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→ alleanza VT I 1 - Elia VT 1 - fuoco VT I 1 - monte II 1 - nome VT 2.
→ lode IV.
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I.
DISTACCO DAGLI IDOLI
In un certo senso la Bibbia è la storia del popolo di Dio che si stacca
dagli idoli. Un giorno Jahvè ha «preso» Abramo, che «serviva altri dèi» (Gios
24, 2 s; Giudit 5, 6 ss). Ma questa rottura, pur essendo radicale, non è fatta
una volta per sempre: i suoi discendenti la dovranno sempre rifare (Gen 35, 2
ss; Gios 24, 14-23); devono rinnovare continuamente la loro opzione e *seguire
l’Unico, invece di «andar dietro alla vanità» (Ger 2, 2-5). Di fatto l’idolatria
può insinuarsi anche all’interno del jahvismo. Già nel decalogo Israele viene a
sapere che non deve fabbricare *immagini (Es 20, 3 ss; Deut 5, 7 ss), perché
l’*uomo solo è l’immagine autentica di Dio (Gen 1, 26 s). Ad esempio, il vitello
che egli scolpisce per simboleggiare la *forza divina (Es 32; 1 Re 12, 28; cfr.
Giud 17 - 18), con l’*ira divina gli attirerà l’ironia sferzante dei profeti (Os
8, 5; 13, 2). Sia che si tratti di falsi dèi oppure della sua propria immagine,
Dio punisce l’infedeltà (Deut 13); abbandona coloro che lo abbandonano o lo
mettono in caricatura, in balia delle *calamità nazionali (Giud 2, 11-15; 2 Re
17, 7-12; Ger 32, 28-35; Ez 1; 20; 23). Quando l’esilio viene a confermare
tragicamente questa visione profetica della storia, il popolo rinsavisce, senza
che tuttavia spariscano idolatri (Sal 31, 7) e negatori di Dio (Sal 10, 4. 11
ss). Infine, al tempo dei Maccabei, servire gli idoli (1 Mac 1, 43) significa
aderire ad un umanesimo pagano incompatibile con la *fede che Jahvè si aspetta
dai suoi: bisogna scegliere tra gli idoli ed il *martirio (2 Mac 6, 18-7, 42;
cfr. Dan 3). Il NT traccia lo stesso itinerario. Strappati agli idoli per
rivolgersi al vero Dio (1 Tess 1, 9), i fedeli sono continuamente tentati di
ricadere nel paganesimo che impregna la vita corrente (cfr. 1 Cor 10, 25-30).
Bisogna fuggire l’idolatria per entrare nel regno (1 Cor 10, 14; 2 Cor 6, 16;
Gal 5, 20; 1 Gv 5, 21; Apoc 21, 8; 22, 15). La Chiesa, nella quale continua la
lotta spietata tra Gesù e il *mondo, vive una storia segnata dalla tentazione di
*adorare «l’immagine della *bestia» (Apoc 13, 14; 16, 2), di accettare che sia
innalzato nel tempio 1’«idolo devastatore» (Mt 24, 15; cfr. Dan 9, 27).
II. SIGNIFICATO DELLA IDOLATRIA
Israele non si è accontentato di cercar di rispondere con fedeltà alla chiamata
di Dio, ma ha riflettuto sulla natura degli «idoli muti» (1 Cor 12, 2) che lo
sollecitano, e progressivamente esprimerà con un linguaggio esatto il nulla
degli idoli.
1. Gli «altri dèi».
- Con questa espressione corrente fino all’epoca di Geremia, Israele sembra
ammettere l’esistenza di altri dèi oltre Jahvè. Non si tratta di sopravvivenze
equivoche di altre religioni, mescolate al jahvismo popolare, quali gli «idoli
domestici» (terafîm), senza dubbio riservati alle donne (Gen 31, 19-35; 1 Sam
19, 13-16) od il serpente Nekhushtân (2 Re 18, 4); si tratta propriamente dei
Baal cananei, che Israele incontra quando si stabilisce nella terra promessa. Ed
allora è una lotta a morte contro i Baal: Gedeone ebbe l’onore imperituro di
aver sostituito l’*altare di Jahvè all’altare dedicato da suo padre a Baal (Giud
6, 25-32). Se quindi Israele parla di «altri dèi» è soltanto per qualificare in
tal modo le altre credenze (cfr. 2 Re 5, 17), tuttavia non dubita che Jahvè sia
il suo Dio unico (cfr. Es 20, 3-6; Deut 4, 35).
2. Il nulla degli idoli.
- La lottà a morte contro gli idoli continua, ma ora nello spirito del fedele di
Jahvè, affinché riconosca che «gli idoli non sono nulla» (Sal 81, 10; 1 Cron 16,
26). Elia, con pericolo della vita, si burla degli dèi che non possono consumare
l’olocausto (1 Re 18, 18-40); gli esiliati comprendono chiaramente che gli idoli
non sanno nulla, perché sono incapaci di annunziare il futuro (Is 48, 5); e
neppure salvano (45, 20 ss). «Prima di me non fu formato alcun dio, e non ce ne
sarà alcuno dopo di me» (43, 10). Così stando le cose, vuol dire che essi non
esistono veramente, sono dei prodotti fabbricati dall’uomo. Quando i profeti
lanciano le loro satire contro gli idoli di legno, di pietra o d’oro (Am 5, 26;
Os 8, 4-6; Ger 10, 3 ss; Is 41, 6 s; 44, 9-20), non denunciano un’espressione
figurativa, ma un pervertimento: invece di adorare il suo creatore, la creatura
adora la propria creazione. La sapienza mette in chiaro le conseguenze di questa
idolatria (Sap 13 - 14): è un frutto di morte, perché significa l’abbandono di
colui che è la vita. Nello stesso tempo offre al credente una spiegazione della
genesi di questo pervertimento: si sono divinizzati i defunti o delle persone
famose (14, 12-21), oppure si sono adorate forze naturali, destinate invece a
condurre l’uomo verso il loro autore (13, 1-10). Paolo continua questa critica
dell’idolatria, associandola al culto dei *demoni: sacrificare agli idoli
significa sacrificare ai demoni (1 Cor 10, 20 s). Infine, in una requisitoria
terribile, denunzia il *peccato universale degli uomini che, invece di
riconoscere il creatore attraverso la sua creazione, hanno barattato la gloria
del Dio incorruttibile con una rappresentazione delle sue creature; di qui il
loro decadimento in tutti i campi (Rom 1, 18-32).
3. L’idolatria, tentazione permanente.
- La idolatria non è un atteggiamento superato una volta per sempre, ma rinasce
sotto forme diverse: non appena si cessa di * servire il Signore, si diventa
*schiavi di ogni sorta di padroni: denaro (Mt 6, 24 par.), vino (Tito 2, 3),
*cupidigia, che è volontà di dominare il prossimo (Col 3, 5; Ef 5, 5), potenza
politica (Apoc 13, 8), piacere, invidia ed odio (Rom 6, 19; Tito 3, 3), peccato
(Rom 6, 6), persino osservanza materiale della legge (Gal 4, 8 s). Tutto ciò
porta alla morte (Fil 3, 19), mentre il frutto dello Spirito è vita (Rom 6, 21
s). Dietro questi vizi, che sono idolatria, si nasconde un disconoscimento del
Dio unico che, solo, merita la nostra *fiducia.
C. WIÉNER
→adorazione I 3, II 1 - adulterio 2 - anatema VT - animali I 1 - astri -
Babele-Babilonia 1 - bestie e Bestia 3 b - cupidigia VT 2; NT 2 - delusione II -
demoni VT 2; NT 2 - Dio VT III 4; NT II 1 - Egitto 1 - eresia 1 - errore VT -
immagine 1 - incredulità - magia 1 - menzogna II 1 - nazioni VT II 1 6 - pasto
II - peccato II 1, IV - pietra 1 - ricchezza III - uragano 1 - vergogna I 4 -
virtù e vizi 3 - zelo I 1.
→ discepolo NT 2 - esempio - figura - padri e Padre IV - seguire.
Su questa terra
nessuno ha visto né può *vedere Dio Padre: egli si fa conoscere nelle sue
immagini (cfr. Gv 1, 18). Prima della rivelazione completa che ha fatto di se
stesso attraverso l’immagine per eccellenza che è il suo Figlio *Gesù Cristo,
egli ha incominciato nell’antica alleanza a far risplendere dinanzi agli uomini
la sua *gloria rivelatrice. La *sapienza di Dio, «pura emanazione della sua
gloria» e «immagine della sua eccellenza» (Sap 7, 25 s), rivela già taluni
aspetti di Dio; e l’*uomo, creato con il potere di dominare la natura e col dono
dell’immortalità, costituisce già un’immagine vivente di Dio. Tuttavia la
proibizione delle immagini nel *culto di Israele esprimeva come per contrasto la
serietà di questo titolo dato all’uomo, e preparava per via negativa la venuta
dell’uomo-Dio, sola immagine in cui si rivela pienamente il Padre.
I. LA PROIBIZIONE DELLE IMMAGINI
Questo precetto del decalogo (Deut 27, 15; Es 20, 4; Deut 4, 9-28),
applicato d’altronde con più o meno rigore nel corso dei secoli, costituisce un
fatto facile da giustificare quando si tratta dei falsi dèi (*idoli), più
difficile da spiegare quando si tratta delle immagini di Jahvè. Gli autori
sacri, abituati agli antropomorfismi, non intendono reagire principalmente
contro una rappresentazione sensibile, ma vogliono piuttosto lottare contro la
*magia idolatrica e preservare la trascendenza di *Dio. Dio non manifesta la sua
gloria attraverso vitelli d’oro (Es 32; 1 Re 12, 26-33) e immagini fatte dalla
mano dell’uomo, ma attraverso le opere della sua *creazione (Os 8, 5 s; Sap 13;
Rom 1, 19-23), e non si lascia piegare per mezzo di immagini di cui l’uomo
dispone a piacere suo, ma esercita la sua azione salvatrice liberamente
attraverso i cuori, mediante la sapienza, mediante il Figlio suo.
II. L’UOMO, IMMAGINE DI DIO
VECCHIO TESTAMENTO
L’importanza di questa espressione non deriva tanto dalla parola stessa, già
usata a proposito della creazione dell’uomo in poemi babilonesi ed egiziani,
quanto dal contesto generale del VT: l’*uomo non è fatto ad immagine di un dio,
esso stesso concepito ad immagine dell’uomo, ma di un Dio trascendente a tal
punto che è proibito farne una immagine; soltanto l’uomo può avanzare pretese a
questo titolo che esprime la sua dignità più alta (Ger 9, 6). Secondo Gen 1,
26-29, essere ad immagine di Dio, a sua somiglianza, implica il potere di
dominare su tutte le creature della terra ed anche, a quanto pare, il potere, se
non di creare, almeno di procreare esseri viventi (Gen 1, 27 s; 5, 1 ss; cfr. Lc
3, 38). I testi del VT sviluppano ordinariamente il primo tema, del dominio (Sal
8; Eccli 17). Nello stesso tempo la nozione di immagine di Dio, sia che in
questi testi venga utilizzata esplicitamente oppure no, si arricchisce di
precisazioni e di complementi. Nel Sal 8 sembra identificata con uno stato di
«gloria e di splendore, di poco inferiore (a quello) di un essere divino». In
Sap 2, 23, l’uomo non è più fatto soltanto «ad» immagine di Dio, espressione
imprecisa che lasciava la porta aperta a talune interpretazioni rabbiniche, ma è
propriamente «immagine» di Dio. Infine, in questo stesso passo, un elemento
importante di rassomiglianza tra Dio e l’uomo è diventato esplicito, cioè:
l’immortalità. Quanto al giudaismo alessandrino (cfr. Filone) esso distingue due
creazioni secondo i due racconti della Genesi: solo l’uomo celeste è creato
secondo l’immagine di Dio, l’uomo terrestre è tratto dalla polvere. Questa
speculazione sui due Adamo sarà ripresa e trasformata da S. Paolo (1 Cor 15).
NUOVO TESTAMENTO
Non soltanto il NT applica più volte all’uomo l’espressione «immagine di Dio» (1
Cor 11, 7; Giac 3, 9), ma molto spesso ne utilizza e ne sviluppa il tema. Così
il comando di Cristo: «Siate perfetti com’è perfetto il vostro Padre celeste»
(Mt 5, 48) appare come una conseguenza ed una esigenza della dottrina dell’uomo
immagine di Dio. Lo stesso vale per una frase attribuita a Cristo e riferita da
Clemente Alessandrino: «vedere il tuo fratello è vedere Dio»; convinzione che
impone il rispetto degli altri (Giac 3, 9; cfr. Gen 9, 6) e pone il fondamento
del nostro amore verso di essi: «Chi non ama il *fratello che vede, non potrebbe
amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20). Ma questa immagine imperfetta e
peccatrice, che è l’uomo, ha bisogno di un superamento, abbozzato dalla sapienza
vetero-testamentaria, realizzato da Cristo.
III. LA SAPIENZA, IMMAGINE DELL’ECCELLENZA DI DIO
L’uomo è soltanto un’immagine imperfetta, la sapienza invece è «uno specchio
senza macchia dell’attività di Dio, un’immagine dell’eccellenza di Dio» (Sap 7,
26). Poiché essa esiste «fin dall’inizio, prima della origine della terra» (Prov
8, 23), se ne può concludere che presiedette alla creazione dell’uomo. Di qui si
comprendono talune speculazioni del giudaismo alessandrino, di cui si ritrovano
echi in Filone. Per quest’ultimo l’immagine di Dio, che è il Logos, è lo
strumento di cui Dio si è servito al momento della creazione, l’archetipo,
l’esemplare, il principio, il figlio primogenito, secondo il quale Dio ha creato
l’uomo.
IV. CRISTO, IMMAGINE DI DIO
Questa espressione si trova soltanto nelle lettere di Paolo, tuttavia
l’idea non manca nel vangelo secondo S. Giovanni. Tra Cristo e colui che lo
manda, tra il *Figlio unico che rivela il Padre suo ed il *Dio invisibile (Gv 1,
18), l’unione è tale (Gv 5, 19; 7, 16; 8, 28 s; 12, 49) da supporre qualcosa di
più che una semplice delegazione: la *missione di Cristo supera quella dei
*profeti per accostarsi a quella della parola e della *sapienza divina; suppone
che Cristo sia un riflesso della gloria di Dio (Gv 17, 5- 24); suppone tra
Cristo ed il *Padre suo una rassomiglianza che è chiaramente espressa in questa
affermazione, in cui si ritrova, se non la parola, almeno il tema dell’immagine:
«Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14, 9). S. Paolo, pur servendosi, a
proposito dell’uomo, della dottrina della Genesi (1 Cor 11, 7), sa pure
all’occasione servirsi delle interpretazioni rabbiniche e filoniane dei due
*Adamo, che qui applica a Cristo stesso (1 Cor 15, 49), ed in seguito all’uomo
nuovo (Col 3, 10). Ma infine riconosce a Cristo il titolo di immagine di Dio
alla luce della sapienza, immagine perfetta (2 Cor 3, 18 - 4, 4). Senza
abbandonare queste diverse fonti di ispirazione, Paolo in seguito si sforza di
precisare ancor meglio il *mistero di Cristo: Cristo è immagine per filiazione
in Rom 8, 29. E secondo Col 3, 10 presiede, in quanto immagine, alla *creazione
dell’*uomo nuovo. Beneficiando di questa convergenza di elementi antichi e di
dati nuovi, la nozione di immagine di Dio, che Paolo applica a Cristo,
specialmente in Col 1, 15, diventa molto complessa e ricca: rassomiglianza, ma
rassomiglianza spirituale e perfetta, mediante una *filiazione anteriore alla
creazione; rappresentazione, nel suo senso più stretto, del Padre invisibile;
sovranità cosmica del *Signore, che segna della sua impronta il mondo visibile
ed il mondo invisibile; immagine di Dio secondo l’immortalità: primogenito di
tra i morti; sola ed unica immagine che assicura l’unità di tutti gli esseri e
l’unità del disegno divino: principio della creazione e principio della sua
restaurazione mediante una nuova creazione.
V. IL CRISTIANO TRASFORMATO SECONDO L’IMMAGINE DI CRISTO
Tutti questi elementi rappresentano altrettante forze di attrazione
sull’uomo, che, immagine imperfetta e peccaminosa, ha bisogno di quell’immagine
perfetta che è Cristo per ritrovare e realizzare il proprio destino originale:
dopo aver rivestito l’immagine dell’Adamo terrestre, gli è necessario, infatti,
rivestire l’immagine dell’Adamo celeste (cfr. 1 Cor 15, 49). Tra queste due
«immagini», unite in uno stesso ed unico disegno divino (cfr. Rom 8, 29; Ef 1,
3-14), esiste quindi nello stesso tempo un legame nascosto, una frattura
provocata dal peccato, e una relazione dinamica. Questo dinamismo si rivela
anche e soprattutto nel cristiano: divenuto fin d’ora uno stesso essere con
Cristo (Rom 6, 3-6; Col 3, 10), è figlio di Dio (1 Gv 3, 2) e, sotto l’azione
della grazia, si trasforma di gloria in gloria in questa immagine del Figlio,
primogenito di una moltitudine di fratelli (2 Cor 3, 18; Rom 8, 29). La
conclusione di questo processo di glorificazione è la risurrezione, che consente
al cristiano di rivestire definitivamente 1’immagine dell’Adamo celeste (1 Cor
15, 49) e di conformare «il nostro corpo di miseria al suo corpo di gloria» (Fil
3, 21 ).
P. LA MARCHE
→ Adamo I 1.3 - culto VT I - Dio VT III 5 - esempio - faccia 5 - figura
- Gesù Cristo II 1 d - idoli - uomo - vedere.
→ morte - sacrificio.
→ anima II - immagine II VT - morte - risurrezione - vita IV 5.
→ amen 1 - fede 0 - fedeltà - giuramento - promesse.
IMPOSIZIONE DELLE MANI (inizio)
La mano è, con la
*parola, uno dei mezzi più espressivi del linguaggio umano; per sé, essa
simboleggia ordinariamente la *potenza (Es 14, 31; Sal 19, 2) ed anche lo
*spirito di Dio (1 Re 18, 46; Is 8, 11; Ez 1, 3; 3, 22). Imporre le mani ad uno
significa qualcosa di più elle levarle in aria, sia pure per benedire (Lev 9,
22; Lc 24, 50), significa toccarlo realmente e comunicargli qualcosa di se
stesso.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Segno di benedizione.
- Segno di benedizione, l’imposizione delle mani esprime con realismo
il carattere della *benedizione che non è semplicemente parola, ma atto. Così
Giacobbe trasmette a tutta la sua posterità la *ricchezza di benedizione che
egli stesso ha ricevuto dai suoi antenati, Abramo ed Isacco: «Crescano e si
moltiplichino sulla terra!» (Gen 48, 13-16).
2. Segno di consacrazione.
- Segno di consacrazione, l’imposizione delle mani indica che lo
spirito di Dio separa un essere che si è scelto, ne prende possesso, gli
conferisce autorità e capacità di esercitare una funzione. Così i leviti sono
separati, come un’offerta sacra (Num 8, 10); così lo spirito di sapienza riempie
Giosuè (Deut 34, 9) disponendolo ad esercitare la funzione di capo del popolo
con i pieni poteri (Num 27, 15-23).
3. Simbolo di identificazione.
- Simbolo di identificazione, l’imposizione delle mani stabilisce un’unione tra
colui che offre una vittima in sacrificio e la vittima stessa: questa è
consacrata a Dio, incaricata di esprimere i sentimenti dell’offerente -
ringraziamento, dispiacere del peccato o adorazione; così nei sacrifici di
espiazione (Lev 1, 4),di comunione (3, 2), per il peccato (4, 4), od ancora
nella consacrazione dei leviti (Num 8, 16). Nel rito del capro espiatorio nel
giorno dell’*espiazione, c’è ancora identificazione con il capro, ma non c’è
consacrazione. Con l’imposizione delle mani, Israele trasmette all’animale i
suoi peccati; ed esso, diventato impuro, non può essere offerto a Jahvè in
sacrificio, ma è esiliato nel deserto (Lv 16, 21 s).
NUOVO TESTAMENTO
1. Nella vita di Gesù.
- In segno di benedizione, Gesù impose le mani ai *bambini (Mc 10, 16),
conferendo loro la *beatitudine che annunziava ai *poveri (Mi 5, 3), ottenendo
dal Padre suo i frutti della sua propria «preghiera» (Mt 19, 13). L’imposizione
delle mani è pure un segno di liberazione. Di fatto, con questo gesto, Gesù
guarisce i *malati: «Donna, eccoti liberata dalla tua infermità», disse alla
donna incurvata, poi le impose le mani ed essa si raddrizzò istantaneamente (Lc
13, 13). Identico gesto per la guarigione del cieco di Betsaida (Mc 8, 23 ss) o
per «ognuno» dei numerosi malati accorsi al calar del sole (Lc 4, 40).
2. Nella vita della Chiesa.
- Secondo la promessa del risorto, i discepoli «imporranno le mani ai
malati, e questi saranno guariti» (Mc 16, 18). Anania quindi ridona con questo
gesto la vita a Saulo convertito (Atti 9, 12), e Paolo, a sua volta, restituisce
la sanità al governatore di Malta (28, 8). Accanto a questo segno di
liberazione, l’imposizione delle mani è praticata già nella Chiesa nascente come
segno di consacrazione. Con essa sono trasmessi i doni divini e principalmente
il dono dello *Spirito Santo. In tal modo Pietro e Giovanni confermarono i
Samaritani che non l’avevano ancora ricevuto (Atti 8, 17); Paolo fa altrettanto
per le persone di Efeso (19, 6). Simon Mago era stato preso da tale ammirazione
dinanzi alla potenza di questo gesto, che aveva voluto acquistare con denaro
questo potere (8, 18 s). Questo gesto appare quindi come un segno visibile,
portatore di una realtà divina potente. Con questo stesso gesto la Chiesa
trasmette infine un potere spirituale adatto ad una *missione precisa, ordinato
a funzioni determinate: così per l’istituzione dei Sette (6, 6) consacrati dagli
apostoli, o per la missione di Paolo e Barnaba (13, 3). Paolo, a sua volta,
impone le mani a Timoteo (2 Tim 1, 6 s; cfr. 1 Tim 4, 14) e Timoteo ripeterà
questo gesto su coloro che avrà scelto per il *ministero (1 Tim 5, 22). Allo
stesso modo la Chiesa continua ad imporre le mani, in sensi che una formula
precisa ogni volta; e questo gesto rimane portatore dei doni dello Spirito.
J. B. BRUNON
→ braccio e mano 2 - carismi II 4 - fede NT II 3 - Giosuè 1 - ministero II.
→ carne I 3 b - potenza IV 1.2, V 3.
→ maledizione 0 - preghiera II 2 - vendetta 2 b.
→ ascensione II 1 - carne I 3 b, II 2 c - corpo II 2 - corpo di Cristo 1 - figlio di Dio NT I 3 - Gesù Cristo - mediatore II 1 - padri e Padre V 3 - presenza di Dio NT I - visita NT 1.
→ profumo 2.
→ cercare - comunione - faccia 3.4 - porta - presenza di Dio - vedere - visita.
A differenza
dell’*idolatria che caratterizza le *nazioni pagane ed esige una *conversione
alla *fede in Dio, l’incredulità concerne il popolo di Dio. L’esistenza di
increduli in mezzo ad esso è sempre stata uno *scandalo per gli uomini di fede;
l’incredulità di Israele di fronte a Gesù Cristo deve causare al cuore di ogni
cristiano un «dolore incessante» (Rom 9, 2). L’incredulità non consiste
semplicemente nel negare l’esistenza di Dio o nel rigettare la divinità di
Cristo, ma nel disconoscere i segni ed i testimoni della *parola divina, nel non
*obbedirvi. Non credere, secondo l’etimologia della parola ebraica «credere»,
significa non dire «amen» a Dio; significa rifiutare la relazione che Dio vuole
stabilire e mantenere con l’uomo. Questo rifiuto si esprime in modi vari:
l’empio mette in dubbio l’esistenza di Dio (Sal 14, 1), il beffardo, la sua
presenza attiva nel corso della storia (Is 5, 19), il pusillanime, il suo *amore
e la sua onnipotenza, il ribelle, la sovranità della sua *volontà, ecc. A
differenza dell’idolatria l’incredulità ammette gradi e può coesistere con una
certa fede: la linea di demarcazione tra la fede e l’incredulità non passa tanto
fra diversi uomini, quanto nel cuore di ciascun uomo (Mc 9, 24).
I. L’INCREDULITÀ IN ISRAELE
Per non dover riferire tutta la storia della *fede, di cui l’incredulità è il
contrario tenebroso, basterà tratteggiare due situazioni principali del popolo
eletto, che caratterizzano un duplice modo di essere increduli: nel *deserto,
perché non si hanno i beni della fede - nella *terra promessa, perché si hanno
già in figura.
1. Le mormorazioni degli Ebrei.
- Per designare l’incredulità del popolo nel deserto, gli storici usano diverse
espressioni: «ribelli» (Num 20, 10; Deut 9, 24) che scalpitano e sono
recalcitranti (Num 14, 9; Deut 32, 15), «uomini dalla dura cervice» (Es 32, 9;
33, 3; Deut 9, 13; cfr. Ger 7, 26; Is 48, 4), e soprattutto la mormorazione;
Giovanni riprenderà quest’ultima espressione per caratterizzare Giudei e
discepoli che rifiutano di credere in Gesù (Gv 6, 41. 43. 61). Ne parlano
principalmente due passi: Es 15 - 17 e Num 14 - 17. Il popolo pensa che, in
questo deserto inospitale, morirà di *fame (Es 16, 2; Num 11, 4 s) e di sete (Es
15, 24; 17, 3; Num 20, 2 s), e rimpiange le buone pentole di carne consumate in
Egitto; oppure è nauseato della *manna e perde la pazienza (Num 21, 4 s); od
ancora ha paura dei nemici che gli precludono l’ingresso nella terra promessa (Num
14, 1; cfr. Es 14, 11); dimentica i segni prodigiosi di cui fu testimone (Sal
78, 106). Mormora contro Mosè ed Aronne, in realtà contro Dio in persona (Es 16,
7 s; Num 14, 27; 16, 11) di cui mette in dubbio la bontà e la potenza (cfr. Deut
8, 2). L’incredulità - uno degli aspetti della patera - consiste nell’esigere da
Dio che realizzi immediatamente ciò che ha promesso, nell’esercitare una specie
di ricatto su colui che ha fatto alleanza: significa «disprezzare Jahvè», «non
credere» in lui (Num 14, 11), «non obbedire alla sua voce» (14, 22), «tentarlo e
muovergli querela» (Es 17, 7). Un altro modo di mormorare contro Jahvè consiste
nel farsene un’immagine con il «vitello d’oro» (Es 32; Deut 9, 12-21) Gli Ebrei
in tal modo facevano conto di dominare colui che non voleva essere al loro
livello ed in loro balìa. Lo stesso peccato di incredulità caratterizzerà il
regno del Nord, «il peccato di Geroboamo» (l Re 12, 28 ss; 16, 26. 31). Ad un
identico desiderio di possedere il mistero di Jahvè si ricollegano le pratiche
di divinazione, magia, stregoneria che durano fino all’esilio (1 Sam 18, 3-25; 2
Re 9, 22; 17, 17; cfr. Es 22, 17; Is 2, 6; Mi 3, 7; Ger 27, 9; Ez 12, 24; Deut
18, 10 ss), nonché il ricorso ai falsi profeti (cfr. Ger 4, 10).
2. Israele dal cuore diviso.
- Di fatto, quando il popolo si era stabilito in Palestina, la incredulità aveva
assunto un’altra forma, non meno colpevole: scendere a patti con gli dèi del
paese o con le *nazioni vicine. Ora Jahvè non tollera divisioni; è quel che
proclama Elia: «Fino a quando zoppicherete dai due piedi? Se Jahvè è Dio,
seguitelo; se è Baal, seguitelo!» (1 Re 18, 21). Così pure i profeti lottano
contro il «cuore doppio», diviso (Os 10, 2), che cerca presso le nazioni un
appoggio che il solo Jahvè gli può accordare (Os 7, 11 s). Anziché riconoscere
nei raccolti e nelle greggi i doni del suo Signore e sposo, Israele va a cercare
i beni dell’alleanza presso i suoi amanti, gli dèi cananei, nei riti di
fertilità (Os 2, 7-15); l’incredulità è prostituzione della sposa consacrata (Os
2, 1-6; Ger 2 - 4; Ez 16), che dovrebbe avere un cuore perfettamente fedele (Deut
18, 13; Sal 18, 24), «totalmente» dedito a Dio (1 Re 8, 23; 11, 4), *seguendo
Jahvè senza venir meno (Deut 1, 36; Num 14, 24; 32, 11). Questo ideale, benché
impossibile da realizzare con le forze dell’uomo, rimane. Isaia fa chiaramente
vedere al popolo che «se non credete, non sussisterete» (Is 7, 9): la fede è la
sola esistenza possibile del popolo eletto, ed esclude ogni altro ricorso (28,
14 s; 30, 15 s.). Per Geremia l’incredulità consiste nel «fidarsi», «mettere la
propria fiducia» in creature (Ger 5, 17; 7, 4 - 8, 14; 17, 5; 46, 25; 49, 4).
Ezechiele manifesta la conseguenza dell’incredulità: «Saprete che io sono Jahvè
quando morrete» (Ez 6, 7; 7, 4; 11, 10). L’incredulità diventa l’*indurimento
che Isaia profetizzava (Is 6, 9 s): esiliato, il popolo è diventato sordo e
cieco (Is 42, 19; 43, 8). Ma Jahvè deve suscitare un *servo di cui «ogni mattina
risveglia l’orecchio» (50, 4 s); per mezzo suo si realizzerà la grande speranza
dei profeti: l’incredulità cesserà il giorno in cui «tutti saranno ammaestrati
da Jahvè» (Ger 31, 33 s; Is 54, 13; Gv 6, 45): allora tutti riconosceranno che
Jahvè è il solo Dio (Is 43, 10).
II. L’INCREDULITÀ DI FRONTE A GESÙ CRISTO
Tuttavia Gesù doveva prima compiere per proprio conto la profezia
concernente il servo: «Chi ha creduto a quello che è stato annunziato?» (Is 53,
1; cfr. Gv 12, 38; Rom 10, 16). L’incredulità sembra trionfare, rifiutare
l’incarnazione del Figlio di Dio e la sua opera redentrice.
1. Dinanzi a Gesù di Nazaret.
- Un tempo i *profeti parlavano in nome di Jahvè e bisognava credere loro; Gesù
invece mette la propria *parola sullo stesso piano della parola di Dio; non
metterla in pratica significa edificare sulla sabbia, mancare di ogni appoggio
(Mt 7, 24-27). Una simile pretesa sembra esorbitante: «Beato colui per il quale
io non sarò occasione di *scandalo!» (Mt 11, 6). Di fatto alla sua predicazione
ed ai suoi miracoli non rispondono che l’*ipocrisia dei *Farisei (15, 7; 23,
13...) e l’incredulità da parte delle città in riva al lago (11, 20-24), di
Gerusalemme (23, 37 s), dell’insieme dei Giudei (8, 10 ss). Il potere di Gesù è
persino legato da questa incredulità (13, 58), a tal punto che egli si stupisce
della loro mancanza di fede (Mc 6, 6). Tuttavia questa può essere vinta dal
Padre che è alla fonte della fede: egli tiene nascosto agli occhi dei sapienti
il mistero di Gesù (Mt 11 25 s), ma lo concede ai piccolissimi che fanno la sua
volontà e costituiscono il *resto di Israele, la famiglia di Gesù (12, 46-50).
Tuttavia, tra i credenti, trova posto l’incredulità in gradi diversi: taluni si
rivelano «di poca fede». Così quando i discepoli hanno paura nella tempesta (8,
26) o sui flutti agitati (14, 31); quando non possono compiere un miracolo,
mentre ne hanno ricevuto il potere (17, 17. 20; cfr. 10, 8); quando si
*preoccupano del pane che manca (16, 8; cfr. 6, 24). La preghiera può rimediare
a queste deficienze (Mc 9, 24), e Gesù garantisce in tal modo la fede di Pietro
(Lc 22, 32).
2. In presenza del mistero pasquale.
- L’incredulità raggiunge il suo colmo quando lo spirito deve cedere
dinanzi alla sapienza divina che sceglie la *croce come via alla gloria (1 Cor
1, 21-24). All’annunzio della sorte di Gesù, Pietro cessa di *seguire il maestro
per diventare uno «*scandalo» dinanzi a Gesù (Mt 16, 23); e quando giunge l’ora,
lo rinnega, scandalizzato, come Gesù aveva annunziato (26, 31-35. 69-75).
Tuttavia il discepolo deve portare questa stessa croce (16, 24), se vuole
rendere *testimonianza a Gesù dinanzi ai tribunali (10, 32 s). Di fatto la sua
testimonianza verte sulla risurrezione, cosa appena credibile (Atti 26, 8), che
gli stessi discepoli erano stati così restii a credere al momento delle
*apparizioni, tanto l’incredulità è radicata profondamente nel cuore dell’uomo (Lc
24, 25. 37. 41; Mt 28, 17; Mc 16, 11. 13. 14).
III. L’INCREDULITÀ DI ISRAELE
Gesù aveva annunziato che i costruttori avrebbero scartato la *pietra d’angolo
(Mt 21, 42); la Chiesa nascente lo ricorda con forza (Atti 4, 11; 1 Piet 2, 4.
7), attribuendo il rifiuto di Israele ora ad ignoranza (Atti 3, 17; 13, 27 s),
ora a colpevolezza (2, 23; 3, 13; 10, 39). Ma presto constata che la sua
predicazione, lungi dal convertire Israele, non è accettata dall’insieme dei
Giudei. Questa nuova situazione è misteriosa, ed i teologi Paolo e Giovanni
tenteranno di giustificarla.
1. S. Paolo ed il popolo incredulo.
- All’inizio del suo ministero, Paolo, erede del focoso Stefano (Atti
7, 51 s), vota all’*ira divina i Giudei increduli e persecutori (1 Tess 2, 16),
considerando che essi non fan più parte del *resto fedele. In seguito, quando il
conflitto si calma, quando i Gentili entrano in massa nella fede, Paolo esamina
il mistero dell’incredulità del suo popolo. Ne soffre profondamente (Rom 9, 2;
11, 13 s). Soprattutto questo rifiuto globale del popolo eletto sembra chiamare
in causa Dio e le sue *promesse (3, 3), e mettere in pericolo la fede; egli
risolve il problema in Rom 9 - 11, non su un piano umano, ma immergendosi nel
mistero della sapienza divina. Dio non ha rigettato il suo popolo e rimane
fedele alle sue promesse (9, 6-29); Dio non ha cessato di «tendere le mani a
questo popolo ribelle» (10, 21) per la via indiretta della *predicazione
apostolica; sono stati i Giudei a rifiutare, per trovare la *giustizia in base
alla *legge (9, 30 - 10, 21). Ma Dio avrà l’ultima parola, perché l’*indurimento
di Israele un giorno cesserà; così la disobbedienza avrà manifestato a tutti
l’infinita *misericordia di Dio (11, 1-32).
2. S. Giovanni ed il Giudeo incredulo.
- Già Paolo, e tutta la Chiesa, chiamò presto «increduli» od «infedeli» non
soltanto i pagani, ma probabilmente anche i Giudei che non condividevano la fede
in Gesù (1 Cor 6, 6; 7, 12 s; 10, 27; 14, 22 s), coloro che il dio di questo
*mondo ha accecati (2 Cor 4, 4), con i quali non è possibile nessun rapporto (6,
14 s). Essi tuttavia esistevano, testimoni viventi di ciò che poteva diventare
il cristiano, se rinnegava la sua fede: «peggiore di un infedele» (1 Tim 5, 8).
Mentre Paolo faceva vedere in Israele incredulo un testimone della severità di
Dio (Rom 11, 21 s) e della prima elezione (11, 16), Giovanni presenterà nel
*Giudeo che rigettò Gesù il tipo dell’incredulo, il precursore del *mondo
malvagio, Il peccato di incredulità consiste nel non *confessare che Gesù è
Cristo (1 Gv 2, 22 s; 4, 2 s; 5, 1-5), consiste nel fare di Dio un *mentitore
(5, 10). Il quarto vangelo accentra l’incredulità sul rifiuto di accettare in
Gesù di Nazaret il Verbo incarnato (Gv 1, 11; 6, 36) ed il redentore degli
uomini (6, 53); non credere significa essere giudicati (3, 18), abbandonarsi
alla menzogna ed all’omicidio (8, 44), essere votati alla morte (8, 24).
Fuggendo in tal modo la *luce perché le sue *opere sono malvagie (3, 20),
l’incredulo si immerge nelle tenebre, si consegna a Satana: una specie di
determinismo porta all’indurimento, egli «non può più ascoltare [la] parola» di
Gesù, appartiene alla razza del maligno (8, 43 s). D’altra parte, compensando
questa apparente fatalità dell’incredulità, Gesù rivela il mistero
dell’attrazione da parte del Padre (6, 44): essa sarà esercitata con successo da
colui che, «innalzato da terra, attirerà tutti gli uomini a [sé]» (12, 32). Come
per Paolo, l’incredulità un giorno dovrà essere vinta: «Se noi siamo infedeli,
[Dio] rimane fedele» (2 Tim 2, 13); l’esistenza cristiana è una scoperta sempre
rinnovata del mistero di Gesù risorto: «Non essere incredulo, ma credente» (Gv
20, 27).
X. LÉON DUFOUR
→ adulterio 2 - apparizioni di Cristo 4 b. 7 - fede - giudeo II - indurimento -
ipocrita - riso 0.1.
La sclerosi
progressiva dell’uomo separato da Dio si chiama indurimento, accecamento.
Indurirsi significa ricoprire di grasso il *cuore, turare gli orecchi, chiudere
gli occhi, addormentarsi, dimostrare uno spirito di smarrimento, di torpore o di
menzogna, cosicché si ha la cervice dura ed il cuore di pietra. Questo stato può
colpire tutti gli uomini, i pagani, gli Israeliti ed anche i discepoli di Gesù.
I. ALLA FONTE DELL’INDURIMENTO
1. Il fatto.
- Due testi principali - nell’Esodo e in Isaia - hanno esercitato la
ríflessione religiosa di Israele. Se il faraone non vuol lasciar partire
Israele, si è perché Dio gli indurisce il cuore (Es 4, 21; 7, 3; 9, 12; 10, 1.
20. 27; 11, 10; 14, 4) oppure egli indurisce se stesso (Es 7, 13 s. 22; 8, 15;
9, 7. 34 s). Ora queste due interpretazioni si presentano giustapposte nei
testi, senza che si possa attribuire alla seconda l’intenzione di correggere la
prima. Di qui un problema teologico: se non è sorprendente che l’uomo sia causa
del proprio indurimento, come ammettere che Dio favorisca questo atteggiamento,
ne sia persino la causa? Ora Paolo afferma nettamente: «Dio fa misericordia a
chi vuole, indurisce chi vuole» (Rom 9, 18). Già nel VT Dio dava come missione
ad Isaia: «Va’, e di’ a questo popolo: “Ascoltate, ma senza comprendere;
guardate, ma senza vedere! Ricopri di grasso il cuore di questo popolo, fallo
duro d’orecchi, chiudigli gli occhi, affinché i suoi occhi non vedano, i suoi
orecchi non sentano, il suo cuore non comprenda e non si converta, cosicché non
sia guarito”» (Is 6, 9 s). Lungi dall’essere scartato come avente cattivo suono,
questo testo è stato sostanzialmente ripreso da Gesù (Mt 13, 13) e dai suoi
discepoli (Mt 13, 14 s par.; Atti 28, 25 ss), per spiegare il rifiuto che
Israele ha opposto a Cristo.
2. Significato.
a) Basta allora dire che l’indurimento del popolo non è voluto
direttamente, ma soltanto previsto da Dio? Certamente il linguaggio semitico
attribuisce a Dio una volontà positiva di fare quel che egli si limita a
permettere; ma questa risposta, valida fino ad un certo punto, sembra una
scappatoia. Invece di cercare di scusare Dio, conviene considerare il contesto
in cui sono formulate queste minacce o queste constatazioni di indurimento.
Indurire non significa riprovare; significa emettere un giudizio su uno stato di
*peccato; significa volere che questo peccato porti visibilmente i suoi frutti.
L’indurimento non è quindi dovuto ad una iniziativa dell’ira divina, che
*predestina alla rovina: sanziona il peccato di cui l’uomo non si pente. L’uomo
quando si indurisce, commette un peccato; quando Dio indurisce, non è fonte, ma
giudice del peccato. L’indurimento caratterizza lo stato del peccatore che
rifiuta di convertirsi e rimane separato da Dio. È la sanzione immanente del
peccato, che fa apparire la cattiva natura del peccatore: «Un Etiope può
cambiare pelle? Una pantera il mantello? E voi, potete agire bene, voi che siete
abituati al male?» (Ger 13, 23).
b) Paolo si è sforzato di trovare un senso a questo dato di
fatto. - Anzitutto entra nel *disegno provvidenziale di Dio. Nulla sfugge a Dio.
Il faraone, di cui Paolo non considera la sorte personale, serve infine a far
risplendere la gloria divina (Es 9, 16; 14, 17 s); con il suo indurimento
Israele permette l’ingresso delle *nazioni pagane nella Chiesa (Rom 9); inoltre
il disegno di Dio è interamente ordinato al *resto che deve sopravvivere. - In
secondo luogo, l’indurimento di Israele manifesta la severità di Dio, la sua
esigenza. Non per scherzo Dio fa alleanza con un popolo. Come tollererebbe la
noncuranza (Lc 17, 26-29 par.), la sufficienza (Deut 32, 15), l’orgoglio (Deut
8, 12 ss; Neem 9, 16)? - Infine questo indurimento rivela la *pazienza di Dio,
il quale non distrugge il peccatore, ma tende continuamente le mani verso un
popolo ribelle (Rom 10, 21 citando Is 65, 2; cfr. Os 11, 1 s; Ger 7, 25; Neem 9,
30). Così, sia che solleciti il peccatore, oppure lo abbandoni a se stesso, Dio
esprime ancora e sempre la sua *misericordia.
II. VERSO LA VITTORIA DI DIO
1. Situazione ambivalente.
- Di questo fatto Giovanni suggerisce una interpretazione forse ancora più
profonda, partendo dall’immagine della *luce. La luce acceca coloro che non sono
disposti ad accoglierla (Gv 3, 19 ss). Così pure Dio, con la presenza continua
del suo amore, provoca nel peccatore una reazione di rifiuto. Per questo i
*miracoli, atti premurosi di Dio, induriscono il faraone, rimangono senza valore
agli occhi degli Israeliti che mormorano contro Mosè nel deserto (Num 14, 1l;
Sal 106, 7), contro Gesù dopo la moltiplicazione dei pani (Gv 6, 42 s). Possono
anche non essere compresi dai discepoli di Gesù, perché questi hanno la mente
ottusa (Mc 6, 52; 8, 17-21). Così pure i *castighi divini, la cui intenzione è
terapeutica (Am 4, 6-11), oppure gli appelli profetici alla conversione, restano
senza efficacia, e talvolta producono persino l’effetto contrario (2 Re 17, 13
s; Ger 7, 25 ss), cosicché gli uomini giungono a contristare lo Spirito Santo (Is
63, 10; Atti 7, 51).
2. A Dio l’ultima parola.
- Questo indurimento, questo determinismo del peccato, che si nutre della
propria sostanza, non può cessare se non con la *penitenza: «Se sentite la voce
di Dio, non indurite i vostri cuori» (Sal 95, 7 s = Ebr 3, 7 s. 12). Ma some
potrebbe convertirsi il peccatore indurito? «Perché, o Signore, lasci che noi
erriamo lontano dalle tue vie e che i nostri cuori si induriscano contro il tuo
timore? Ritorna, a motivo dei tuoi servi e delle tribù della tua eredità» (Is
63, 17). Il credente sa che Dio può spezzare la fatalità del male e trovare la
via del cuore della sua sposa (Os 2). L’ultima parola spetta a Dio solo. Quindi
il profeta ha annunziato che il *cuore di pietra degli uomini un giorno sarà
sostituito con un cuore di carne e che lo *Spirito di Dio renderà possibile ciò
che è impossibile agli uomini (Ez 36, 26 s). Effettivamente Cristo è venuto; ha
dato lo Spirito che rende docili agli insegnamenti di Dio. La Chiesa, quindi,
erede di Israele, prega Dio di voler reprimere nella sua misericordia anche le
nostre volontà ribelli (Preghiera liturgica).
X. LÉON DUFOUR
→ castighi 2.3 - errore VT - fuoco VT III - incredulità - ipocrita 2 -
ira B VT I 1 - maledizione III 2 - peccato - penitenza-conversione.
→ adulterio - fedeltà - sposo-sposa VT 1.
Gesù Cristo è
disceso agli inferi, il dannato discende all’inferno: questi due articoli di
fede indicano due atti diversi e suppongono due condizioni diverse. Le *porte
degli inferi, dove Cristo è disceso, si sono aperte per lasciar sfuggire i loro
prigionieri, mentre l’inferno in cui discende il dannato si rinchiude su di esso
per sempre. Tuttavia la parola è la stessa e ciò non è né un caso, né un
accostamento arbitrario, ma una logica profonda e l’espressione di una verità
fondamentale. Gli inferi, come l’inferno, sono il regno della *morte, e senza
Cristo non ci sarebbe al mondo che un solo inferno e una sola morte, la morte
eterna, la morte in possesso di tutta la sua potenza. Se esiste una «seconda
morte» (Apoc 21, 8), separabile dalla prima, si è perché Gesù Cristo con la sua
morte ha distrutto il regno della morte. Poiché egli è disceso agli inferi,
questi non sono più l’inferno, ma lo sarebbero se egli non vi fosse disceso;
provengono dall’inferno e ne portano i tratti, e perciò, nel *giudizio finale,
gli inferi, l’Ade, raggiungono l’inferno e il loro posto normale nel lago di
fuoco (Apoc 20, 14). Ecco perché, quantunque le immagini dell’inferno nel VT
siano ancora ambigue e non abbiano ancora il loro carattere assoluto, non di
meno Gesù Cristo le riprende per designare la dannazione eterna; perché sono ben
più che immagini, sono la realtà di quel che sarebbe il mondo senza di lui.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LE RAPPRESENTAZIONI FONDAMENTALI
1. Gli inferi, soggiorno dei morti.
- Nell’antico Israele gli inferi, lo «sheol», sono «il convegno di
tutti i viventi» (Giob 30, 23). Come molti altri popoli, Israele immagina la
sopravvivenza dei morti come un’*ombra di esistenza, senza valore e senza gioia.
Lo sheol è la cornice che raduna queste ombre; lo si immagina come una tomba,
«un buco», «un pozzo», «una fossa» (Sal 30, 10; Ez 28, 8), nel più profondo
della terra (Deut 32, 22), al di là dell’abisso sotterraneo (Giob 26, 5; 38, 16
s), dove regna un’oscurità profonda (Sal 88, 7. 13), dove «la stessa chiarezza
rassomiglia alla *notte cupa» (Giob 10, 21 s). Là «discendono» tutti i viventi (Is
38, 18; Ez 31, 14); non ne risaliranno mai più (Sal 88, 10; Giob 7, 9). Non
possono più lodare Dio (Sal 6, 6), sperare nella sua giustizia (88, 11 ss) o
nella sua fedeltà (30, 10; Is 38, 18). È l’abbandono totale (Sal 88, 6).
2. Le potenze infernali scatenate sulla terra.
- Discendere in questi inferi, sazi di giorni, al termine d’una
vecchiaia felice, per «ritrovarvi i propri *padri» (Gen 25, 8), è la sorte
comune dell’umanità (Is 14, 9-15; Giob 3, 11-21) e nessuno se ne può dolere. Ma
molto spesso lo sheol non aspetta questo momento; come un mostro insaziabile (Prov
27, 20; 30, 16) spia la sua preda e la rapisce nel pieno vigore (Sal 54, 16). «A
metà dei suoi giorni» Ezechia vede aprirsi «le *porte dello sheol» (Is 38, 10).
Questa irruzione delle forze infernali «sulla terra dei viventi» (38, 11)
costituisce il dramma e lo scandalo (Sal 18, 6; 88, 4 s).
II. L’INFERNO DEI PECCATORI
Questo scandalo è una delle molle della rivelazione. L’aspetto tragico della
*morte manifesta il disordine del mondo, ed uno dei capisaldi del pensiero
religioso israelitico è lo scoprire che questo disordine è il frutto del
*peccato. A mano a mano che questa coscienza si afferma, i tratti dell’inferno
assumono un aspetto sempre più sinistro. Esso apre la sua gola per inghiottire
Korakh, Dathan ed Abiron (Num 16, 32 s), mette in moto tutta la sua potenza per
divorare «la gloria di Sion e la sua folla rumoreggiante, le sue grida, la sua
gioia» (Is 5, 14), fa sparire gli *empi nello spavento (Sal 73, 19). Di questa
fine terrificante Israele ha conosciuto due immagini particolarmente espressive:
l’incendio di Sodoma e Gomorra (Gen 19, 23; Am 4, 11; Sal 11, 6) e la
devastazione della località di Tofet, nella valle della Geenna, luogo di piacere
destinato a diventare un luogo di orrore, dove «si vedranno i cadaveri di coloro
che si sono rivoltati contro di me, il cui verme non morrà, il cui fuoco non si
spegnerà» (Is 66, 24). La morte nel *fuoco ed il suo perpetuarsi indefinitamente
nella corruzione, sono già le immagini evangeliche dell’inferno. È un inferno
che non è più l’inferno per così dire «normale» quale era lo sheol, ma un
inferno che si può dire caduto dal *cielo, «venuto da Jahvè» (Gen 19, 24). Se
esso riunisce «l’abisso senza fondo» e «la pioggia di fuoco» (Sal 140, 11),
l’immagine dello sheol e il ricordo di Sodoma, si è perché questo inferno è
acceso dal «soffio di Jahvè» (Is 30, 33) e «dall’ardore della sua *ira» (30,
27). Quest’inferno promesso ai peccatori non poteva essere la sorte dei giusti,
soprattutto quando questi, per restare fedeli a Dio, dovevano subire la
*persecuzione dei peccatori e talvolta la morte. È logico che dal «paese della
polvere», lo sheol tradizionale, dove dormono confusi i santi e gli empi, questi
ultimi si risveglino per «l’orrore eterno», mentre le loro vittime si
risvegliano «per la *vita eterna» (Dan 2, 12). Ed il Signore, mentre consegna ai
giusti la loro ricompensa, «arma la creazione per castigare i suoi nemici» (Sap
5, 15 ss). L’inferno non è più localizzato nel più profondo della terra, è
«l’universo scatenato contro gli insensati» (5, 20). I vangeli riprendono queste
immagini: «Dal soggiorno dei morti» dov’è «torturato dalle fiamme», il ricco
scorge Lazzaro «nel seno di *Abramo», ma tra essi si apre invalicabile «un
grande abisso» (Lc 16, 23-26). Fuoco ed abisso, 1’*ira del cielo e la *terra che
si apre, la *maledizione di Dio e l’ostilità della *creazione, questo è
l’inferno.
NUOVO TESTAMENTO
I. CRISTO PARLA DELL’INFERNO
Gesù attribuisce maggior importanza alla perdita della vita, alla separazione da
lui che alla descrizione dell’inferno ricevuta nel suo ambiente. Se è forse
azzardato trarre dalla parabola del ricco epulone una affermazione decisiva del
Signore sull’inferno, bisogna in ogni caso prendere sul serio Gesù quando
utilizza le immagini scritturali dell’inferno più violente e più spietate: «i
pianti e gli stridori di denti nella fornace ardente» (Mt 13, 42), «la geenna,
dove il loro verme non muore e dove il *fuoco non si spegne» (Mc 9, 43-48; cfr.
Mt 5, 22), dove Dio può «far perire l’*anima ed il *corpo» (Mt 10, 28). La
gravità di queste affermazioni è costituita dal fatto che esse sono formulate da
colui stesso che ha potere di gettare nell’inferno. Gesù non parla soltanto
dell’inferno come di una realtà minacciosa; annuncia che egli stesso «manderà i
suoi angeli a gettare nella fornace ardente gli operatori di iniquità» (Mt 13,
41 s) e pronuncerà la *maledizione: «Lungi da me, maledetti, nel fuoco eterno!»
(Mt 25, 41). È il Signore che dichiara: «Non vi *conosco» (25, 12), «Gettatelo
fuori, nelle tenebre» (25, 30).
II. GESÙ CRISTO È DISCESO AGLI INFERI
La discesa di Cristo agli inferi è un articolo di fede ed è
effettivamente un dato certo del NT. Se è difficilissimo determinare il valore
di taluni testi, quel che fu «la sua predicazione agli spiriti in carcere, a
coloro che un tempo avevano rifiutato di credere... nei giorni in cui Noè
costruiva l’arca» (1 Piet 3, 19 s), il fatto certo è che questa discesa di Gesù
agli inferi significa nello stesso tempo la realtà della sua *morte di uomo ed
il suo trionfo su di essa. «Dio lo ha liberato dagli orrori dell’Ade» (cioè
dello sheol, Atti 2, 24), perché prima ve lo aveva immerso, ma senza mai
abbandonarvelo (2, 31). Se Cristo, nel mistero dell’ascensione, è «salito al di
sopra di tutti i cieli», si è perché è pure «disceso nelle regioni inferiori
della terra», ed era necessaria questa sinistra discesa perché potesse «riempire
ogni cosa» e regnare come Signore sull’universo (Ef 4, 9 s). La fede cristiana
confessa che *Gesù Cristo è il Signore nel cielo dopo essere risalito di tra i
morti (Rom 10, 6-10).
III. LE PORTE INFERNALI ABBATTUTE
Con la sua morte Cristo ha trionfato dell’ultimo nemico, la *morte (1 Cor 15,
26), ha abbattuto le porte infernali. La morte e l’Ade non erano mai sfuggiti
allo sguardo di Dio (Am 9, 2; Giob 26, 6), ed ora sono costretti a restituire i
morti che custodiscono (Apoc 20, 13; cfr. Mt 27, 52 s). Fino alla morte del
Signore l’inferno era «il ritrovo di ogni carne», il fatale punto terminale di
una umanità lontana da Dio, e nessuno ne poteva uscire prima di Cristo,
«primizia di coloro che si sono addormentati» (1 Cor 15, 20-23), «primogenito di
tra i morti» (Apoc 1, 5). Per l’umanità, condannata in *Adamo alla morte e alla
separazione da Dio, la *redenzione è l’apertura delle *porte infernali, il dono
della vita eterna. La *Chiesa è il frutto e lo strumento di questa vittoria (Mt
16, 18). Ma Cristo, ancor prima della sua venuta, è già promesso e sperato.
Nella misura in cui accoglie questa promessa, l’uomo del VT vede i suoi inferi
illuminarsi di un raggio che diventa certezza. Viceversa, nella misura in cui la
rifiuta, gli inferi diventano l’inferno, ed egli si immerge in un abisso in cui
aumenta l’orrore della potenza di *Satana. Infine, quando compare Gesù Cristo,
«coloro che non obbediscono al suo vangelo... sono castigati con una perdizione
eterna, lungi dalla presenza del Signore» (2 Tess 1, 8 s), raggiungono «nel lago
del fuoco» la morte e l’Ade (Apoc 20, 14 s).
J. M. FENASSE e J. GUILLET
→ castighi - fuoco VT III; NT I 1 - giudizio - ira B VT I 2 - maledizione -
morte - peccato - porta VT I; NT - prigionia II - retribuzione - Satana.
→ errore NT - ipocrita - menzogna - Satana.
→ bestemmia –maledizione.
→ Abramo I 1, II 3 - apparizioni di Cristo 4 a - conoscere VT 1 - elezione - grazia - predestinare – vocazione.
→ bambino - bianco - puro VT II; NT - sangue VT 1 - semplice.
Nei due
testamenti la fede è fondata su una *rivelazione divina, di cui i profeti (nel
senso generale della parola) sono i latori. Ma questa rivelazione deve giungere
alla *conoscenza degli uomini fin nei suoi particolari e nelle sue conseguenze
pratiche. Di qui nel popolo di Dio l’importanza della funzione di insegnamento,
che, sotto forma di istruzione, trasmette la scienza delle cose divine. Questo
insegnamento è innanzitutto una *predicazione che proclama la *salvezza di Dio
come avviene nella storia (è il kèrygma); quindi ne favorisce una comprensione
più approfondita e dimostra come la situazione di *alleanza creata da Dio si
applichi concretamente nelle condizioni di vita del suo popolo.
VECCHIO TESTAMENTO
Nel VT questa funzione si compie in modi diversi, secondo la qualità di coloro
che la svolgono. Ma attraverso tutti è sempre Dio che istruisce il suo popolo.
I. FORME DIVERSE DELL’INSEGNAMENTO
1. Il padre di famiglia, responsabile della *educazione dei suoi figli,
deve trasmettere loro a questo titolo il legato religioso del passato nazionale.
Non si tratta di un insegnamento profondo, ma di una catechesi elementare che
racchiude gli elementi essenziali della fede. Catechesi morale, che ha rapporto
con i comandamenti della *legge divina: «Questi comandamenti che io ti do, li
ripeterai ai tuoi figli...» (Deut 6, 7; 11, 19). Catechesi liturgica e storica,
che prende occasione dalle solennità di Israele per spiegarne il senso e
richiamare i grandi ricordi che esse commemorano: sacrificio della *Pasqua (Es
12, 26) e rito degli azzimi (Es 13, 8), ecc. Le domande poste dai figli a
proposito delle usanze e dei riti portano naturalmente il padre ad insegnare
loro il Credo israelitico (Deut 6, 20-25). E ancora lui che insegna loro gli
antichi poemi che fanno parte della *tradizione (Deut 31, 19. 22; 2 Sam 1, 18
s). Così l’insegnamento religioso incomincia nella cornice familiare.
2. I sacerdoti hanno in questo campo una responsabilità più
ampia. Incaricati, per dovere professionale, del *culto e della *legge, svolgono
per ciò stesso una funzione dottorale. Sul Sinai Mosè aveva ricevuto la legge
con la missione di farla conoscere al popolo; era divenuto così il primo maestro
in Israele (Es 24, 3. 12). Questa legge i leviti la devono ora insegnare ed
interpretare affinché possa passare nella vita (Deut 17, 10 s; 33, 10; cfr. 2
Cron 15, 3). Un uomo come Samuele ha compiuto con coscienza questo dovere (1 Sam
12, 23). Altri sacerdoti lo trascurano, e per questo motivo si attirano i
rimproveri dei profeti (Os 4, 6; 5, 1; Ger 5, 31; Mal 2, 7). Non è difficile
immaginare la cornice concreta di questo insegnamento. Sono le feste che si
celebrano nei santuari, come quel rinnovamento dell’alleanza a Sichem (Deut 27,
9 s; Gios 24, 1-24), di cui la promulgazione della legge ad opera di Esdra non
sarà che una variante (Neem 8). L’insegnamento che viene dato verte sulla legge,
che dev’essere riletta e spiegata (Deut 31, 9-13), e sulla storia del *disegno
di Dio (cfr. Gios 24). All’istruzione si mescola naturalmente l’esortazione, per
portare il popolo a vivere nella fede ed a mettere in pratica la legge. Si trova
un’eco di questa predicazione sacerdotale nei c. 4 - 11 del Deuteronomio, dove
si nota tutto un vocabolario dell’insegnamento: «Ascolta, Israele...» (Deut 4,
1; 5, 1); «Sappi che...» (4, 39); «Interroga...» (4, 32); «Guardati dal
dimenticare...» (4, 9; 8, 11 s). Di fatto è importante far conoscere la parola
di Dio affinché Israele l’abbia costantemente in mente (Deut 11, 18-21). Lo
stesso insegnamento profetico assume quindi una forma tradizionale. Da un
profeta all’altro, vi è continuità, che Geremia di proposito sottolinea (Ger 28,
8). Se ne ha la prova tangibile quando un profeta, per esprimere il proprio
messaggio, riprende delle espressioni desunte dai suoi predecessori (come fa
Ezechiele per il libro di Geremia), o quando gli scribi deuteronomici assorbono
nella propria teologia l’interpretazione profetica della storia.
3. I profeti hanno una missione diversa. La *parola di Dio che
essi trasmettono non è attinta alla *tradizione, ma la ricevono direttamente da
Dio; proclamandola essi minacciano, *esortano, promettono, *consolano... Tutto
ciò non deriva direttamente dall’insegnamento. Tuttavia si appoggiano
costantemente su una catechesi che suppongono conosciuta (cfr. Os 4, 1 s, ed il
decalogo) e di cui riprendono i temi essenziali. Anch’essi hanno discepoli (Is
8, 16; Ger 36, 4) che divulgano i loro oracoli, ed il loro messaggio viene ad
aggiungersi all’insegnamento tradizionale per arricchirne i dati.
4. I sapienti sono essenzialmente degli insegnanti (Eccle 12,
9). Nei confronti dei loro *discepoli essi svolgono la stessa funzione
educatrice di qualsiasi padre nei confronti dei propri figli (Eccli 30, 3; cfr.
Prov 3, 21; 4, 1-17. 20 ...); guai ai discepoli che non li avranno ascoltati (Prov
5, 12 s)! Se, fino all’esilio, la dottrina sapienziale sembra fondata
sull’esperienza delle generazioni più che sulla parola divina, in seguito
assimila progressivamente il contenuto della legge e dei libri profetici e lo
sminuzza ad uso di tutti. Così nutrito dell’insegnamento tradizionale, il
maestro vuole trasmettere ai suoi «figli» la vera *sapienza (Giob 33, 33), la
conoscenza ed il *timore di Jahvè (Prov 2, 5; Sal 34, 12), in breve il sapere
religioso che è la condizione della vita felice. Non è forse insegnando agli
empi le vie di Dio che li indurrà a convertirsi (Sal 51, 15)? Lo sforzo
didattico intrapreso negli ambienti degli scribi sostituisce quindi nello stesso
tempo quello dei sacerdoti e quello dei profeti. Nella «casa della scuola» (Eccli
51, 23) i dottori danno a tutti una solida istruzione (Eccli 51, 25 s) che
permette loro di trovare Dio.
II. JAHVÈ, MAESTRO SOVRANO
1. D’altronde, dietro tutti questi maestri umani, è importante
saper scoprire il solo vero maestro da cui quelli hanno tutta la loro autorità:
*Jahvè. Ispiratore di Mosè e dei profeti, la sua parola è alla fonte della
tradizione trasmessa sia dai genitori che dai sacerdoti e dai sapienti. Egli
stesso quindi, attraverso a questi, insegna agli uomini il sapere e la sapienza,
facendo loro conoscere le sue vie e la sua legge (Sal 25, 9; 94, 10 ss). La sua
*sapienza personificata si rivolge ad essi per istruirli (Prov 8, 1-11. 32-36),
come farebbe un profeta o un dottore; per mezzo di essa viene loro ogni bene (Sap
7, 11 ss). Quindi ogni Giudeo pio ha coscienza d’essere stato istruito da Dio
fin dalla giovinezza (Sal 71, 17); in cambio lo prega incessantemente di
insegnargli le sue vie, i suoi comandamenti, le sue volontà (Sal 25, 4; 143, 10;
119, 7. 12 e passim). Questa apertura del cuore all’insegnamento divino va molto
oltre la conoscenza teorica della legge e delle *Scritture; suppone un’adesione
intima che permette di comprendere in profondità il messaggio di Dio e di farlo
passare nella vita.
2. Si sa tuttavia che l’atteggiamento di Israele nei confronti
di Dio non è sempre stato improntato a questa docilità di cuore. I membri del
popolo di Dio gli hanno voltato sovente le spalle, non accogliendo le sue
lezioni quando egli li istruiva con costanza (Ger 32, 33). Di qui i castighi
esemplari inflitti da Dio ai suoi discepoli infedeli. Per ovviare a questa
durezza di cuore Dio, per mezzo dei profeti, promette che negli ultimi tempi si
rivelerà agli uomini come il dottore per eccellenza (Is 30, 20 s); agirà nel più
intimo del loro essere, per modo che essi *conosceranno la sua legge senza aver
bisogno di insegnarsela reciprocamente (Ger 31, 33 s). Istruiti direttamente da
lui, essi troveranno così la felicità (Is 54, 13). Grazia suprema, che renderà
efficace tutto lo sforzo di istruzione compiuto dagli inviati divini. La
preghiera dei salmisti sarà così esaudita.
NUOVO TESTAMENTO
Cristo è il dottore per eccellenza. Ma, affidando la sua parola agli apostoli,
dà loro una missione di insegnamento che prolunga la sua.
I. CRISTO DOTTORE
1. Durante la vita pubblica di Gesù, l’insegnamento costituisce un
aspetto essenziale della sua attività: egli insegna nelle sinagoghe (Mt 4, 23
par.; Gv 6, 59), nel tempio (Mt 21, 23 par.; Gv 7, 14), in occasione delle feste
(Gv 8, 20) ed anche quotidianamente (Mt 26, 55). Le forme del suo insegnamento
non differiscono da quelle usate dai dottori di Israele, ai quali si è mescolato
nella sua giovinezza (Lc 2, 46), che all’occasione riceve (Gv 3, 1 s. 10) e che
più di una volta lo interrogano (Mt 22, 16 s. 36 par.). Quindi a lui, come ad
essi, viene dato il titolo di rabbi, cioè maestro, ed egli l’accetta (Gv 13,
13), pur rimproverando agli scribi del suo tempo di ricercarlo, come se non ci
fosse per gli uomini un solo maestro, che è Dio (Mt 23, 7 s).
2. Tuttavia, se appare alle folle come un dottore tra gli
altri, se ne distingue in diversi modi. Talvolta parla ed agisce come *profeta.
O ancora, si presenta come l’interprete autorizzato della legge, che porta alla
perfezione (Mt 5, 17). A tale riguardo egli insegna con un’*autorità singolare
(Mt 13, 54 par.), a differenza degli scribi, così pronti a nascondersi dietro
l’autorità degli antichi (Mt 7, 29 par.). Inoltre la sua dottrina presenta un
carattere di *novità che colpisce gli uditori (Mc 1, 27; 11, 18), sia che si
tratti del suo annuncio del regno, oppure delle regole di vita che egli dà:
trascurando le questioni di scuola, oggetto di una *tradizione che rigetta (cfr.
Mt 15, 1-9 par.), egli vuol far conoscere il messaggio autentico di Dio e
portare gli uomini ad accoglierlo.
3. Il segreto di questo atteggiamento così nuovo sta nel fatto
che, a differenza dei dottori umani, la sua dottrina non è sua, ma di colui che
l’ha mandato (Gv 7, 16 s); egli dice soltanto ciò che il Padre gli insegna (Gv
8, 28). Accogliere il suo insegnamento significa quindi essere docili a Dio
stesso. Ma per giungere a tanto occorre una certa disposizione del cuore che
inclina a compiere la volontà divina (Gv 7, 17). Più profondamente ancora,
bisogna aver ricevuto quella *grazia interiore che, secondo la promessa dei
profeti, rende l’uomo docile all’insegnamento di Dio (Gv 6, 44 s). Si tocca qui
il mistero della libertà umana alle prese con la grazia: la parola di
Cristodottore urta contro l’accecamento volontario di coloro che pretendono di
veder chiaro (cfr. Gv 9, 39 ss).
II. L’INSEGNAMENTO APOSTOLICO
1. Durante la vita pubblica Gesù affida ai suoi *discepoli
delle missioni transitorie, che non concernono tanto l’insegnamento sotto le sue
forme particolareggiate, quanto la proclamazione del *vangelo (Mt 10, 7 par.).
Soltanto dopo la sua risurrezione essi ricevono da lui un ordine preciso che li
istituisce nello stesso tempo «predicatori, apostoli e dottori» (cfr. 2 Tim 1,
11): «Andate, istruite tutte le genti.... insegnando loro ad osservare tutto ciò
che io vi ho comandato» (Mt 28, 19 s). Per assolvere questo compito dalle
prospettive immense, egli frattanto ha promesso loro l’invio dello Spirito Santo
che avrebbe insegnato loro ogni cosa (Gv 14, 26). Discepoli dello *Spirito per
diventare perfetti discepoli di Cristo, essi trasmetteranno quindi agli uomini
un insegnamento che non verrà da essi, ma da Dio. Per questo potranno parlare
con autorità: il Signore stesso sarà con essi sino alla fine dei secoli (Mt 28,
20; Gv 14, 18 s).
2. Dopo la Pentecoste, gli apostoli svolgono questa missione di
insegnamento non in nome proprio, ma «in nome di Gesù» (Atti 4, 18; 5, 28), di
cui riferiscono gli atti e le parole, appellandosi sempre alla sua autorità.
Come Gesù, insegnano nel tempio (Atti 5, 12), nella sinagoga (Atti 13, 14 ...),
nelle case private (Atti 5, 42). Oggetto di questo insegnamento è innanzitutto
la proclamazione del messaggio della salvezza. Gesù, Messia e Figlio di Dio,
pone termine all’attesa di Israele; la sua morte e la sua risurrezione compiono
le Scritture; bisogna convertirsi e credere in lui per ricevere lo Spirito
promesso e sfuggire al giudizio (cfr. i discorsi degli Atti). Catechesi
elementare, che vuole portare gli uomini alla fede (cfr. Atti 2, 22-40); dopo il
battesimo viene completata con un insegnamento più profondo, al quale i primi
cristiani si mostrano assidui (Atti 2, 42). Tra gli uditori non cristiani alcuni
si stupiscono della sua novità (cfr. Atti 17, 19 s); le autorità giudaiche si
turbano soprattutto del suo successo, e tentano di proibirlo a persone che non
hanno ricevuto una formazione normale di scribi (Atti 4, 13; cfr. 5, 28). Fatica
vana: dopo essersi diffuso in Giudea, l’insegnamento è portato a folle
considerevoli in tutto il mondo greco. Esso si identifica con la *parola (Atti
18, 11), con la *testimonianza, con il *vangelo. Trova la via dei cuori perché
lo accompagna la forza dello Spirito (cfr. Atti 2, 17 ss), quello Spirito la cui
*unzione rimane nei cristiani e li istruisce in tutto (1 Gv 2, 27).
3. Lo stesso spirito, d’altronde, con i suoi *carismi (cfr. 1
Cor 12, 8. 29) fa sorgere nella Chiesa, a fianco degli apostoli, altri
insegnanti che li aiutano nel loro *ministero di evangelizzazione: i didàskaloi,
catechisti incaricati di fissare e di sviluppare per le giovani comunità il
contenuto del vangelo (Atti 13, 1; Ef 4, 11). Nello stesso tempo si costituisce
un corpo di dottrina che è la regola della fede (cfr. Rom 6, 17). All’epoca
delle lettere pastorali esso ha già assunto una forma tradizionale (1 Tim 4, 13.
16; 5, 17; 6, 1 ss). Mentre la fede si vede minacciata da insegnamenti errati o
futili (Rom 16, 17; Ef 4, 14; 1 Tim 1, 3; 6, 3; Apoc 2, 14 s. 24), divulgati da
falsi dottori (2 Tim 4, 3; 2 Piet 2, 1) e fonti di *eresie, la conservazione e
la trasmissione di questo deposito autentico è una delle cure essenziali dei
pastori.
A. BARUCQ e P. GRELOT
→ carismi II 2 - conoscere - discepolo - educazione - esortare - latte 3 - legge
- mistero NT II 1- - nuovo III 1 - parabola - Paraclito 2 - parola di Dio -
predicare - rivelazione - sapienza – tradizione.
→ bestemmia - maledizione.
→ diritto - giustizia 0; A I - perfezione - puro - semplice.
→ conoscere - rivelazione - sapienza.
→ apparizioni di Cristo 4 c - ascoltare - fede NT I 2 - parola di Dio NT I 2 - predicare.
→ Gesù Cristo concl. - parabola III - sogni VT.
→ morte VT II 1 - odio - Satana I - zelo 0.
→ esortare - vocazione.
Sull’esempio dei
profeti (ad es. Is. 29, 13) e dei sapienti (ad es. Eccli 1, 28 s; 32, 15; 36,
20), ma con una forza ineguagliata, Gesù ha messo a nudo le radici e le
conseguenze dell’ipocrisia, avendo di mira specialmente quelli che allora
costituivano l’«intellighenzia», scribi, farisei e dottori della legge. Ipocriti
sono evidentemente coloro la cui condotta non esprime i pensieri del *cuore; ma
essi sono pure qualificati da Gesù come ciechi (cfr. Mi 23, 25 e 23, 26). Un
legame sembra giustificare il passaggio dall’uno all’altro senso: a forza di
voler ingannare gli altri, l’ipocrita inganna se stesso e diventa cieco sul suo
proprio stato, incapace di vedere la luce.
1. Il formalismo dell’ipocrita.
- L’ipocrisia religiosa non è semplicemente una *menzogna; essa inganna
gli altri per acquistarne la stima mediante atti religiosi la cui intenzione non
è *semplice. L’ipocrita sembra agire per Dio, ma di fatto agisce per se stesso.
Le pratiche più raccomandabili, elemosina, preghiera, digiuno, sono in tal modo
pervertite dalla preoccupazione di «farsi notare» (Mt 6, 2. 5. 16; 23, 5).
Quest’abitudine di mettere una disarmonia tra il cuore e le *labbra insegna a
velare intenzioni malvagie sotto un’aria ingenua, come quando sotto pretesto di
una questione giuridica si vuol tendere un’insidia a Gesù (Mt 22, 18; cfr. Ger
18, 18). Desideroso di salvare la *faccia, l’ipocrita sa scegliere tra i
precetti o adattarli con una sapiente casistica: può così filtrare il moscerino
ed inghiottire il cammello (Mt 23, 24), o rivolgere le prescrizioni divine a
profitto della sua rapina e della sua intemperanza (23, 25): «Ipocriti! Ben ha
profetizzato di voi Isaia dicendo: questo popolo mi onora con le labbra, ma il
loro cuore è lontano da me» (15, 7).
2. Cieco che inganna se stesso.
- Il formalismo può essere guarito, ma l’ipocrisia è vicina all’*indurimento. I
«sepolcri imbiancati» finiscono per prendere come verità ciò che vogliono far
credere agli altri: si credono *giusti (cfr. Lc 18, 9; 20, 20) e diventano sordi
ad ogni appello alla conversione. Come un’attore di teatro (in gr. hypocritès),
l’ipocrita continua a recitare la sua parte, tanto più che occupa un posto
elevato e si obbedisce alla sua parola (Mt 23, 2 s). La correzione fraterna è
sana, ma come potrebbe l’ipocrita strappare la trave che gli impedisce la vista,
quando pensa soltanto a togliere la pagliuzza che è nell’occhio del vicino (7, 4
s; 23, 3 s)? Le guide spirituali sono necessarie in terra, ma non prendono il
posto stesso di Dio quando alla legge divina sostituiscono tradizioni umane?
Sono ciechi che pretendono di guidare gli altri (15, 3-14), e la loro dottrina
non è che un cattivo lievito (Lc 12, 1). Ciechi, essi sono incapaci di
riconoscere i segni del *tempo, cioè di scoprire in Gesù l’inviato di Dio, ed
esigono un «segno dal cielo» (Lc 12, 56; Mt 16, 1 ss); accecati dalla loro
stessa malizia, non sanno che farsene della bontà di Gesù e si appellano alla
legge del sabato per impedirgli di fare il bene (Lc 13, 15); se osano immaginare
che Beelzebul è all’origine dei miracoli di Gesù, si è perché da un cuore
malvagio non può uscire un buon linguaggio (Mt 12, 24. 34). Per infrangere le
porte del loro cuore, Gesù fa loro perdere la faccia dinanzi agli altri (Mt 23,
1 ss), denunziando il loro peccato fondamentale, il loro marciume segreto (23,
27 s): ciò è meglio che lasciarli condividere la sorte degli *empi (24, 51; Lc
12, 46). Qui Gesù si serviva indubbiamente del termine aramico hanefa, che nel
VT significa ordinariamente «perverso, empio»: l’ipocrita può diventare un
empio. Il quarto vangelo cambia l’appellativo di ipocrita in quello di cieco: il
peccato dei *Giudei consiste nel dire: «Noi vediamo», mentre sono ciechi (Gv 9,
40).
3. Il pericolo permanente dell’ipocrisia.
- Sarebbe un’illusione pensare che l’ipocrisia sia propria soltanto dei
*farisei. Già la tradizione sinottica estendeva alla folla l’accusa di ipocrisia
(Lc 12, 56); attraverso ai «*Giudei» Giovanni ha di mira gli increduli di tutti
i tempi. Il cristiano, soprattutto se ha una funzione di guida, corre anch’egli
il rischio di diventare un ipocrita. Pietro stesso non è sfuggito a questo
pericolo nell’episodio di Antiochia che lo mise alle prese con Paolo: la sua
condotta era una «ipocrisia» (Gal 2, 13). Lo stesso Pietro raccomanda al fedele
di vivere *semplice come un neonato, conscio che l’ipocrisia lo attende al varco
(1 Piet 2, 1 s) e lo porterebbe a cadere nell’apostasia (1 Tim 4, 2).
X. LÉON DUFOUR
→ farisei 1 - incredulità II 1 - menzogna - orgoglio 1 - semplice 2
Nessuno può,
senza scandalo, sentir parlare di Dio adirato, se non è stato visitato un giorno
dalla sua *santità o dal suo *amore. D’altra parte, come per entrare nella
grazia l’uomo dev’essere strappato al peccato, così per accedere veramente
all’amore di Dio il credente deve accostarsi al mistero della sua ira. Voler
ridurre questo mistero alla espressione mitica di un’esperienza umana significa
misconoscere la serietà del peccato e la tragicità dell’amore di Dio. Tra la
santità e il peccato c’è una radicale incompatibilità. Certamente l’ira
dell’uomo ha permesso di esprimere questa realtà misteriosa, ma l’esperienza del
mistero è primaria in rapporto al linguaggio, e di origine totalmente diversa.
A. L’IRA DELL’UOMO
1.. Condanna dell’ira.
- Dio condanna la reazione violenta dell’uomo che si adira contro un
altro, sia egli geloso come Caino (Gen 4, 5), furioso come Esaù (Gen 27, 44 s),
o come Simeone e Levi che vendicano in modo eccessivo l’oltraggio fatto alla
loro sorella (Gen 49, 5 ss; cfr. 34, 7- 26; Giudit 9, 2): quest’ira porta
ordinariamente all’omicidio. A loro volta i sapienziali biasimano la stoltezza
dell’iracondo (Prov 29, 11) che non controlla il «soffio delle narici», secondo
l’immagine originale, ma ammirano il sapiente che ha «il fiato lungo», in
opposizione all’impaziente «dal fiato corto» (Prov 14, 29; 15, 18). L’ira genera
l’ingiustizia (Prov 14, 17; 29, 22; cfr. Giac 1, 19 s). Gesù si è mostrato ancor
più radicale, assimilando l’ira al suo effetto abituale, l’omicidio (Mt 5, 22).
Paolo quindi la giudica incompatibile con la carità (l Cor 13, 5): è un male
puro e semplice (Col 3, 8) da cui bisogna guardarsi, soprattutto a motivo della
prossimità di Dio (1 Tim 2, 8; Tito 1, 7).
2. Le sante ire.
- Tuttavia, mentre gli stoici riprovavano ogni impeto di collera in
nome del loro ideale di «apàtheia», la Bibbia conosce «ire sante» che esprimono
in concreto la reazione di Dio contro la ribellione dell’uomo. Così Mosè contro
gli Ebrei quando mancano di fede (Es 16, 20), apostatano all’Horeb (Es 32, 19.
22), trascurano i riti (Lev 10, 16) o non osservano l’anatema sul bottino (Lev
31, 14); così Finehes di cui Dio loda lo *zelo (Num 25, 11); così Elia che
massacra i falsi profeti (1 Re 18, 40) o fa cadere il fuoco sugli emissari del
re (2 Re 1, 10. 12); così Paolo ad Atene (Atti 17, 16). Dinanzi agli idoli,
dinanzi al peccato, questi uomini di Dio sono, al pari di Geremia, «ripieni
dell’ira di Jahvè» (Ger 6, 11; 15, 17), annunziando imperfettamente l’ira di
Gesù (Mc 3, 5). Senza paradosso, Dio solo può adirarsi. Così, nel VT, i termini
di ira sono usati per Dio circa cinque volte più che per l’uomo. Paolo, che
tuttavia dovette incollerirsi più d’una volta (Atti 15, 39), consiglia con
saggezza: «Non fatevi giustizia da soli; lasciate fare all’ira divina, perché
sta scritto: a me la vendetta, io darò la giusta paga, dice il Signore» (Rom 12,
19). L’ira non è compito dell’uomo, ma di Dio.
B. L’IRA DI DIO
VECCHIO TESTAMENTO
I. IMMAGINI E REALTÀ
1. È un fatto.
- Dio si adira. Ogni sorta di immagini affluisce sotto l’ispirazione biblica, ed
Isaia le raccoglie: «Ardente è la sua ira, 1e sue labbra traboccano di furore,
la sua lingua è come un fuoco vorace, il suo soffio come un torrente che
straripa e giunge fino al collo... Il suo braccio si abbatte nell’ardore della
sua ira, in mezzo ad un fuoco vorace, ad un uragano di pioggia e di tempesta...
Il soffio di Jahvè, come un torrente di zolfo, infiammerà la paglia ed il legno
ammucchiati a Tofet» (Is 30, 27-33). *Fuoco, soffio, tempesta, torrente, l’ira
si infiamma, si riversa (Ez 20, 33), dev’essere bevuta in un *calice (Is 51,
17), come un *vino inebriante (Ger 25, 15-38). Il risultato di quest’ira è la
*morte con le sue ausiliarie: carestia, sconfitta o peste, tra cui David deve
scegliere (2 Sam 24, 15 ss); altrove sono le piaghe (Num 17, 11), la *lebbra (Num
12, 9 s), la morte (1 Sam 6, 19). Quest’ira si abbatte su tutti i colpevoli
ostinati (cfr. *indurimento); in primo luogo su Israele, perché è più vicino al
Dio santo (Es 19; 32; Deut 1, 34; Num 25, 7-13), sia sulla comunità (2 Re 23,
26; Ger 21, 5) che sugli individui; poi anche sulle *nazioni (1 Sam 6, 9),
perché Jahvè è il Dio di tutta la terra (Ger 10, 10). Non c’è quasi documento o
libro che non ricordi questa convinzione.
2. Dinanzi al fatto di un Dio animato da una passione violenta, la ragione
insorge e vuole purificare la divinità da sentimenti che stima indegni di essa.
Così, secondo una tendenza marginale nella Bibbia, ma frequente nelle altre
religioni (ad es. le Erinni greche), *Satana diventa l’agente dell’ira di Dio
(cfr. 1 Cron 21 e 2 Sam 24). Tuttavia la coscienza religiosa biblica non ha
accolto il mistero ricorrendo a questo ripiego di smitizzazione o di traslato.
Senza dubbio la rivelazione è trasmessa attraverso immagini poetiche, ma non si
tratta di semplici metafore. Dio sembra affetto da una vera «passione» che egli
scatena, non mitiga (Is 9, 11), che non si allontana (Ger 4, 8) - oppure che, al
contrario, si ritira (Os 14, 5; Ger 18, 20), perché Dio «ritorna» verso coloro
che ritornano a lui (2 Cron 30, 6; Es 34, 6; Is 63, 17). In Dio lottano due
«sentimenti», l’ira e la *misericordia (cfr. Is 54, 8 ss; Sal 30, 6), che
significano entrambi l’attaccamento appassionato di Dio all’uomo. Ma lo
esprimono in modo diverso: mentre l’ira, riservata infine all’ultimo *giorno,
finisce per identificarsi con l’*inferno, l’amore misericordioso trionfa per
sempre in *cielo, e già quaggiù, attraverso i *castighi che invitano il
peccatore alla *conversione. Tale è il mistero cui Israele si è a poco a poco
accostato per varie vie.
II. IRA E SANTITÀ
1. Verso l’adorazione del Dio santo.
- Un primo gruppo di testi, i più antichi, lascia apparire il carattere
irrazionale del fatto. La minaccia di morte pesa su chiunque si avvicina
inconsideratamente alla *santità di Jahvè (Es 19, 9-25; 20, 18-21; 33, 20; Giud
13, 22); Uzza è folgorato mentre vuole sostenere l’arca (2 Sam 6, 7). Così i
salmisti interpreteranno le *calamità, la *malattia, la *morte prematura, il
trionfo dei *nemici (Sal 88, 16; 90, 7-10; 102, 9- 12; Giob). Dietro questo
atteggiamento, lucido perché prende il male per quel che è, ingenuo perché
attribuisce ogni male inspiegabile all’ira di Dio concepita come la vendetta di
un tabù, si nasconde una fede profonda nella *presenza di Dio in ogni evento ed
un autentico sentimento di *timore dinanzi alla santità di Dio (Is 6, 5).
2. Ira e peccato.
- Secondo altri testi il credente non si accontenta di *adorare
appassionatamente l’intervento divino che chiama in causa la sua esistenza; ne
cerca il motivo ed il senso. Lungi dall’attribuirlo a qualche *odio malizioso
(la mènis greca) o ad un capriccio di gelosia (il dio babilonese Enlil), il che
significherebbe ancora rigettare la colpa su un altro, Israele riconosce la
propria colpa. Talvolta Dio designa il colpevole punendo il popolo impaziente (Num
11, 1) o Maria dalla lingua cattiva (Num 12, 1-10); talvolta è la stessa
comunità ad esercitare l’ira divina (Es 32) od a gettare le sorti per scoprire
il peccatore, come nel caso di Achan (Gios 7). Se dunque c’è l’ira di Dio, si è
perché c’è stato il *peccato dell’uomo. Questa convinzione guida il redattore
del libro dei Giudici, che ritma la storia di Israele in tre tempi: apostasia
del popolo, ira di Dio, conversione di Israele. Dio esce così giustificato dal
*processo cui lo sottoponeva il peccatore (Sal 51, 6); questi scopre allora un
primo senso all’ira divina: la gelosia di un amore santo. I profeti spiegano i
*castighi passati con l’infedeltà del popolo all’alleanza (Os 5, 10; Is 9, 11;
Ez 5, 13 ...); le immagini terribili di Osea (tignola, carie, leone, cacciatore,
orsa...: Os 5, 12. 14; 7, 12; 13, 8) vogliono dimostrare la serietà dell’amore
di Dio: il santo di Israele non può tollerare il peccato nel popolo che si è
scelto. Anche sulle *nazioni si riverserà l’ira, secondo la misura del loro
*orgoglio, che le fa andar oltre la *missione loro affidata (Is 10, 5-15; Ez 25,
15 ss). Se l’ira di Dio aleggia sul mondo, si è perché il *mondo è peccatore.
L’uomo, spaventato da quest’ira minacciosa, *confessa il suo peccato ed aspetta
la *grazia (Mi 7, 9; Sal 90, 7 s).
III. I TEMPI DELL’IRA
L’itinerario della coscienza religiosa non è ancora terminato; dopo essere
passato dall’adorazione cieca alla confessione del suo peccato, dopo aver
riconosciuto la santità che uccide il peccato, l’uomo deve adorare 1’*amore che
vivifica il peccatore.
1. Ira ed amore.
- Nelle manifestazioni della sua ira Dio non si comporta come un uomo: controlla
la sua passione. Certo essa si scatena talvolta immediatamente sugli Ebrei «che
avevano ancora la carne sotto i denti» (Num 11, 33) o su Maria (Num 12, 9), ma
non è per questo impaziente. Al contrario, Dio è «lento all’ira» (Es 34, 6; Is
48, 9; Sal 103, 8), e la sua misericordia è sempre pronta a manifestarsi (Ger 3,
12). «Io non agirò più secondo la mia ira ardente, non distruggerò più Efraim,
perché io sono Dio, e non uomo», si legge nel profeta dalle immagini violente (Os
11, 9). L’uomo esperimenta sempre meglio che Dio non è un Dio dell’ira, ma il
Dio della *misericordia. Dopo il castigo esemplare dell’*esilio Dio dice alla
sua sposa: «Per un breve istante ti avevo abbandonata, ma, mosso da un’immensa
pietà, ti radunerò. In un eccesso di furore, per un istante, ti avevo nascosto
il mio volto. Ma con un affetto eterno ho pietà di te» (Is 54, 7 s). E la
vittoria di questa pietà suppone che il *servo fedele sia stato colpito a morte
per i peccati del popolo, convertendo in *giustizia la stessa ingiustizia (Is
53, 4. 8).
2. Per essere liberato dall’ira.
- Punendo a suo tempo e non sotto la spinta dell’impazienza, Dio
manifesta all’uomo la portata *educativa dei castighi causati dalla sua ira (Am
4, 6-11). Annunziata al peccatore in un disegno di misericordia, quest’ira non
lo paralizza come uno spettro fatale, ma lo invita a *convertirsi all’amore (Ger
4, 4). Se, dunque, Dio ha un proposito d’amore in fondo al cuore, Israele può
supplicare di essere *liberato dall’ira. Animati dalla fede nella giustizia
divina i *sacrifici non hanno nulla delle pratiche magiche che vorrebbero
scongiurare la divinità; precisamente come le *preghiere di intercessione, essi
esprimono la convinzione che Dio può cessare di essere in collera. Mosè
intercede per il popolo infedele (Es 32, 11. 31 s; Num 11, 1 s; 14, 11 s...) o
per un determinato colpevole (Num 12, 13; Deut 9, 20). Così pure Amos per
Israele (Am 7, 2. 5), Geremia per Giuda (Ger 14, 7 ss; 18, 20), Giobbe per i
suoi amici (Giob 42, 7 s). Con ciò gli effetti dell’ira sono attenuati (Num 14;
Deut 9) od anche soppressi (Num 11; 2 Sam 24). I motivi invocati rivelano
precisamente che il legame tra Israele e Dio non è spezzato (Es 32, 12; Num 14,
15 s; Sal 74, 2): in questo dialogo l’uomo argomenta della sua debolezza (Am 7,
2. 5; Sal 79, 8) e ricorda a Dio che è essenzialmente *misericordioso e *fedele
(Num 14, 18).
3. Ira e castigo.
- Vedendo nell’ira che stermina il peccatore ostinato un castigo subito in vista
della correzione e della conversione del peccatore, Israele non ha tuttavia
svuotato di contenuto l’ira in senso proprio; l’ha collocata al suo posto
giusto, all’ultimo *giorno. Il giorno delle tenebre, di cui parlava Amos (5, 18
ss), diventa il «giorno dell’ira» (Dies irae, Sof 1, 15 - 2, 3) al quale nessuno
potrà sfuggire, né i pagani (Sal 9, 17 s; 56, 8; 79, 6 ss), né gli empi della
comunità (Sal 7, 7; 11, 5 s; 28, 4; 94, 2), ma soltanto l’uomo pio, il cui
peccato è stato perdonato (Sal 30, 6; 65, 3 s; 103, 3). Si è così operata una
distinzione tra ira ed ira. Nel corso della storia i *castighi non sono
propriamente l’ira di Dio che stermina per sempre, ma soltanto *figure che
l’anticipano. Attraverso ad esse l’ira della fine dei tempi continua ad
esercitare il suo valore salutare, rivelando sotto uno dei suoi aspetti l’amore
del Dio santo. In riferimento a quest’ira le *visite di Dio al suo popolo
peccatore possono e devono essere intese come atti di longanimità, che
differiscono l’esercizio dell’ira ultima (cfr. 2 Mac 6, 12-17). Gli autori di
apocalissi hanno ben visto che un tempo di ira deve precedere il tempo della
grazia definitiva: «Va’, o mio popolo, entra nelle tue camere e chiudi su te le
tue porte. Nasconditi per un istante, il tempo che passi l’ira» (Is 26, 20; cfr.
Dan 8, 19; 11, 36).
NUOVO TESTAMENTO
Dal messaggio del precursore (Mt 3, 7 par.) fino alle ultime pagine del NT (Apoc
14, 10), il vangelo della *grazia conserva l’ira di Dio come un dato
fondamentale del suo messaggio. Sarebbe rinnovare l’eresia di Marcione
l’eliminarne l’ira, per voler conservare soltanto un fallace concetto di «buon
Dio». Tuttavia la venuta di Gesù Cristo trasforma i dati del VT portandoli a
compimento.
I. LA REALTÀ E LE IMMAGINI
1. Dalla passione divina agli effetti dell’ira.
- L’accento si sposta. Certamente le immagini del VT sopravvivono
ancora: *fuoco (Mt 5, 22; 1 Cor 3, 13. 15), soffio sterminatore (2 Tess 1, 8; 2,
8), *vino, *calice, tino, trombe dell’ira (Apoc 14, 10. 8; 16, 1 ss). Ma non
intendono più descrivere psicologicamente la passione di Dio, quanto piuttosto
rivelarne gli effetti. Siamo entrati negli ultimi *tempi. Giovanni Battista
annunzia il fuoco del *giudizio (Mt 3, 12), e Gesù gli fa eco nella parabola
degli invitati indegni (Mi 22, 7); anche per lui il nemico e l’infedele saranno
annientati (Lc 19, 27; 12, 46), gettati nel fuoco inestinguibile (Mt 13, 42; 25,
41).
2. L’ira di Gesù.
- Ma più terribile di questo linguaggio ispirato, più tragica
dell’esperienza dei profeti schiacciati tra Dio santo ed il popolo peccatore,
c’è la reazione d’un uomo che è Dio stesso. In Gesù l’ira di Dio si rivela. Gesù
non si comporta come uno stoico che non si turba mai (Gv 11, 33); egli comanda
con violenza a Satana (Mt 4, 10; 16, 23), minaccia duramente i demoni (Mc 1,
25), è fuori di sé di fronte all’astuzia diabolica degli uomini (Gv 8, 44), e
specialmente dei *Farisei (Mi 12, 34), di coloro che uccidono i profeti (Mt 23,
33), degli *ipocriti (Mt 15, 7). Come Jahvè, Gesù si adira contro chiunque si
leva contro Dio. Gesù rimprovera pure i disobbedienti (Mc 1, 43; Mt 9, 30), i
discepoli di poca fede (Mt 17, 17). Soprattutto si adira contro coloro che, come
il fratello maggiore geloso del prodigo accolto dal Padre delle misericordie (Lc
15, 28), non si mostrano misericordiosi (Mc 3, 5). Infine Gesù manifesta l’ira
del giudice: come il signore del banchetto (Lc 14, 21), come il padrone del
servo spietato (Mt 12, 34), egli preannunzia sventura alle città che non si
pentono (Mt 11, 20 s), scaccia i venditori dal tempio (Mt 21, 12 s), maledice il
fico sterile (Mc 11, 21). Come l’ira di Dio, così anche quella dell’agnello non
è una parola vana (Apoc 6, 16; Ebr 10, 31).
II. IL TEMPO DELL’IRA
1. La giustizia e l’ira.
- Con la sua venuta in terra il Signore ha determinato due ere nella storia
della salvezza. Paolo è il teologo di questa novità: rivelando la *giustizia di
Dio in favore dei credenti, Cristo rivela pure l’ira su ogni incredulo.
Quest’ira, analoga al castigo concreto di cui parlava il VT, anticipa l’ira
definitiva. Mentre Giovanni Battista poneva assieme nella sua prospettiva la
venuta del Messia in terra e la sua venuta alla fine dei tempi, tanto che il
ministero di Gesù avrebbe dovuto essere il *giudizio ultimo, Paolo insegna che
Cristo ha inaugurato un tempo intermedio, durante il quale sono pienamente
rivelate le due dimensioni dell’attività divina: la giustizia e l’ira. Paolo
conserva talune concezioni del VT, ad es. quando vede nel potere civile uno
strumento di Dio «per esercitare la repressione vendicativa dell’ira divina sui
malfattori» (Rom 13, 4), ma si studia soprattutto di rivelare la nuova
condizione dell’uomo dinanzi a Dio.
2. Dall’ira alla misericordia.
- Fin dalle origini l’uomo è peccatore e merita la morte (Rom 1, 18-
32; 3, 20); è di diritto oggetto dell’ira divina, è «vaso di ira» pronto per la
perdizione (9, 22; Ef 2, 3), il che Giovanni traduce dicendo: «l’ira di Dio
rimane sull’incredulo» (Gv 3, 36). Se l’uomo è così congenitamente peccatore, le
più sante istituzioni divine sono state pervertite al suo contatto, ad es. la
*legge santa «produce l’ira» (Rom 4, 15). Ma il *disegno di Dio è un disegno di
*misericordia ed i vasi dell’ira possono, *convertendosi, diventare «vasi di
misericordia» (Rom 9, 23); e ciò, qualunque sia la loro origine, pagana o
giudaica, «perché Dio ha racchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per far
misericordia a tutti» (11, 32). Come nel VT, Dio non dà libero corso alla sua
ira, manifestando in tal snodo la sua potenza (in quanto tollera il peccatore),
ma rivelando pure la sua bontà (in quanto invita alla conversione).
III. LA LIBERAZIONE DALL’IRA
1. Gesù e l’ira di Dio.
- Tuttavia qualcosa è radicalmente mutato con la venuta di Cristo. Da
questa «ira che sta per venire» (Mt 3, 7), non è più la legge, ma Gesù a
liberarci (1 Tess 1, 10). Dio, che «non ci ha riservati per l’ira, ma per la
*salvezza» (1 Tess 5, 9), ci assicura che, «giustificati, saremo salvati
dall’ira» (Rom 5, 9), e più ancora, che la nostra fede ha fatto di noi dei
«salvati» (1 Cor 1, 18). Di fatto Gesù ha «tolto il peccato del mondo» (Gv 1,
29), è stato fatto «*peccato» perché noi divenissimo giustizia di Dio in lui (2
Cor 5, 21); è stato morente sulla *croce, è divenuto «*maledizione» per darci la
*benedizione (Gal 3, 13). In Gesù si sono incontrate le potenze dell’amore e
della santità, cosicché, nel momento in cui l’ira si abbatte su colui che era
«divenuto peccato», rimane vincitore l’amore; l’itinerario laborioso dell’uomo
che cerca di scoprire l’*amore dietro l’ira termina e si concentra nel momento
in cui Gesù muore, anticipando l’ira della fine dei tempi per liberarne per
sempre chiunque crede in lui.
2. In attesa dei giorno dell’ira.
- Pienamente liberata dall’ira, la Chiesa continua nondimeno ad essere il luogo
del combattimento con *Satana. Infatti «il demonio, fremente d’ira, è disceso a
noi» (Apoc 12, 12), perseguitando la *donna e la sua discendenza; per opera sua
le *nazioni sono state inebriate dall’ira divina (14, 8 ss). Ma la Chiesa non
teme questa parodia dell’ira, perché la nuova *Babilonia sarà vinta, quando il
re dei re verrà «a pigiare nel tino il *vino dell’ira ardente di Dio» (19, 15),
assicurando così all’ultimo giorno la *vittoria di Dio.
X. LÉON-DUFOUR
→ calice 2 - castighi - empio NT 3 - fuoco VT II 2, III - giorno del Signore VT
II; NT 0 - giudizio - indurimento I 2 - maledizione V - misericordia VT I 2 b -
pazienza - perdono - silenzio 1 - timore di Dio III - uragano 3 - vendemmia 2 -
vendetta 1 - vino II 2 a - violenza - zelo.
→ Abramo I 2, II 1 - Pasqua I 6 b.
→ parola di Dio VT I 1; NT I 1 - scrittura III, V - Spirito di Dio VT II.
VECCHIO TESTAMENTO
Israele (probabilmente «Dio lotta», «Dio è forte») nel VT designa sia un popolo,
sia il suo antenato eponimo, identificato con il patriarca Giacobbe (Gen 35, 10.
20 s; 43, 8; 50, 2; ecc.). L’aneddoto che spiega il duplice nome del patriarca
si fonda su una etimologia popolare: Israele = Egli lottò contro Dio» (Gen 32,
29; Os 12, 4).
1. Israele, popolo dell’alleanza a) Israele, nome sacro.
a) Israele nome sacro - Israele non è soltanto una
designazione etnica come Edom, Aram, Moab. È un *nome sacro, il nome del *popolo
dell’alleanza. Esso forma la «comunità di Israele» (Es 12, 3. 6), ed a questo
titolo gli sono rivolti i discorsi del Deuteronomio («Ascolta, Israele!...»,
Deut 5, l; 6, 4; 9, 1; cfr. Sal 50, 7; 81, 9), nonché le promesse profetiche (Is
41, 8; 43, 1; 44, l; 48, 1).
b) Israele, popolo delle dodici tribù. - Israele ha
come struttura nazionale fondamentale le dodici tribù che portano il nome dei
dodici figli di Giacobbe, e questo sin dalla conclusione dell’alleanza (Es 24,
4). Se la lista delle tribù ha conosciuto variazioni minori (cfr. Gen 49; Deut
33; Giud 5; Apoc 7, 5...), il loro *numero è una cifra sacra, in rapporto al
servizio cultuale durante i dodici mesi dell’anno. Questa è la prima forma
storica che il popolo di Dio ha assunto in terra.
c) Jahvè Dio di Israele, ed Israele popolo di Jahvè. -
Con l’alleanza Dio si è in qualche modo legato ad Israele: di Israele egli è il
*Dio (Is 17, 6; Ger 7, 3; Ez 8, 4), il *santo (Is 1, 4; 43, 14; Sal 89, 19), il
*forte (Is 1, 24), la *roccia (Is 30, 29), il *re (Is 43, 15), il *redentore (Is
44, 6). Il Dio della rivelazione entra così nella storia delle religioni come il
Dio particolare di Israele. In cambio, del solo Israele egli ha fatto la scelta
per costituirlo depositario del suo *disegno di salvezza. Anche qui i titoli
dati ad Israele sono significativi: è il *popolo di Jahvè (Is 1, 3; Am 7, 8; Ger
12, 14; Ez 14, 9; Sal 50, 7), il suo *servo (Is 44, 21), il suo *eletto (Is 45,
4), il suo *figlio primogenito (Es 4, 22; Os 11, 1), il suo bene sacro (Ger 2,
3), la sua *eredità (Is 19, 25), il suo gregge (Sal 95, 7), la sua -*vigna (Is
5, 7), il suo dominio (Sal 114, 2), la sua *sposa (Os 2, 4)... Israele non
appartiene quindi soltanto alla storia politica dell’umanità; per scelta divina,
è al centro della storia sacra.
2. Israele e Giuda.
a) Il dualismo politico di Israele. - La lega sacra
delle dodici tribù nascondeva un dualismo politico, che appare chiaramente
all’epoca regia: David diventa successivamente re di Giuda, al Sud, poi di
Israele, al Nord (2 Sam 2, 4; 5, 3). Alla morte di Salomone, Israele si separa
dalla casa di David (1 Re 12, 19) al grido di: «Alle tue tende, Israele!» (2 Re
12, 16; cfr. 2 Sam 20, 1). Così il popolo di Dio conosce lo *scisma. Il
linguaggio dei profeti, adattandosi ad uno stato di fatto contrario alla
dottrina dell’alleanza, distingue oramai Giuda da Israele, identificato sovente
con Efraim, la tribù dominante del Nord (Am 2, 4; Os 4, 15 s; Is 9, 7...; Mi 1,
5; Ger 3, 6 ss).
b) Israele ed il giudaismo. - Dopo la rovina di
Samaria, Giuda diventa il centro di raduno di tutto Israele (2 Re 23, 19...; 2
Cron 30, 1 ss) e, dopo la rovina di Gerusalemme, nell’antica lega delle dodici
tribù si ricerca l’immagine ideale della restaurazione nazionale. La funzione
preponderante di Giuda in questa restaurazione spiega come il nome di *Giudei
sia dato ormai ai membri del popolo disperso, e quello di giudaismo
all’istituzione che li raggruppa (Gal 1, 13 s). Ma il nome di Israele riacquista
nello stesso tempo il suo solo valore sacro (Neem 9, 1 s; Eccli 36, 11; cfr. Mt
2, 20 s; Atti 13, 17; Gv 3, 10).
3. La promessa di un nuovo Israele.
- Di fatto gli oracoli escatologici dei profeti hanno annunziato nel
futuro di Israele un ritorno all’unità originale: riunione di Israele e di Giuda
(Ez 37, 15...), raduno degli Israeliti dispersi appartenenti alle dodici tribù (Ger
3, 18; 31, 1; Ez 36, 24...; 37, 21...; Is 27, 12). È questo uno dei temi
fondamentali della speranza giudaica (Eccli 36, 10). Ma il beneficio di queste
*promesse sarà riservato ad un *resto di Israele (Is 10, 20; 46, 3; Mi 2, 12;
Ger 31, 7); di questo resto Jahvè farà un *nuovo Israele che libererà (Ger 30,
10) e stabilirà nuovamente nella sua terra (31, 2), a cui darà una nuova
*alleanza (31, 31) ed un nuovo *re (33, 17). Allora Israele diventerà il centro
di riunione delle *nazioni (Is 19, 24 s): avendovi riconosciuto la presenza del
vero Dio (45, 15), esse gli si rivolgeranno; la loro conversione coinciderà con
la salvezza (45, 17) e con la gloria di Israele (45, 25).
NUOVO TESTAMENTO
1. Il vangelo e l’antico Israele.
- L’ordine provvidenziale delle cose ha voluto che il fatto della
salvezza si realizzi in Israele e che Israele, come popolo dell’alleanza, ne
riceva per primo l’annunzio. Questo è già lo scopo del battesimo di Giovanni (Gv
1, 31). Durante la vita di Gesù, sia la missione del salvatore che quella dei
suoi discepoli è ristretta ancora al solo Israele (Mi 10, 6. 23; 15, 24). Dopo
la sua risurrezione, la buona novella è notificata da prima ad Israele (Atti 2,
36; 4, 10). Infatti Israele e le nazioni, che hanno partecipato insieme al
dramma della passione (4, 27), sono bensì chiamati alla fede su un piede di
uguaglianza (9, 15), ma in un certo ordine: prima i Giudei, che sono per nascita
«Israeliti» (Rom 9, 4), poi tutti gli altri (cfr. Rom 1, 16; 2, 9 s; Atti 13,
46). Di fatto la salvezza portata dal vangelo colma la speranza di coloro che
attendono la *consolazione di Israele (Lc 2, 25), la *salvezza di Israele (Lc
24, 21), la restaurazione del regno per Israele (Atti 1, 6); per mezzo di Gesù,
Dio è venuto a portare aiuto ad Israele (Lc 1, 54), ad usargli *misericordia (Lc
l, 68), ad accordargli la *conversione e la remissione dei peccati (Atti 5, 31);
Gesù è la *gloria di Israele (Lc 2, 32), il suo *re (Mt 27, 42 par.; Gv 1, 49;
12, 13), il suo *salvatore (Atti 13, 23 s); la nuova speranza fondata sulla sua
*risurrezione non è altro che la speranza stessa di Israele (Atti 28, 20). In
breve, Israele costituisce il legame organico che collega la realizzazione della
salvezza a tutta la storia umana.
2. Il nuovo Israele.
- Tuttavia, con Gesù, il nuovo Israele annunziato dalle promesse
profetiche è apparso in terra. Per farne un’istituzione positiva, Gesù ha scelto
dodici *apostoli, modellando così la sua *Chiesa sull’antico Israele formato da
dodici tribù; i suoi apostoli quindi giudicheranno le dodici tribù di Israele
(Mt 19, 28 par.). Questa Chiesa è l’Israele escatologico a cui Dio riservava la
nuova *alleanza (Ebr 8, 8 ss); in essa si compie il raduno degli *eletti scelti
nelle dodici tribù (Apoc 7, 4); città santa che poggia sul fondamento dei dodici
apostoli, essa ha i nomi delle dodici tribù scritti sulle sue porte (Apoc 21,
12; cfr. Ez 48, 31-34).
3. L’antico Israele ed il nuovo Israele.
- La Chiesa, nuovo Israele, porta quindi a compimento l’antico Israele,
al quale si apparteneva per nascita (Fil 3, 5), e dalla cui cittadinanza erano
esclusi i pagani (Ef 2, 12), ma non basta più ora appartenere a questo «Israele
secondo la carne» (1 Col 10, 18) per far parte dell’Israele di Dio» (Gal 6, 16).
Perché «non tutti i discendenti di Israele sono Israele» (Rom 9, 6). Dinanzi a
Gesù ed al vangelo si opera una scelta (cfr. Lc 2, 34 s): caduta degli uni che,
cercando la *giustizia della legge, si induriscono quando si annunzia loro la
giustizia della fede (Rom 9, 31; 11, 7); rialzamento degli altri, dei «veri
Israeliti» (Gv 1, 47), che costituiscono il *resto di Israele annunziato dalle
Scritture (Rom 9, 27 ss) e sono raggiunti, nel nuovo Israele, dai pagani
convertiti. Non che l’antico Israele sia definitivamente rigettato; ma nel
momento in cui si manifestava la sua incomprensione del vangelo, Dio ha voluto
suscitare la sua gelosia (Rom 10, 19). Quando i pagani, nel loro complesso,
saranno convertiti, 1’*indurimento parziale di Israele cesserà, «e così tutto
Israele sarà salvato» (Rom 11, 26): apparterrà di nuovo a quell’Israele
spirituale che, in grazia sua, è entrato nella salvezza.
P. GRELOT
→ alleanza VT - casa II 1.2 - Chiesa II 2, III 2 b - circoncisione -
disegno di Dio NT III 2 - ebreo - Egitto - elezione - eredità VT . I 1 - fede VT
- figlio di Dio VT I - giudeo - incredulità III - legge B - missione VT I 2, II
- nazioni - ombra II 3 - peccato II - popolo - potenza 1 1 - promesse II - regno
VT I, II - scisma VT 2 - servo di Dio II 1.2 - straniero - vite-vigna 2 -
vocazione II.
→ educazione - insegnare - sapienza.