3,
6; 4, 9). Egli ha *fiducia nella protezione divina. Infatti gli *idoli
fabbricati ad immagine dell’uomo possono dormire (1 Re 18, 27); ma Dio, custode
di Israele, «non dorme né sonnecchia» (Sal 121, 4): agisce continuamente in
favore dei suoi figli (Sal 127, 2; cfr. Mc 4, 27). In piena tempesta, Gesù non è
«turbato» (Mc 4, 40; cfr. Gen 14, 27; 2 Tim 1, 7); dormendo, simboleggia la
perfetta fiducia in Dio (Mc 4, 38). In questa linea di pensiero, partendo da
un’immagine familiare a tutta l’umanità, la *morte è considerata come l’ingresso
nel riposo del sonno, dopo una vita sazia di giorni e di opere: ci si addormenta
con i propri padri (Gen 47, 30; 2 Sam 7, 12). Così il «cimitero», secondo
l’etimologia greca, evoca il «dormitorio» dove i defunti riposano; il cristiano
che si è «addormentato in Gesù» (1 Tess 4, 14) con la speranza della
*risurrezione, va a coricarvisi per lo spazio di una notte pensando con fiducia
al *giorno in cui si rialzerà risuscitato (cfr. Dan 12, 13).
2. Il tempo della visita di Dio.
- Per un motivo difficile da determinare, forse perché l’uomo addormentato non è
più padrone di sé e non offre resistenza, il tempo del sonno è considerato come
propizio alla venuta di Dio. Così come per agire meglio a suo modo, Dio fa
cadere un «profondo sonno» (ebr. tardemah), una specie di estasi, su Adamo che
si trova solo, per «formargli» una donna (Gen 2, 21), oppure su Abramo inquieto
per suggellare con lui la sua alleanza (Gen 15, 2. 12): allora nelle tenebre
sprizza il *fuoco divino (15, 17). Dio visita pure i suoi eletti con *sogni
rivelando a Giacobbe la sua presenza misteriosa (Gen 28, 11-19), ai due Giuseppe
i suoi disegni misteriosi (Gen 37, 5 ss. 9; Mt 1, 20-25; 2, 13 s. 19-23). Questo
modo di *rivelazione rende coloro che ne beneficiano simili ai *profeti (Num 12,
6; Deut 13, 2; 1 Sam 28, 6), e le apocalissi se ne servivano con predilezione
(Dan 2, 4): non era forse promesso come un segno della fine dei tempi (Gioe 3,
1; Atti 2, 17 s)? Tuttavia esso doveva essere rigorosamente vagliato (Ger 23,
25-28; 29, 8) per non essere confuso con «fantasie di donna incinta» (Eccli 34,
1-8).
II. LE TENEBRE SULL'UOMO
La notte, figlia di Dio, è anche il tempo degli incubi, degli allarmi e
delle potenze malefiche; il sonno può essere visitato da questi mostri notturni
e rivelare un cuore colpevole. Non accorda sonno ai suoi occhi colui che ha
grandi disegni nella mente (Sal 132, 3 ss; Prov 6, 4); al contrario, il pigro
che non riesce a uscire dal letto è votato all’indigenza (Prov 6, 6-11; 20, 13;
26, 14). Ancor più pericoloso è il sonno che consegue alla *ubriachezza, perché
induce a porre atti irresponsabili (Gen 9, 21-24; 19, 31-38), oppure quello che
consegue all’amore delle donne: in tal modo consegna la forza di Sansone a
Dalila (Giud 16, 13-21). Il sonno può essere ancor più che il risultato di una
colpa; può significare una disposizione interiore colpevole. Tale è il sonno di
Giona (Giona 1, 5); quando il profeta Elia si addormenta sotto la ginestra, lo
fa in una crisi di scoraggiamento (1 Re 19, 4-8). Il sonno esprime allora che ci
si è abbandonati al peccato: si barcolla nella *ubriachezza, dopo aver vuotato
il *calice dell’*ira di Jahvè (Ger 25, 16; Is 51, 17). Il sonno che prostra i
discepoli durante la preghiera di Gesù nel Getsemani (Mc 14, 34. 37- 40 par.)
significa che essi non comprendono l’*ora imminente e rifiutano di essere
solidali con Gesù; con ciò Gesù mostra con i fatti che dev’essere assolutamente
solo nell’opera della salvezza; quindi «lascia dormire» coloro che vogliono
ingolfarsi nel loro peccato.
III. SVEGLIARSI DAL SONNO DEL PECCATO E DELLA MORTE
Il sonno significa perciò lo stato mortale cui porta il peccato; sorgerne sarà
il segno della *conversione e del ritorno alla vita.
1. «Risvegliati!».
- «Vegliate!» dice Gesù ai suoi discepoli addormentati. Molto prima di lui, il
profeta constatava che, nel popolo di Israele, nessuno si svegliava per
appoggiarsi a Dio, perché questi aveva distolto la sua *faccia (Is 64, 6). Ma la
grazia divina affretterà l’ora del risveglio: «Risvegliati! In piedi,
Gerusalemme!» (Is 51, 17 - 52, 1). È l’ora di uscire dal torpore; il *calice
dell’ira è stato vuotato fino in fondo, Dio stesso strappa il suo popolo alla
vertigine. Questo risveglio della città santa è una vera *risurrezione: si
risvegliano coloro che giacevano nella polvere (Is 26, 19). Nell’apocalisse di
Daniele questa immagine diventerà realtà: «Molti di coloro che dormono nella
polvere si sveglieranno...» (Dan 12, 2). Il giusto non deve quindi temere «di
addormentarsi nella morte» (Sal 13, 4), perché Dio è il padrone della *morte, e
lo farà vedere risuscitando Gesù. Tuttavia, per preparare questa risurrezione,
occorre in primo luogo il risveglio del cuore mediante una conversione sincera.
Appunto questo dialogo della conversione si può leggere nel Cantico dei Cantici,
descritto attraverso la metafora del sonno e del risveglio. Il risveglio della
*sposa infedele non dev’essere brusco: «Non risvegliate l’amata finché a lei non
piaccia!» (Cant 2, 7; 3, 5; 8, 4); ora questo piacere conquista a poco a poco il
cuore della sposa condotta nel *deserto: Dio le ha parlato (Os 2, 16; Is 40, 2),
cosicché ormai essa può dire: «Io dormo, ma il mio cuore veglia» (Cant 5, 2).
Tuttavia l’amore non è ancora il più forte: al suo risveglio la sposa si occupa
di cose inutili e lascia partire lo sposo che era venuto; ben fa essa a
*vegliare, ma la sua vigilanza non può affrettare l’ora di Dio (Is 26, 9): sarà
infine lo sposo a risvegliare la sposa (Cant 8, 5). La conversione stessa è
l’opera di Dio.
2. Risvegliati dal loro sonno.
- Prima di sorgere dalla tomba dov’è sceso volontariamente, Gesù ha espresso
mediante segni la sua padronanza della morte e del sonno che ne è l’immagine. Ha
permesso che i discepoli si inquietassero del suo sonno durante la tempesta (Mc
4, 37-41), come se volesse far loro ripetere l’audace preghiera dei salmisti:
«Svegliati dunque, o Signore!» (Sal 44, 24; 78, 65; Is 51, 9). In realtà, si
dimostrava in tal modo in grado di comandare al mare come alla morte. Quando
risveglia dal loro sonno la figlia di Giairo (Mt 9, 24) e il suo amico Lazzaro (Gv
11, 11), prefigura così la sua propria risurrezione, alla quale il battezzato
sarà misteriosamente unito: «Svegliati, o tu che dormi, sorgi di tra i morti e
Cristo ti illuminerà!» (Ef 5, 14). Il credente non è più un essere della notte,
«non dorme più» (1 Tess 5, 6 s) perché non ha più nulla a che vedere col peccato
ed i vizi della notte. Egli *veglia, aspettando senza dormire il ritorno del
padrone (Mc 13, 36); e se, tardando lo sposo a venire, si addormenta come le
vergini prudenti, ha non di meno la *lampada fornita di *olio (Mt 25, 1-13);
allora le parole della sposa del Cantico assumono un senso nuovo, perché il
*giorno è già rifulso nel più profondo della *notte: «io dormo, ma il mio cuore
veglia».
D. SOSBOÜÉ e X. LÉON-DUFOUR
→ morte VT 1 2 - notte VT 3 - riposo - sogni - ubriachezza 2 - vegliare.
→ anima II 2.3 - morte - risurrezione.
→ puro.
→ amore II - comunione VT 5; NT - elemosina - pane I 1.
→ faccia - immagine - sapienza VT III 2.
Parlare della
speranza significa dire il posto che il futuro occupa nella vita religiosa del
popolo di Dio, un futuro di fedeltà a cui sono chiamati tutti gli uomini (1 Tim
2, 4). Le *promesse di Dio hanno rivelato a poco a poco al suo popolo lo
splendore di questo futuro che non sarà una realtà di questo mondo, ma «*una
patria migliore, cioè celeste» (Ebr 11, 16): «la vita eterna» in cui l’uomo sarà
«simile a Dio» (1 Gv 2, 25; 3, 2). La *fiducia in Dio e nella sua *fedeltà, la
fede nelle sue promesse, sono quelle che garantiscono la realtà di questo
avvenire (cfr. Ebr 11, 1) e che permettono almeno di intuirne le meraviglie. Da
questo momento è allora possibile per il credente desiderare questo avvenire, o
per essere più precisi, sperarlo. Infatti, la partecipazione a questo indubbio
avvenire resta problematica, perché dipende da un *amore fedele e paziente, di
per sé difficile esigenza per una *libertà peccatrice. Il credente quindi non
può assolutamente fidarsi di se stesso per conseguire questo avvenire. Può solo
sperarlo, in piena fiducia, da Dio, in cui crede e che è l’unico in grado di
rendere la sua libertà capace di amare. Radicata così nella fede e nella
fiducia, la speranza può dispiegarsi verso l’avvenire e sollevare con il suo
dinamismo tutta la vita del credente. Fede e fiducia, speranza, amore sono
quindi aspetti diversi di un atteggiamento spirituale complesso, ma unico. In
ebraico le stesse radici esprimono sovente l’una o l’altra di queste nozioni;
tuttavia il vocabolario della speranza si collega più specialmente alle radici
qawah, jahal e batah, che i traduttori hanno reso del loro meglio in greco (elpizo,
elpìs, pèpoitha, hypomèno...) od in latino (spero, spes, confido, sustineo,
exspecto...). Il NT, probabilmente S. Paolo (1 Tess 1, 3; 1 Cor 13, 13; Gal 5, 5
s), stabilirà in tutta la sua chiarezza la triade: fede, speranza, amore.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA SPERANZA DELLE BENEDIZIONI DI JAHVÈ
La misteriosa promessa che Dio fece all’umanità peccatrice fin dalle
origini (Gen 3, 15; 9, 1-17) attesta che Dio non la lasciò mai senza speranza;
ma soltanto con *Abramo incomincia veramente la storia della speranza biblica.
Il futuro assicurato dalla *promessa è semplice: una *terra ed una numerosa
posterità (Gen 12, 1 s; cfr. *fecondità). Per secoli gli oggetti della speranza
di Israele resteranno dello stesso ordine terreno: «la terra dove scorrono latte
e miele» (Es 3, 8. 17), tutte le forme della prosperità (Gen 49; Es 23, 27-33;
Lev 26, 3-13; Deut 28). Questo slancio vigoroso verso i beni di questo mondo non
fa tuttavia della religione di Israele una semplice morale del benessere. Questi
beni terreni sono per Israele delle *benedizioni (Gen 39, 5; 49, 25) e dei *doni
(Gen 13, 15; 24, 7; 28, 13) di Dio che si dimostra fedele alla promessa ed alla
alleanza (Es 23, 25; Deut 28, 2). Quando la fedeltà a Jahvè lo esige, questi
beni terreni devono quindi essere sacrificati senza esitazione (Gios 6, 17-21; 1
Sam 15); il sacrificio di Abramo restava un esempio di speranza perfetta nella
promessa dell’onnipotente (Gen 22). Questa situazione lasciava presagire che un
giorno Israele avrebbe conosciuto una «speranza migliore» (Ebr 7, 19) verso la
quale Dio condurrà lentamente il suo popolo.
II. JAHVÈ, SPERANZA DI ISRAELE E DELLE NAZIONI
Questo progresso fu anzitutto opera dei profeti, che, pur purificando ed
alimentando la speranza di Israele, gli hanno aperto prospettive già nuove.
1. La falsa speranza.
- Israele dimenticò sovente che un futuro felice era un dono del Dio
dell’*alleanza (Os 2, 10; Ez 16, 15 ss). Era quindi tentato di assicurarsi
questo futuro come le *nazioni: mediante un *culto formalistico, l’*idolatria,
la *potenza o le *alleanze. I profeti denunciano questa speranza illusoria (Ger
8, 15; 13, 16). Senza fedeltà non c'è da sperare la *salvezza (Os 12, 7; Is 26,
8 ss; 59, 9 ss). Il *giorno di Jahvè, «oscuro, senza luce alcuna» (Am 5, 20),
sarà «il giorno dell’ira» (Sof 1, 15 ss). Geremia (1-29) illustra tipicamente
questo aspetto del ministero profetico.
2. La vera speranza.
- Il futuro sembra talvolta richiudersi dinanzi ad Israele, che allora è tentato
di dire: «La nostra speranza è distrutta» (Ez 37, 11; cfr. Lam 3, 18). Per i
profeti la speranza è allora come nascosta (cfr. Is 8, 16 s), ma non deve
sparire; un resto sarà salvato (Am 9, 8 s; Is 10, 19 ss). La realizzazione del
disegno di Dio potrà così continuare. Nel momento del *castigo, l’annuncio di
questo «futuro pieno di speranza» (Ger 29, 11; 31, 17) si fa sentire alle
orecchie di Israele (Ger 30 - 33; Ez 34 - 48; Is 40 - 55), affinché sia
*consolato e la sua speranza permanga (Sal 9, 19). La stessa infedeltà di
Israele non gli deve impedire di sperare: Dio gli perdonerà (Os 11; Lam 3,
22-23; Is 54, 4-10; Ez 35, 29). Se anche la salvezza può tardare (Ab 2, 3; Sof
3, 8), è certa, perché Jahvè, *fedele e *misericordioso, è «la speranza di
Israele» (Ger 14, 8; 17, 13 s).
3. Una nuova speranza.
- La concezione profetica del futuro è molto complessa. I profeti annunciano la
*pace, la *salvezza, la *luce, la *guarigione, la *redenzione. Intravedono il
rinnovamento meraviglioso e definitivo del *paradiso, dell’*esodo, della
*alleanza o del *regno di *David. Israele «sarà saziato dalle *benedizioni» (Ger
31, 14) di Jahvè (Os 2, 23 s; Is 32, 15; Ger 31) e vedrà affluire verso di sé la
*ricchezza delle nazioni (Is 61). I profeti, figli dell’antico Israele, pongono
Israele e la sua felicità (*beatitudine) temporale al centro del futuro. Ma
aspirano pure al giorno in cui Israele sarà ripieno della *conoscenza di Dio (Is
11, 9; Ab 2, 14) perché Dio avrà rinnovato i *cuori (Ger 31, 33 ss; Ez 36, 25
ss), mentre le *nazioni si convertiranno (Is 2, 3; Ger 3, 17; Is 45, 14 s).
Questo futuro sarà l’epoca di un *culto finalmente perfetto (Ez 40 - 48; Zac
14), al quale prenderanno parte le nazioni (Is 56, 8; Zac 14, 16 s; cfr. Sal 86,
8 s; 102, 22 s). Ora il vertice del culto è la contemplazione di Jahvè (Sal 63;
84). Per i profeti la speranza di Israele e delle nazioni è Dio stesso (Is 60,
19 s; 63, 19; 51, 5) ed il suo regno (Sal 96 - 99). Tuttavia la felicità di
Israele, attesa per il futuro, rimane ancora collocata sulla terra e, salvo
eccezioni (Ez 18), resta collettiva, mentre la fedeltà, da cui dipende la sua
venuta, è individuale.
III. LA SPERANZA DELLA SALVEZZA PERSONALE E L’AL DI LÀ
Per i *pii e i *sapienti la speranza del VT è ormai destinata ad evolvere nella
cornice della fede nella *retribuzione personale. Questa fede urtava contro il
problema posto dalla *sofferenza del *giusto. Probabilmente la fine dell’esilio
a Babilonia, o un po’ più tardi, un profeta aveva bensì insegnato che questa
sofferenza doveva far nascere la speranza e non ostacolarla, perché era
*redentrice (Is 53). Ma questa anticipazione non ebbe seguito nel VT. La
speranza di Giobbe ad es., nonostante i presentimenti (Giob 13, 15; 19, 25 ss),
sfocia nell’oscurità (Giob 42, 1-6). La speranza dei mistici, ripiena della
presenza di Dio, sente di essere giunta al suo termine: la sofferenza e la morte
non hanno più veramente importanza per essa (Sal 73; 49, 16; cfr. 139, 8; 16).
La fede dei martiri fa nascere la speranza della *risurrezione (Dan 12, 1 ss; 2
Mac 7), mentre la speranza collettiva si rivolge verso il *figlio dell’uomo (Dan
7). La speranza dei sapienti si rivolge verso una *pace (Sap 3, 3), un *riposo
(4, 7), una *salvezza (5, 2) che non sono più sulla terra, ma nell’immortalità
(3, 4), presso il Signore (5, 15 s). In tal modo la speranza diventa personale
(5) e si orienta verso il mondo futuro. La speranza giudaica al tempo di Gesù
rifletteva le diverse forme della speranza di Israele. Attendeva un futuro nello
stesso tempo materiale e spirituale, accentrato in Dio ed in Israele, temporale
ed eterno, collettivo e individuale. La realizzazione di questo futuro in Gesù
avrebbe invitato la speranza a purificarsi ulteriormente.
NUOVO TESTAMENTO
I. LA SPERANZA DI ISRAELE REALIZZATA DA GESÙ
Gesù proclama l’avvento in questo mondo del *regno di Dio (Mt 4, 17). Ma questo
regno è una realtà spirituale, accessibile soltanto alla fede. Per essere
colmata, la speranza di Israele deve quindi rinunziare ad ogni aspetto materiale
della sua attesa: Gesù esige dai suoi discepoli che accettino la *sofferenza e
la *morte al suo seguito (Mt 16, 24 ss). D'altra parte il regno già presente è
non di meno ancora futuro. La speranza quindi continua, ma orientata unicamente
verso la *vita eterna (18, 8 s), verso la venuta gloriosa del *figlio dell’uomo
«che renderà a ciascuno secondo il suo operato» (16, 27; 25, 31-46). In attesa
di quel *giorno la Chiesa, forte delle promesse (16, 18) e della presenza di
Gesù (28, 20), deve finire di realizzare la speranza dei profeti, aprendo alle
*nazioni il regno e la sua speranza (8, 11 s; 28, 19).
II. GESÙ CRISTO, SPERANZA DELLA CHIESA
La speranza della Chiesa è, nella fede, una speranza pienamente
appagata. Infatti il dono dello *Spirito ha terminato di *compiere le *promesse
(Atti 2, 33. 39). Tutta la forza della sua speranza si concentra quindi
nell’attesa del ritorno di Gesù (1, 11; 3, 20). Chiamato parusia (Giac 5, 8; 1
Tess 2,19), *giorno del Signore, *visita, *rivelazione, questo futuro appare
vicinissimo (Giac 5, 8; 1 Tess 4, 13 ss; Ebr 10, 25. 37; 1 Piet 4, 7) e ci si
stupisce facilmente che tardi (2 Piet 3, 8 ss). In realtà verrà «come un ladro
nella *notte» (l Tess 5, 1 ss; Piet 3, 10; Apoc 3, 3; cfr. Mt 24, 36). Questa
incertezza esige che si *vegli (1 Tess 5, 6; 1 Pier 5, 8) con una *pazienza
incrollabile nelle *prove e nella *sofferenza (Giac 5, 7 ss; 1 Tess 1, 4 s; 1
Piet 1, 5 ss; cfr. Lc 21, 19). La speranza della Chiesa è gioiosa (Rom 12, 12),
anche nella sofferenza (1 Piet 4, 13; cfr. Mt 5, 11 s), perché la gloria attesa
è così grande (2 Cor 4, 17) da ridondare sul presente (1 Piet 1, 8 s). Essa
produce la sobrietà (1 Tess 5, 8; 1 Piet 4, 7) e il distacco (1 Cor 7, 29 ss; 1
Piet 1, 13 s; Tito 2, 12). Che sono infatti i beni terreni nei confronti della
speranza di «partecipare alla natura divina» (2 Piet 1, 4)? La speranza suscita
infine la *preghiera e l’*amore fraterno (1 Piet 4, 7 s; Giac 5, 8 s). Ancorata
nel mondo futuro (Ebr 6, 18), essa anima tutta la vita cristiana.
III. LA DOTTRINA PAOLINA DELLA SPERANZA
S. Paolo condivide la speranza della Chiesa, ma la ricchezza del suo pensiero e
della sua vita spirituale apporta al tesoro comune elementi di grande valore.
Così il posto che egli accorda alla «*redenzione del nostro corpo» (Rom 8, 23),
sia essa trasformazione dei viventi (1 Cor 15, 51; cfr. 1 Tess 4, 13-18), oppure
soprattutto *risurrezione dei morti. Non credere a quest’ultima significa per
Paolo essere «senza speranza (1 Tess 4, 13; 1 Cor 15, 19; cfr. Ef 2, 12). La
gloria non coronerà che «la costanza nella pratica del bene» (Rom 2, 7 s; cfr.
Ebr 6, 12). Ora la *libertà umana è fragile (Rom 7, 12-25). Il cristiano può
quindi sperare veramente di aver parte all’*eredità promessa (Col 3, 24)? Può e
deve, come *Abramo, «sperare contro ogni speranza», a motivo della sua *fede
nelle *promesse (Rom 4, 18-25) e della sua fiducia nella *fedeltà di Dio che
assicurerà la fedeltà dell’uomo (1 Tess 5, 24; 1 Cor 1, 9; cfr. Ebr 10, 23)
dalla sua chiamata (*vocazione) fino alla *gloria (Rom 8, 28-30). Il compimento
delle promesse in Gesù Cristo (1 Cor 1, 20) ha una parte fondamentale nella
riflessione di Paolo. La gloria attesa è una realtà attuale (2 Cor 3, 18 - 4,
6), benché invisibile (2 Cor 4, 18; Rom 8, 24 s). Il *battezzato è già
risuscitato (Rom 6, 1-7; Col 3, 1); nello Spirito che ha ricevuto come pegno (2
Cor 1, 22; 5, 5; Ef 1, 14) e *primizie (Rom 8, 11. 23) del mondo futuro,
possiede già questo mondo, e la sua speranza può così «sovrabbondare» (15, 13).
Dio ha fatto la *grazia della *giustificazione a uomini che Adamo trascinava
verso la *morte; «quanto più» la loro solidarietà con il suo Figlio li condurrà
alla *vita (Rom 5). Questo compimento in Cristo della speranza di Israele è la
rivelazione completa del motivo della speranza cristiana: un *amore tale che
nulla e nessuno può strappargli il cristiano (Rom 8, 31-39). Infine la speranza
personale di Paolo è un esempio mirabile. Essa si dispiega nella sua anima con
un'estrema intensità. Geme di non essere ancora appagata (2 Cor 5, 4 s; Rom 8,
23) ed esulta al pensiero dell’avvenire che attende (1 Cor 15; 54 ss). Alla sua
luce le speranze umane più legittime perdono ogni valore (Fil 3, 8). Fondandosi
soltanto sulla grazia di Dio e non sulle *opere (1 Cor 4, 4; 15, 10; Rom 3, 27),
essa non di meno anima con il suo dinamismo la *corsa (Fil 3, 13 s) e la lotta
(2 Tim 4, 7) che Paolo conduce per compiere la sua missione, pur evitando di
essere «egli stesso squalificato» (1 Cor 9, 26 s). Essa suscita allora, ma «nel
Signore», nuove speranze (Fil 2, 19; 2 Cor 1, 9 s; 4, 7-18). Quando la morte gli
sembra vicina, egli attende il premio (Fil 3, 14) che coronerà la sua corsa (2
Tim 4, 6 ss; cfr. 1 Cor 3, 8). Ma sa che la sua ricompensa è Cristo stesso (Fil
3, 8). La sua speranza è innanzitutto di essere con lui (Fil 1, 23; 2 Cor 5, 8).
L'apostolo non attende più la propria felicità personale, ma semplicemente
qualcuno che ama. Questo profondo disinteresse della sua speranza si manifesta
ancora con la sua apertura alla salvezza degli «altri» (2 Tim 4, 8; 2, 7),
cristiani (1 Tess 2, 19) o pagani, ai quali egli vuole rivelare Cristo «speranza
della gloria» (Col 1, 24-29). La speranza di Paolo abbraccia così, in tutta la
sua ampiezza (cfr. Rom 8, 19 ss), il disegno di Dio e risponde «con amore» (2
Tim 4, 8) all’amore del Signore.
IV. LE NOZZE DELL'AGNELLO
La speranza giovannea non cessa di essere attesa del ritorno del Signore (Gv 14,
3; 1 Gv 2, 18), della risurrezione e del giudizio (Gv 5, 28 s; 6, 39 s). Ma
preferisce riposarsi nel possesso di una vita eterna già donata al credente (3,
15; 6, 54; 1 Gv 5, 11 ss) che è già risuscitato (Gv 11, 25 s; 1 Gv 3, 14) e
giudicato (Gv 3, 19; 5, 24). Il passaggio del cristiano all’eternità non sarà
che la manifestazione tranquilla (l Gv 4, 17 s) di una realtà che già esiste (1
Gv 3, 2). Nell’Apocalisse le prospettive sono profondamente diverse. L'agnello
risorto, circondato da cristiani (Apoc 5, 11-14; 14, 1-5; 15, 2 ss), trionfa già
in cielo, di dove verrà la Chiesa sua *sposa (21, 2). Ma questa sposa è nello
stesso tempo sulla terra (22, 17) dove si svolge il dramma della speranza
cristiana alle prese con la storia. I trionfi apparenti delle potenze sataniche
minacciano di stancare questa speranza. In realtà il Verbo invincibile combatte
e regna a fianco dei suoi (19, 11- 16; 20, 1-6), e la *vittoria decisiva è
vicina (Apoc 1, 1; 2, 5; 3, 11; 22, 6. 12). La speranza dei cristiani deve
quindi trionfare sino alla venuta del «nuovo universo» che realizzerà infine
pienamente e definitivamente le profezie del VT (Apoc 21-22). Alla fine del
libro lo sposo promette: «Il mio ritorno è vicino», e la sposa gli risponde:
«Vieni, Signore Gesù!» (Apoc 22, 20). Questo appello riprende una preghiera
aramaica della Chiesa dei primi tempi: «Marana tha!» (cfr. 1 Cor 16, 22). La
speranza cristiana non troverà mai un’espressione migliore, perché in fondo
altro non è se non il desiderio ardente di un amore che ha fame della presenza
del suo Signore.
J. DUPLACY
→ angoscia 3 - ascensione IV - cielo VI - consolazione 1 - delusione -
desiderio - digiuno - eredità - fede - fiducia - gioia VT II 3; NT II 1 - giorno
del Signore VT II; NT II – liberazione-libertà II 3 - morte VT III 1.3; NT III 4
- notte VT 0.2 - parola di Dio VT III 2 - pazienza II 1 - persecuzione II -
promesse - provvidenza - resto - risurrezione NT II - salvezza NT II 2; NT II 3
- seminare I 2 b - tempo VT III; NT III - terra VT II 4; NT III - vedere NT lI -
vegliare I - vita III 3, IV 5.
In tutte le
lingue classiche e bibliche «spirito» è una parola suscettibile di sensi
diversissimi. Tra lo spirito divino e l’uomo di spirito, tra «rendere lo
spirito» e «vivere secondo lo Spirito», ci sono molte differenze, ma ci sono
pure analogie reali. Spirito tende sempre a designare in un essere l’elemento
essenziale ed inafferrabile, ciò che lo fa vivere e ciò che emana da esso senza
che egli voglia, ciò che è più esso stesso e ciò di cui egli non può rendersi
padrone.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Il vento.
- Lo spirito (in ebr. rûah) è il soffio, in primo luogo quello del
vento. C’è nel vento un mistero: ora di una violenza irresistibile, esso abbatte
le case, i cedri, le navi di alto mare (Ez 13, 13; 27, 26), ora si insinua con
un mormorio (1 Re 19, 12); ora dissecca col suo soffio torrido la terra sterile
(Es 14, 21; cfr. Is 30, 27-33), ora spande su di essa l’*acqua feconda che fa
germogliare la vita (1 Re 18, 45).
2. La respirazione.
- Come il vento sulla terra massiccia ed inerte, così il soffio del respiro,
fragile e vacillante, è la forza che solleva ed anima il corpo e la sua massa.
Di questo soffio l’uomo non è padrone, pur non potendone fare a meno, e muore
quando questo soffio si spegne. Come il vento, ma in modo molto più immediato,
il soffio del respiro, particolarmente quello dell’uomo, viene da Dio (Gen 2, 7;
6, 3; Giob 33, 4) ed a lui fa ritorno con la morte (Giob 34, 14 s; Eccle 12, 7;
Sap 15, 11).
3. Lo spirito dell’uomo.
- Questo soffio divino, finché rimane nell’uomo, gli appartiene
realmente, fa della sua *carne inerte un essere agente, un’*anima vivente (Gen
2, 7). D’altra parte, tutto ciò che tocca quest’anima, tutte le impressioni e le
emozioni dell’uomo si esprimono col suo respiro: la paura (Gen 41, 8), l’ira (Giud
8, 3), la gioia (Gen 45, 27), la fierezza, tutto modifica il suo soffio. La
parola rûah è quindi l’espressione stessa della coscienza umana, dello spirito.
Rimettere questo spirito nelle mani di Dio (Sal 31, 6 = Lc 23, 46) significa
nello stesso tempo esalare l’ultimo soffio e rimettere a Dio la propria unica
ricchezza, lo stesso essere.
4. Gli spiriti nell’uomo.
- La coscienza dell’uomo sembra talvolta invasa da una forza estranea e non più
appartenere a se stessa. Lo abita un altro che, anch’esso, non può essere che
uno spirito. Può essere una forza nefasta, la gelosia (Num 5, 14-30), l’odio (Giud
9, 23), la prostituzione (Os 4, 12), l’impurità (Zac 13, 2); può anche essere
uno spirito benefico di giustizia (Is 28, 6), di implorazione (Zac 12, 10). Il
VT, non potendo sondare le profondità di *Satana finché la redenzione non è
compiuta, esita ad attribuire gli spiriti perversi ad altri che a Dio (cfr. Giud
9, 23; 1 Sam 19, 9; 1 Re 22, 23...), ma afferma che in ogni caso gli spiriti
buoni vengono direttamente da Dio, ed ha il presentimento dell’esistenza di uno
Spirito *santo e santificatore, sorgente unica di tutte le trasformazioni
interiori (cfr. Is 11, 2; Ez 36, 26 s).
NUOVO TESTAMENTO
Anche nel NT si ritrova la stessa varietà di significati che nel VT. Il dono
dello Spirito Santo in Gesù Cristo fa inoltre apparire le vere dimensioni dello
spirito dell’uomo e degli spiriti che lo possono animare.
1. Il discernimento degli spiriti.
- Smascherando *Satana e gli spiriti malvagi, mettendo a nudo le loro astuzie ed
i loro punti deboli, Gesù Cristo rivela il suo potere su di essi. Nella potenza
dello Spirito scaccia i demoni, che non possono resistere alla sua santità (Mt
12, 28; Mc 1, 23-27; 9, 29; Lc 4, 41). Ai suoi discepoli dà l’identico potere
(Mc 6, 7; 16, 17). Tra i *carismi dello Spirito Santo quello del discernimento
degli spiriti (1 Cor 12, 10) occupa un buon posto; di fatto sembra aver rapporto
con il dono prezioso della *profezia; l’ufficio proprio degli spirituali,
«ammaestrati dallo Spirito», è di «discernere i doni di Dio» (1 Cor 2, 11 s) e
di «ricercare i migliori» (12, 31; cfr. 14, 12).
2. Lo Spirito si unisce al nostro spirito.
- Riconoscere lo Spirito di Dio non significa rinunziare alla propria
personalità, ma al contrario acquistarla. Nella linea del VT, il NT vede
nell’uomo un essere complesso, nello stesso tempo corpo, anima e spirito (cfr. 1
Tess 5, 23), e nello spirito una forza inseparabile dal soffio e dalla vita (Lc
8, 55; 23, 46), sensibile a tutte le emozioni (Lc 1, 47; Gv 11, 33; 13, 21; 2
Cor 2, 13; 7, 13), spesso in lotta con la *carne (Mt 26, 41; Gal 5, 17). Ma
l’esperienza essenziale è che nello spirito del credente abita lo Spirito di Dio
che lo rinnova (Ef 4, 23),«si unisce a lui» (Rom 8, 16) per suscitare in lui la
preghiera e il grido filiale (8, 26), per «unirlo al Signore e non formare con
lui che un solo spirito» (1 Cor 6, 17). Ne consegue che in molti casi,
specialmente in Paolo, è impossibile decidere se la parola designa lo spirito
dell’uomo o lo Spirito di Dio, ad es. quando parla del «fervore dello spirito al
servizio del Signore» (Rom 12, 11), oppure quando associa «uno spirito santo,
una carità senza simulazione» (2 Cor 6, 6...). Questa ambiguità, che crea
imbarazzo al traduttore, è una luce per la fede: è la prova che lo spirito di
Dio, anche quando invade lo spirito dell’uomo e lo trasforma, gli lascia tutta
la sua personalità; significa che, per prendere possesso in tal modo della sua
creatura facendola esistere dinanzi a sé, «Dio è spirito» (Gv 4, 24). Poiché
*Dio è spirito, ciò che *nasce da Dio, «essendo nato dallo spirito, è spirito» (Gv
3, 6) ed è capace di servire Dio «in spirito e verità» (4, 24), di rinunziare
alla *carne ed alle sue «opere morte» (Ebr 6, 1) per produrre il *frutto dello
spirito (Gal 5, 22) che vivifica (Gv 6, 63).
J. GUILLET
→ adorazione II 3 - anima - angeli 0 - carne - cuore - demoni - Dio NT V -
frutto IV - scrittura IV, V - Spirito di Dio 0 - uomo.
Lo Spirito di Dio
non può essere separato dal Padre e dal Figlio; si rivela con essi in Gesù
Cristo, ma ha il suo modo proprio di rivelarsi, come ha la sua propria
personalità. Il *Figlio, nella sua umanità identica alla nostra, ci rivela nello
stesso tempo chi egli è e chi è colui che egli non cessa di fissare: il *Padre.
Del Figlio e del Padre possiamo disegnare i tratti, ma lo Spirito non ha volto e
neppure nome suscettibile di evocare una figura umana. In tutte le lingue il suo
nome (ebr. rûah, gr. pnèuma, lat. spiritus) è un nome comune, desunto dai
fenomeni naturali del vento e della respirazione, per modo che lo stesso testo:
«mandi il tuo soffio, ed essi [gli animali] sono creati, e rinnovi la faccia
della terra» (Sal 104, 30) può evocare con altrettanta esattezza sia l’immagine
cosmica del soffio divino il cui ritmo regola il movimento delle stagioni, sia
l’effusione dello Spirito Santo che vivifica i cuori. È impossibile mettere la
mano sullo Spirito; si «sente la sua voce», si riconosce il suo passaggio da
segni sovente smaglianti, ma non si può sapere «né donde viene, né dove va» (Gv
3, 8). Non agisce mai se non attraverso un’altra persona, prendendone possesso e
trasformandola. Indubbiamente produce manifestazioni straordinarie che
«rinnovano la faccia della terra» (Sal 104, 30), ma la sua azione parte sempre
dall’interno e la si conosce dall’interno: «Voi lo conoscete perché egli dimora
in voi» (Gv 14, 17). I grandi simboli dello Spirito, l’*acqua, il *fuoco, l’aria
ed il vento, appartengono al mondo della natura e non comportano figure
distinte; evocano soprattutto l’irruzione di una *presenza, una espansione
irresistibile e sempre in profondità. Tuttavia lo Spirito non è né più né meno
misterioso del Padre e del Figlio, ma ci ricorda più imperiosamente che Dio è il
*mistero, ci impedisce di dimenticare che «Dio è Spirito» (Gv 4, 24) e che «il
Signore è lo Spirito» (2 Cor 3, 17).
VECCHIO TESTAMENTO
Lo Spirito di Dio non vi è ancora rivelato come una persona, ma come una *forza
divina che trasforma le personalità umane per renderle capaci di atti
eccezionali. Questi atti sono sempre destinati a confermare il popolo nella sua
vocazione, a farne il servo ed il partner del Dio *santo. Essendo venuto da Dio
e orientando verso Dio, lo Spirito è uno Spirito santo. Essendo venuto dal Dio
di Israele e consacrando Israele al Dio dell’alleanza, lo Spirito è
santificatore. Questa azione e questa rivelazione si affermano particolarmente
secondo tre linee: linea messianica della salvezza, linea profetica della parola
e della testimonianza, linea sacrificale del servizio e della consacrazione.
Secondo queste tre linee, il popolo di Israele è chiamato tutto a ricevere lo
Spirito.
I. SPIRITO DI SALVEZZA
1. I Giudici.
- I Giudici di Israele sono suscitati dallo Spirito di Dio. Senza che se
l’aspettino e senza che nulla ve li predisponga, senza poter opporre resistenza,
semplici figli di contadini, Sansone, Gedeone, Saul sono bruscamente e
totalmente mutati, non soltanto resi capaci di atti eccezionali di audacia o di
forza, ma dotati di una personalità nuova, capaci di svolgere una funzione e di
compiere una missione, quella di liberare il loro popolo. Per mezzo delle loro
mani e del loro spirito, lo Spirito di Dio prolunga l’epopea dell’esodo e del
deserto, assicura l’*unità e la *salvezza di Israele, e viene così a trovarsi
alla *sorgente del *popolo santo. La sua azione è già interiore, quantunque
ancora designata con immagini che sottolineano l’influsso improvviso e strano:
lo Spirito «fu» su Otoniel o Jefte (Giud 3, 10; 11, 29), «piomba» come un rapace
sulla preda (Giud 14, 6; 1 Sam 11, 6), «riveste» come con una armatura (Giud 6,
34).
2. I re.
- I Giudici non sono che liberatori temporanei e lo spirito li lascia non appena
compiuta la loro missione. Hanno come eredi i *re, incaricati di una funzione
permanente. Il rito dell’*unzione che li consacra manifesta l’impronta
indelebile dello spirito e li riveste di una maestà sacra (1 Sam 10, 1; 16,13).
3. Il Messia.
- L'unzione rituale non basta a fare dei re i servi fedeli di Dio, capaci di
assicurare ad Israele la salvezza, la giustizia e la pace. Per assolvere questo
compito occorre un’azione dello Spirito più penetrante, l’unzione diretta di Dio
che segnerà il *Messia. Su di lui lo Spirito non soltanto discenderà, ma
*riposerà (Is 11, 2); in lui farà rifulgere tutti i suoi doni, «la *sapienza e
l’intelletto» come in Bezaleel (Es 35, 31) od in Salomone, «il consiglio e la
*forza» come in David, «la scienza (*conoscenza) ed il *timore di Dio», ideale
delle grandi anime religiose in Israele. Questi *doni apriranno al paese così
governato un’era di felicità e di santità (Is 11, 9).
II. SPIRITO E TESTIMONIANZA
1. I nabi.
- Questi precursori dei profeti, professionisti della esaltazione religiosa, non
sempre distinguono tra le pratiche umane che li trasportano in estasi e l’azione
divina. Tuttavia essi sono una delle forze vive di Israele, perché rendono
*testimonianza alla *potenza di Jahvè; e nella forza che li faceva parlare in
nome del vero Dio si riconosceva la presenza del suo Spirito (Es 15, 20; Num 11,
25 ss; 1 Sam 10, 6; 1 Re 18, 22).
2. I profeti.
- Se i grandi *profeti, per lo meno i più antichi, non si appellano allo
Spirito, se preferiscono sovente chiamare mano di Dio la forza che li afferra (Is
8, 11; Ger 1, 9; 15, 17; Ez 3, 14), non è perché non pensino di possedere lo
Spirito, ma perché hanno coscienza di possederlo in modo diverso dai nabi loro
precursori. Hanno un mestiere ed una posizione sociale, sono in piena coscienza
e sovente tutto il loro essere si rivolta, e nondimeno una pressione sovrana li
costringe a parlare (Am 3, 8; 7, 14 s; Ger 20, 7 ss). La parola che annunziano
viene da essi, e ben sanno a qual prezzo, ma non è nata in essi, è la parola
stessa del Dio che li manda. Si delinea così il legame, che appare già in Elia
(1 Re 19, 12 s) e non cesserà più, tra la *parola di Dio e il suo Spirito; in
tal modo lo Spirito non si limita a suscitare una personalità nuova al servizio
della sua azione, ma le dà accesso al senso ed al segreto di questa azione. Lo
Spirito non è più soltanto «intelligenza e forza», ma «conoscenza di Dio» e
delle sue vie (cfr. Is 11, 3). Lo Spirito che apre i profeti alla parola di Dio,
fino a rivelare loro la gloria divina (Ez 3, 12; 8, 3), nello stesso tempo li fa
«alzare» (Ez 2, 1; 3, 24) per parlare al popolo (Ez 11, 5) ed annunciargli il
*giudizio che viene. In tal modo fa di essi dei testimoni, rende egli stesso
testimonianza a Dio (Neem 9, 30; cfr. Zac 7, 12).
III. SPIRITO E CONSACRAZIONE. IL SERVO DI JAHVÈ
La convergenza tra la funzione messianica e liberatrice dello spirito e la sua
funzione profetica di annunciatore della parola e del giudizio, già manifesta
nel Messia di Isaia, si afferma pienamente nel *servo di Jahvè. Poiché Dio «ha
posto su di lui il suo Spirito», il servo «annunzierà la giustizia alle nazioni»
(Is 42, 1; cfr. 61, 1 ss). Il profeta annunzia la *giustizia, ma il re la
stabilisce. Ora il servo «con le sue sofferenze giustificherà molti» (53, 11),
cioè li stabilirà nella giustizia; la sua missione ha quindi qualcosa di regale.
Compiti profetici e compiti messianici si uniscono, realizzati dallo stesso
Spirito. Poiché d’altra parte il servo è colui nel quale «Dio trova piacere»
(42, 1), il piacere che egli si aspetta dai *sacrifici che gli sono dovuti,
tutta la vita e la morte del suo servo sono sacre a Dio, *espiazione per i
peccatori, salvezza delle moltitudini. Lo Spirito Santo è santificatore.
IV. LO SPIRITO SUL POPOLO
L’azione dello Spirito nei profeti e nei servi di Dio è anch’essa
profetica; annuncia la sua effusione su tutto il popolo, simile alla pioggia che
rende la vita alla terra assetata (Is 32, 15; 44, 3; Ez 36, 25; Gioe 3, 1 s),
come il soffio di vita viene ad animare le ossa inaridite (Ez 37). Questa
effusione dello Spirito è come una *nuova *creazione, l’avvento, in una terra
rinnovata, del *diritto e della giustizia (Is 32, 16), l’avvento, nei *cuori
trasformati, di una sensibilità ricettiva della voce di Dio, di una fedeltà
spontanea alla sua parola (Is 59, 21; Sal 143, 10) ed alla sua alleanza (Ez 36,
27), del senso della implorazione (Zac 12, 10) e della *lode (Sal 51, 17).
Rigenerato dallo Spirito, Israele riconoscerà il suo Dio e Dio ritroverà il suo
popolo: «Io non celerò più loro la mia *faccia, perché avrò diffuso il mio
Spirito sulla casa di Israele» (Ez 39, 29). Questa visione è ancora soltanto una
speranza. Nel VT lo Spirito non può *rimanere, «non è ancora dato» (Gv 7, 39).
Indubbiamente si sa che, fin dalle origini, al tempo del Mar Rosso e della
*nube, lo Spirito Santo agiva in Mosè e portava Israele al luogo del suo *riposo
(Is 63, 9-14). Ma si vede pure che il popolo è sempre capace di «contristare lo
Spirito Santo» (63, 10) e di paralizzarne l’azione. Affinché il dono diventi
totale e definitivo occorre che Dio compia un atto inaudito, intervenga di
persona: «Tu, o Jahvè, sei il nostro padre... Perché, o Jahvè, lasci che noi
erriamo lontano dalle tue vie?... Ah! Se tu lacerassi i cieli e díscendessi...»
(63, 15-19). I cieli aperti, un Dio Padre, un Dio che discende sulla terra, dei
cuori convertiti, tale sarà di fatto l’opera dello Spirito Santo, la sua
manifestazione definitiva in Gesù Cristo.
V. CONCLUSIONE: SPIRITO E PAROLA
Da un capo all’altro del VT lo Spirito e la *parola di Dio non cessano di agire
insieme. Se il Messia può osservare la parola della *legge data da Dio a Mosè e
realizzare la giustizia, si è perché ha lo Spirito; se il profeta rende
testimonianza alla parola, si è perché lo Spirito lo ha afferrato; se il servo
può portare alle nazioni la parola della salvezza, si è perché lo Spirito riposa
su di lui; se Israele è capace un giorno di aderire in cuor suo a questa parola,
ciò sarà soltanto nello Spirito. Inseparabili, le due potenze hanno tuttavia dei
tratti ben distinti. La parola penetra dal di fuori, come la spada mette a nudo
le carni; lo Spirito è fluido e si infiltra insensibilmente. La parola si fa
sentire e conoscere; lo Spirito rimane invisibile. La parola è rivelazione; lo
Spirito trasformazione interna. La parola si leva, ritta, sussistente; lo
Spirito scende, si diffonde, sommerge. Questa divisione dei compiti e la loro
necessaria associazione si ritrovano nel NT: la parola di Dio fatta carne per
opera dello Spirito non fa nulla senza lo Spirito, e la consumazione della sua
opera è il dono dello Spirito.
NUOVO TESTAMENTO
I. LO SPIRITO IN GESÙ
1. Il battesimo di Gesù.
- Giovanni Battista, attendendo il Messia, attendeva nello stesso tempo lo
Spirito in tutta la sua potenza; agli atti dell’uomo esso avrebbe sostituito
l’irresistibile azione di Dio: «Io vi battezzo nell’acqua per la penitenza...,
egli vi battezzerà nello Spirito Santo e nel *fuoco» (Mt 3, 11). Dei simboli
tradizionali Giovanni ritiene il più inaccessibile, la fiamma. Gesù non ripudia
questo annuncio, ma lo compie in un modo che confonde Giovanni. Riceve il suo
*battesimo, e lo Spirito si manifesta su di lui in una forma che è nello stesso
tempo semplicissima e divina, associato all’acqua e al vento, nella visione del
*cielo che si apre e donde discende una *colomba. Il battesimo di acqua, che
Giovanni credeva abolito, diventa, per l’atto di Gesù, il battesimo nello
Spirito. Nell’uomo che si confonde tra i peccatori lo Spirito rivela il *Messia
promesso (Lc 3, 22 = Sal 2, 7), 1'*agnello offerto in sacrificio per il peccato
del mondo (Gv 1, 29), ed il Figlio diletto (Mc 1, 11). Ma lo rivela nel suo modo
misterioso, senza apparenza di azione; il Figlio agisce e si fa battezzare, il
Padre parla al Figlio, ma lo Spirito non parla e non agisce. Tuttavia la sua
presenza è necessaria al dialogo tra il Padre ed il Figlio. Indispensabile, lo
Spirito, rimane tuttavia muto ed apparentemente inattivo: non unisce la sua voce
a quella del Padre, non unisce alcun atto a quello di Gesù. che fa dunque? - Fa
sì che avvenga l’incontro, comunica a Gesù la parola di compiacimento, di
fierezza e di amore che gli viene dal Padre e lo pone nel suo atteggiamento di
Figlio. Verso il Padre lo Spirito Santo fa salire la consacrazione di Cristo, le
*primizie del sacrificio del Figlio diletto.
2. Gesù concepito di Spirito Santo.
- La presenza dello Spirito in Gesù, manifestata soltanto al battesimo, risale
alle origini stesse del suo essere. II battesimo di Gesù non è una scena di
vocazione, ma l’investitura del Messia e la presentazione da parte di Dio del
Figlio suo, il servo che egli teneva in serbo, come annunciavano gli «ecco»
profetici (Is 42, 1; 52, 13). I giudici, i profeti, i re, si trovano un giorno
invasi dallo Spirito, Giovanni Battista ne è afferrato tre mesi prima di
nascere; in Gesù lo Spirito non determina una personalità nuova; fin dal suo
primo istante egli abita in lui e lo fa esistere; fin dal seno materno fa di
Gesù il Figlio di Dio. I vangeli dell’infanzia sottolineano entrambi
quest’azione iniziale (Mt 1, 20; Lc 1, 35). Quello di Luca, col suo modo di
paragonare l’annunciazione a Maria alle annunciazioni anteriori, indica
nettamente che quest’azione è più che una consacrazione. Sansone (Giud 13, 5),
Samuele (1 Sam 1, 11) e Giovanni Battista (Lc 1, 15) erano stati tutti e tre
consacrati a Dio fin dal loro concepimento, in un modo più o meno totale e
diretto. Gesù invece, senza la mediazione di alcun rito, senza l’intervento di
alcun uomo, ma per la sola azione dello Spirito in *Maria, non è più soltanto
consacrato a Dio, ma «santo» per il suo stesso essere (Lc 1, 35).
3. Gesù agisce nello Spirito.
- Con tutta la sua condotta Gesù manifesta l’azione in sé dello Spirito (Lc 4,
14). Nello Spirito egli affronta il *demonio (Mt 4, 1) e ne libera le vittime
(12, 28), apporta ai poveri la buona novella e la parola di Dio (Lc 4, 18).
Nello Spirito ha accesso al Padre (Lc 10, 21). I suoi *miracoli che sconfiggono
il male e la morte, la forza e la verità della sua parola, la sua familiarità
immediata con Dio sono la prova che su di lui «riposa lo Spirito» (Is 61, 1) e
che egli è nello stesso tempo il Messia che salva, il profeta atteso ed il servo
diletto. Negli ispirati di Israele le manifestazioni dello Spirito avevano
sempre qualcosa di occasionale e di transitorio; in Gesù sono permanenti. Egli
non riceve la parola di Dio; qualunque cosa dica, la esprime; non aspetta il
momento di fare un miracolo: il miracolo nasce da lui, come da noi l’atto più
semplice; non riceve le confidenze divine: vive sempre dinanzi a Dio in una
trasparenza totale. Nessuno ha mai posseduto lo Spirito come lui, «al di là di
ogni misura» (Gv 3, 34). Così pure nessuno l’ha mai posseduto allo stesso modo.
Gli ispirati del VT, anche quando conservano tutta la loro coscienza, sanno di
essere afferrati da uno più forte di essi. Nessuna traccia in Gesù di
costrizione, di ciò che indica ai nostri occhi l’ispirazione. Per compiere le
opere di Dio si direbbe che egli non ha bisogno dello Spirito. Non già che possa
mai farne a meno, come non può fare a meno del Padre; ma come il Padre «è sempre
con» lui (Gv 8, 29), così lo Spirito non può mai mancargli. L'assenza in Gesù
delle ripercussioni abituali dello Spirito è un segno della sua divinità. Egli
non avverte lo Spirito come una forza che lo invada dal di fuori, ma è di casa
nello Spirito; lo Spirito gli appartiene, è il suo proprio Spirito (cfr. Gv 6,
14 s).
II. GESÙ PROMETTE LO SPIRITO
Ripieno dello Spirito e non agendo se non per mezzo suo, Gesù tuttavia
quasi non ne parla. Lo manifesta con tutti i suoi atti, ma finché vive in mezzo
a noi, non può mostrarlo distinto da sé. Affinché lo Spirito sia effuso e
riconosciuto bisogna che Gesù se ne vada (Gv 7, 39; 16, 7); allora si
riconoscerà quel che è lo Spirito e che viene da lui. Gesù quindi non parla ai
suoi dello Spirito se non separandosi sensibilmente da essi, in modo temporaneo
(Mt 10, 20) o definitivo (Gv 14, 16 s. 26; 16, 13 ss). Nei sinottici sembra che
lo Spirito non debba manifestarsi se non nelle situazioni gravi, in mezzo ad
avversari trionfanti, dinanzi ai tribunali (Mc 13, 11). Ma le confidenze del
discorso dopo la cena sono più precise: l’ostilità del *mondo per Gesù non è un
fatto accidentale, e se non la manifesta ogni giorno con *persecuzioni violente,
tuttavia ogni giorno i discepoli sentiranno pesare su di sé la sua minaccia (Gv
15, 18-21), e perciò ogni giorno anche lo Spirito sarà con essi (14, 16 s). Come
Gesù ha confessato il Padre suo con tutta la sua vita (Gv 5, 41; 8, 50; 12, 49),
così i discepoli dovranno rendere *testimonianza al Signore (Mc 13, 9; Gv 15,
27). Essi, finché Gesù viveva con loro, non temevano nulla; egli era il loro *paraclito,
sempre presente per prendere la loro difesa e trarli d’impaccio (Gv 17, 12).
Dopo la sua partenza, lo Spirito occuperà il suo posto per essere il loro
paraclito (14, 16; 16, 7). Distinto da Gesù, egli non parlerà in nome proprio,
ma sempre in nome di Gesù, da cui è inseparabile e che egli «glorificherà» (16,
13 s). Ricorderà ai discepoli gli atti e le parole del Signore e ne darà loro
l’intelligenza (14, 26); darà loro la forza di affrontare il mondo nel *nome di
Gesù, di scoprire il senso della sua *morte e di rendere testimonianza al
mistero divino che si è compiuto in questo fatto scandaloso: la condanna del
peccato, la sconfitta di Satana, il trionfo della *giustizia di Dio (16, 8-11).
III. GESÙ DISPONE DELLO SPIRITO
Morto e risorto, Gesù fa alla Chiesa il dono del suo Spirito. Un uomo che muore,
per quanto grande sia stato il suo spirito, per quanto profonda rimanga la sua
influenza, è non di meno condannato ad entrare nel passato. La sua azione gli
può sopravvivere, ma non gli appartiene più; egli non può più nulla su di essa e
deve abbandonarla alla mercé dei capricci degli uomini. Invece Gesù, quando
muore e «rende il suo Spirito» a Dio, lo «trasmette» nello stesso tempo alla sua
Chiesa (Gv 19, 30). Fino alla sua morte, lo Spirito sembrava circoscritto nei
limiti normali della sua individualità umana e del suo raggio di azione. Ora che
è esaltato alla destra del Padre nella gloria (12, 23), il *figlio dell’uomo
raduna l’umanità salvata (12, 32) ed effonde su di essa lo Spirito (7, 39; 20,
22 s; Atti 2, 33).
IV. LA CHIESA RICEVE LO SPIRITO
La Chiesa, nuova creazione, non può nascere che dallo Spirito, da cui ha origine
tutto ciò che nasce da Dio (Gv 3, 5 s). Gli Atti sono come «un vangelo dello
Spirito». L'azione dello Spirito vi presenta i due tratti osservati già nel VT.
Da una parte, prodigi ed atti eccezionali: ispirati presi da emozioni estatiche
(Atti 2, 4. 6. 11), ammalati e indemoniati liberati (3, 7; 5, 12. 15...),
sicurezza eroica dei discepoli (4, 13. 31; 5, 20; 10, 20). Dall’altra parte
queste meraviglie, *segni della salvezza definitiva, attestano che la
conversione è possibile, che i peccati sono perdonati, che è giunta l’ora in
cui, nella Chiesa, Dio effonde il suo Spirito (2, 38; 3, 26; 4, 12; 5, 32; 10,
43). Questo Spirito è lo Spirito di Gesù: fa ripetere gli atti di Gesù, fa
annunziare la parola di Gesù (4, 30; 5, 42; 6, 7; 9, 20; 18, 5; 19,10. 20), fa
ridire la preghiera di Gesù (Atti 7, 59 s = Lc 23, 34. 46; Atti 21, 14 = Lc 22,
42), fa perpetuare nella frazione del pane il ringraziamento di Gesù; conserva
tra i fratelli l’unione (Atti 2, 42; 4, 32) che raggruppava i discepoli attorno
a Gesù. Impossibile pensare al persistere di abitudini prese al suo contatto, ad
una volontà deliberata di riprodurre la sua esistenza. Vivendo con essi, gli era
stata necessaria tutta la forza della sua personalità per conservarli attorno a
sé. Ora che non lo vedono più, e pur sapendo dal suo esempio a che cosa si
espongono, i suoi discepoli seguono le sue orme spontaneamente: hanno ricevuto
lo Spirito di Gesù. Lo Spirito Santo è la *forza che spinge la Chiesa nascente
«fino alle estremità della terra» (1, 8); ora egli si impadronisce direttamente
dei pagani (10, 44), dimostrando in tal modo che è «effuso su ogni carne» (2,
17), ora manda in *missione coloro che sceglie, Filippo (8, 26. 29 s), Pietro
(10, 20), Paolo e Barnaba (13, 2. 4). Ma non si trova soltanto al punto di
partenza: accompagna e guida l’azione degli apostoli (16, 6 s), dà alle loro
decisioni la sua *autorità (15, 28). Se la parola «*cresce e si moltiplica» (6,
7; 12, 24), la sorgente interna di questo slancio nella gioia è lo Spirito (13,
52).
V. L'ESPERIENZA DELLO SPIRITO IN S. PAOLO
1. Lo Spirito, gloria di Cristo in noi.
- «Colui che ha risuscitato Gesù» (Rom 8, 11) con la potenza del suo Spirito di
santità (Rom 1, 4) ed ha fatto di lui uno «spirito vivificatore» (1 Cor 15, 45),
ha fatto nello stesso tempo dello Spirito «la gloria del Signore» risorto (2 Cor
3, 18). Il dono dello Spirito Santo è la *presenza in noi della *gloria del
Signore che ci trasforma a sua *immagine. Paolo quindi non separa Cristo e lo
Spirito, vita «in Cristo» e vita «nello Spirito». «Vivere, è Cristo» (Gal 2,
20), ed è pure lo Spirito (Rom 8, 2. 10). Essere «in Cristo Gesù» (Rom 8, 1), è
vivere «nello Spirito» (8, 5...).
2. I segni dello Spirito.
- La vita nello Spirito non è ancora possesso intuitivo dello Spirito, ma una
vita nella fede; tuttavia è un’esperienza reale ed una certezza concreta, perché
è, attraverso segni, l’esperienza di una presenza. Questi segni sono
estremamente vari. Tuttavia tutti, dai *carismi relativamente esterni, il dono
delle lingue o di guarigione (1 Cor 12, 28 s; 14, 12), fino ai «doni superiori»
(12, 31) di fede, di speranza e di carità, sono al servizio del vangelo a cui
rendono testimonianza (1 Tess 1, 5 s; 1 Cor 1, 5 s) e del *corpo di Cristo che
edificano (1 Cor 12, 4-30). Attraverso gli atti e gli stati dell’uomo,
attraverso «i doni che Dio ci ha fatti» (1 Cor 2, 12), tutti fanno pure
percepire una presenza personale, qualcuno che «abita» (Rom 8, 11) in noi, che
«attesta» (8, 16), che «intercede» (8, 26), che «si unisce al nostro *spirito»
(8, 16) e «grida nei nostri cuori» (Gal 4, 6).
3. Lo Spirito, fonte della nuova vita.
- Sotto forme molto varie l’esperienza dello Spirito è in fondo sempre
identica: ad un’esistenza condannata e già segnata dalla *morte è succeduta la
*vita. Alla *legge, che ci teneva prigionieri nella vetustà della lettera,
sottentra «la novità dello Spirito» (Rom 7, 6); alla *maledizione della legge
sottentra la *benedizione di Abramo nello Spirito della promessa (Gal 3, 13 s);
all’*alleanza della lettera che uccide succede l’alleanza dello Spirito che
vivifica (2 Cor 3, 6). Al peccato, che imponeva la legge della *carne, succede
la legge dello Spirito e della giustizia (Rom 7, 18. 25; 8, 2. 4). Alle opere
della carne succedono i *frutti dello Spirito (Gal 5, 19-23). Alla condanna, che
faceva pesare sul peccatore la «tribolazione e l’angoscia» (Rom 2, 9) dell’*ira
divina, sottentrano la *pace e la *gioia dello Spirito (1 Tess 1, 6; Gal 5, 22
...). Questa vita ci è data, e nello Spirito noi non manchiamo di alcun dono (1
Cor 1, 7), ma ci è data nella lotta, perché in questo mondo non abbiamo ancora
dello Spirito che la «caparra» (2 Cor l, 22; 5, 5; Ef 1, 14) e le «primizie»
(Rom 8, 23). Lo Spirito ci chiama alla lotta contro la carne; agli indicativi,
che affermano la sua presenza, si mescolano costantemente gli imperativi che
proclamano le sue esigenze: «Poiché lo Spirito è la nostra vita, lo Spirito ci
faccia pure agire» (Gal 5, 25; cfr. 6, 9; Rom 8, 9. 13; Ef 4, 30) e trasformi
gli «esseri di carne, bambini in Cristo» in «uomini spirituali» (1 Cor 3, 1).
4. Lo Spirito e la Chiesa.
- La nuova creazione nata dallo Spirito è la Chiesa. Chiesa e Spirito sono
inseparabili: l’esperienza dello Spirito avviene nella Chiesa e dà accesso al
mistero della Chiesa. I *carismi sono tanto più preziosi, in quanto
contribuiscono più efficacemente ad edificare la Chiesa (1 Cor 12, 7; 14, 4...)
ed a consacrare il *tempio di Dio (1 Cor 3, 16; Ef 2, 22). Rinnovando
incessantemente la sua azione ed i suoi doni, lo Spirito lavora costantemente
all’ *unità del corpo di Cristo (1 Cor 12, 13). Spirito di *comunione (Ef 4, 3;
Fil 2, 1), che effonde nei cuori il dono supremo della carità (1 Cor 13; 2 Cor
6, 6; Gal 5, 22; Rom 5, 5), egli li raccoglie tutti nella sua *unità (Ef 4, 4).
5. Lo Spirito di Dio.
- «Un solo corpo ed un solo Spirito... un solo Signore... un solo Dio»
(Ef 4, 4 ss). Lo Spirito unisce perché è lo Spirito di Dio; lo Spirito consacra
(2 Cor 1, 22) perché è lo Spirito del Dio santo. Tutta l’azione dello Spirito
consiste nel farci accedere a Dio, nel metterci in comunicazione viva con Dio,
nell’introdurci nelle sue profondità sacre e nell’aprirci i segreti di Dio» (1
Cor 2, 10 s). Nello Spirito noi conosciamo Cristo e confessiamo che «Gesù è
Signore» (12, 3), preghiamo Dio (Rom 8, 26) e lo chiamiamo con il suo *nome: «Abba»
(Rom 8, 15; Gal 4, 6). Dal momento che possediamo lo Spirito, nulla al mondo ci
può portare alla perdizione, perché Dio si è donato a noi, e noi viviamo in lui.
J. GUILLET
→ acqua III 2, IV - amore I NT 3 - anima Il 1 - battesimo III, IV -
benedizione IV 3 - bestemmia NT 1 - carismi - carne II 2 - Chiesa IV 1.2 -
colomba 3 - conoscere NT 3 - consolare 2 - culto NT II, III - desiderio III -
Dio NT II 4, V - dono NT I - educazione III 1 - frutto IV - fuoco NT II 2 -
gioia NT I 2, II 1 - grazia V - imposizione delle mani - insegnare NT II -
missione VT III 2; NT III - nascita (nuova) 3 a - nube 5 - olio 2 - Paraclito -
parola di Dio VT I 1 - Pentecoste II – potenza IV 2, V - preghiera V 2 d -
presenza di Dio VT III 2; NT II, III - profeta VT 1 2; NT II 3 - promesse III 3
- rimanere II 3 - rivelazione NT I 2 b - santo NT Il, III - sapienza VT III 3;
NT II 2 - sigillo 2 b - sogni - spirito VT 4, NT - tempio NT II 2 - tradizione
NT II 2 a b - ubriachezza 3 - unzione III 5.6 - verità NT 3 b - virtù e vizi 2 -
vocazione III.
SPOSO - SPOSA (inizio)
Il nome di sposo
è uno di quelli che Dio dà a se stesso (Is 54, 5) e che esprime il suo *amore
per la sua creatura. A questo titolo se ne parla qui, mentre la voce *matrimonio
espone ciò che concerne il focolare umano.
VECCHIO TESTAMENTO
Dio non si rivela soltanto nel suo *nome misterioso (Es 3, 14 s); altri
nomi, tratti dall’esperienza quotidiana della vita, lo fanno conoscere nei suoi
rapporti con il suo popolo: egli ne è il *pastore ed il *padre, ne è pure lo
sposo. Non si tratta qui di un mito, come ne conosce la religione cananea, in
cui il dio-sposo feconda la terra della quale è il Baal (= signore e marito: Os
2, 18; cfr. Giud 2, 11 s); a questo mito corrispondono riti *sessuali,
specialmente la prostituzione sacra. Tali riti appaiono legati all’*idolatria;
perciò, per meglio stigmatizzare quest’ultima, il Dio geloso che la condanna la
chiama una prostituzione (cfr. Es 34, 15 s; Is 1, 21). Il Dio di Israele non è
lo sposo della sua terra, ma del suo popolo; l’amore che li unisce ha una
storia; le iniziative gratuite di Dio ed il trionfo della sua *misericordia
sulla infedeltà del suo popolo sono dei temi profetici. Essi compaiono anzitutto
in Osea, che ha acquistato coscienza del loro valore simbolico attraverso la sua
propria esperienza coniugale.
1. L’esperienza dì Osea: la sposa amata ed infedele.
- Osea sposa una donna che ama e che gli dà dei figli, ma che lo abbandona per
darsi alla prostituzione in un tempio. Tuttavia il profeta la redime e la
riconduce a casa. Un tempo di austerità e di prova la preparerà a riprendere il
suo posto al focolare (Os 1- 3). Tale è il senso probabile di questo racconto
drammatico. In questa esperienza coniugale il profeta scopre il mistero dei
rapporti tra l’amore di Dio che si allea ad un popolo ed il tradimento
dell’alleanza da parte di Israele. L’*alleanza assume un carattere nuziale.
L’idolatria non è soltanto una prostituzione: è un *adulterio, l’adulterio di
una sposa colmata di doni che dimentica tutto ciò che ha ricevuto. L’*ira divina
è quella di uno sposo che, castigando la sposa infedele, la vuole convertire e
rendere nuovamente degna del suo amore. Questo amore avrà l’ultima parola;
Israele ripasserà attraverso il tempo del *deserto (2, 16 s); un nuovo
fidanzamento preparerà le nozze che si compiranno nella giustizia e nella
tenerezza; il popolo purificato *conoscerà il suo sposo ed il suo amore fedele
(2, 20 ss). Precedentemente l’alleanza era vissuta come un patto sociale la cui
rottura attirava l’ira di Dio; quest'ira appare ora come l’effetto della gelosia
di uno sposo, e l’alleanza come un’unione coniugale, con il dono, tanto intimo
quanto esclusivo, che essa implica. Questo dono mutuo, come quello di due sposi,
conoscerà delle vicissitudini; esse simboleggiano l’alterna vicenda che
caratterizza la storia di Israele fin dal tempo dei Giudici (ad es. Giud 2,
11-19): peccato, castigo, pentimento, perdono.
2. Il messaggio profetico: lo sposo amante e fedele.
- Erede spirituale di Osea, Geremia riprende il simbolismo nuziale con immagini
espressive per opporre il tradimento e la corruzione di Israele all’amore eterno
di Dio per il suo popolo: «Così dice Jahvè: mi ricordo dell’affezione della tua
giovinezza, dell’amore del tuo fidanzamento: tu mi seguivi nel deserto» (Ger 2,
2); ma «su ogni collina e sotto ogni albero verde ti sei sdraiata come una
prostituta» (2, 20); tuttavia «io ti ho amata di un amore eterno; perciò ti ho
conservato il mio favore» (31, 3). Le immagini di Ezechiele, ancor più crude,
rappresentano Gerusalemme come una trovatella, che il suo salvatore sposa dopo
averla allevata, e che si prostituisce; ma se essa ha rotto l’alleanza che
l’univa al suo sposo, egli ristabilirà questa alleanza (Ez 16, 1-43. 59-63; cfr.
23). Infine il Libro della Consolazione trova gli accenti più sconvolgenti per
rivelare a Gerusalemme l’amore con cui è stata amata: «Non aver *vergogna! Non
dovrai più arrossire... perché il tuo sposo è il tuo creatore... Si ripudia
forse la donna della propria giovinezza? Per un breve istante io ti avevo
abbandonata... ma con un amore eterno ho pietà di te» (Is 54, 4-8). Gratuito e
fedele, insondabile ed eterno, l’amore dello sposo trionferà e trasformerà
l’infedele in una sposa verginale (61, 10; 62, 4 s), alla quale si unirà per
un’alleanza eterna. I canti del Cantico devono essere letti in questa
prospettiva profetica? O sono invece ispirati dall’amore di uno sposo e di una
sposa di questo mondo? Sia che raccontino allegoricamente la storia di Israele,
sia che cantino quest’amore coniugale di cui i profeti hanno fatto il tipo del
legame dell’alleanza, essi non danno la chiave dei simboli di cui si servono:
Jahvè non è mai identificato con lo sposo. Un’interpretazione allegorica del
testo, per quanto possa essere legittima, esige tanta ingegnosità che sembra
preferibile considerare il Cantico come una *parabola: celebra un amore forte
come la morte, la cui fiamma inestinguibile è l’immagine dell’amore geloso di
Dio per il suo popolo (Cant 8, 6 s; cfr. Deut 4, 24). Quanto alle nozze cantate
dal Sal 45, sono quelle del re-messia; la lettera agli Ebrei ne sfrutterà gli
elementi che davano al re dei titoli divini e preludevano alla rivelazione della
filiazione divina di Cristo (Sal 45, 7 s; Ebr 1, 8).
3. Sapienza ed unione con Dio.
- Il realismo dei profeti ha messo in rilievo l’ardore dell’amore
divino. La meditazione dei sapienti sottolineerà il carattere personale ed
interiore dell’unione realizzata da questo amore. Dio comunica al suo fedele una
sapienza che è figlia sua (Prov 8, 22) e che si comporta nei confronti dell’uomo
come una madre e come una sposa (Eccli 15, 2). Il libro della Sapienza riprende
l’immagine; acquistare la sapienza è il mezzo per essere amici di Dio (Sap 7,
14); bisogna ricercarla, desiderarla e vivere con essa (7, 28; 8, 2. 9). Sposa
che Dio solo può dare (8, 21), essa rende immortale colui al quale è unita.
Inviata da Dio, come lo Spirito Santo (9, 17), la sapienza è un dono spirituale;
è un artefice che porta a termine in noi l’opera di Dio e che genera in noi le
virtù (8, 6 s). Il simbolismo coniugale è qui completamente spiritualizzato. È
preparata in tal modo la rivelazione del mistero, grazie al quale si consumerà
l’unione dell’uomo con Dio: l’incarnazione di colui che è la sapienza di Dio, e
le sue nozze con la Chiesa sua sposa.
NUOVO TESTAMENTO
1. L'agnello, sposo della nuova alleanza.
- La sapienza, che è nata da Dio e si compiace di abitare tra gli uomini (Prov
8, 22 ss. 31), non è soltanto un dono spirituale; appare nella carne: è Cristo,
sapienza di Dio (1 Cor 1, 24); e nel mistero della croce, follia di Dio, egli
porta a termine la rivelazione dell’amore di Dio per la sua sposa infedele,
salva e santifica la sposa di cui è il capo (*testa) (Ef 5, 23-27). Si svela
così il mistero dell’unione simboleggiata nel VT dai nomi di sposo e di sposa.
Per l’uomo si tratta di aver comunione con la vita trinitaria, di unirsi al
Figlio di Dio per diventare figlio del Padre celeste: lo sposo è Cristo, e
Cristo crocifisso. La nuova alleanza è suggellata nel suo sangue (1 Cor 11, 25)
e perciò l’Apocalisse non chiama più Gerusalemme sposa di Dio, ma sposa
dell’*agnello (Apoc 21, 9).
2. La Chiesa, sposa della nuova alleanza.
- Qual è questa *Gerusalemme, chiamata alla alleanza con il Figlio di
Dio? Non è più la serva, che rappresenta il popolo dell’antica alleanza, ma la
donna libera, la Gerusalemme di lassù (Gal 4, 22-27). Dopo la venuta dello
sposo, al quale il precursore, suo amico, ha reso testimonianza (Gv 3, 29),
l’umanità è rappresentata da due *donne, simbolo di due città spirituali: da una
parte la «prostituta», tipo della *Babilonia idolatra (Apoc 17, 1. 7; cfr. Is
47), dall’altra parte la sposa dell’agnello, tipo della città amata (Apoc 20,
9), della Gerusalemme santa che viene dal cielo, perché dallo sposo ha la sua
santità (21, 2. 9 s). Questa donna è la madre dei figli di Dio, di coloro che
l’agnello libera dal dragone in virtù del suo sangue (12, 1 s. 11. 17). Appare.
dunque che la sposa di Cristo non è soltanto l’insieme degli eletti, ma è la
loro *madre, colei per mezzo della quale e nella quale ognuno di essi è nato;
essi sono santificati dalla grazia di Cristo (Tito 3, 5 ss), e diventano degli
esseri *vergini, degni di Cristo loro sposo (2 Cor 11, 2), uniti per sempre
all’agnello (Apoc 14, 4).
3. Le nozze eterne.
- Le nozze dell’agnello e della sposa comportano quindi diverse tappe per il
fatto che la Chiesa è nello stesso tempo la madre degli eletti e la città che li
raduna.
a) La prima tappa delle nozze, il tempo della venuta di Cristo
(Mt 9, 15 par.), termina nel momento in cui sulla croce Cristo, novello *Adamo,
santifica la nuova Eva; questa esce dal suo costato, simboleggiata dall’ acqua e
dal *sangue dei sacramenti della Chiesa (Gv 19, 34; cfr. 1 Gv 5, 6). L'amore che
lo sposo vi mostra alla sua sposa è il modello delle nozze cristiane (Ef 5,
25-32).
b) A queste nozze Cristo invita gli uomini, in primo luogo il
suo popolo (Mt 22, 1-10); ma per parteciparvi non bisogna soltanto rispondere
all’invito che molti rifiutano, bensì indossare la *veste nuziale (22, 11 ss).
Questo invito risuona per tutto il tempo della Chiesa; ma poiché l’ora della
celebrazione rimane incerta per ognuno, esso esige la *vigilanza, affinché lo
sposo, quando verrà, trovi pronte le vergini che sono invitate a prender parte
al banchetto nuziale (25, 1-13).
c) Infine, al termine della storia, sarà ultimata la veste
nuziale della sposa, veste di lino di *bianchezza splendente, tessuta dalle
*opere dei fedeli. Questi aspettano nella gioia e nella lode le nozze
dell’agnello a cui hanno la ventura di essere invitati (Apoc 19, 7 s). In quel
momento, in cui sarà giudicata la prostituta (19, 2), lo sposo risponderà infine
all’appello che il suo Spirito ispira alla sua sposa; sazierà la sete di tutti
coloro che, come essa ed in essa, *desiderano questa unione al suo amore e alla
sua vita, unione feconda, di cui quella degli sposi è uno dei simboli migliori
(22, 17).
M. F. LACAN
→ adulterio 2 - agnello di Dio 3 - alleanza VT II 2; NT II 3 - amico 3 -
amore - Chiesa - Dio VT III 3; NT II 3 - donna - Gerusalemme VT III 1; NT 2.3 -
Giovanni Battista 2 - Maria I 2, V 1 - matrimonio NT I 2 - padri e Padre 0, III
2 - servo di Dio II - sessualità II - testa 3.4 - unità I, III - verginità -
veste II 2.4 - vite-vigna 2.
→ fedeltà - monte I 1 - rimanere - verità.
→ autorità - nazioni - popolo.
→ alleanza VT I 3 - altare - pellegrinaggio VT 1 - testimonianza VT I.
→ astri.
Il popolo di Dio
attribuisce un duplice valore alla fecondità del seno: essa risponde all’appello
lanciato dal Creatore alle origini, e permette alla posterità di Abramo di
divenire innumerevole, secondo la promessa. La sterilità contrasta questo
disegno di Dio; essa è un male, contro il quale Israele lotta senza respiro, e
di cui a poco a poco Dio gli rivela il senso.
I. LA LOTTA CONTRO LA STERILITÀ
1. Cosa è.
- La sterilità è un male, come la *sofferenza e la *morte; di fatto sembra che
essa si opponga al comandamento del creatore che vuole la fecondità e la vita. È
un disonore (*vergogna) il non far sopravvivere il proprio *nome. Di qui i
lamenti di Abramo: che importa l’adozione del mio servo, se io me ne vado senza
figli (Gen 15, 2 s)? E Sara, sua moglie, si sente disprezzata dalla serva
feconda (16, 4 s). Rachele grida al marito: «Dammi figli, oppure muoio!» (Gen
30, 1); ma Giacobbe si adira contro di essa: «Sono io forse al posto di Dio che
ti ha negato la maternità?» (Gen 30, 2). Dio solo può aprire il seno sterile
(29, 3l; 30, 22).
2. Contro questo male bisogna lottare.
- È quel che fa Rachele: come già la sua avola Sara (Gen 16, 2), che senza
dubbio si avvaleva di un’usanza derivante dal codice di Hammurabi, essa dà al
proprio marito una delle sue serve, affinché «partorisca sulle sue ginocchia» (Gen
30, 3-6); così fece Lea che, dopo aver avuto quattro figli, cessò per qualche
tempo di essere madre (30, 9-13). In tal modo, mediante un artificio, l’uomo
aggira l’ostacolo della sterilità, conferendo ai propri figli adottivi gli
stessi diritti di quelli che sarebbero nati dalle sue viscere.
3. Dio vincitore della sterilità.
- Mediante stratagemmi, legali o no, l’uomo giunge a superare l’arresto
della corrente della vita; ma non può rendere feconda la donna sterile, vincere
la sterilità è riservato a Dio solo, il quale in tal modo si dimostra fedele
alla sua promessa (Es 23, 26; Deut 7, 14) e con ciò annuncia un più grande
mistero. Lo scrittore sacro ha intenzionalmente sottolineato che le mogli dei
tre antenati del popolo eletto sono sterili: Sara (Gen 11, 30; 16, 1), Rebecca (Gen
25, 21), Rachele (29, 31), prima che sia loro accordata una prole (cfr. ad es.
15, 2-5). La lunga messa in scena della nascita di Isacco vuol far vedere ad un
tempo il mistero della *elezione gratuita e della *grazia feconda. Secondo
l’interpretazione che ne darà Paolo, l’uomo deve confessarsi impotente e deve
confessare con fede il potere che ha Dio di suscitare la vita in una terra
deserta: la *fede trionfa della morte sterile e suscita la vita (Rom 4, 18-24).
Elezione gratuita che Anna, la sterile, magnifica (1 Sam 2, 1-11): «La donna
sterile partorisce sette volte, ma la madre di numerosi figli è sfiorita» (2, 5;
Sal 113, 9).
II. LA STERILITÀ ACCETTATA
Di fatto Dio «visita» le donne sterili, facendo vedere che gli uomini hanno
torto a considerare la sterilità come un semplice *castigo. Indubbiamente essa
lo è in un certo senso, perché Dio ordina a Geremia di osservare il celibato per
indicare la sterilità del popolo in stato di peccato (Ger 16); e quando la sposa
abbandonata sarà tornata in grazia, il profeta potrà consolarla: «Grida di
gioia, o sterile, che non partorivi... Sono più numerosi i figli della derelitta
che i figli della sposa» (Is 54, 1). Confessando il suo peccato, Gerusalemme ha
riconosciuto che la sua sterilità significava il suo divorzio da Dio; si prepara
ad una nuova fecondità, ancor più meravigliosa: ormai conta tra i suoi figli le
*nazioni (cfr. Gal 4, 27). Ciò che trova un senso sul piano comunitario può
essere compreso soltanto lentamente sul piano individuale. La legge, pur
difendendo «la moglie meno amata» (Deut 21, 15 ss), proibiva all’eunuco di
offrire sacrifici (Lev 21, 20), riducendolo alla sorte dei bastardi (Deut 23, 3
ss): egli era propriamente escluso dal popolo (Deut 23, 2). Fu necessario il
disastro dell’esilio per dare il tracollo a questa stima esclusiva della
fecondità carnale; al ritorno da Babilonia è proclamato un oracolo completamente
nuovo: «L’eunuco non dica più: io non sono che un albero secco. Perché così dice
Jahvè: agli eunuchi che… restano fermi nella mia alleanza, io darò un posto ed
un nome migliore dei figli e delle figlie, darò loro un *nome eterno che non
sarà mai soppresso» (Is 56, 3 ss). In tal modo l’uomo constatava che la
fecondità fisica non era necessaria alla sua sopravvivenza, almeno nella memoria
di Dio. Identico progresso nei sapienti, i quali continuano a dimostrare un buon
senso religioso molto banale: «È meglio un figlio che mille, e morire senza
figli piuttosto che avere figli empi» (Eccli 16, 1-4); ma con la fede nella
sopravvivenza piena e gloriosa, i credenti scoprono e proclamano l’esistenza di
una *fecondità spirituale autentica: «Beata la donna sterile, ma immacolata! La
sua fecondità apparirà al momento della *visita delle anime. Beato l’eunuco la
cui mano non fa il male. È meglio non avere figli e possedere la virtù, perché
l’immortalità è connessa alla sua memoria» (Sap 3, 13 s; 4, 1). Ormai lo sguardo
del credente non è più ostinatamente legato alla fecondità terrestre, ma è
pronto a scoprire un senso al *frutto delle *opere che è prodotto dalla virtù e
rende immortale; per questo era necessario che fosse accettato e trasformato il
male rappresentato dalla sterilità.
III. LA STERILITÀ VOLONTARIA
Mentre la figlia di Jefte, condannata a morire senza figli, piange
sulla sua «verginità» (Giud 11, 37 s), ecco che Geremia accetta la missione
divina di restare celibe (Ger 16, 1 s): con ciò egli simboleggia ancora soltanto
un aspetto negativo, la sterilità colpevole del popolo (cfr. Lc 23, 29).
Tuttavia, in *figura, il VT annunciava già positivamente la *verginità feconda.
II segno che *Maria riceve al momento dell’annunciazione (Lc 1, 36 s) è
precisamente la gravidanza meravigliosa della cugina Elisabetta: colei che, con
la sua sterilità (1, 7. 25), ricorda la lunga storia delle donne sterili rese
feconde dalla *visita di Dio, significa per Maria l’annunciata maternità
verginale. Una nuova età è allora inaugurata in Maria, il cui frutto è il Figlio
stesso di Dio, pienezza della *fecondità. In questa nuova età, Gesù chiama al
suo seguito gli «eunuchi che si fanno tali in vista del regno dei cieli» (Mt 19,
12). Ciò che era subito come una *maledizione o, al massimo, sopportato come un
male il cui buon frutto sarebbe maturato in cielo, diventa un *carisma agli
occhi di Paolo (1 Cor 7, 7); mentre la Genesi diceva: «Non è bene che l’uomo sia
solo» (Gen 2, 18), Paolo, con qualche precauzione, osa proclamare: «È bene che
l’uomo rimanga così» (1 Cor 7, 26), cioè non sposato, solo, senza figli. Giunta
a questo stadio, la sterilità volontaria può trasformarsi in verginità.
X. LÉON-DUFOUR
→ donna NT 1 - fecondità - frutto I - latte 2 - madre I 1, II 2 - matrimonio VT
II 3 - roccia 2 - solitudine I - verginità - vergogna I 3.
→ cfr. razza.
→ alleanza VT II 3 - anticristo - compiere NT 1 - creazione VT III 1 - disegno di Dio - feste - figura VT II - generazione - Gesù Cristo II 1 a d; concl. - giorno del Signore - giudizio VT I 2 - guerra VT III - Israele - legge B III 3 - memoria - mistero NT II - mondo VT II 3 - opere VT I 1 - ora - parola di Dio VT II 1 b. 2 a - popolo - preghiera I - Provvidenza 0 - resto - rivelazione VT I 3, II; NT IV - segno VT I - tempo VT II - volontà di Dio VT I 1.
→ via.
Tra gli
stranieri, la Bibbia distingue accuratamente coloro che appartengono alle altre
*nazioni e che, fino alla venuta di Cristo, sono ordinariamente dei *nemici; lo
straniero di passaggio (nokri), considerato come inassimilabile (tale pure la
«donna straniera» e più particolarmente la prostituta, che trascina sovente
all’idolatria: Prov 5); lo straniero residente (ger) che non è un autoctono, ma
la cui esistenza è più o meno associata a quella della gente del posto, come i
meteci nelle città greche. Questa voce si occupa esclusivamente degli stranieri
residenti.
I. ISRAELE E GLI STRANIERI RESIDENTI
L'assimilazione progressiva dei gerim da parte di Israele ha
contribuito molto a spezzare un cerchio razziale in cui esso tendeva a
rinchiudersi spontaneamente, preparando in tal modo l’universalismo cristiano.
Ricordandosi di essere stato un tempo straniero in Egitto (Es 22, 20; 23, 9),
Israele non deve accontentarsi di esercitare nei confronti dei «residenti»
l’*ospitalità che accorda ai nokrim (Gen 18, 2-9; Giud 19, 20 s; 2 Re 4, 8 ss),
ma deve amarli come se stesso (Lev 19, 34), perché Dio veglia sullo straniero (Deut
10, 18) come estende la sua protezione sugli indigenti ed i poveri (Lev 19, 10;
23, 22). Fissa loro uno statuto giuridico analogo al suo (Deut 1, 16; Lev 20,
2): autorizza in modo particolare i circoncisi, a partecipare alla Pasqua (Es
12, 48 s), ad osservare il sabato (Es 20, 10), a digiunare il giorno
dell’*espiazione (Lev 16, 29). Questi non devono quindi *bestemmiare il nome di
Jahvè (Lev 24, 16). La loro assimilazione è tale che, nell’Israele della fine
dei tempi, Ezechiele li associa ai cittadini di nascita nella divisione del
paese (Ez 47, 22). Al ritorno dall’esilio si fa sentire un movimento di
separazione. Il ger è tenuto ad abbracciare il giudaismo sotto pena di essere
escluso dalla comunità (Neem 10, 31; Esd 9 - 10). Effettivamente l’assimilazione
deve essere sempre più stretta. Se il figlio di uno straniero aderisce a Jahvè
ed osserva fedelmente la sua legge, Dio lo gradisce nel suo tempio allo stesso
titolo degli Israeliti (Is 56, 6 s). Di fatto, nella *dispersione, i Giudei
cercano allora di diffondere la loro fede, come ne fa testimonianza la
traduzione greca della Bibbia. Essa traduce ger con «proselito», termine che
designa ogni straniero che aderisce pienamente al giudaismo; dà a taluni testi
una portata universale (Am 9, 12; Is 54, 15). Il movimento *missionario, che un
simile adattamento dei testi suppone, è evocato da Gesù: i Farisei solcano i
mari per fare un proselito (Mt 23, 15). Nel giorno della Pentecoste sono
presenti dei proseliti (Atti 2, 11); numerosi sono coloro che abbracciano la
fede in Cristo (Atti 13, 43; 6, 5). Ma il terreno scelto per l’attività
missionaria di Paolo furono i «timorati di Dio» (Atti 18, 7), pagani che
simpatizzavano per la religione giudaica, senza tuttavia giungere fino alla
circoncisione, come Cornelio (Atti 10, 2). Tutte queste distinzioni spariscono
rapidamente con la soppressione della barriera tra Giudei e pagani ad opera
della fede cristiana: tutti sono *fratelli in Cristo (Ef 2, 14; cfr. Atti 21, 28
s).
II. ISRAELE, STRANIERO SULLA TERRA
Una trasposizione della condizione del ger sopravvive invece anche nella fede
cristiana. La *terra di Canaan è stata promessa ad Abramo ed ai suoi discendenti
(Gen 12, 1 7), ma Dio ne rimane il vero proprietario. Israele, ger di Dio, è
soltanto un locatario (Lev 25, 23). Questa idea contiene in germe un
atteggiamento spirituale che si ritrova nei salmi. L’Israelita sa di non avere
alcun diritto di fronte a Dio, desidera soltanto essere suo ospite (Sal 15);
riconosce di essere uno straniero in casa sua, un passante come tutti i suoi
antenati (Sal 39, 13; 1 Cron 29, 15). Passante anche, in quest'altro senso che
la sua vita quaggiù è breve; quindi domanda a Dio di soccorrerlo prontamente (Sal
119, 9). Nel NT questa concezione della condizione umana si approfondisce
ancora. Il cristiano non ha quaggiù una dimora (*rimanere) permanente (2 Cor 5,
1 s); è straniero sulla terra non soltanto perché essa appartiene a Dio solo, ma
perché egli è cittadino della *patria *celeste, dove non è più ospite né
straniero, ma concittadino dei santi (Ef 2, 19; Col 1, 21). Finché non ha
raggiunto questo termine, la sua è una vita *nomade (1 Piet 2, 11), ad
imitazione di quella dei patriarchi (Ebr 11, 13),che una volta abbandonarono il
loro ambiente per mettersi in cammino (*via) verso una patria migliore (Ebr 11,
16). Giovanni accentua ancora questo contrasto tra il *mondo in cui bisogna
vivere e la vera vita in cui siamo già introdotti. Nato dall’alto (Gv 3, 7), il
cristiano non può essere che straniero o *pellegrino su questa terra, perché tra
lui e il mondo l’accordo è impossibile. Di fatto il mondo è in potere del
maligno (1 Gv 5, 19). Ma se non è più di questo mondo, il cristiano sa, al pari
di Cristo, donde viene e dove va, segue Cristo che ha posto la sua tenda in
mezzo a noi (Gv 1, 14) e che, ritornato sl Padre (16, 28), prepara un posto per
i suoi (14, 2 s), affinché là dov’egli è, sia pure il suo servo (12, 26), in
casa del Padre.
A. DARRIEUTORT
→ dispersione 1 - fratello 0 - nazioni - nemico I 1 - ospitalità - patria VT
1; NT 2 - popolo A II 1 - prossimo VT.
→ magia 1.
→ ginocchio 2 - preghiera II 3, V 2 a c.
→ acqua II 2 - bene e male II 2.3 - calamità - cenere 2 - maledizione - sofferenza - ubriachezza 1 - vergogna.