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→ Babele-Babilonia 2.5 - guerra VT III 2 - orgoglio 2 - potenza IV 2.
Il simbolismo
della nuova nascita è un tema abbastanza comune nelle religioni della umanità.
Così le pratiche, molto diffuse presso i primitivi, che fanno del bambino un
adulto, del profano un iniziato, implicano frequentemente dei riti che fanno
ripassare il «neonato» attraverso le tappe della prima infanzia. Anche
1’intronizzazione regale può apparire come una nuova nascita (Sal 2, 7; 110, 3
LXX). Ma nella rivelazione giudeo-cristiana, questo simbolismo esprime realtà di
un ordine unico «ciò che è nato dalla carne è carne; ciò che è nato dallo
Spirito è spirito» (Gv 3, 6). Alla nascita naturale dell’uomo, il NT oppone una
nascita soprannaturale, il cui principio è sia la *parola, sia lo *Spirito di
Dio, e che si realizza mediante la *fede ed il *battesimo.
1. Le preparazioni.
- Il VT non parla mai di nuova nascita per l’uomo: in base alla sua nascita
naturale l’israelita apparteneva di pieno diritto al popolo di Dio; non aveva
quindi bisogno di nascere nuovamente. Tuttavia questo tema ha profonde radici
nel VT. La costituzione di Israele come *popolo di Dio vi è sovente
rappresentata come una vera generazione. Israele è il «primogenito» di Dio (Es
4, 22; Sap 18, 13). Dio lo ha generato quando lo fece uscire dall’Egitto (Deut
32, 6. 18 s), e la vita nel *deserto fu come la sua prima infanzia (Deut 1, 31;
32, 10; Os 11, 1-5). La tradizione giudaica ha legato in modo particolare questa
nascita di Israele al dono della *legge: «Perché il Sinai viene chiamato: Casa
della mia madre? Perché là gli Israeliti divennero: bambini neonati» (Midrash su
Cant 8, 2). Nella nuova *alleanza annunziata dai profeti Dio non si accontenterà
di dare al popolo la sua legge, ma la scolpirà nel *cuore di ognuno, nel più
intimo del suo io (Ger 31, 31-34; Deut 30, 10-14). Oppure è lo spirito che deve
venire a rinnovare il cuore dell’uomo (Ez 36, 26 s). Nuova nascita ancora e
fonte di gioia inaudita, quella che «apre il seno» di Gerusalemme e lo ricolma
di figli (Is 66, 7-14). Nel primo secolo della nostra era il giudaismo non
ignorava il tema della nuova nascita. Quando un pagano si convertiva e riceveva
il *battesimo dei proseliti, si riteneva che tutti i legami anteriori venissero
rotti. Per significare questa rottura, si diceva di lui che era come un bambino
neonato. Qui non c’era che una metafora, intesa soprattutto sul piano giuridico;
diverrà realtà nel NT.
2. Parole di Gesù.
- Nei vangeli sinottici Cristo non parla di nuova nascita. Tuttavia, prendendo
lo spunto da Ger 31 e Deut 30, egli paragona la parola di Dio ad un *seme posto
nel cuore dell’uomo per esservi principio di nuova vita morale (Mt 13, 18-23
par.). Altrove insegna la necessità di «ritornare allo stato di *bambini» per
entrare nel regno dei cieli (Mt 18, 3): l’uomo, al pari del bambino, deve
accettare di ricevere tutto da Dio. Questa verità è resa esplicita nel quarto
vangelo: «bisogna nascere di nuovo per entrare nel regno dei cieli» (Gv 3, 3.
5).
3. La riflessione apostolica.
a) Il principio divino. - Ogni nascita avviene
partendo da un germe di vita che determina la natura dell’essere generato. Per
rinascere soprannaturalmente l’uomo deve quindi ricevere in sé un principio di
vita venuto «dall’alto», da Dio. La tradizione apostolica lo ha identificato sia
con la parola, sia con lo Spirito di Dio. La parola. - Secondo Giac l, 18. 21,
Dio «ci ha generati per mezzo della sua parola di verità», che bisogna
«ricevere» per essere salvi. In una prospettiva giudeo-cristiana, qui la *parola
è ancora identica alla legge mosaica (1, 22-25) ed è difficile determinare se la
generazione di cui si tratta concerne la costituzione da parte di Dio del popolo
santo, oppure la nuova nascita del cristiano. Secondo 1 Piet 1, 22-25, Dio ci ha
rigenerati mediante la sua parola (la predicazione evangelica), che ha posto in
noi come un «seme» di vita ed alla quale dobbiamo obbedire. «Simili a bambini
appena nati» (cfr. Introito della messa della domenica in Albis), noi
desideriamo il *latte della parola che deve farci *crescere fino alla salvezza
(1 Piet 2, 2). Lo stesso per Giovanni: la nostra nuova nascita è l’effetto di un
«seme» di Dio deposto in noi (1 Gv 3, 9), Cristo, parola di Dio (2, 14; 5, 18),
che bisogna «ricevere» mediante la fede (Gv 1, l. 12 s). Lo Spirito. - In Gv 3,
3 ss, come principio della nostra nuova nascita non è più presentata la parola,
ma lo *Spirito, in unione con l’acqua battesimale, come in Tito 3, 5. Per Paolo
è lo Spirito a fare di noi dei «figli di Dio» (Rom 8, 15 s; Gal 4, 6). Nascita
per mezzo della parola che si riceve grazie alla fede, o per mezzo dello Spirito
che ci è dato mediante il battesimo, sono due effetti complementari di una
stessa realtà, perché parola e Spirito sono inseparabili: lo Spirito conferisce
efficacia alla parola. Come la creazione (Gen 1, 2 s; Gal 33, 6), l’opera della
nostra rigenerazione non si potrebbe concepire senza il concorso della parola e
dello Spirito.
b) Nuova vita. - Nel NT la «nuova nascita» non è più
una metafora, ma una realtà profonda. L’uomo, ricreato dalla parola e dallo
Spirito, è diventato un essere *nuovo (Tito 3, 5) il cui comportamento morale è
radicalmente trasformato. Egli ha abbandonato il male (1 Piet 2, 1; Giac 1, 21),
non segue più le sue passioni (1 Piet 1, 14), ma obbedisce alla parola che gli
comanda 1’*amore dei fratelli (1, 22 s); non può più peccare contro le esigenze
dell’amore fraterno (1 Gv 3, 9 s). Vive ormai sotto la mozione dello Spirito
(Roma 8, 14), innestato sulla *vita stessa di Cristo (Rom 6, 5).
c) Frutti escatologici. - Divenuto *figlio, egli può
avanzare pretese all’eredità del regno (Gv 3, 5; 1 Piet 1, 3 ss; Rom 8, 17; Gal
4, 7). Il seme deposto in lui è un germe di incorruttibilità, perché è la parola
che «rimane eternamente» (1 Piet 1, 23 ss). Per salire al cielo è necessario
esserne discesi (Gv 3, 13); questo principio, valido in primo luogo per il
figlio dell’uomo, ha una portata universale; potrà quindi salire al cielo
soltanto colui che avrà ricevuto in sé questo principio «venuto dall’alto» (Gv
3, 3; Giac 1, 17): lo Spirito di Dio (Gv 3, 5), pegno della nostra risurrezione
gloriosa (Rom 8, 10-23).
M. É. BOISMARD
→ bambino III - battesimo IV - figlio di Dio NT II - grazia V - nuovo - regno NT
II 3 - vita IV 4.
→ mistero –rivelazione –vedere.
Nella prospettiva
del VT, il genere umano si divide in due parti, alle quali il linguaggio biblico
tende a riservare nomi diversi. Da una parte *Israele, *popolo di Dio (‘am = gr.
laòs), al quale appartengono l’*elezione, 1’*alleanza, le *promesse divine;
dall’altra le nazioni (gojim = gr. èthne). La distinzione non è soltanto etnica
o politica, ma anzitutto religiosa: le nazioni sono ad un tempo coloro che «non
conoscono Jahvè» (i pagani) e coloro che non partecipano alla vita del suo
popolo (gli *stranieri). Nel NT, la nozione di popolo di Dio si evolve, si
allarga, per diventare la *Chiesa, *corpo di Cristo. Ma di fronte a questo nuovo
popolo aperto a tutti gli uomini, l’umanità appare sempre divisa in due: i
*giudei e le nazioni (cfr. Rom 1, 16; 15, 7-12). La dialettica tra Israele e le
nazioni ritma così tutto lo svolgimento della storia della salvezza. Da un lato,
il disegno di Dio si inserisce nella storia umana grazie all’elezione ed alla
separazione di Israele; dall’altro, questo disegno mira sempre a salvare tutta
l’umanità. Per tal fatto la prospettiva oscilla costantemente tra il
particolarismo e l’universalismo, sino a che venga Cristo a riunire Israele e le
nazioni in un solo uomo nuovo (Ef 2, 14 ss).
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL MISTERO DELLE ORIGINI
Al punto di partenza del VT, la chiamata di Dio risuona in un mondo diviso in
cui si affrontano le razze, le nazioni, le civiltà. Fatte storico fondamentale,
che pone parecchie questioni: è stato voluto da Dio? Se no, quale ne è la causa?
La Bibbia non intende fornire una risposta scientifica; ma nondimeno scruta
questo mistero originale della società umana per proiettarvi la luce della
rivelazione.
1. Unità e diversità degli uomini
- L’*unità del genere umano è soggiacente alle rappresentazioni schematizzate
della Genesi. Dio ha fatto da un solo principio tutta la razza degli uomini
(Atti 17, 26). Non c’è soltanto identità di natura astratta; c’è unità di
sangue: tutte le genealogie partono da *Adamo ed Eva; dopo il diluvio ripartono
da *Noè (Gen 9, 18 s). Tuttavia l’unità non è uniformità indistinta. Gli uomini
devono moltiplicarsi e riempire la terra (Gen 1, 28); ciò suppone una
progressiva diversificazione delle nazioni e delle razze, che la Scrittura
considera come voluta da Dio (Gen 10; Deut 32, 8 s).
2. Le conseguenze sociali del peccato.
- Lo stato attuale dell’umanità non risponde tuttavia alle intenzioni
divine. Ciò è dovuto al fatto che il *peccato è intervenuto nella storia: Adamo
ed Eva hanno sognato di «diventare come dèi» (Gen 3, 5); gli uomini riuniti
nella terra di Sennaar hanno voluto costruire «una torre la cui sommità tocchi
il cielo» (11, 4). In entrambi i casi c’è la stessa mancanza sacrilega di
misura. Ed anche lo stesso risultato, proclamato da un giudizio divino (3,
14-24; 11, 5-8). La condizione umana quale noi la sperimentiamo, ne è la
conseguenza pratica. Perciò la diversificazione della nostra razza, effettuata
nel clima del peccato, sfocia in *odii sanguinosi (Caino ed *Abele: 4, 1-16) e
nella perdita dell’unità spirituale (confusione delle *lingue: 11, 7 ss). Tali
sono le condizioni in cui le nazioni nascono alla storia, con la duplice tara
dell’*idolatria che le separa da Dio, e dell’*orgoglio che le opporrà tra loro.
Tale è lo sfondo del quadro su cui spicca la vocazione di Abramo: Dio lo sceglie
in mezzo a nazioni pagane (Gios 24, 2) per farne il padre di un popolo nuovo che
sarà il suo popolo, e perché tutte le famiglie della terra siano finalmente
benedette in lui (Gen 12, 1 ss).
II. ISRAELE E LE NAZIONI NELLA STORIA
Israele non ignora la sua parentela naturale con talune nazioni vicine. Le
genealogie patriarcali la sottolineano per Ismaele (Gen 16) e Madian (25, 1-6),
per Moab e gli Ammoniti (19, 30-38), per gli Aramei (29, l-14) e gli Edomiti
(36). All’epoca dei Maccabei, i Giudei ricercheranno persino una parentela
razziale con gli Spartani (1 Mac 12, 7. 21). Ma l’atteggiamento di Israele nei
confronti delle nazioni è dettato da motivi di altro ordine, dalla dottrina
dell’alleanza e del disegno di salvezza.
1. Le nazioni, avversarie di Dio.
- A motivo della sua vocazione nazionale, Israele è depositario di valori
essenziali: la conoscenza ed il culto del vero Dio, la speranza della salvezza
racchiusa nell’alleanza e nelle promesse. Ora, su tutto questo, le nazioni fanno
pesare una duplice minaccia: quella dell’asservimento politico e quella della
seduzione religiosa.
a) Minaccia politica. - Rari sono i secoli in cui
Israele non veda minacciata la sua esistenza. L’orgoglio e la cupidigia guidano
le nazioni; ci si affronta per questioni di prestigio o per il possesso delle
terre. Preso nel risucchio della politica internazionale, Israele deve difendere
con tenacia il deposito che gli è affidato. Ha conosciuto la schiavitù di
*Egitto. Poi le *guerre di Jahvè l’oppongono ai Cananei, ai Madianiti, ai
Filistei... Sotto David, la situazione per qualche tempo si capovolge (cfr. 2
Sam 8) e l’impero israelitico gode di un certo prestigio. Ma le cose precipitano
rapidamente: ostilità e cupidigia dei piccoli regni vicini, volontà di *potenza
dei colossi internazionali, Egitto, Assiria, *Babilonia... L’epoca regia è piena
di questi scontri sanguinosi, di cui talvolta si rivela il vero volto: come al
tempo dell’esodo (Es 5 - 14), le nazioni orgogliose, adoratrici dei falsi dèi,
vogliono tener testa al Dio vivente (2 Re 18, 33 ss; 19, 1-7. 12-19). Lo stesso
fatto si ritroverà in epoca tarda quando Antioco Epifane tenterà di ellenizzare
la Giudea (1 Mac 1, 29-42). Visti sotto questo aspetto, i rapporti fra Israele e
le nazioni non possono porsi che su un piano di ostilità.
b) Seduzione religiosa. - Dinanzi al popolo di Dio, le
nazioni rappresentano pure il paganesimo, ora seduttore ed ora tirannico. Nato
da antenati idolatri (Gios 24, 2), Israele è anche troppo portato ad imitarli.
All’epoca dei Giudici si abbandona all’*idolatria cananea (Giud 2, 11 ss).
Salomone, costruttore del tempio, costruisce santuari per gli dèi nazionali dei
paesi vicini (1 Re 11, 5-8). Durante i secoli seguenti, ai culti Cananei si
aggiungono quelli dell’Assiria, potenza sovrana (2 Re 16, 10-18; 21, 3-7; Ez 8).
All’epoca dei Maccabei, si sarà pure tentati dal paganesimo greco, che avrà
dalla sua il prestigio della cultura, e che Antioco Epifane tenterà di imporre
nel paese (1 Mac 1, 43-61). In queste condizioni si spiegano le severe
prescrizioni del Deuteronomio: Israele deve separarsi radicalmente dalle nazioni
straniere per non essere contaminato dal loro paganesimo (Deut 7, 1-8).
2. Le nazioni nel disegno di Dio.
- Sarebbe tuttavia un errore ridurre a questo atteggiamento di opposizione e di
separazione la dottrina del VT sulle nazioni. Jahvè è un dio universale, da cui
esse tutte dipendono: già persino le loro primizie vengono incorporate in
Israele per rendergli un culto autentico.
a) Le nazioni dinanzi a Jahvè. - Jahvè ha progetti su
tutte le nazioni: fa salire i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir come fa
salire Israele dall’Egitto (Am 9, 7). Affermazione importante, che dovrebbe
vietare ogni nazionalismo religioso. Ma, in cambio, le nazioni devono sapere che
sono soggette come Israele al *giudizio del Dio unico (Am 1, 3 - 2, 3). Per
questa duplice via indiretta il VT afferma già l’universalismo del disegno di
salvezza. Tuttavia la funzione delle nazioni nel suo svolgimento rimane
episodica; ora esse castigano Israele come strumenti dell’ira divina (Is 8, 6 s;
10, 5; Ger 27); ora, come Ciro, sono incaricate di una missione di salvezza (Is
41, 1-5; 45, 1-6). D’altra parte i valori umani, di cui esse sono portatrici,
non devono essere disprezzati: in se stessi, sono doni di Dio. Israele potrà
quindi trarne profitto: gli Ebrei in fuga spogliano gli Egiziani (Es 12, 35 s);
gli invasori di Cancan beneficiano della sua civiltà (Deut 6, 10 s); ogni epoca
desume qualcosa di nuovo dalla cultura internazionale (cfr. 1 Re 5, 9-14; 7, 13
s).
b) Le primizie delle nazioni. - Nonostante tutto,
queste cooperazioni al disegno di Dio rimangono estrinseche: le nazioni non
beneficiano come Israele dei privilegi divini. ci sono tuttavia eccezioni. Di
fatto taluni dei loro membri offrono a Dio un culto retto che egli gradisce: *Melchisedec
(Gen 14, 18 ss), Jetro (Es 18, 12), Naaman (2 Re 5, 17)... Alcuni vengono
incorporati nel popolo dell’alleanza: Tamar (Gen 38), Rahab (Gios 6, 25) e Rut
(1, 16), antenate di Gesù (Mt 1, 2-5); il clan dei Gabaoniti (Gios 9, 19-27);
gli stranieri residenti che si fanno circoncidere (Es 12, 48 s; Num 15, 15 s).
Annunzio lontano dell’universalismo al quale Dio aprirà infine il suo popolo.
III. ISRAELE E LE NAZIONI NELLA PROFEZIA
Qui la prospettiva della profezia non è più imposta dall’esperienza; è
la realizzazione ideale del disegno di Dio che i profeti fanno intravvedere alla
fine dei *tempi. Secondo i valori che rappresentano, le nazioni figurano in
questo quadro sia per subire il *giudizio di Dio, sia per beneficiare della sua
*salvezza.
1. Giudizio delle nazioni.
- Gli oracoli contro le nazioni sono classici in tutti i profeti (Is 3
- 21; Ger 46 - 51; Ez 25 - 32). Assumono un significato particolare in tempi
difficili, quando la rovina degli oppressori pagani appare come una condizione
necessaria della liberazione di Israele. Quando verrà il suo *giorno, Dio farà a
pezzi Gog, re di Magog, tipo di questi tiranni sanguinari (Ez 38-39). Affronterà
tutte le potenze nemiche (Gioe 4, 9-14; Zac 14, 1-5. 12 ss), distruggerà le loro
città (Is 24, 7-13) e giudicherà i loro re (Is 24, 21 s). La storia esemplare di
Giuditta e l’apocalisse di Daniele sono costruite su questo tema (cfr. Dan 7;
11, 21-45), al quale la persecuzione di Antioco conferisce un’attualità tragica.
2. Salvezza delle nazioni.
- Ma il dittico ha un’altra tavola. Di fatto la salvezza finale non
sarà appannaggio esclusivo di Israele. Se il peccato ha spezzato sin dalle
origini l’unità del genere umano, la conversione finale delle nazioni deve
permettere di ricostituirla. Eccole arrivare a Gerusalemme per imparare la legge
di Dio, ed è il ritorno alla *pace universale (Is 2, 2 ss). Esse si rivolgono al
Dio vivente (Is 45, 14-17. 20-25) e partecipano al suo culto (Is 60, 1-16; 25,
6; Zac 14, 16). L’Egitto e l’Assiria si convertono, ed Israele serve loro da
mediatore (Is 19, 16-25). Ponendo fine alla dispersione di *Babele, Jahvè
riunisce attorno a sé tutte le nazioni e tutte le *lingue (Is 66, 18-21). Tutti
i popoli lo riconoscono come *re, tutti si riuniscono con il popolo di Abramo (Sal
47), tutti danno a Sion il titolo di *madre (Sal 87). Il *servo di Jahvè svolge
nei loro confronti, come per Israele, una funzione di *mediatore (Is 42, 4. 6).
Così nell’ultimo giorno deve riformarsi un unico popolo di Dio che ritroverà
l’universalismo primitivo. Se la legge dava ad Israele un’apparenza di
esclusivismo, si vede che la profezia si ricollega alle prospettive larghissime
del mistero originale.
IV. ANTICIPAZIONI
Il giudaismo postesilico, erede sia della legge che dei profeti, oscilla tra
queste due tendenze, che rispondono a necessità contrarie.
1. L’esclusivismo giudaico.
- La prima necessità è la chiusura al paganesimo: il contagio della sua
mentalità e dei suoi culti non è stato forse la causa di tutte le sventure
passate? Perciò la restaurazione giudaica, al tempo di Neemia e di Esdra, si
compie in un clima di particolarismo rafforzato (Esd 9 - 10; Neem 10; 13). Se in
seguito la mentalità a poco a poco si allarga, la crisi dei tempi maccabaici
provoca un ritorno di nazionalismo religioso, che persisterà ancora due secoli
più tardi nelle sette *farisaica ed essenica.
2. Il proselitismo giudaico.
- Ma alla stessa epoca, per un paradosso spiegato dalle esigenze complementari
della fede giudaica, la comunità di Israele si apre ai pagani di buona volontà
più di quanto abbia mai fatto. Si censura lo sciovinismo religioso, di cui
l’autore di Giona presenta una caricatura ironica. Si dà uno statuto ufficiale
ai proseliti che vogliono aggregarsi ad Israele (Is 56, 1-8), e si racconta con
compiacimento come nel passato taluni l’hanno fatto: Rut la Moabita (Rut 1, 16),
Achior l’Ammonita (Giudit 5, 5 - 6, 20)... Su questo punto il giudaismo
alessandrino si distingue per le sue iniziative. Traduce la Bibbia in greco,
abbozza un’apologetica di cui il libro di Baruc (Bar 6) e quello della Sapienza
(Sap 13 - 15) conservano dei saggi. Israele ha quindi acquistato coscienza della
sua vocazione di popolo *testimone, di popolo missionario.
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ E LE NAZIONI
Con Gesù sono inaugurati gli ultimi tempi (Mc 1, 15). Perciò ci si aspetterebbe
di vederlo entrare, già durante la sua vita pubblica, nella vita
dell’universalismo che gli oracoli profetici gli aprivano. Ma le cose si
presentano in modo meno semplice.
1. Parole ed atteggiamenti contrastanti.
a) Atteggiamenti particolaristici. - Anche quando soggiorna in
terra straniera, Gesù non esce dai confini del giudaismo per annunciare il
vangelo e compiere miracoli: «Non sono stato mandato che per le pecore perdute
della casa di Israele» (Mt 15, 24); «Non conviene prendete il pane dei figli per
gettarlo ai cani» (Mc 7, 27). Anche ai Dodici, che manda in *missione,
raccomanda: «Non prendete la via dei pagani» (Mt 10, 5 s).
b) Prospettive universalistiche. - In compenso, mentre
urta contro la cattiva volontà di queste «pecore perdute», non risparmia la sua
ammirazione per gli *stranieri che credono in lui: il centurione di Cafarnao (Mt
8, 10 par.), il lebbroso samaritano (Lc 17, 17 ss), la cananea Mt 15, 28)... Nel
*regno di Dio questi uomini sono le primizie delle nazioni. Ora lo sviluppo
futuro del regno ne vedrà aumentare il numero: si accorrerà da tutte le parti al
banchetto escatologico, mentre gli Israeliti, membri-nati del regno, se ne
vedranno esclusi (Lc 13, 28 s par.)... Prospettiva sorprendente, in cui si trova
capovolta l’antica situazione dei Giudei e delle nazioni in rapporto ai
privilegi dell’alleanza: la *vigna di Dio sarà tolta ad Israele ed affidata ad
altri vignaioli (Mt 21, 43).
2. Soluzione dell’antinomia.
- Non c’è contraddizione tra il particolarismo e l’universalismo di Gesù; ma
egli si adatta alle fasi successive di una situazione che si evolve. In
partenza, cercava di convertire Israele per farne il missionario del regno, in
una prospettiva di universalismo totale. Perciò non usciva dal suo popolo. Ma
l’*indurimento dei Giudei si oppone a questo disegno. Dio vi adatterà quindi il
corso del suo *disegno di salvezza: rigettato dal suo popolo, Gesù verserà il
suo sangue «per una moltitudine, in remissione dei peccati» (Mt 26, 28), e
questo sacrificio aprirà l’accesso del regno a tutti gli uomini suggellando
l’*alleanza escatologica. Dopo di che il genere umano potrà ritrovare la sua
*unità interna poiché il suo legame con Dio sarà riannodato. Perciò, dopo che
avrà portato a termine il sacrificio con la sua risurrezione gloriosa, Gesù darà
ai Dodici una *missione universale: annunziare il vangelo ad ogni creatura (Mc
16, 15), reclutare discepoli da tutte le nazioni (Mt 28, 19), testimoniare fino
alle estremità della terra (Atti 1, 8). Nella luce pasquale il particolarismo
giudaico sarà definitivamente superato.
II. L’EVANGELIZZAZIONE DELLE NAZIONI
1. La comunità primitiva ed i pagani.
a) Allargamento progressivo della Chiesa. - Nonostante il
significato universalistico della *Pentecoste, in cui la lode di Dio è
proclamata «in tutte le lingue» (Atti 2, 8-11), la comunità primitiva si limita
da prima alla evangelizzazione di Israele: di qui deve partire la salvezza per
estendersi al mondo intero. Ma sotto l’impulso dello Spirito, la Chiesa esce a
poco a poco da questo cerchio: Filippo evangelizza la Samaria (Atti 8); Pietro
battezza il centurione Cornelio, un proselito che non è ancora stato incorporato
ad Israele con la circoncisione (Atti 10); infine, ad Antiochia, il Signore Gesù
è annunziato ai Greci che si convertono in gran numero (Atti 11, 20 s).
D’altronde la vocazione di Paolo ha dato alla Chiesa lo strumento eletto di cui
aveva bisogno per la evangelizzazione delle nazioni (Atti 9, 15; 22, 15. 21; 26,
17), conformemente alle profezie (Atti 13, 47; cfr. Is 49, 6).
b) L’assemblea di Gerusalemme. - Questo allargamento
della Chiesa pone una questione fondamentale: bisogna costringere alla *legge
giudaica i pagani che hanno aderito alla fede? In occasione dell’assemblea di
Gerusalemme Paolo tiene duro perché non si imponga loro un simile giogo (Atti
15, 1-5; Gal 2); Pietro lo appoggia, e Giacomo proclama che la conversione dei
pagani è conforme alla Scrittura (Atti 15, 7-19). Così infine, alla luce
dell’esperienza, si traggono le conseguenze logiche implicite nella croce e
nella risurrezione di Gesù: nella Chiesa, nuovo *popolo di Dio, le nazioni
ottengono uno statuto uguale a quello di Israele, e Paolo si vede confermato
nella sua vocazione particolare di apostolo dei pagani (Gal 2, 7 ss).
2. Paolo, apostolo delle nazioni.
- Tuttavia l’*apostolato di Paolo rispetta l’ordine di cose che deriva
dall’antica alleanza: in primo luogo annunzia sempre il vangelo ai Giudei; non
passa ai pagani che quando ha urtato contro il loro rifiuto (Atti 13, 45 ss; 18,
5 s; 19, 8 ss; cfr. Rom 1, 16; 2, 10). Ma d’altra parte spiega chiaramente qual
è la situazione delle nazioni di fronte al *vangelo.
a) Le nazioni di fronte al vangelo. - Gli uomini nati
dalle nazioni pagane, sono, al pari dei Giudei, sotto il peso dell’*ira di Dio
(Rom 1, 18). Dio si era fatto loro conoscere mediante la sua creazione (1, 19 s;
Atti 14, 17), ed essi l’hanno disconosciuto (Rom l, 21 s); aveva fatto loro
conoscere la sua legge per mezzo della coscienza (2, 14 s), ed essi si sono
abbandonati alle loro concupiscenze sregolate, in conseguenza della loro
idolatria (l, 24-32). Ma oggi Dio vuole usare con essi *misericordia come con i
Giudei, purché credano al vangelo (1, 16; 3, 21-31; 10, 12). Sia agli uni che
agli altri la *fede apporta la *giustificazione: secondo la testimonianza della
Scrittura, i veri figli di *Abramo, *eredi della benedizione che fu a lui
promessa, non sono forse quelli che si fanno forti della fede (Gal 3, 6-9)? Il
popolo che beneficia ora di questa *promessa comprende ad un tempo dei
*circoncisi e degli incirconcisi, ed in tal modo Abramo diventa il padre di una
moltitudine di nazioni (Rom 4).
b) I Giudei e le nazioni nella Chiesa. - In Gesù
Cristo è quindi restaurata l’unità umana. Non c’è più né Greco, né Giudeo (Gal
3, 28); Giudei e pagani sono riconciliati da quando è caduto tra essi il muro di
*odio. Formano una sola nuova *umanità, una sola costruzione di cui Cristo è la
*pietra d’angolo, un solo *corpo di cui egli è il capo (Ef 2, 11-22). Questo
mistero di *unità si realizza sin d’ora nella Chiesa, in attesa della sua
consumazione celeste. Tuttavia l’antica frattura dell’umanità in due domina
sempre la dialettica della storia sacra. In un primo tempo Dio ha scartato
Israele indurito, ad eccezione di un *resto; lo ha fatto per procurare la
salvezza alle nazioni pagane innestandole sul ceppo di Israele (Rom 11, 1-24), e
per eccitare la gelosia di Israele allo scopo di condurlo a resipiscenza (11,
11). In un secondo tempo, quando la totalità delle nazioni sarà entrata nella
Chiesa, tutto Israele sarà salvato a sua volta (11, 25-29). Le vie divine
sfociano nella salvezza finale di tutte le nazioni, riunite ad Israele nel
popolo di Dio (15, 7-12).
III. LA RIFLESSIONE CRISTIANA
1. I vangeli.
a) sinottici. - Raccogliendo i ricordi del passaggio
di Gesù in terra, i tre primi evangelisti fanno vedere, ciascuno a modo suo, il
loro interesse per la salvezza delle nazioni. In Marco, tutto il racconto
converge verso l’atto di fede del centurione pagano ai piedi della croce:
«Veramente costui era Figlio di Dio» (Mc 15, 39). In Matteo, che sottolinea la
presenza di donne pagane nella genealogia di Gesù (Mt 1, 2-6), questi si rivela
fin dall’infanzia come il re delle nazioni (2, 1-11); inaugura il suo ministero
nella «Galilea delle genti» (4, 15 s); le sue ultime parole sono un comando di
evangelizzare le nazioni (28, 19). In Luca, la genealogia di Gesù risale fino ad
Abramo, padre di tutta la razza umana che Gesù viene a salvare (Lc 3, 23-38);
perciò il vecchio Simeone saluta in lui «la luce che illumina le nazioni e la
gloria del suo popolo Israele» (2, 32); infine il duplice libro del vangelo e
degli Atti fa vedere che la salvezza, acquistata a *Gerusalemme mediante il
sacrificio di Gesù, si estende di là «fino alle estremità della terra» (Atti 1,
8).
b) S. Giovanni lascia apparire meno questa
preoccupazione, perché pensa piuttosto al destino dei *Giudei increduli (Gv 12,
37-43). Da popolo di Dio che essi erano, diventano per il loro *indurimento una
nazione analoga alle altre (11, 48 ss; 18, 35). In compenso, vivente ancora
Gesù, si vedono accostarsi a lui con fede uomini che costituiscono le primizie
delle nazioni (4, 53; 12, 20-32). Infine la sua morte opererà la
*riconciliazione universale: egli morrà non soltanto per la sua nazione, ma per
radunare nell’unità tutti i figli di Dio dispersi (11, 50 ss).
2. L’Apocalisse.
- Profezia cristiana, l’Apocalisse è attenta, come i profeti antichi,
alle due situazioni delle nazioni in rapporto al disegno di Dio.
a) Giudizio delle nazioni ostili. - Come Israele, il
nuovo popolo di Dio si trova di fronte delle nazioni pagane che gli sono ostili
(cfr. Apoc 11, 2). Tale è il senso delle *bestie che si fanno adorare dagli
uomini (13), di *Babilonia, la prostituta blasfema, che si ubriaca del sangue
dei martiri (17)... Queste potenze conducono la *guerra escatologica contro
Cristo (17, 13 s; 19, 19; 20, 7 ss), perché sono le depositarie del potere di
*Satana. Perciò saranno giudicate e distrutte (14, 6-11; 18); cadranno nella
loro lotta contro Cristo (17, 14; 19, 15. 20 s).
b) Salvezza delle nazioni convertite. - Ma di fronte
all’umanità peccatrice che va in tal modo verso la sua rovina, ecco la nuova
umanità salvata dal sangue dell’agnello: è una folla di tutte le nazioni, razze,
popoli e lingue (7, 9-17), che saluta in Dio il *re delle nazioni (15, 3 s) e
che abiterà per sempre la nuova *Gerusalemme (21, 24 ss). Il NT si chiude su
questa visione di speranza, in cui il genere umano redento ritrova infine la sua
unità: «O re delle nazioni, tu che esse desiderano! Pietra angolare grazie alla
quale tutto si congiunge! Vieni e salva l’uomo che hai impastato dal fango!»
(Antifona del 22 dicembre).
J. PIERRON e P. GRELOT
→ apostoli II 2 - circoncisione NT 1 - culto VT II, III - dispersione -
Egitto - esilio II 2 - fede VT III 3, IV 2; NT III 0 - giudeo I - Israele -
legge A 2; C III 2 - missione - padri e Padre II 2.3 - penitenza-conversione VT
II 5; NT III 2 - Pentecoste II 1.2 c d - popolo - re VT I 4 - straniero - unità
- visita VT 1
I. IL
FATTO DELLA INIMICIZIA
1. Costanza e limiti.
- L’uomo biblico è sempre di fronte al suo nemico: è un fatto su cui egli non si
interroga neppure. Già nella cerchia familiare una inimicizia attiva oppone
Caino ad Abele (Gen 4, 1-16), Sara ad Agar (Gen 16, 1-7), Giacobbe ad Esaù (Gen
27-29), Giuseppe ai suoi fratelli (Gen 37, 4), Anna a Peninna (1 Sam 1, 6 s).
Nella città i profeti, al pari dei salmisti, si lamentano dei loro nemici (Sal
31; 35; 42, 10; Ger 18, 18-23). Questi possono essere dei congiunti (Mi 7, 6;
Ger 12, 6) od antichi *amici (Sal 55, 13 ss). È divenuto come uno schema fisso:
dietro ogni avversità si ritrova un avversario, e il *malato dei Salmi è quasi
sempre un *perseguitato (Sal 13; 38, 1-16). Tuttavia nel nemico, se appartiene
alla comunità di Israele, la legge fa vedere un soggetto di diritto (Es 23, 4;
Num 35, 15). La nazione stessa si costruisce in questo mondo della inimicizia.
Ma l’ostilità conosce delle sfumature: senza misericordia nel caso dei Cananei o
degli Amaleciti (Es 17, 16; 1 Sam 15), essa finisce per non essere più che una
guerra fredda verso Moab ed Ammon (Deut 23, 4-7), ed il Deuteronomio, a
proposito di Edom e dell’Egitto (Deut 23, 8), lascia capire che *straniero non
vuole dire necessariamente nemico.
2. Origine.
- Come spiegare nella storia sacra la permanenza di un simile dato? È un dato
della storia. Il peccato ha mutato in *odio ogni contrasto e basta. Israele
acquista coscienza di se stesso in un mondo senza pietà. Pensare di vederlo
immunizzato sotto questo aspetto, sarebbe volerlo di essenza diversa
dall’umanità del suo tempo. Dio prende l’uomo com’è. I Cananei sono attaccati
perché sono idolatri (Gen 15, 16; Deut 20, 16 ss), ma anche perché occupano il
posto - la terra promessa (Deut 2, 12). A questo stadio si constata una certa
identificazione tra nemici di Dio e nemici della nazione: «Sarò nemico dei tuoi
nemici» (Es 23, 22).
II. LUCI SUL MONDO DELL’INIMICIZIA
1. Un caso tipico.
- La lotta di Saul contro David è il racconto più particolareggiato che ci
rimanga di una inimicizia personale. Qui Saul solo è il nemico. Egli vuole
uccidere David (1 Sam 18, 10 s; 19, 9-17) e si oppone ad un disegno che è nello
stesso tempo divino e terreno: la conquista del trono da parte del suo rivale.
Il movente profondo del suo odio è quello che la Bibbia presenta più
frequentemente: l’invidia. Quanto a David, egli evita di lasciarsi contaminare
dall’odio di Saul, ed il suo atteggiamento è tale che il cristiano, se lo deve
superare, deve prima faticare molto per uguagliarlo. Molti amici di Dio hanno
dovuto vivere, su scala propria, un dramma simile a quello di David, dove
abbondano i segni di un affinamento morale. Inserendosi pienamente nella loro
volontà di vita, la chiamata di Dio li ha portati a liberarsi dall’egoismo senza
perdere i legami con l’esistenza.
2. L’esperienza della sconfitta.
- Israele, come nazione, ha fatto un’esperienza molto simile. Per una *guerra
inflitta agli altri (come quella della conquista), quante guerre subite! Col
tempo l’immagine del nemico si è progressivamente confusa con quella
dell’oppressore; non c’è qui di che nutrire i sogni di potenza! Con ciò Israele
ha imparato che Jahvè, piuttosto che rendere il giusto più *forte, preferisce
liberarlo egli stesso (Es 14, 13 s. 30). Il nemico non è vinto dal giusto che
opprimeva; perisce vittima di se stesso (Sal 7, 13-17; cfr. Saul, Aman...). In
attesa che giunga la sua sconfitta, egli non trionfa senza motivo; *castiga in
nome di Dio e, senza volerlo, insegna. La sua eliminazione completa è legata
alla pienezza della *benedizione (Gen 22, 17; 49, 8; Deut 28, 7). Ora,
attraverso la storia, Jahvè lo lascia sussistere (Giud 2, 3. 20-23; Deut 7, 22).
Questo perdurare indica due cose: il livello di realizzazione della *promessa, e
quello della *fedeltà del popolo. Da una parte e dall’altra il tempo della
*pienezza non è ancora giunto.
3. L’opera del tempo.
- Coloro che riprendevano le *maledizioni del salmista molto tempo dopo
di lui non potevano farlo in nome degli stessi interessi particolari, né in
riferimento alle stesse persone: qui c’è già una purificazione. Si avverte uno
svincolo di tal sorta nel libro della Sapienza (10-19), che nella storia vede
più i conflitti ideologici che i conflitti di interessi. Quando i Maccabei,
riprendendo la tradizione della *guerra santa, si battono «per la loro vita e
per le loro leggi» (1 Mac 2, 40; 3, 21), lo fanno con una chiara coscienza del
duplice scopo espresso da questa formula, che unisce senza confondere. Insomma,
da una parte non si rinnega mai il principio giuridico del taglione, che
d’altronde poneva un freno alla *vendetta (cfr. Gen 4, 15. 24), e ci si
rappresenta la vittoria di Israele come la distruzione dei suoi nemici (Est);
dall’altra parte l’esperienza e la luce divina orientano i cuori verso l’*amore.
In mezzo ai consigli di prudenza, Ben Sira esige che l’uomo *perdoni, per essere
perdonato da Dio (Eccli 28, 1-7; cfr. Prov 24, 29). È l’esigenza di Gesù stesso.
III. GESÙ TRIONFA DELL’INIMICIZIA
1. Il comandamento e l’esempio.
- «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Mt 5, 44 par.).
Questo comandamento brilla tra le esigenze più nuove (cfr. 5, 43) di Gesù. Egli
stesso ha avuto dei nemici che non «lo hanno voluto come re», come dice una
parabola (Lc 19, 27). Lo hanno messo a morte; ed egli, sulla croce, ha perdonato
loro (Lc 23, 34). Così deve fare il *discepolo, ad imitazione del suo maestro
(cfr. 1 Piet 2, 23), ad imitazione del *Padre celeste (Mt 5, 45 ss), di cui
potrà in tal modo ottenere il perdono (cfr. Mt 6, 12). Il cristiano che perdona
non si fa illusioni sul mondo in cui vive, come Gesù non si faceva illusioni né
sui *Farisei, né su Erode. Ma pratica alla lettera il consiglio della Scrittura:
ammucchiare carboni ardenti sul capo del suo nemico (Rom 12, 20= Prov 25, 21 s).
Questa non è *vendetta: questo *fuoco si cambierà in amore se il nemico vi
consente; l’uomo che ama il nemico mira a trasformarlo in *amico ed adopra con
sapienza i mezzi adatti. In questa iniziativa Dio stesso l’ha preceduto: quando
eravamo suoi nemici, egli ci ha *riconciliati con se stesso mediante la morte
del Figlio suo (Rom 5, 10).
2. La vittoria sull’inimicizia.
- Gesù non viene quindi a negare l’inimicizia, ma a manifestarla nella sua
dimensione completa al momento di vincerla. Essa non è un fatto come gli altri;
è un mistero, il segno del regno di *Satana, il nemico per eccellenza: dal
giardino di Eden una inimicizia lo oppone ai figli di Eva (Gen 3, 15). Nemico
degli uomini e nemico di Dio, egli semina quaggiù la zizzania (Mt 13, 39);
perciò noi siamo esposti ai suoi attacchi. Ma Gesù ha dato ai suoi il potere su
ogni *potenza che viene dal nemico (Lc 10, 19). Essi l’hanno dalla lotta in cui
Gesù trionfò con la sua stessa sconfitta, essendosi offerto ai colpi di Satana
attraverso quelli dei suoi nemici, ed avendo vinto la *morte con la sua morte.
In tal modo abbatté «il muro di inimicizia» che divideva l’umanità (Ef 2,
14-16). In attesa del *giorno in cui Cristo, per mettere «tutti i nemici sotto i
suoi piedi», distruggerà per sempre la morte che è «l’ultimo nemico» (1 Cor 15,
25 s), il cristiano combatte con Gesù contro l’antico nemico del genere umano (Ef
6, 11-17). Attorno a lui alcuni si comportano da nemici della croce di Cristo
(Fil 3, 18), ma egli sa che la croce lo porta al trionfo. Questa *croce è il
luogo fuori del quale non c’è *riconciliazione né con Dio né tra gli uomini.
P. BEAUCHAMP
→ amico - amore II VT; NT 2 - animali 0 – anti-cristo - fratello VT 3 - guerra -
maledizione II - odio - perdono III - persecuzione - Satana - straniero 0 -
vendetta - violenza IV 2 - vittoria.
→ Babele-Babilonia 2.3 - città VT 2 - penitenza-conversione NT II.
La figura di Noè,
qualunque possano essere le sue lontane origini, rappresenta, ai diversi livelli
della Scrittura, il prototipo dell’uomo giusto che sfugge al *castigo e
beneficia della *salvezza. In mezzo all’iniquità che distrugge il mondo, egli
emerge come principio di un’umanità nuova e diventa perciò una prefigurazione di
Cristo.
1. Le tradizioni della Genesi.
- Se la spiegazione popolare collega il nome Noè (Noah) al verbo naham
(consolare), forse è per allusione al vignaiolo Noè (Gen 9, 20), il cui *vino
consola gli uomini del loro duro lavoro (5, 29). In effetti, la consolazione di
Noè proviene dalle parole con cui Dio, dopo il *diluvio, si impegna a non
maledire più la terra (Gen 8, 21). Malgrado la benevolenza divina, l’uomo può
ancora decadere, come un Noè ebbro, padre di un cani dai cattivi costumi (Gen 9,
20-25). Attraverso Cam, è Canaan ad essere condannato: i suoi culti licenziosi,
associati all’*ubriachezza, contrastano con quella vigilanza di cui Noè doveva
essere il modello. In quanto eroe del diluvio, Noè appare il giusto per
eccellenza. La sua *giustizia fa si che egli scampi alla rovina di un mondo
condannato e riconcili con Dio la terra e i suoi abitanti. La tradizione
sacerdotale ha visto in questa riconciliazione un’*alleanza di ampiezza
universale (Gen 9), estesa al complesso dei discendenti di Noè (cfr. Gen 9, 1;
10, 32).
2. I profeti e i sapienti.
- Essi sottolineano diversamente il valore esemplare dei tratti di Noè. Se
questi appare il testimone di una *responsabilità rigorosamente personale di
fronte al giudizio (Ez 14, 14), la sua alleanza con Dio permane comunque il
pegno di una paziente misericordia (Is 54, 9 s). Al di là dei giudizi
temporanei, vi sarà sempre un resto risparmiato per assicurare la continuazione
del disegno di salvezza. Noè è il prototipo di questo *resto (Eccli 44, 17), che
costituisce il popolo giusto e sarà infine rappresentato nell’unica persona del
messia. Il Giusto salverà il mondo come già fece Noè al tempo del diluvio quando
«la speranza dell’universo si rifugiò su un fragile battello... e lasciò al
mondo il germe di una nuova generazione» (Sap 14, 6; cfr. 10, 4 s).
3. Nel Nuovo Testamento.
- Nel Nuovo Testamento, Noè, secondo il vangelo, è un modello della *vigilanza;
contrariamente ai suoi contemporanei incoscienti, è vissuto nell’attesa di un
giudizio di Dio (Mt 24, 37 ss par.). La lettera agli Ebrei lo presenta ancor più
esplicitamente come il testimone della fede di fronte all’incredulità; il giusto
che credette sulla garanzia della sola parola di Dio (Ebr 11, 7). Nelle lettere
di Pietro, Noè appare sotto profili nuovi. Non soltanto giusto in se stesso, ma
anche araldo della giustizia divina, che annuncia agli uomini l’imminenza del
giudizio (2 Piet 2, 5; cfr. 3, 5). Questo giudizio pesa esclusivamente sul
*mondo malvagio. Noè ne emerge come il tipo dell’uomo salvato in Cristo, giacché
la salvezza accordatagli prefigura la *salvezza per mezzo delle acque del
*battesimo (l Piet 3, 20 s).
L. SZABÓ
→ acqua II 2 - alleanza VT II 3 - animali I 2, II 3 - Chiesa II 1 -
colomba 3 - diluvio - elezione VT I 3 a - legge A 1; B I 1 - resto VT 0 -
salvezza VT I 1 - vino I 1 - vite-vigna 1.
→ città VT 1 - pastore e gregge 0 - rimanere - straniero II - via - vino I 2.
VECCHIO
TESTAMENTO
Lungi dall’essere una designazione convenzionale, il nome per gli
antichi esprime la funzione di un essere nell’universo. Dio porta a termine la
creazione dando il nome alle creature, giorno, notte, cielo, terra, mare (Gen 1,
3-10), designando ciascuno degli astri con il suo nome (Is 40, 26), od
incaricando Adamo di dare un nome ad ognuno degli animali (Gen 2, 20). A loro
volta gli uomini daranno volentieri un nome significativo ai luoghi a cui è
collegato un avvenimento importante, anche a costo di una etimologia stravagante
come Babele (Gen 11, 9).
1. I nomi degli uomini.
- Il nome dato alla nascita esprime ordinariamente l’attività od il destino di
colui che lo porta: Giacobbe è il soppiantatore (Gen 27, 36), Nabal ha un nome
acconcio perché è uno stolto (1 Sam 25, 25). Il nome può anche evocare le
circostanze della nascita od il futuro intravisto dai genitori: Rachele morente
chiama il suo bambino «figlio del mio dolore», ma Giacobbe lo chiama Beniamino,
«figlio della mia destra» (Gen 35, 18). Talvolta è una specie di oracolo che
augura al bambino l’appoggio del Dio di Israele: Isaia (Ješa’-Jahu), «Dio
salvi!». Il nome dice sempre il potenziale sociale di una persona, a tal punto
che «nome» può anche significare «rinomanza» (Num 16, 2), ed essere senza nome
significa essere persona da nulla (Giob 30, 8). In compenso, averne parecchi può
significare l’importanza di una persona che ha parecchie funzioni da svolgere,
come Salomone chiamato anche «amato da Dio» (2 Sam 12, 25). Se il nome è la
stessa persona, agire sul nome significa aver presa sull’essere. Così può
sembrare che un censimento significhi un asservimento delle persone (cfr. 2 Sam
24). Cambiare il nome ad uno significa imporgli una nuova personalità,
*significa che egli diventa ormai un vassallo (2 Re 23, 34; 24, 17). Così Dio,
per indicare che prende possesso della loro vita, cambia il nome di Abramo (Gen
17, 5), di Sarai (17, 15) o di Giacobbe (32, 29). Così pure i nuovi nomi dati da
Dio a Gerusalemme perdonata, città della giustizia, cittadella fedele (Is 1,
26), città di Jahvè (60, 14), desiderata (62, 12), mio compiacimento (62, 4),
esprimono la nuova vita di una città dove i cuori sono rigenerati dalla nuova
alleanza.
2. I nomi di Dio.
- In tutti i popoli il nome della divinità aveva quindi molta
importanza; e se i Babilonesi giungevano fino a dare cinquanta nomi a Marduk,
loro dio supremo, per consacrare la sua vittoria al momento della creazione, i
Cananei tenevano nascosto il nome delle loro divinità sotto il termine generico
di Baal, «padrone» (di questo o di quel luogo). Presso gli Israeliti, *Dio
stesso si degnò di rivelare il suo nome. Prima il Dio di Mosè non era conosciuto
che come il Dio degli antenati, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Interrogato, l’angelo che lottò con Giacobbe rifiuta di dire il suo nome (Gen
32, 30); al padre di Sansone non è rivelato che un epiteto di questo nome:
«meraviglioso» (Giud 13, 8). Al tempo dei patriarchi il Dio di Israele fu
designato anche con aggettivi come «Shaddai» (quello della montagna) o con
espressioni come «terrore di Isacco» o «forte di Giacobbe». Ma, un giorno, sull’Horeb,
Dio stesso rivelò il suo nome a Mosè. La formula usata è intesa talvolta come un
rifiuto analogo a quello che l’angelo oppose a Giacobbe per non darsi nelle sue
mani: «Io sono chi sono», «Io sono ciò che sono» (Es 3, 13-16; 6, 3). Ma il
testo sacro ha voluto dare a questa formula un senso positivo. Infatti, secondo
il contesto, questo nome deve accreditare presso il popolo la missione di Mosè;
«Io-sono mi manda a voi» dirà Mosè, ed il popolo verrà ad adorare «egli è» (o
«egli fa essere») sul monte santo. Ad ogni modo questo nome significa che Dio è
*presente in mezzo al suo popolo: egli è *Jahvè.
3. Invocare il nome di Dio.
- Se Dio ha rivelato il suo nome, lo ha fatto perché lo si *adori sotto
questo vero nome, il solo autentico (cfr. Es 3, 15). Sarà quindi il segnale di
adunata delle tribù durante e dopo la conquista (Giud 7, 20). È il nome del solo
vero Dio, diranno più tardi i profeti: «Prima di me non fu formato nessun Dio, e
non ve ne sarà dopo di me. Io, io sono Jahvè» (Is 43, 10 s). Esso sarà quindi il
solo nome autorizzato sulle labbra di Israele (Es 23, 13), il solo invocato a
Gerusalemme quando David avrà fatto della città la capitale religiosa, perché «Jahvè,
geloso è il suo nome» (Es 34, 14). «Invocare il nome di Jahvè» significa
propriamente rendere un *culto a Dio, pregarlo: si grida il suo nome (Is 12, 4),
lo si invoca (Sal 28, l; cfr. Is 41, 25), si fa appello ad esso (Sal 99, 6). Ma
se Dio ha così confidato il suo nome proprio ad Israele, questi non deve
«pronunziare invano il nome di Jahvè» (Es 20, 7; Deut 5, 11): di fatto esso non
è a sua disposizione, per modo che ne abusi e finisca per *tentare Dio: non
sarebbe più servire Dio, ma servirsi di lui per i propri fini.
4. Il nome è Dio stesso.
- Dio si identifica talmente con il suo nome che, parlandone, designa se stesso.
Questo nome è amato (Sal 5, 12), lodato (Sal 7, 18), santificato (Is 29, 23).
Nome terribile (Deut 28, 58), eterno (Sal 135, 13). «Per il suo grande nome» (Gios
7, 9), a motivo del suo nome (Ez 20, 9) egli agisce in favore di Israele; il che
vuol dire: per la sua *gloria, per essere riconosciuto grande e santo. Per
meglio connotare la trascendenza del Dio inaccessibile e misterioso, il nome è
sufficiente a designare Dio. Così, come per evitare una localizzazione indegna
di Dio, il *tempio è il luogo in cui Dio ha «messo il suo nome» (Deut 12, 5),
dove si viene alla sua presenza (Es 34, 23), in questo tempio che «porta il suo
nome» (Ger 7, 10. 14). È il nome che, da lontano, viene a passare le nazioni al
vaglio della distruzione (Is 30, 27 s). Infine, in un testo tardivo (Lev 24, 11-
16), «il nome» designa Jahvè senz’altra precisazione, come farà più tardi il
linguaggio rabbinico. Per un rispetto sempre più accentuato, il giudaismo
tenderà di fatto a non più osare di pronunziare il nome rivelato all’Horeb.
Nella lettura esso sarà sostituito da Dio (Elohim) o più spesso da Adonai, «mio
Signore». Perciò i Giudei che tradurranno i libri sacri dall’ebraico in greco
non trascriveranno mai il nome di Jahvè ma lo renderanno con Kyrios, *Signore.
Mentre il nome di Jahvè, sotto la forma Jau od altre, passa ad un uso *magico o
profano, questo nome del Signore riceverà nel NT la sua consacrazione.
NUOVO TESTAMENTO
1. Il nome del Padre.
- Alla rivelazione, che Dio ha fatto del suo nome nel VT, corrisponde
nel NT la rivelazione mediante la quale Gesù ha fatto conoscere ai suoi
discepoli il nome del *Padre suo (Gv 17, 6. 26). Per il modo con cui manifesta
se stesso come il *Figlio, egli rivela che il nome, che esprime più
profondamente l’essere di *Dio, è quello di Padre. Questo Padre, il cui Figlio è
Gesù (Mt 11, 25 ss), estende pure la sua paternità su tutti coloro che credono
nel Figlio suo (Gv 20, 17). Gesù chiede al Padre di glorificare il suo nome (Gv
12, 28), ed invita i suoi discepoli a chiedergli di *santificarlo (Mt 6, 9
par.): il che Dio farà manifestando la sua *gloria e la sua *potenza (Rom 9, 17;
cfr. Lc 1, 49), e glorificando il Figlio suo (Gv 17, 1. 5. 23 s). I cristiani
hanno il dovere di *lodare il nome di Dio (Ebr 13, 15) e di evitare che la loro
condotta lo faccia bestemmiare (Rom 2, 24; 2 Tim 6, 1).
2. Il nome di Gesù.
- Invocando il nome di Gesù i discepoli *guariscono gli ammalati (Atti
3, 6; 9, 34), cacciano i demoni (Mc 9, 38; 16, 17; Lc 10, 17; Atti 16, 18; 19,
13), compiono ogni sorta di *miracoli (Mt 7, 22; Atti 4, 30). *Gesù appare così
quale lo indica il nome: colui che *salva (Mt 1, 21-25), restituendo la salute
agli infermi (Atti 3, 16) ma anche, e soprattutto, procurando la salvezza eterna
a coloro che credono in lui (Atti 4, 7-12; 5, 31; 13, 23).
3. Il nome del Signore.
- Risuscitando Gesù e facendolo sedere alla sua *destra, Dio gli ha
dato il nome al disopra di ogni nome (Fil 2, 9; Ef l, 20 s), un nome nuovo (Apoc
3, 12) che non è distinto da quello di Dio (14, 1; 22, 3 s) e partecipa al suo
mistero (19, 12). Tuttavia questo nome ineffabile trova la sua traduzione
nell’appellativo di *Signore, che conviene a Gesù risorto allo stesso titolo che
a Dio (Fil 2, 10 s = Is 45, 23; Apoc 19, 13. 16 = Deut 10, 17), e nella
designazione di Figlio, che, in questo senso, egli non condivide con nessuna
creatura (Ebr 1, 3 ss; 5, 5; cfr. Atti 13, 33; Rom 1, 4, secondo Sal 2, 7). I
primi cristiani non esitano a riferire a Gesù uno degli appellativi più
caratteristici del giudaismo parlando di Dio: si dice che gli apostoli erano
lieti di essere stati «giudicati degni di soffrire per il nome» (Atti 5, 41); si
citano missionari che «si sono messi in via per il nome» (3 Gv 7).
a) La fede cristiana consiste nel «credere che Dio ha
risuscitato Gesù di tra i morti», nel «*confessare che Gesù è *Signore»,
nell’«invocare il nome del Signore»: queste tre espressioni sono praticamente
equivalenti (Rom 10, 9-13). I primi cristiani si designano volentieri come
«coloro che invocano il nome del Signore» (Atti 9, 14. 21; 1 Cor 1, 2; 2 Tim 2,
22; cfr. Atti 2, 21 = Gioe 3, 5), significando in tal modo che riconoscono Gesù
come Signore (Atti 2, 36). La professione di fede si impone specialmente al
momento del *battesimo, che è conferito nel nome del Signore Gesù (Atti 8, 16;
19, 5; 1 Cor 6, 11), od ancora nel nome di Cristo (Gal 3, 27), di Cristo Gesù
(Rom 6, 3). Il neofito invoca il nome del Signore (Atti 22, 16), il nome del
Signore è invocato su di lui (Giac 2, 7); egli si trova così sotto il potere di
colui del quale riconosce la sovranità. In Gv, l’oggetto proprio della fede
cristiana non è tanto il nome di Signore, quanto quello di *Figlio: per avere la
vita è necessario credere nel nome del Figlio unico di Dio (Gv 3, 17 s; cfr. 1,
12; 2, 23; 20, 30 s; 1 Gv 3, 23; 5, 5. 10. 13), cioè aderire alla persona di
Gesù riconoscendo che egli è il Figlio di Dio, che «Figlio di Dio» è il nome che
esprime il suo vero essere.
b) La predicazione apostolica ha come oggetto di far
conoscere il nome di Gesù Cristo (Lc 24, 46 s; Atti 4, 17 s; 5, 28. 40; 8, 12;
10, 43). I predicatori avranno da soffrire per questo nome (Mc 13, 13 par.), e
ciò deve essere per essi un motivo di gioia (Mt 5, 11 par.; Gv 15, 21; 1 Piet 4,
13-16). L’Apocalisse è indirizzata a cristiani che soffrono per questo nome (Apoc
2, 3), ma vi aderiscono fermamente (2, 13) e non lo rinnegano (3, 8). Il
ministero nel nome di Gesù incombe specialmente a Paolo, il quale lo ha ricevuto
come un incarico (Atti 9, 15) ed una causa di sofferenza (9, 16), e tuttavia
svolge la sua missione con ardire e *fierezza (9, 20. 22 27 s), perché ha
consacrato la sua vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo (15, 26) ed è
pronto a morire per lui (21, 13).
c) La vita cristiana è tutta impregnata di fede: ci si
raduna nel nome di Gesù (Mt 18, 20), si accolgono coloro che si presentano nel
suo nome (Mc 9, 37 par.), guardandosi tuttavia dagli impostori (Mc 13, 6 par.);
si ringrazia Dio nel nome del nostro Signore Gesù Cristo (Ef 5, 20; Col 3, 17),
comportandosi in modo che il nome del nostro Signore Gesù Cristo sia glorificato
(2 Tess 1, 11 s). Nella preghiera ci si rivolge al Padre nel nome del Figlio suo
(Gv 14, 13-16; 15, 16; 16, 23 s. 26 s).
4. Altri nomi.
- Ogni essere porta il nome che conviene al compito che gli è assegnato. Quando
la sua missione è divina, il suo nome viene dal cielo, come quello di *Giovanni
(Lc 1, 13. 63). Anche se dato dagli uomini, il nome è segno di una economia di
Dio: Zaccaria (1, 5. 72: «Dio si è ricordato»), Elisabetta (1, 5. 73: «il
giuramento che egli aveva fatto»), *Maria (1, 27- 46. 52: «magnificata,
esaltata»). Dando a Simone il nome di *Pietro, Gesù fa vedere il compito che gli
destina e la nuova personalità che crea in lui (Mt 16, 18). Il buon *pastore
conosce per nome ciascuna delle sue pecore (Gv 10, 3). I nomi degli eletti sono
scritti in cielo (Lc 10, 20), nel *libro della vita (Fil 4, 5; Apoc 3, 5; 13, 8;
17, 8). Entrando nella gloria essi riceveranno un nome *nuovo ed ineffabile (Apoc
2, 17); partecipando all’esistenza di Dio, porteranno il nome del Padre e quello
del Figlio suo (3, 12; 14, 1); Dio li chiamerà suoi *figli (Mt 5, 9), perché
sono realmente tali (1 Gv 3, 1).
H. CAZELLES - J. DUPONT
→ Abramo I 3 - battesimo IV 2 - bestemmia - confessione VT 1 - Dio VT
II, III, IV - donna VT 1 - fecondità II - forza I 1 - Gesù (nome di) - Jahvè -
magia 2 c - memoria 1 b - padri e Padre III 3 - Pietro (S.) 1 - preghiera IV 4 -
presenza di Dio VT I - rivelazione VT II 2; NT III 1 b - santo VT I - segno VT
II 5 - Signore - vocazione I
L’evento della
notte pasquale è il centro del simbolismo della notte nella Scrittura;
certamente vi si ritrova pure l’esperienza umana fondamentale che è comune alla
maggior parte delle religioni: la notte è una realtà ambivalente, temibile come
la morte e indispensabile come il tempo della nascita dei mondi. Quando sparisce
la *luce del giorno, allora compaiono gli animali nocivi (Sal 104, 20), la peste
tenebrosa (Sal 91, 6), gli uomini che odiano la luce, adulteri, ladri od
assassini (Giob 24, 13-17), e perciò bisogna pregare colui che creò la notte (Gen
1, 5) di proteggere gli uomini contro i terrori notturni (Sal 91, 5). Bisogna
anche pregarlo quando sopraggiunge la notte (Sal 134, 2), quella notte che, come
il giorno, celebra la sua lode (Sal 19, 3). D’altronde la notte, che è temibile
perché il giorno vi muore, deve a sua volta lasciare il posto al giorno che
viene: perciò il fedele, che fa affidamento sul suo Signore, è come la scolta
che spia l’aurora (Sal 30, 6). Tuttavia questi simbolismi validi, tenebre
mortali e speranze del giorno, non trovano il loro pieno significato se non
hanno radici in una esperienza unica: la notte è il tempo in cui si svolse in
modo privilegiato la storia della salvezza.
VECCHIO TESTAMENTO
1. La notte della liberazione.
- Secondo le diverse tradizioni dell’Esodo, «verso la metà della notte» Jahvè
mise in atto il suo proposito di liberare il popolo dalla schiavitù (Es 11, 4;
12, 12. 29); notte *memorabile, ricordata ogni anno con una notte di veglia, in
ricordo del fatto che Jahvè stesso aveva *vegliato sul suo popolo (12, 42).
Notte che si prolungò mentre la colonna di *nube illuminava la strada ai
fuggitivi (13, 21 s). Già qui si manifesta 1’ambivalenza della notte: per gli
Egiziani la nube si faceva spessa, simile a quella notte che già s’era abbattuta
su di essi, mentre la luce illuminava gli Ebrei (10, 21 ss). «Per i tuoi santi,
commenta la Sapienza, era piena luce» (Sap 18, 1). Poi, descrivendo la notte
unica: «Mentre un tranquillo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte
giungeva a metà della sua rapida corsa, la tua parola onnipotente si slanciò dal
trono regale» (18, 14 s). Bisogna collegare a questo evento notturno la
preghiera del salmista che si leva a mezzanotte per rendere grazie a Dio dei
suoi giusti giudizi (Sal 119, 62)? Ad ogni modo la notte appare a priori come il
tempo della *prova, ma di una prova da cui si è liberati dal giudizio di Dio.
2. Il giorno e la notte.
- Israele vagheggiò continuamente il *giorno per mezzo del quale Jahvè
lo avrebbe ancora liberato dall’oppressione in cui si trovava. Questa speranza
era legittima, ma la condotta infedele non l’autorizzava. Perciò i profeti
prendono la direzione inversa: «Guai a coloro che sospirano dietro il giorno di
Jahvè! Che sarà esso per voi? Tenebre e non luce» (Am 5, 18), oscurità ed *ombra
spessa (Sof 1, 15; Gioe 2, 2). Ancora ambivalenza, ma questa volta inerente al
giorno di Jahvè: per gli uni sarà una notte, ma sarà una luce splendida per il
*resto di Israele che, nell’attesa, cammina a tastoni nelle tenebre della notte
(Is 8, 22 - 9, 1), ma spera ancora (cfr. Is 60, 1).
3. Nella notte della prova.
- Sapienti e salmisti hanno trasferito nella vita individuale l’esperienza del
giudizio divino che si compie nella notte e per mezzo della notte. Se pratichi
la *giustizia, «la tua luce sorgerà come l’aurora» (Is 58, 8; Sal 112, 4). Il
giorno della sua nascita è maledetto da Giobbe che avrebbe preferito rimanere
sepolto nella notte del seno materno (Giob 3, 3-10). Ma il salmista si rivolta
nel suo letto in piena notte per invocare il Signore: la notte gli appartiene (Sal
74, 16), ed egli può quindi liberarne l’uomo come già al tempo dell’esodo (Sal
63, 7; 77, 3; 119, 55). «La mia anima ti desidera la notte, affinché tu eserciti
il giudizio» (Is 26, 9; cfr. Sal 42, 2). In continuazione di questa evocazione
della salvezza come una *liberazione dalla prova notturna, le apocalissi
descrivono la *risurrezione come un risveglio dopo il *sonno della morte (Is 29,
19; Dan 12, 2), eterno alla luce dopo la caduta nella notte totale dello sheol.
NUOVO TESTAMENTO
Il salmista diceva a Dio: «Le tenebre non sono tenebre dinanzi a te, e la notte
è luminosa come il giorno» (Sal 39, 12). Queste parole dovevano realizzarsi in
modo meraviglioso, come una *nuova *creazione operata da colui che disse: «Dalle
tenebre risplenda la luce!» (2 Cor 4, 6): con la *risurrezione di Cristo il
giorno è spuntato dalla notte, per sempre.
1. La notte ed il giorno di Pasqua.
- Finché era giorno, Gesù faceva risplendere la luce delle sue opere (Gv
9, 4). Giunta l’ora, egli si abbandona alle insidie della notte (11, 10), di
quella notte in cui si è immerso il traditore Giuda (13, 30), in cui i suoi
discepoli si *scandalizzeranno (Mt 26, 31 par.): ha voluto affrontare quest’«ora
ed il regno delle tenebre» (Lc 22, 53). La liturgia primitiva ne conserva il
ricordo per sempre: «la notte in cui fu tradito» egli istituì l’eucaristia (1
Cor 11, 23). Ed il giorno della sua morte diventa esso stesso tenebre su tutta
la terra (Mt 27, 45 par.; cfr. Atti 2, 20 = Gioe 3. 4). Ma, sul far della notte,
«allorquando riluce il primo giorno della settimana», ecco lo splendore degli
angeli (Mt 28, 3) annunziante il trionfo della vita e della luce sulle tenebre.
Questa aurora era già nota ai discepoli quando Gesù li aveva raggiunti
camminando sul mare, «alla quarta vigilia della notte» (Mt 14, 25 par.). Notte
di liberazione che ancora conosceranno gli apostoli miracolosamente liberati
dalla loro prigione in piena notte (Atti 5, 9; 12, 6 s; 16, 25 s). Notte di luce
per Paolo i cui occhi sono immersi nelle tenebre, per risvegliarsi alla radiosa
*luce della fede (Atti 9, 3. 8. 18).
2. «Non siamo più della notte» (1 Tess 5, 5).
- Ormai la vita del fedele acquista un senso in funzione del giorno di Pasqua
che non conosce declino. Questo giorno risplende nel fondo del suo cuore: egli è
un «figlio del giorno» (1 Tess 5, 5; cfr. Ef 5, 8), da quando Cristo, risorto di
tra i morti, risplendette su di lui (Ef 5, 14). Egli è stato «strappato alla
potenza delle tenebre» (Col 1, 13), non ha più i «pensieri ottenebrati» (Ef 4,
18), ma riflette sul suo volto la *gloria stessa di Cristo (2 Cor 3, 18). Per
*vegliare contro il principe delle tenebre (Ef 6, 12), deve *rivestirsi di
Cristo e delle sue armi di luce, deporre le «*opere delle tenebre» (Rom 13, 12
ss; 1 Gv 2, 8 s). Per lui già non c’è più notte, la sua notte è luminosa come il
giorno.
3. Il giorno nel mezzo della notte.
- Il cristiano, essendo stato «condotto dalle tenebre alla luce
meravigliosa» (Atti 26, 18; 1 Piet 2, 9), non può essere sorpreso dal *giorno
del Signore, che viene come un ladro nella notte (1 Tess 5, 2. 4).
Indubbiamente, per ora, egli si trova ancora «nella notte», ma questa notte
«avanza» verso il giorno vicinissimo che vi metterà fine (Rom 13, 12). Se non
vuole «urtare contro i monti della notte» (Ger 13, 16), questa notte «in cui
nessuno può lavorare» (Gv 9, 4), deve ascoltare l’appello di Cristo a divenire
«figlio di luce» (12, 36). Con Pietro, illuminato nel corso della notte in cui
Cristo, secondo Luca, fu *trasfigurato (Lc 9, 29. 37), trova nelle *Scritture
una luce, simile ad una *lampada che brilla in luogo oscuro, fino a che il
giorno incominci a spuntare e la stella del mattino si alzi nel suo cuore (2
Piet 1, 19). Di questo giorno che viene, Gesù non ha rivelato il momento preciso
(Mc 13, 35), ma vi sarà identità tra «quel giorno» e «quella notte» (Lc 17, 31.
34). Cristo-sposo verrà nel mezzo della notte (Mt 25, 6); come le vergini
prudenti dalle lampade accese, la sposa dice: «Io dormo, ma il mio cuore veglia»
(Cant 5, 2). Nella sua attesa, essa si sforza di pensare a lui giorno e notte,
imitando i viventi (Apoc 4, 8) e gli eletti del cielo (7, 15) che, giorno e
notte, proclamano le lodi divine. Nello stesso spirito l’apostolo, giorno e
notte, lavora (1 Tess 2, 9; 2 Tess 3, 8), esorta (Atti 20, 1) e prega (1 Tess 3,
10). Già in terra, i servi di Cristo anticipano così, in qualche modo, il giorno
senza fine in cui «non ci sarà più notte» (Apoc 21, 25; 22, 5).
R. FEUILLET e X. LÉON DUFOUR
→ giorno del Signore NT III 1 - luce e tenebre - nube 0.2 - ombra 0, I
- Pasqua I 1.6 c, III 2 - sonno - vegliare I, III.
→ agnello di Dio 3 - matrimonio - pasto III - Sposo-sposa.
Come la *notte o
l’*ombra, la nube può significare una duplice esperienza religiosa: la vicinanza
benefica di Dio od il castigo di colui che nasconde la sua faccia. Più ancora, è
un simbolo privilegiato per indicare il mistero della presenza divina: manifesta
Dio pur velandolo. Il simbolismo naturale delle nubi, che facilita la
contemplazione della sapienza onnipotente (Giob 36, 22 - 37, 24), dovette
aiutare a tradurre l’esperienza della presenza divina. Le nubi offrono
effettivamente due aspetti principali. Leggere e rapide (Is 60, 8), sono
messaggeri - talvolta illusori (Giob 7, 9; Os 6, 4; 13, 3; Giuda 2) - che per lo
più promettono la pioggia benefica (1 Re 18, 44 s; Is 5, 6; Sal 78, 23). Su
questa base si comprende come possano diventare «il carro di Jahvè» (Sal 104,
3). Dall’altra parte, oscure, spesse, pesanti come la nebbia, formano un velo
opaco attorno al cielo (Giob 22, 13 s) ed alla dimora divina (Sal 18, 12),
ricoprono la terra di un’ombra terrificante (Ez 34, 12; 38, 9. 16), come uragano
minaccioso (Nah 1, 3; Ger 4, 13).
1. La colonna di nube e di fuoco.
- Secondo il racconto jahvista dell’esodo, gli Ebrei furono guidati da una
«colonna» che assume un duplice aspetto: «Jahvè li precedeva, di giorno sotto la
forma di una colonna di nube per indicare loro la strada, e la notte in forma di
una colonna di *fuoco per illuminarli» (Es 13, 21 s). Il Signore è presente al
suo popolo in ogni tempo, affinché possa proseguire il suo cammino. Assicura
parimenti la sue protezione contro i nemici; la colonna modifica il suo aspetto,
non più secondo il tempo, ma secondo gli uomini: «la nube era tenebrosa da un
lato e luminosa dall’altro» (14, 20); si parla pure di «colonna di fuoco e di
nube» (14, 24), manifestando così il duplice volto del mistero divino: *santità
inaccessibile al peccatore, vicinanza di *grazia per l’eletto. In Dio le
contraddizioni si risolvono; nell’uomo esse esprimono la presenza o l’assenza
del peccato. Questa coesistenza della nube e del fuoco, così cara alla pietà
mistica, è stata ripresa nella tradizione ulteriore (Deut 1, 33; Neem 9, 12; Sal
78, 14; 105, 39; Sap 17, 20 - 18, 4): Dio non ha parlato da un’immagine
fabbricata dall’uomo, ma «di mezzo al fuoco, alla nube ed alle tenebre» (Deut 5,
22).
2. La nube e la gloria di Jahvè.
- Dio ha parlato dal Sinai; una nube aveva ricoperto il monte per sei
giorni, mentre Jahvè discendeva in forma di fuoco (Es 19, 16 ss). Secondo le
tradizioni elohista e sacerdotale, per le quali la colonna di nube era «l’angelo
di Dio» (14, 19) in attesa di essere presenza dello «spirito santo... di Jahvè»
(Is 63, 13), la nube serve ad accrescere la trascendenza divina. Non c’è più
fuoco e nube, ma fuoco nella nube: la nube diventa un velo che protegge la
*gloria di Dio contro gli sguardi impuri; non si vuol segnare tanto una
discriminazione tra gli uomini, quanto la distanza tra Dio e l’uomo. Nello
stesso tempo accessibile ed impenetrabile, la nube permette di raggiungere Dio
senza *vederlo faccia a faccia, visione mortale (Es 33, 20). Dalla nube che
copre il monte, Jahvè chiama Mosè che solo vi può penetrare (24, 14-18). D’altra
parte la nube, se protegge la gloria, la manifesta pure: «la gloria di Jahvè
apparve in forma di nube» (16, 10); sta immobile all’ingresso della tenda del
convegno (33, 9 s) o determina gli spostamenti del popolo (40, 34-38).
Collegandosi un po’ al simbolismo precedente, essa è legata alla gloria che è
fuoco (Num 9, 15): in essa brillava un fuoco durante la notte (Es 40, 38). Più
tardi, in occasione della sua consacrazione da parte di Salomone, il *tempio fu
«riempito» dalla nube, dalla gloria (1 Re 8, 10 ss; cfr. Is 6, 4 s). Ezechiele
vedrà questa nube che protegge la gloria lasciare il tempio (Ez 10, 3 s; cfr.
43, 4), ed il giudaismo ne sognerà il ritorno con quello della gloria (2 Mac 2,
8).
3. Le nubi escatologiche.
- In corrispondenza con le teofanie dell’esodo, il *giorno di Jahvè è
accompagnato da nubi, che significano la venuta di Dio come giudice (cfr. Num
17, 7), sia attraverso il loro simbolismo naturale, sia mediante la metafora del
veicolo celeste. La «nebbia spessa» (Gíos 24, 7) ad esempio serve a descrivere
la venuta del Signore: è «un giorno di nubi e di oscurità» (Sof 1, 15; Ez 30, 3.
18; 34, 12; Nah 1, 3; Gioe 2, 2). La nube annunzia allora un uragano (Ger 4, 13)
che, dopo, lascia il ricordo di un velo dietro il quale Jahvè si è nascosto: «Ti
sei avvolto di una nube affinché la preghiera non passi» (Lam 3, 44). Le nubi
possono anche indicare il tempo di un nuovo esodo benefico (Is 4, 5), ed
assicurare la speranza della salvezza: «le nubi facciano piovere la giustizia!»
(Is 45, 8). In base alla metafora che presentava Jahvè che viene sul suo carro (Sal
104, 3), «cavalcando una nube leggera» (Is 19, 1), in mezzo a coloro che formano
la sua scorta (2 Sam 22, 12; Sal 97, 2), un’immagine s’è scolpita
nell’apocalittica: «Ecco venire sulle nubi del cielo come un *figlio d’uomo»
(Dan 7, 13) il cui impero non passerà.
4. Cristo e la nube.
- Prima di venire sulle nubi del cielo, il figlio dell’uomo è concepito dalla
vergine Maria, ricoperta dall’*ombra dello Spirito Santo e dalla potenza
dell’Altissimo (Lc 1, 35). Quando Gesù è *trasfigurato, la nube manifesta, come
nel VT, la *presenza di Dio, ma anche la *gloria del Figlio (Mt 17, 1-8 par.).
Lo sottrae poi allo sguardo dei discepoli, provando che egli rimane in cielo, al
di là delle cose visibili (Atti 1, 9), ma presente ai suoi testimoni (7, 5 s).
Come già nel VT, la nube sarà il suo carro celeste, quando il *figlio dell’uomo
verrà nell’ultimo *giorno «con» o «sulle nubi» (Mt 24, 30 par.; 26, 64 par.).
Nell’attesa, il veggente dell’Apocalisse contempla un figlio d’uomo, «assiso su
una nube bianca» (Apoc 14, 14), che viene, scortato dalle nubi (1, 7): tale è
l’apparato del Signore della storia.
5. I cristiani nella nube.
- In occasione della trasfigurazione, la nube non ricoprì soltanto Gesù e i
personaggi celesti, ma anche i discepoli (Lc 9, 34); essa unisce il cielo e la
terra, consacrando il raduno dei discepoli inaugurato da Gesù intorno alla sua
parola. I discepoli, una volta entrati nella nube celeste, sono consapevoli di
costituire ormai una comunità con Gesù e con il cielo stesso, nella misura in
cui ascoltano la sua parola. Secondo un’altra tradizione, come annunciava la
profezia (Is 63, 14), la *figura lascia il posto alla realtà, la nube allo
Spirito. Mentre gli Ebrei erano stati «*battezzati in [nome di] Mosè nella nube
e nel *mare» (1 Cor 10, 1 s), il cristiano è battezzato in [nome di] Cristo
nello Spirito Santo e nell’acqua. La vera nube è lo *Spirito che rivela (Gv 14,
26), che dirige (16, 13). Il «velo» che, come la nube, copriva il volto di Mosè,
raggiante di una gloria temporanea, è caduto per coloro che si sono rivolti al
Signore che è lo Spirito (2 Cor 3, 12-18). Tuttavia l’immagine delle nubi
escatologiche conserva ancora il suo valore per significare che nell’ultimo
giorno i fedeli saranno strappati anch’essi alla terra per andare incontro al
Signore che viene (1 Tess 4, 17; cfr. Apoc 11, 12).
X. LÉON-DUFOUR
→ ascensione I, II 4, III - casa II 1 - cielo IV - fuoco VT I 2 - gloria III 2 -
notte VT 1 - ombra - presenza di Dio VT II - tempio VT I 1 - uragano.
→ sessualità I 1 - vergogna I 2 - veste II.
→ cenere - creazione VT II 3 - delusione I 1 - idoli II 2 - menzogna II 1 - morte VT I 2.4.
Quando nei libri
sacri si incontrano indicazioni numeriche, bisogna prima cercare se sono state
esattamente trasmesse. Poiché una volta i numeri erano scritti in lettere, il
testo ha potuto essere alterato o mutilato. Così, per 2 Sam 24, 13, alcune
lezioni hanno letto z (= 7) mentre 1 Cron 21, 12, testo parallelo, porta g (=
3). Una volta fissato il testo, bisogna ancora chiedersi se, nell’intenzione
dell’autore, il numero in questione si doveva intendere nel suo valore
aritmetico esatto, oppure come una approssimazione od ancora nel suo significato
simbolico. Di fatto è certo che le antiche civiltà semitiche non si
preoccupavano molto della esattezza matematica, come invece fa la nostra
civiltà; in compenso moltiplicavano gli usi convenzionali e simbolici dei
numeri.
I. APPROSSIMAZIONI E SIGNIFICATI CONVENZIONALI
1. Dalle «cifre rotonde» o «approssimative» si passa facilmente nella
Bibbia agli usi convenzionali, che sarebbe errato intendere alla lettera. Il 2
può significare «alcuni» (Num 9, 22), ed il doppio, una sovrabbondanza (Ger 16,
18; Is 40, 2; 61, 7; Zac 9, 12; Apoc 18, 6). Il 3 è un’approssimazione del
numero π (1 Re 7, 23); d’altronde la triplice ripetizione di un gesto (1 Re 17,
21) o di una parola (Ger 7, 4) segna l’enfasi, l’insistenza, il «superlativo del
superlativo» (Is 6,3). Il 4 indica la totalità dell’orizzonte geografico
(davanti, dietro; destra e sinistra): i quattro venti (Ez 37, 9; Is 11, 12), i
quattro fiumi del paradiso (Gen 2, 10). Il 5 ha un valore mnemotecnico (dita di
una mano) che può essere all’origine di talune prescrizioni rituali (Num 7, 17.
23. 29); ma è puramente approssimativo in Gen 43, 34 (la porzione di Beniamino è
«cinque volte maggiore»), Lc 12, 6 («cinque passeri per due assi»; Mt 10, 29
porta «due passeri per un asse»), 1 Cor 14, 19 («piuttosto cinque parole che
istruiscono, che diecimila in lingue»). Il 7 suggerisce un numero abbastanza
considerevole: Caino sarà vendicato sette volte (Gen 4, 15), il giusto cade
sette volte al giorno (Prov 24, 16), Pietro vuol perdonare sette volte (Mt 18,
21) e Gesù scaccia sette demoni dalla Maddalena (Mc 16, 9); ma questo numero ha
un superlativo: Lamec sarà vendicato settantasette volte (Gen 4, 24) e Pietro
dovrà perdonare settantasette volte o settanta volte sette volte (Mt 18, 22). Il
10 ha un valore mnemotecnico (le dieci dita), donde il suo uso per i dieci
comandamenti (Es 34, 28; Deut 4, 13) o le dieci piaghe di Egitto (Es 7, 14 - 12,
29); di qui deriva l’idea di una quantità molto grande: Labano ha cambiato dieci
volte il salario di Giacobbe (Gen 31, 7) e Giobbe è stato insultato dieci volte
dai suoi amici (Giob 19, 3). Il 12 è il numero delle lunazioni dell’anno, e
suggerisce quindi l’idea di un ciclo annuale completo: le dodici prefetture di
Salomone assicurano a turno il vettovagliamento della corte per un mese (1 Re 4,
7 - 5, 5); si è supposto che il numero delle dodici tribù di Israele fosse in
rapporto con il servizio cultuale nel santuario comune durante i dodici mesi
dell’anno. Il 40 designa convenzionalmente gli anni di una generazione;
quarant’anni di soggiorno nel deserto (Num 14, 34), quarant’anni di tranquillità
in Israele dopo ogni liberazione compiuta dai Giudici (Giud 3, 11- 30; 5, 31;
ecc.), quarant’anni di regno per David (2 Sam 5, 4)... Di qui l’idea di un
periodo piuttosto lungo di cui non si conosce la durata esatta: quaranta giorni
e quaranta notti per il diluvio (Gen 7, 4), il soggiorno di Mosè sul Sinai (Es
24, 18); ma i quaranta giorni del viaggio di Elia (1 Re 19, 8) e del digiuno di
Cristo (Mc 1, 13 par.) ripetono simbolicamente i quarant’anni di Israele nel
deserto. Usi simili sono da ricordare per 60 ed 80 (Cant 6, 8), 100 (Lev 26, 8;
Eccle 6, 3; il centuplo di Mt 19, 29), mentre i settanta anziani di Num 11, 16.
24 si riferiscono all’uso convenzionale di sette (cfr. Lc 10, 1). Così pure
taluni usi del numero 70 (10 volte sette) sono in rapporto con il simbolismo
della *settimana e del *sabato (Ger 25, 11; 2 Cron 36, 21; Dan 9, 2). La cifra
1000 evoca una quantità considerevole: Dio fa grazia a mille generazioni (Es 20,
6; Ger 32, 18); per lui mille anni sono come un giorno (Sal 90, 4) ed un giorno
presso di lui val più di mille altrove (Sal 84, 11). Ma la stessa cifra serve
pure a designare le divisioni interne delle tribù, ed il «migliaio» si suddivide
esso stesso convenzionalmente in centinaia, cinquantine e decine (Es 18, 21). Al
di là, la miriade (10.000) designa una quantità favolosa (Lev 26, 8). Ad ogni
modo questi grossi numeri hanno un valore iperbolico, percepibile in passi come
Gen 24, 60 oppure 1 Sam 18, 7.
2. Un procedimento originale per segnare l’enfasi consiste
nell’aumentare un numero facendolo seguire da quello che gli è superiore: «Una
volta Dio ha parlato, due volte ho inteso» (Sal 62, 12). Si trova così: 1+2 (Ger
3, 14; Giob 40, 5); 2+3 (Os 6, 2; Giob 33, 29; Eccli 23, 16); 3+4 (Am 1- 2; Prov
30, 15-33; Eccli 26, 5; cfr. il ter quaterque beati di Virgilio); 4+5 (Is 17,
6); 5+6 (2 Re 13, 19); 6+7 (Prov 6, 16; Giob 5, 19); 7+8 (Mi 5, 4; Eccle 11, 2);
9+10 (Eccli 25, 7). Si vede che il procedimento è frequente nei sapienti, per lo
più sotto la forma del mashal numerico rendiconto fantasioso che ricorre
sistematicamente a questo tipo di espressione.
II. SIGNIFICATI SIMBOLICI
L’oriente antico ha dato molta importanza al simbolismo dei numeri. In
Mesopotamia, dove le matematiche erano relativamente sviluppate, si attribuivano
agli dèi taluni numeri sacri. Secondo le speculazioni pitagoriche, 1 e 2 erano
maschili, 3 e 4 femminili, 7 verginale, ecc. Queste concezioni si incontrano
talvolta negli scritti giudaici e presso i Padri, ma sono estranee alla Bibbia,
dove nessuna cifra per sé è sacra. In compenso, in base a taluni usi
convenzionali o per influsso laterale delle civiltà vicine, vi si incontrano in
gran numero usi simbolici od anche «gematrie».
1. Usi simbolici.
- Il 4, cifra della totalità cosmica (che sta ancora sullo sfondo dei «quattro
viventi» in Ez 1, 5...; Apoc 4, 6) finisce per designare tutto ciò che ha
carattere di pienezza: quattro flagelli in Ez 14, 21; quattro beatitudini in Lc
6, 20 ss (e 8 in Mt 5, 1-10). Il 7 designa tradizionalmente una serie completa:
sette aspersioni con il sangue (Lev 4, 6. 17; 8, 11; 14, 17; Num 19, 4; 2 Re 5,
10), immolazione di sette animali (Num 28, 11; Ez 45, 23; Giob 42, 8; 2 Cron 29,
21). È collegato volentieri ad oggetti sacrosanti: i sette angeli di Tob 12, 15;
i sette occhi sulla pietra in Zac 3, 9. È soprattutto la cifra dei giorni della
*settimana, e caratterizza il *sabato, giorno santo per eccellenza (Gen 2, 2).
Di qui le speculazioni apocalittiche di Dan 9, 2. 24, dove le settanta settimane
di anni (10 giubilei di sette volte sette anni) terminano nel *giorno della
salvezza, indipendentemente da ogni cronologia reale. Cifra di perfezione
divisibile in 3+4, il sette figura a questo titolo nelle visioni profetiche (Is
30, 26; Zac 4, 2) e soprattutto nelle apocalissi (Apoc 1, 12. 16; 3, 1; 4, 5; 5,
1. 6; 8, 2; 10, 3; 15, 1; 17, 9), ma si menziona pure la sua metà, tre e mezzo
(Dan 7, 25; 8, 14; 9, 27; 12, 8. 11 s; Apoc 11, 2 s. 9 ss; 12, 6. 14; 13, 5).
Viceversa, 6 (7-1) è il tipo della perfezione non raggiunta (Apoc 13, 18: 6 66).
Il 12, in quanto cifra delle dodici tribù, è anch’esso una cifra perfetta, che
si applica simbolicamente al popolo di Dio. Di qui il suo uso significativo per
i dodici *apostoli di Gesù, che governeranno le dodici tribù del nuovo Israele
(Mt 19, 28 par.). Anche la nuova *Gerusalemme dell’Apocalisse ha dodici porte su
cui sono incisi i nomi delle dodici tribù (Apoc 21, 12), e dodici basamenti che
portano i nomi dei dodici apostoli (21, 14). Così pure il popolo salvato è un
numero di 144.000, dodici migliaia per ogni tribù di Israele (7, 4-8). Ma le
dodici stelle che coronano la *donna (altro simbolo della nuova umanità)
potrebbero fare allusione alle dodici costellazioni zodiacali (12, 1).
2. Gematrie.
- Si chiama gematria (corruzione del gr. gheometria) un procedimento
caro agli antichi, secondo il quale una data cifra designa un uomo od un oggetto
perché il valore numerico delle lettere che costituiscono il suo nome
corrisponde al numero in questione. La Bibbia ne offre qualche esempio certo. I
318 armati di Abramo (Gen 14, 14) corrispondono probabilmente alla cifra del
nome Eliezer, l’intendente di Abramo: ‘+L+J+ ‘Z+R = 1+30+10+70+7+200 = 318. Si è
pure proposto di vedere nelle 3 X 14 generazioni che compongono la genealogia di
Gesù (Mt 1) una gematria del nome David (DWD = 4+6+4 = 14), sovrapposta all’uso
simbolico della cifra 7 (14 = 7 X 2): Gesù sarebbe così designato come «triplice
David» (eminentemente davidide e messia). Il caso è certo per la cifra della
bestia (666) in Apoc 13, 18, anche se la base del computo si presta a
discussioni. S. Ireneo pensava già al nome Lateinos (30+1+300+5+10+ 50+70+200)
designante l’impero romano. Oggi per lo più si crede trattarsi di Nerone Cesare,
in base al numero ebraico NRWN QSR (50+200+6+50+100+60+200). In ogni caso il
simbolismo del 6 si sovrappone a questa designazione criptica.
III. CONCLUSIONE
Una certa quantità di numeri biblici si deve spiegare con il duplice
procedimento dei valori simbolici e delle gematrie; ma molto spesso ne abbiamo
perduto la chiave ed è molto difficile ritrovarla. Così le età favolose dei
patriarchi antidiluviani (d’altronde modeste nei confronti di quelle che
figurano nelle leggende mesopotamiche) hanno probabilmente un significato; ma
esso appare soltanto per Enoch, il solo giusto della serie, che visse 365 anni,
cifra perfetta di un anno solare. Forse lo stesso vale per le età degli antenati
di Israele, per il totale dei censiti in Num 1, 46, per i 38 anni di Gv 5, 5,
per i 153 grandi pesci di Gv 21, 11 (forse la cifra triangolare di 17: 1+2+3...
+17 = 153), ecc. Checché ne sia, resta certo che i numeri citati nei libri sacri
non devono sempre essere presi alla lettera. Per comprenderne la portata,
bisogna tener sempre conto dell’intenzione dei narratori: vogliono essi fornire
cifre esatte, oppure approssimazioni la cui eventuale esagerazione ha un valore
di iperbole, oppure dei simboli che trascendono la pura aritmetica? Nei libri
storici il numero dei combattenti o dei prigionieri è molto spesso esagerato
(cfr. Es 12, 37), ma è una convenzione del genere letterario, e l’affermazione
dell’agiografo s’intende in funzione di essa, al di là di un valore aritmetico
più o meno convenzionale. Così pure, se interviene il simbolismo, gli autori si
interessano essenzialmente alla portata dei simboli. In ciascun caso particolare
bisogna quindi vedere di che si tratta, per evitare sia di finire in una
interpretazione simbolica smodata, sia di rendere rigide affermazioni che devono
essere intese in modo duttile, sia infine di svuotare del loro contenuto le
indicazioni date dal testo. Occorre ritenere che, oltre al loro valore numerico,
le cifre rappresentano molto spesso nozioni di ordine completamente diverso che,
più di una volta, sfuggono ai lettori moderni.
J. DE FRAINE e P. GRELOT
→ mistero VT 2 a - settimana 1 - tempo VT II 1, III 3.
L’idea di novità
si esprime in greco con due termini diversi: neòs, nuovo nel tempo, giovane (e
quindi anche immaturo); kainòs, nuovo nella sua natura, e quindi
qualitativamente migliore. I due termini sono applicati nella Bibbia alle realtà
della salvezza: il primo sottolinea il loro carattere di presenza recente in
rapporto al passato; il secondo, molto più frequente, le descrive come realtà
completamente diverse, meravigliose, divine, perché l’uomo e la terra
invecchiano come un abito (Eccli 14, 17; Is 50, 9; 51, 6), ma in Dio nulla è
caduco, tutto è nuovo.
I. NOVITÀ E SANTITÀ
Poiché tutta la creazione appartiene a Dio, le cose nuove, non ancora
profanate dall’uso, hanno un carattere sacro: le *primizie dei raccolti ed i
primogeniti sono riservati a Dio (Deut 26, 1-11; Es 13, 11 ss); taluni
*sacrifici vengono fatti con animali che non hanno ancora portato il giogo (Num
19, 2; Deut 21, 3); 1’*arca dev’essere trasportata su un carro nuovo con animali
che non hanno lavorato (1 Sam 6, 7; 2 Sam 6, 3); e per simboleggiare che
purificherà acque malsane, Eliseo si serve di un vaso nuovo ripieno di sale (2
Re 2, 20). La stessa riverenza verso il sacro fa usare, per seppellire Gesù, un
sepolcro nuovo, «in cui non era ancora stato posto nessuno» (Mt 27, 60; Gv 19,
41).
II. L’ATTESA DEI TEMPI NUOVI
Gli Israeliti ammirano il rinnovamento stagionale della creazione e
l’attribuiscono al soffio di Dio (Sal 104, 30). Per i *tempi messianici ed
escatologici attendono pure un rinnovamento universale; ma, a differenza di
quanto si verifica nella natura, il «nuovo» vi sarà più grande dell’antico.
1. Un nuovo esodo.
- Ai prodigi del passato il Libro della Consolazione oppone quelli che si
produrranno al ritorno dall’*esilio (Is 42, 9); i miracoli dell’uscita
dall’Egitto saranno superati da quelli del nuovo *esodo: Dio «farà una cosa
nuova, ... aprirà una strada nel deserto, dei sentieri nella solitudine» (43,
19). con questi prodigi Jahvè ricondurrà Israele in Palestina (40, 3 ss) per
rivelarvi la sua gloria e stabilire ormai la sua sovranità su tutti i popoli
(45, 14-17. 20- 25). Queste realtà nuove devono essere celebrate con un canto
nuovo (42, 10; Sal 149, 1), che tutta la terra deve intonare (Sal 96, 1).
2. Come una nuova creazione.
La potenza che Dio dispiega fa considerare la *salvezza messianica come una
nuova *creazione (Is 41, 20; 45, 8; 48, 6 s); il liberatore di Israele è il suo
creatore (43, 1. 15; 54, 5), il primo e l’ultimo (41, 4; 44, 6; 48, 12). La
Palestina del futuro sarà come un giardino di Eden (51, 3; Ez 36, 35), che i
profeti descrivono con colori *paradisiaci (Is 11, 6-9; 65, 25; Ez 47, 7-12).
Dopo l’esilio si sperano pure «cieli nuovi ed una terra nuova» (Is 65, 17; 66,
22).
3. Una nuova alleanza
- Parecchie delle grandi realtà dell’antica alleanza acquistano un
valore *figurativo ed annunziano per i tempi futuri una ripresa ed un
perfezionamento dell’*alleanza. I profeti attendono un nuovo *David (Ez 34, 23
s), un nuovo *tempio (40-43), una nuova *terra santa (47, 13-48. 29), una nuova
*Gerusalemme, la cui caratteristica sarà l’amore eterno di Jahvè (Is 54, 11-17)
e la sua *presenza in mezzo al popolo (Ez 48, 35). Sion sarà chiamata con un
*nome nuovo (Is 62, 2; 65, 15): non sarà più chiamata «Abbandonata», ma la
«Sposata» (Is 62, 4). Jahvè ed Israele riprenderanno le loro relazioni di amore
(54, 4-10): «Jahvè crea una cosa nuova sulla terra: la donna [Israele] cerca il
suo uomo [Jahvè]» (Ger 31, 22). Questa alleanza sarà eterna (Is 55, 3; 61, 8).
Ma sarà nello stesso tempo una nuova alleanza (Ger 31, 31-34), diversa da quella
del Sinai: sarà caratterizzata dalla purificazione dei peccati e dalla
interiorità della *legge (Ez 36, 26 s). Una simile alleanza sarà possibile
perché Dio darà all’uomo un *cuore nuovo ed uno *spirito nuovo (11, 19; 18, 31;
36, 26). Infine è la *sapienza divina che opera il rinnovamento di tutte le
cose; essa si effonde nelle *anime sante per farne amici di Dio (Sap 7, 27).
III. LA NUOVA ALLEANZA MESSIANICA
1. Un nuovo insegnamento.
- Sin dall’inizio della predicazione di Gesù, i suoi uditori sono
colpiti dalla novità del suo *insegnamento (Mc 1, 27); egli viene a perfezionare
la *legge ed i *profeti (Mt 5, 17); oppone la dottrina degli antichi alla sua
(Mt 5, 21 48), come una *veste usata ad un panno nuovo, come otri vecchi ad un
*vino giovane (neòs, Mt 9, 16 s par.). L’essenziale della legge rimane
acquisito, ma dev’essere rinnovato dai perfezionamenti del *vangelo e dal nuovo
spirito del *regno; i discepoli sono come un proprietario «che trae dal suo
tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52). Il precetto della carità è nello
stesso tempo antico e nuovo (1 Gv 2, 7 s; 2 Gv 5): è antico, non in quanto
formulato nella legge (Lev 19, 18), ma perché i fedeli lo posseggono fin dalla
loro conversione. Gesù l’aveva chiamato «il suo precetto» (Gv 15, 12): con ciò è
un comandamento nuovo (13, 34), perché questa carità deve ormai imitare quella
di Cristo, che si è dato per noi (13, 1. 34; 15, 12 s) e nel quale si è rivelato
l’*amore del Padre (3, 16; 1 Gv 4, 9); è un amore tra *fratelli, una
partecipazione all’amore di *comunione tra Padre e Figlio (Gv 15, 9 s; 17, 26; 1
Gv 4, 16).
2. La nuova alleanza.
- Nella cena Gesù dichiara: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue
che sarà versato per voi» (Lc 22, 20 par.; 1 Cor 11, 25). L’alleanza del Sinai
era già stata suggellata dal sangue delle vittime (Es 24, 3-8). La nuova
alleanza, che compie e perfeziona l’antica (Ebr 8, 1-10. 18), fu suggellata in
*croce dal *sangue di Gesù, vittima perfetta, sommo sacerdote perfetto,
*mediatore della nuova alleanza (Ebr 9, 15; 12, 24). La remissione dei peccati,
annunziata dai profeti, è realizzata nel sacrificio di Cristo (Ebr 10, 11-18).
Il sangue della nuova alleanza è dato nell’*eucaristia; ma il vino eucaristico
non è anch’esso che un’anticipazione del vino nuovo che si berrà in cielo nel
banchetto escatologico (Mt 26, 29 par.). Un’altra caratteristica della nuova
alleanza, preparata nell’antica (la legge nel cuore, Deut 30, 14), è di non
essere più scritta su tavole di pietra ma in *cuori di *carne (2 Cor 3, 3; cfr.
Ger 31, 33; Ez 36, 26 s). Paolo sottolinea l’antitesi: la legge mosaica è il
«Vecchio Testamento» (2 Cor 3, 14); oppone la legge che uccide allo *Spirito che
vivifica (3, 6), la vetustà della lettera alla novità dello Spirito (Rom 7, 6).
La nuova alleanza è l’alleanza dello Spirito. Coloro che saranno posseduti dallo
Spirito parleranno in *lingue nuove (Mc 16, 17; Atti 2, 4), cioè un linguaggio
celeste ispirato dallo Spirito.
3. L’uomo nuovo.
- Tutta l’opera di *redenzione e un grande rinnovamento. Ma la nuova creazione
di cui parlavano i profeti si precisa: è in primo luogo una rinnovazione
dell’*uomo, ed attraverso ad esso si rinnoverà l’universo.
a) Cristo, nuovo Adamo, dà la vita a tutti (1 Cor 15,
22. 44-49). Per via di *Adamo, capo dell’umanità decaduta, l’uomo vecchio era
*schiavo del peccato (Rom 6, 6. 17; Ef 4, 22); l’uomo nuovo, dopo la redenzione,
è l’umanità rinnovata in Cristo, il quale, nella propria carne, ha creato pagani
e Giudei in un solo uomo nuovo (Ef 2, 15). Ad imitazione di Adamo, quest’uomo
nuovo è ricreato nella *giustizia e nella *santità della *verità (Ef 4, 24).
Ormai tutti sono uno in Cristo (Col 3, 11).
b) In virtù della sua rigenerazione, ogni cristiano
può essere chiamato anch’esso «l’opera di Dio» (Ef 2, 10). «chi è in Cristo, è
una nuova creazione; l’essere vecchio è scomparso, c’è un essere nuovo» (2 Cor
5, 17; Gal 6, 15). La nuova *nascita avviene mediante il *battesimo (Gv 3, 5;
Tito 3, 5), ma anche mediante la *parola di verità (Giac 1, 18; 1 Piet 1, 23),
cioè mediante la *fede, dono dello Spirito (Gv 3, 5; 1 Gv 5, 1. 4). Paolo parla
soprattutto di rinnovamento a proposito della santificazione progressiva dei
fedeli: «l’uomo interiore in noi si rinnova di giorno in giorno» (2 Cor 4, 16).
I battezzati si devono purificare dal vecchio lievito per essere un impasto
fresco e nuovo (neòs, 1 Cor 5, 7), devono spogliarsi dell’uomo vecchio,
rivestirsi dell’uomo nuovo (Col 3, 10; Ef 4, 22 ss), e vivere una *vita nuova
(Rom 6, 4). L’esempio da imitare è Cristo *immagine di Dio (Rom 8, 29; 2 Cor 3,
18; 4, 4; Col l, 15). Restaurare in noi l’immagine del creatore (Col 3, 10; Gen
1, 27), è lo stesso che rivestirsi di Cristo (Rom 13, 14). Questa trasformazione
è anzitutto l’opera dello Spirito (Rom 7, 6; 8, 1-16; Gal 5, 16-25). Necessario
alla salvezza non è soltanto il bagno della rigenerazione, ma anche la *nascita
secondo lo Spirito (Gv 3, 5. 8), l’opera di rinnovazione dello Spirito (Tito 3,
5). Il mezzo di questa rinnovazione è il *latte della parola di Dio (1 Piet 2,
2), la verità che opera in noi la giustizia e la santità (Ef 4, 24), la fede
(Gal 5, 5 s). In tal modo il fedele si avvia verso quella *conoscenza che
rinnova gradatamente in lui l’immagine di chi lo ha creato (Col 3, 10).
c) Attraverso il cristiano, l’opera di rinnovamento
deve estendersi a tutto l’universo. Cristo ha *riconciliato tutte le cose con
Dio (Col 1, 20; Ef 1, 10); tutta la *creazione attende la *redenzione (Rom 8,
19-23). Ma questa restaurazione universale non sarà realizzata che alla fine dei
tempi, nei «cieli nuovi e nella nuova terra, dove abiterà la giustizia» (2 Piet
3, 13).
IV. LA NUOVA GERUSALEMME
Con la sua *ascensione Cristo ha inaugurato nella sua persona una via nuova e
vivente, quella che dà accesso al santuario celeste (Ebr 10, 19 s). L’Apocalisse
descrive questa fase finale del rinnovamento escatologico. La città di Dio è la
«nuova *Gerusalemme» (Apoc 3, 12; 21, 2), ripiena della *presenza di Dio (Ez 48,
35). Ornata come una *sposa, dimora (cfr. *rimanere) di Dio con gli uomini, essa
è la suprema realizzazione dell’alleanza: «Dio abiterà con essi» (Apoc 21, 3).
Tutta la creazione vi prenderà parte, perché ora compaiono «un *cielo nuovo ed
una *terra nuova: il primo cielo e la prima terra sono spariti» (21, 1). Qui
riappaiono i grandi testi profetici sulla rinnovazione futura, pregni di tutto
il loro senso. Come un tempo gli Ebrei al ritorno dall’esilio (Is 42, 10), i
vegliardi e gli eletti intonano un cantico nuovo per celebrare la redenzione
infine compiuta (Apoc 5, 9; 14, 3). Come gli abitanti della Sion messianica (Is
62, 2; 65, 15), i cristiani vincitori ricevono «un sassolino bianco che porta
inciso un *nome nuovo» (Apoc 2, 17); tale nome avrà questa volta un carattere
specificamente cristiano: sarà il nome di Dio (3, 12), quello dell’*agnello e
quello del Padre, che gli eletti porteranno in fronte (14, 1; 22, 3 s), come
segno della loro appartenenza a Dio ed a Cristo. L’Apocalisse termina con una
visione finale in cui Dio proclama: «Ecco che rinnovo tutte le cose. lo sono
l’alfa e l’omega, il principio e la fine» (21, 5 s). Questa ultima pagina della
rivelazione lo dice con una chiarezza perfetta: il fondamento di ogni novità è
*Dio stesso. La grande opera di rinnovazione delle creature è l’opera della
salvezza compiuta da Cristo: «Cristo ha apportato ogni novità apportando se
stesso» (S. Ireneo); perciò la Chiesa, durante la settimana pasquale, quando
celebra la nostra redenzione, ci invita a pregare affinché «purificati da ogni
vetustà, possiamo diventare nuove creature».
I. DE LA POTTERIE
→ Adamo II - alleanza VT III 2; NT - battesimo IV 1.3.4 - cielo VI - compiere -
conoscere NT 3 - creazione VT III 2; NT II - culto NT II - cuore II - diluvio 3
- esodo VT 2 - eucaristia V - figura VT II 2.3 - Gerusalemme VT III; NT II 1.3 -
immagine IV - insegnare NT I 2.3, II 2 - Israele VT 3; NT 2.3 - legge B IV; C -
mondo VT III 2.3; NT II 2, III 3 - nascita (nuova) - nome NT 4 - patria NT 2 -
popolo B; C - primizie - profeta VT IV 3 - promesse II 5 - risurrezione NT II 2
- spirito NT 2 - Spirito di Dio NT V 3 - tempio NT I, II 2 - tempo VT III 2; NT
III 1 - terra VT II 4; NT III - uomo III 2.3 - vecchiaia 2 - vino II 2 b.
Come tutti gli
esseri viventi, l’uomo per sussistere è obbligato a nutrirsi, e questa
dipendenza nei confronti del mondo è un segno essenziale della sua
inconsistenza, ma è pure un appello a nutrirsi di Dio che solo ha consistenza.
Per insegnare all’uomo che il suo vero nutrimento è, come quello del Signore, la
*volontà del Padre suo (Gv 4, 34), la Bibbia gli presenta gli atti della
nutrizione in tre stadi diversi, quello della creazione e dell’obbedienza,
quello dell’alleanza e della fede, quello del vangelo e della carità.
I. DIO PROVVEDE IL NUTRIMENTO ALLE SUE CREATURE
«Io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semente... ogni sorta di
alberi in cui vi sono frutti... A tutte le fiere della terra io do come
nutrimento le erbe verdi» (Gen 1, 29 s). Dio, avendo creato l’uomo ed avendolo
fatto signore della *creazione, gli dà il nutrimento, come a tutto il mondo
animale. In questa età aurea e di pace universale, nessun *animale mangiava la
carne dell’altro; ma quando, dopo il diluvio, Dio «mette in potere dell’uomo»
tutti gli animali viventi perché siano suo nutrimento, usa lo stesso linguaggio:
«Tutto questo vi do come già le erbe verdi» (9, 2 s). In questo linguaggio
appare la dipendenza dell’uomo nei confronti della natura senza la quale non può
vivere, e nello stesso tempo la sua autonomia. L’animale si nutre dell’erba che
trova o della preda che insegue; l’uomo si nutre dei frutti e delle piante che
coltiva, degli animali che gli appartengono e che alleva: si nutre del prodotto
della sua coltura, del suo *lavoro (3, 19), dell’«opera delle sue mani» (Deut
14, 29). Si corre tuttavia il rischio di usare di questo nutrimento con eccesso
e di cadere nella golosità o nell’*ubriachezza che possono condurre alla miseria
(Prov 23, 20 s; 21, 17). Viceversa, l’uomo può utilizzarlo con egoismo e cadere
nel lusso (Am 6, 4) fino allo sfruttamento dei poveri (Prov 11, 26),
dimenticando che ogni nutrimento è *dono di Dio. Se una solida tradizione
sapienziale è capace di conservare l’equilibrio, di riconoscere ad un tempo che
«il mangiare ed il bere ed il divertimento nel lavoro» costituiscono una larga
parte della felicità umana (Eccle 2, 24; 3, 13; ecc.), e che tuttavia «val più
una porzione di legumi con l’amore che un bue grasso con l’odio» (Prov 15, 17;
cfr. 17, 1), si è perché questa tradizione, anche nello scettico e diffidente
Qohelet, non dimentica mai che «tutto ciò viene dalla mano di Dio» (Eccle 2,
24). Secondo il vangelo, la regola d’oro è rimettersi alla *Provvidenza per la
cura del proprio nutrimento (Mt 6, 25-33; Lc 12, 22-31). Bisogna quindi
richiederlo ogni giorno al Padre celeste nella preghiera (Mt 6, 11; Lc 11, 3). A
conservare la coscienza viva di essere in tal modo nutriti dalle mani di Dio
hanno contribuito in modo decisivo i *sacrifici e le offerte da una parte, i
divieti alimentari dall’altra. I buoni *pasti, i pasti *festivi si celebrano
quando si è saliti al santuario per immolare un animale, per offrire le prime
spighe ed i *frutti più belli del raccolto (Deut 16, 1-17). La proibizione degli
animali impuri (Lev 11), fondata sul principio «A popolo santo, cibo santo»
(cfr. Deut 14, 21), mantiene, nella zona così importante della esistenza umana
qual è il nutrimento, il rispetto della volontà sovrana di Dio.
II. DIO NUTRE IL SUO POPOLO CON LA SUA PAROLA
Con l’*alleanza, Dio si assume la responsabilità dell’esistenza del suo
popolo. La *manna, venuta «dal cielo» (Es 16, 4), cibo procurato direttamente da
Dio (16, 15) e sul quale il *lavoro ed i calcoli dell’uomo non hanno presa (16,
4 s), è il segno di questa nuova condizione. Ma essa suppone la *fede: la *manna
è fatta per nutrire il corpo e per nutrire la fede, per insegnare ad Israele ad
attendere la sua sussistenza e la sua sopravvivenza dalla parola «che esce dalla
bocca di Jahvè» (Deut 8, 3; Sap 16, 26; cfr. Mt 4, 4), e procura allegria (Ger
15, 16). 1 suoi comandamenti sono più dolci del miele (Sal 19, 10 s). Non si
tratta più di nutrirsi di diverse specie di frutti, ma della parola del Signore
(Sap 16, 26). Il profeta Ezechiele (Ez 3, 1 ss) e l’apostolo Giovanni (Apoc 10,
8 ss), prima di trasmettere il proprio messaggio, fanno propria questa parola
divina sotto il simbolo di un rotolo da svolgere. Al tempo della nuova alleanza,
i cristiani continueranno a nutrirsi degli oracoli di Dio (Ebr 5, 12 ss; cfr. 1
Cor 3, 1 s; 1 Piet 2, 2) a mangiare un alimento spirituale e a dissetarsi a una
roccia spirituale che è Cristo (1 Cor 10, 3 s).
III. DIO, NUTRIMENTO DEI SUOI FIGLI
L’uomo, essendo *figlio di Dio, può fare a meno di tutti i cibi di
questo mondo e nello stesso tempo servirsi di tutti. «Uccidi e mangia!» dice a
Pietro la voce dal cielo (Atti 10, 13): il cristiano non conosce più distinzione
tra animali *puri ed impuri; non è più «asservito agli elementi del mondo», ha
«l’adozione filiale» (Gal 4, 3 s) e tutto gli appartiene nell’universo (1 Cor 3,
22), anche le carni immolate agli *idoli (8,4; 10, 26), a condizione di
ricordarsi che appartiene egli stesso a Cristo, come Cristo a Dio (3, 23).
Allora, qualunque cosa egli mangi o beva, tutto è per lui fonte di
*ringraziamento (10, 30 s; 1 Tim 4, 3 s). Ora Cristo, per far vedere che Dio gli
basta e che il suo cibo è la *volontà del Padre suo (Gv 4, 34), *digiuna
quaranta giorni e quaranta notti (Mt 4, 1-4). Non già che egli disprezzi il
cibo: mangia come i suoi discepoli (Gv 4, 31), accetta gli inviti ai *pasti che
gli sono ricolti (Mt 11, 19), raccomanda ai suoi discepoli di prendere tutto ciò
che viene loro offerto (Lc 10, 8); moltiplica i pani per impedire alla gente di
soffrire la *fame (Mt 15, 32 par.). Con questo miracolo Cristo fa vedere che il
Padre, protettore degli uccelli del cielo (Mt 6, 26), ha cura ancor maggiore dei
suoi figli, ma vuole soprattutto insegnare che egli è «il pane di Dio, quello
che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6, 32 s). Come nel discorso
della montagna invitava a «non *preoccuparsi del cibo» (Mt 6, 25) ed a «cercare
prima il regno di Dio» (Mt 6, 33), così qui invita a *cercare altra cosa che «il
cibo che perisce» (Gv 6, 27; cfr. Rom 14, 17) e propone la sua carne come vero
nutrimento e il suo sangue, come vera bevanda (Gv 6, 55). L’*eucaristia, nella
quale il *pane della terra diventa il corpo di Cristo, rende l’uomo, diventato
figlio di Dio, capace di nutrirsi in ogni circostanza, di Gesù Cristo, delle sue
parole, dei suoi atti, della sua vita.
P. M. GALOPIN e J. GUILLET
→ albero 1 - deserto VT I 3 - digiuno - eucaristia III 1.2 - fame e sete -
gustare 0 - latte - lavoro 12, IV 1 - manna - olio 1 - pane - pasto -
Provvidenza 1 - puro VT I 1; NT II 1 - sale 2.3.