.................
____________________________________________________________
→ circoncisione NT 1 - eresia 2.3 - farisei 2 - legge C III.
Alle soglie del
NT l’appellativo di Giudeo equivale spesso ad *Israelita o ad *Ebreo, quantunque
questi ultimi due termini siano riservati in modo più speciale ad un uso
religioso. Con Paolo e Giovanni, il termine Giudeo trova una reale portata
teologica, il che non è esente dal pericolo di confusione per il lettore non
attento.
I. GIUDEO E PAGANO SECONDO S. PAOLO
Per Paolo, come per i profeti, l’umanità si divide in due gruppi: il
popolo eletto e le *nazioni, «il Giudeo ed il Greco» (Gal 3, 28); con la venuta
di Cristo questa distinzione è nello stesso tempo soppressa e mantenuta.
1. I privilegi del Giudeo.
- Il *nome stesso di Giudeo è un titolo di gloria (Rom 2, 17),
indubbiamente in base all’etimologia del nome di Giuda: «renderò gloria a Jahvè»
(Gen 29, 35) ed in virtù della benedizione di Giacobbe: «ti loderanno i tuoi
fratelli» (49, 8). Ad esso, di fatto, spettano i privilegi della *legge e della
*circoncisione (Rom 2, 17-29). Titolo di fierezza che Paolo rivendica: «Noi
siamo Giudei di nascita e non peccatori nati da pagani (Gal 2, 15); questa
esclamazione aiuta a comprendere la preghiera del Giudeo pio, che ogni giorno
ringrazia Dio di non averlo fatto goj, pagano. Così Paolo, pur essendo
cristiano, si riconosce Israelita (Rom 11, 1; Fil 3, 5). Secondo Luca, egli
proclama solennemente a Gerusalemme: «Io sono Giudeo» (Atti 22, 3), precisamente
come si dice Israelita (Rom 11, 1; Fil 3, 5) e Apollo, convertito a Cristo, è
designato da Luca come «un Giudeo» (Atti 18, 24). I doni di Dio sono grandi
sotto tutti gli aspetti, ma nobiltà obbliga! Paolo accusa il Giudeo di non
praticare la legge che insegna agli altri, e, in definitiva, invece di far
lodare Dio, di far *bestemmiare il suo nome tra le nazioni (Rom 2, 17-24); il
privilegio della *circoncisione non ha valore se non si è circoncisi di cuore,
come esigevano i profeti (Ger 4, 4; Deut 30, 6; Lev 26, 41). Il Giudeo incredulo
è Giudeo soltanto in apparenza (Rom 2, 28), usurpa questo nome glorioso (Apoc 2,
9; 3, 9). Il cristiano è il vero circonciso (Fil 3, 2), il «Giudeo internamente»
(Rom 2, 29). Al termine della requisitoria di Paolo, i privilegi del Giudeo
sembrano aboliti: tutti sono ugualmente peccatori (3, 10).
2. Il pagano convertito ed il Giudeo incredulo.
- Tuttavia la situazione rispettiva delle due frazioni dell’umanità è complessa.
Da una parte, è livellata ogni differenza, non soltanto sul piano del peccato,
ma su quello della grazia: «Non c’è più né Giudeo né Greco» (Gal 3, 28), perché
in Cristo non formiamo che un solo essere; la *fede, e non la pratica della
legge, è fonte della *giustizia (cfr. Col 3, 11). In queste condizioni può
compiersi la *riconciliazione delle nazioni, annunziata dai profeti: «Dio è
anche Dio dei pagani» (Rom 3, 29; 10, 12). Dall’altra parte Paolo conserva
gelosamente la priorità del Giudeo nei confronti del pagano, sia per la
punizione che per la ricompensa: «prima al Giudeo, poi al Greco» (Rom 2, 9 s; 1,
16; Mt 15, 24 par.; Atti 13, 46; 18, 6) tribolazione o gloria. La stessa
priorità è ricordata al pagano convertito che fosse tentato di pensare di aver
preso la successione del Giudeo nel disegno di Dio. La «superiorità» del Giudeo
(Rom 3, 1) rimane, perché i doni di Dio sono senza pentimento (11, 29). 1 Giudei
convertiti costituiscono i «rami naturali» dell’olivo, mentre i cristiani di
origine pagana sono stati «innestati contro natura» (11, 24). Anche *indurito,
*Israele ha un compito nella Chiesa di Cristo: costituisce un «difetto» che deve
far «provare una grande tristezza ed un dolore incessante al cuore» di ogni
fedele (9, 2).
II. IL GIUDEO INCREDULO SECONDO S. GIOVANNI
I vangeli parlano dei Giudei contemporanei di Gesù, sia il quarto che
gli altri (ad es. Gv 3, 1; 12, 9). Tuttavia, al tempo in cui Giovanni scriveva,
la Chiesa e la sinagoga costituiscono due comunità nettamente separate; il
problema della Chiesa nascente alle prese con i Giudei non esiste più, se non
nel quadro generale dell’*incredulità del mondo nei confronti di Cristo. Per lo
più il termine Giudeo non è una designazione etnica, ma un vocabolo teologico a
base storica. Si tratta in prima linea dei Giudei che crocifissero Gesù, ma più
profondamente, attraverso ad essi, di tutti gli increduli. Diversi indizi fanno
vedere che Giovanni tende a fare del Giudeo il «tipo» dell’incredulo, una
categoria del pensiero religioso. Nel suo vangelo si parla delle usanze e delle
feste giudaiche come proprie di un popolo straniero (Gv 2, 6. 13; 5, 1; 6, 4; 7,
2...); a differenza di Nicodemo (7, 51), Gesù parla ai Giudei come ad estranei
(8, 17; 10, 34; cfr. 7, 19. 22); ordinariamente il termine designa avversari di
Gesù (2, 18. 20; 5, 16. 18; 6, 41 ...); e, viceversa, chiunque appartiene a Gesù
o si preoccupa veramente di lui è trattato da nemico dei Giudei, anche se è di
origine giudaica (5, 15; 7, 15 confrontato con 7, 11; 1, 19). «I Giudei»
finiscono per essere, sotto la penna di Giovanni, un tipo della incredulità, il
che implica un pericolo di utilizzazione antisemita del quarto vangelo. Una
simile interpretazione non è certo convalidabile. Nella misura in cui si tratta
dei Giudei che parteciparono alla crocifissione di Gesù, questi sono stati
sostituiti dal *mondo, diventato a sua volta persecutore dei discepoli di
Cristo. Come Gesù è stato costituito giudice dei Giudei (19, 13) che non hanno
voluto riconoscerlo come loro re (19, 14. 19-22), così il cristiano deve
giudicare il mondo che lo vuole giudicare: per questo sente continuamente la
testimonianza del *Paraclito, il difensore di Gesù.
X. LÉON-DUFOUR
→ circoncisione - ebreo - elezione - farisei 2 - incredulità III -
Israele VT 2 b - nazioni - popolo - straniero I.
L’attesa del
ritorno di Cristo come giudice dei vivi e dei morti fa parte del Credo
cristiano: ogni uomo comparirà dinanzi a lui per rendere conto dei suoi atti. Il
tema non è eccezionale nella storia delle religioni: anche l’Egitto e la Grecia
conoscono un «giudizio dei morti». Ma il modo in cui il NT concepisce questo
giudizio tenuto da Cristo nell’ultimo giorno non si comprende se non in funzione
dello sviluppo anteriore. Nel VT il giudizio di Dio era già un articolo di fede:
la storia ne presentava una quantità di esempi concreti, l’escatologia ne
implicava una splendida realizzazione.
VECCHIO TESTAMENTO
La radice šafat, che significa abitualmente «giudicare», è suscettibile di un
senso largo: il šôfet è il governatore che dirige un popolo (cfr. Dan 9, 12).
Tali erano i sufeti di Cartagine; tali sono i giudici di Israele, dalla
conquista al regno (cfr. Giud 2, 16). Ma una delle funzioni importanti di tutti
i governanti è appunto quella di decidere nelle liti affinché la *giustizia
regni nella società, di pronunziare sentenze (mišpat) che definiscano il
*diritto di ciascuno e, nel caso, lo ristabiliscano se è stato violato,
condannando il violatore. Questa attività giudiziaria, espressa in modo
parallelo dalle radici šafat e dîn, è esercitata da Mosè e dagli anziani che
l’assistono (Es 18, 13-26), da Samuele (1 Sam 7, 16 s; 8, 3), dai re (2 Sam 15,
1-6; 1 Re 3, 16-28), dai magistrati locali e specialmente dai *sacerdoti (Deut
16, 18 ss; 17, 8-13). In pratica, nonostante le regole date nella legislazione,
non sempre i torti sono riparati, i diritti di ciascuno rispettati, la giustizia
esattamente osservata; ma questo rimane l’ideale, che non manca mai al quadro
nei ritratti del re *Messia (Sal 72, 1 s; Is 11, 3 s; Ger 23, 5) e nelle
evocazioni del popolo escatologico (Is 1, 17. 26). Gli scrittori sacri si
ispirano a questa esperienza umana quando parlano di giudizio di Dio.
I. I GIUDIZI DI DIO NELLA STORIA
1. La fede nel giudizio di Dio.
La fede nel giudizio di Dio è un dato fondamentale, che non viene mai messo in
dubbio. Jahvè ha il governo del mondo, ed in particolare degli uomini. La sua
*parola determina il diritto e fissa le regole della giustizia. Egli «scruta i
reni ed i cuori» (Ger 11, 20; 17, 10), conoscendo così perfettamente i giusti ed
i colpevoli. Avendo d’altronde il controllo degli eventi, egli non può che
indirizzarli in modo che alla fine i giusti sfuggano alla prova ed i malvagi
siano puniti (cfr. Gen 18, 23 ss). A lui quindi si ricorre spontaneamente, come
al supremo giustiziere ed al riparatore dei torti (Gen 16, 5; 31, 49; 1 Sam 24,
16; Ger 11, 20). A lui si affida la propria causa implorando la sua *vendetta,
non tanto per sentimento di vendetta, quanto per riparare il diritto violato. I
salmi echeggiano degli appelli che i giusti perseguitati gli rivolgono (Sal 9,
20; 26, 1; 35, l. 24; 43, 1; ecc.). Essi ora lo celebrano perché giudica tutta
la terra (1 Sam 2, 10; Sal 67, 5), ora gli fanno pressione affinché agisca per
ovviare alle ingiustizie dei giudici umani (Sal 82).
2. L'esperienza storica.
D’altronde l’esperienza storica apporta ai fedeli esempi concreti di questo
giudizio divino al quale sono sottoposti tutti gli uomini e tutti i popoli. Al
tempo dell’*esodo, Dio ha «giudicato l’Egitto», cioè ha castigato l’oppressore
di Israele, a cui voleva dare la libertà (Gen 15, 14; Sap 11, 10). I *castighi
di Israele nel deserto, segni tangibili dell’*ira divina, sono tutti sentenze
giudiziarie emanate contro un popolo infedele. Lo sterminio dei Cananei al tempo
della conquista ne è un altro esempio, che fa vedere ad un tempo il rigore e la
moderazione dei giudizi divini (Sap 12, 10-22). E se si risale nel tempo, si
ritrova una decisione del Dio giudice all’inizio di tutte le catastrofi che si
abbattono sull’umanità colpevole: al tempo della rovina di Sodoma (Gen 18, 20;
19, 13), del diluvio (Gen 6, 13), del peccato originale (Gen 3, 14-19)... Il
giudizio di Dio costituisce quindi una minaccia permanente, sospesa sugli
uomini, non nell’al di là, ma nella storia. Nessun peccatore vi potrebbe
sfuggire.
II. IL GIUDIZIO ESCATOLOGICO
1. Il ricordo della minaccia del giudizio, l’annuncio della sua
realizzazione imminente, fanno parte dei temi profetici essenziali. Dio tiene
*processo al suo popolo: lo cita al suo tribunale, pronunzia una sentenza che si
prepara ad eseguire (Is 3, 13 ss). L’idea è soggiacente a tutti gli oracoli di
castigo (cfr. Is 1, 24 s; 5, 5 s). A partire dal tempo di Amos, essa trasforma
l’attesa del *giorno di Jahvè in prospettiva di spavento (Am 5, 18 ss). Israele,
sposa infedele, sarà giudicata secondo il diritto che si applica ai casi di
adulterio (Ez 16, 38; 23, 24); i suoi figli saranno giudicati secondo la loro
condotta e le loro opere (36, 19). Se questa visione del futuro sembra fosca,
non si deve tuttavia dimenticare che Dio, eseguendo il suo giudizio, discernerà
la causa dei giusti da quella dei colpevoli: egli non mira che a castigare gli
uni per liberare gli altri (Ez 34, 17-22). Nel suo popolo un *resto di giusti
sfuggirà quindi al giudizio. D’altronde le sue sentenze non riguardano soltanto
Israele: tutti i popoli vi sono soggetti, come attesta già Amos con uno stile
strettamente giudiziario (Am 1, 3 - 2, 3) che si ritroverà fino in Ezechiele
(25, 1- 17). Geremia delinea un quadro generale di questo giudizio delle
*nazioni (Ger 25, 30-38). Dietro l’annunzio di queste catastrofi future bisogna
leggere l’attesa di eventi storici che sul piano sperimentale indicheranno la
ripulsione di Dio per il *peccato umano. La prima di esse sarà la rovina di
Gerusalemme e la dispersione di Israele.
2. Nei profeti postesilici, i cui modi di esprimersi si
evolvono in direzione dell’apocalittica, l’evocazione di un giudizio finale, che
coinvolge i peccatori di tutto il mondo e tutte le collettività ostili a Dio ed
al suo popolo, costituisce il preludio obbligatorio degli oracoli di *salvezza.
Dio giudicherà il mondo mediante il *fuoco (Is 66, 16). Radunerà le nazioni
nella valle di Josafat («Dio-giudica»): allora saranno la *messe e la *vendemmia
escatologiche (Gioe 4, 12 ss). Con immagini allucinanti il libro di Daniele
descrive questo giudizio che verrà a chiudere il tempo e ad aprire il regno
eterno del *figlio dell’uomo (Dan 7, 9-12. 26). Qui l’escatologia va oltre la
terra e la storia. Lo stesso vale per il libro della Sapienza, dove si vedono i
giusti e gli empi comparire insieme per rendere i conti (Sap 4, 20 - 5, 23).
Allora soltanto i peccatori dovranno tremare, perché i giusti saranno protetti
da Dio stesso (4, 15 s; cfr. 3, 1-9), í santi dell’altissimo parteciperanno al
regno del figlio dell’uomo (Dan 7, 27). Così la sentenza emessa da Dio contro
l’umanità peccatrice non si attua soltanto in giudizi particolari che colpiscono
individui e nazioni nel corso della storia, ma terminerà in un confronto finale
che costituirà il giudizio per eccellenza, quando giungerà il *giorno di Jahvè.
3. Bisogna tener presente alla mente questa prospettiva
profetica quando si leggono i salmi postesilici. L’appello di Dio giudice vi
appare più di una volta come un’istanza destinata ad affrettare l’ora del
giudizio finale: «Sorgi, o giudice della terra! Rendi la loro mercede agli
orgogliosi!» (Sal 94, 2). E si canta in anticipo la gloria di queste assise
solenni (Sal 75, 2-11; 96, 12 s; 98, 7 ss), nella certezza che Dio renderà
finalmente giustizia ai suoi poveri che soffrono (Sal 140, 13 s). Così il
giudizio è atteso con *speranza dagli oppressi, vittime degli empi, da Israele,
schiavo dei pagani. Nonostante tutto esso rimane un’eventualità spaventosa: «Non
entrare in giudizio con il tuo servo, perché nessun vivente è giustificato
dinanzi a te!» (Sal 143, 2). Ogni uomo è peccatore, e come immaginare senza
spavento il confronto tra il peccatore e Dio? Chi potrà sfuggire al giudizio, se
non per un effetto della *misericordia divina?
NUOVO TESTAMENTO
Nel giudaismo contemporaneo a Gesù, l’attesa del giudizio di Dio, nel senso
escatologico del termine, era un fatto generale, quantunque la sua
rappresentazione concreta non fosse uniforme e coerente. Alle soglie del
vangelo, Giovanni Battista vi fa appello quando minaccia i suoi uditori
dell’*ira ventura e fa loro pressione affinché ricevano il suo *battesimo in
segno di *penitenza (Mt 3, 7-12 par.). Pur ricollegandovisi strettamente, la
*predicazione di Gesù, e poi quella degli apostoli, ne modificano seriamente i
dati, perché, a partire dal momento in cui Gesù appare nel mondo, gli ultimi
*tempi sono inaugurati: il giudizio escatologico è già in atto, quantunque
occorra attendere il ritorno glorioso di Cristo per vederlo compiersi
pienamente.
I. IL GIUDIZIO NEI VANGELI
1. Nei Sinottici.
Nei sinottici, la predicazione di Gesù si riferisce frequentemente al giudizio
dell’ultimo giorno. Allora tutti gli uomini dovranno rendere conti (cfr. Mt 25,
14-30). Una condanna rigorosa attende gli scribi ipocriti (Mc 12, 40 par.), le
città del lago che non hanno ascoltato la predicazione di Gesù (Mt 11, 20-24),
la *generazione incredula che non si è convertita alla sua voce (12, 39-42), le
città che non accoglieranno i suoi inviati (10, 14 s). Il giudizio di Sodoma e
Gomorra non sarà nulla in confronto al loro (10, 23 s); essi subiranno il
giudizio della Geenna (23, 33). Questi insegnamenti pieni di minacce mettono in
rilievo la motivazione principale del giudizio divino: l’atteggiamento assunto
dagli uomini di fronte al vangelo. L’atteggiamento verso il *prossimo conterà
altrettanto: secondo la legge mosaica, ogni omicida era passibile di tribunale
umano; secondo la legge evangelica, occorrerà molto meno per essere passibili
della Geenna (Mt 5, 21 s)! Bisognerà rendere conto di ogni calunnia (12, 36). Si
sarà giudicati con la stessa misura che si sarà applicata al prossimo (7, 1-5).
Ed il quadro di queste assise solenni, in cui il figlio dell’uomo funzionerà da
giustiziere (25, 31-46), mostra gli uomini accolti nel *regno o consegnati alla
pena eterna, secondo l’amore o l’indifferenza che avranno dimostrato verso il
prossimo. C’è tuttavia un delitto che, più di qualunque altro, chiama il
giudizio divino. È quello con cui l’incredulità umana ha raggiunto il colmo
della malizia in un simulacro di giudizio legale: il *processo e la condanna a
morte di Gesù (Mc 14, 63 par.; cfr. Lc 24, 20; Atti 13, 28). Durante questo
giudizio iniquo, Gesù si è rimesso a colui che giudica con giustizia (1 Piet 2,
23); quindi Dio, risuscitandolo, lo ha ristabilito nei suoi diritti. Ma
l’esecuzione di questa sentenza ingiusta ha richiesto, in cambio, una sentenza
di Dio contro l’umanità colpevole. È sintomatico il fatto che la cornice, in cui
il vangelo di Matteo colloca la morte di Gesù, coincide con lo scenario
tradizionale del giudizio nell’escatologia del VT (Mt 27, 45. 51 ss). La morte
di Gesù è quindi il momento in cui il mondo è giudicato; la storia successiva,
fino all’ultimo giorno, non farà che esplicitare questa sentenza. Essa, secondo
la testimonianza di Gesù stesso, colpirà dapprima «coloro che sono in Giudea», i
primi colpevoli (24, 15 ss par.); ma questo non sarà che un preludio ed un
segno, che annunzierà l’avvento finale del *figlio dell’uomo, giudice del grande
giorno (24, 29 ss). Il condannato della passione, vittima del peccato del mondo,
pronunzierà allora contro il mondo peccatore una condanna clamorosa.
2. Il vangelo di Giovanni.
Il vangelo di Giovanni sviluppa questa teologia insistendo sulla attualizzazione
del giudizio entro la storia, a partire dal tempo di Gesù. Non ignora che Gesù,
come *figlio dell’uomo, è stato stabilito dal Padre giudice dell’ultimo giorno (Gv
5, 26-30). Ma, di fatto, il giudizio si realizza fin dal momento in cui il Padre
manda il Figlio suo nel *mondo. Non già che egli sia mandato per giudicare il
mondo: al contrario, viene per salvarlo (3, 17; cfr. 8, 15 s). Ma, secondo
l’atteggiamento che ciascuno assume nei suoi confronti, il giudizio si compie
subito: chi crede non sarà giudicato, chi non crede è già giudicato perché ha
rifiutato la luce (3, 18 ss). Quindi il giudizio non è tanto una sentenza
divina, quanto una rivelazione del segreto dei cuori umani. Coloro le cui *opere
sono malvagie preferiscono le tenebre alla *luce (3, 19 s), e Dio non ha che da
lasciare che questi uomini superbi, che si vantano di vederci chiaro, si
accechino; quanto agli altri, Gesù viene a guarire i loro occhi (9, 39),
affinché, operando nella *verità, essi vengano alla luce (3, 21). Il giudizio
finale non farà altro che manifestare pubblicamente questa distinzione operata
fin d’ora nel segreto dei cuori. Giovanni non è meno attento al significato del
processo e della morte di Gesù. In lui il *processo dura quanto lo stesso
ministero, e Gesù invano si sforza di portare i *Giudei, proseliti di Satana e
del mondo malvagio, a «giudicare con equità» (7, 24). Di fatto, egli sarà
consegnato a Pilato per essere condannato a morte (19, 12-16). Ma la morte di
Gesù significherà il giudizio del mondo e la sconfitta di Satana (12, 31), come
se la sua elevazione sulla croce anticipasse in certo modo il suo ritorno
glorioso come *figlio dell’uomo. A partire da questo momento egli potrà mandare
ai suoi lo *Spirito: il *Paraclito confonderà in modo permanente il mondo,
attestando che il suo principe è già giudicato, cioè condannato (16, 8. 11).
Questo è il modo in cui si realizza il giudizio escatologico annunziato dai
profeti: a partire dal tempo di Cristo esso è un fatto già acquisito,
costantemente presente, di cui si attende soltanto la consumazione finale.
II. IL GIUDIZIO NELLA PREDICAZIONE APOSTOLICA
1. Dai discorsi degli Atti all’Apocalisse, tutti i testimoni
della predicazione apostolica accordano un posto essenziale all’annunzio del
giudizio, che invita alla *conversione: Dio ha fissato un *giorno per giudicare
l’universo con giustizia per mezzo di Cristo che egli ha risuscitato dai morti
(Atti 17, 31; cfr. 24, 25; 1 Piet 4, 5; Ebr 6, 2). Anche dopo la conversione,
l’imminenza costante di questo giudizio (Giac 5, 9: «Il giudice è alle porte»)
detta l’atteggiamento che conviene assumere, perché il giudizio comincerà dalla
casa di Dio prima di estendersi agli empi (1 Piet 4, 17), e Dio giudicherà
ognuno secondo le sue opere senza riguardi personali (1 Piet 1, 17; cfr. Rom 2,
6). Prospettiva spaventosa, che deve far tremare i ribelli (Ebr 10, 27-31; cfr.
Rom 12, 19)! A questo severo giudizio saranno sottoposti i fornicatori e gli
adulteri (Ebr 13, 4), tutti coloro che avranno rifiutato di credere ed avranno
parteggiato per il male (2 Tess 2, 12), gli empi, i falsi dottori ed anche gli
angeli ribelli (2 Piet 2, 4-10), i vescovi cattivi e le vedove infedeli che non
rimangono nello stato di vedovanza (5, 12). In quel giorno d’*ira si rivelerà il
giusto giudizio di Dio (Rom 2, 5), cui non è possibile sfuggire (2, 3) perché
Dio giudicherà anche le azioni segrete degli uomini (2, 16; 1 Cor 4, 4). Sarà
Cristo a svolgere allora la funzione di giudice dei vivi e dei morti (2 Tim 4,
1; cfr. Rom 2, 16; Apoc 19, 11). L’Apocalisse fa un quadro spaventoso di queste
assise finali (Apoc 20, 12 s; cfr. 11, 18; 16, 5...), di cui è preludio nella
storia il giudizio di *Babilonia, la città nemica di Dio (14, 8; 17, 1; 18,
2-24); infatti Dio, accogliendo le richieste dei *martiri che gli domandavano di
giudicare la loro causa (6, 9 s; 18, 20), *vendicherà su Babilonia il sangue dei
suoi servi (19, 2). Infine, al termine del tempo, tutti gli uomini saranno
sottoposti al *fuoco che proverà il valore delle loro opere (1 Cor 4, 5; 2 Piet
3, 7). Quale sarà allora il criterio di questo esame? La *legge mosaica per
coloro che ad essa si appelleranno (Rom 2, 12), la legge scritta nella coscienza
per coloro che non avranno conosciuto che questa (2, 14 s), la legge di libertà
per coloro che hanno ricevuto il vangelo (Giac 2, 12). Ma guai a chi avrà
giudicato il prossimo (Rom 2, 1 ss): sarà egli stesso giudicato secondo la
misura che ha applicato agli altri (14, 10 ss; Giac 2, 13; 4, 11 ss; 5, 12)!
2. In queste descrizioni del giudizio finale bisogna tener
conto delle immagini. Ma la questione più importante è la seguente: se il
giudizio è quale i testi dicono, chi mai vi potrà sfuggire, chi, dunque, si
salverà? Effettivamente l’*ira di Dio si rivela nella storia contro tutta
l’umanità: tutti sono colpevoli dinanzi a lui (Rom 3, 10-20; cfr. 1, 18).
Dall’ingresso del peccato nel mondo per la colpa del primo uomo, un verdetto di
condanna è stato enunciato contro tutti gli uomini (5, 16. 18). Nessuno vi
potrebbe sfuggire per i suoi propri meriti. Ma quando, in conseguenza dei nostri
peccati, è morto Gesù che era il Figlio di Dio venuto nella *carne, Dio ha
condannato il *peccato nella carne per liberarci dal suo giogo (8, 3). Ora
dunque si rivela la *giustizia di Dio, non quella che punisce, ma quella che
*giustifica e *salva (3, 21); tutti meritavano il suo giudizio, ma tutti sono
giustificati gratuitamente, purché credano in Cristo Gesù (3, 24 ss). Per i
credenti non c’è più condanna (8, 1): se Dio li giustifica, chi dunque li
potrebbe condannare (8, 34)? Sotto la legge antica, il ministero di Mosè era un
ministero di condanna, ma quello dei servi del vangelo è un ministero di *grazia
(2 Cor 3, 9) e di *riconciliazione (5, 19 ss). Questo ci dà piena sicurezza nel
giorno del giudizio (1 Gv 4, 17): l’amore di Dio per noi si è già manifestato in
Cristo, sicché non abbiamo più nulla da temere. La minaccia spaventosa del
giudizio non pesa più che sul *mondo malvagio; Gesù è venuto per sottrarci ad
esso.
J. CORBON e P. GRELOT
→ Babele-Babilonia 2.5.6 - battesimo II, IV 1 - calamità 1 - castighi -
coscienza - diluvio - diritto VT 1 - Egitto - figlio dell’uomo - fuoco - giorno
del Signore - giustificazione I - giustizia - guerra VT III 2, IV 2; NT III 1 -
indurimento I 2 a - ira B NT I 1.2, II 1 - maledizione I, V - messe III - mondo
VT III 1; NT III 3 - nazioni VT III 1; NT III 2 a - opere NT I 3 - ora 1 -
Paraclito 3 - parola di Dio NT I 2, II 2, III 2 – penitenza-conversione NT I, IV
2 - processo - profeta VT IV 1 - regno VT III - retribuzione - tempo VT III 1 -
timore di Dio III, IV - vendemmia 2 - vendetta 3.4 - visita.
Nella maggior
parte delle religioni, l’uomo ricorre alla divinità per garantire solennemente
la validità della propria *parola; sia che si tratti di una promessa di cui
vuole assicurare l’adempienza, sia che si tratti di un’affermazione della cui
*verità pretende di dare piena assicurazione.
VECCHIO TESTAMENTO
1. In tutte le epoche del VT, gli uomini si scambiano
giuramenti, sia per allacciare alleanze (Gen 21, 22-32; 31, 44-54), sia per
garantire l’irrevocabilità delle loro *promesse (Gen 24, 2-4; 47, 29) e delle
loro decisioni (1 Sam 4, 44; 25, 22). Il giuramento garantisce inoltre la
veridicità di un’affermazione nelle relazioni correnti (Giud 8, 19; 1 Sam 20,
3), nelle inchieste giuridiche (Es 22, 7. 10), nelle predizioni dei profeti (1
Re 17, 1; cfr. Dan 12, 7). Questo ricorso alla garanzia di Dio assume a volte la
forma di un appello alla sua sanzione in caso di spergiuro: «Jahvè mi è
testimone: guai a me se... (soprattutto anticamente: Gen 24, 37; Giud 11, 10; 1
Sam 14, 24. 48).
2. È comprensibile che Israele abbia spesso attribuito dei
giuramenti a Jahvè stesso: per concludere la sua alleanza (Deut 4, 31; 7, 8);
garantirne le promesse (Gen 22, 16; 26, 3), annunciarne il giudizio (Num 14, 21;
Am 4, 2; 6, 8), sottolineare l’autorità della sua parola (Ez 20, 3; 33, 11). La
sua formula abituale è allora: «lo sono vivo». Dio non può basare che su se
stesso la propria parola.
3. Malgrado il valore assicurato al giuramento dalla presenza e
dall’autorità del giusto Giudice, si verificano sempre degli spergiuri. Il
decalogo li condanna (Es 20, 7) e i profeti non si stancheranno di denunciarli (Os
4, 2; Ger. 5, 2; 7, 9; Ez 17, 13-19; Mal 3, 5). Dopo l’esilio, si acquista
sensibilità a un altro abuso: la frequenza dei giuramenti che utilizzano Dio a
servizio dei più sordidi interessi moltiplicando i rischi di spergiuro (Eccle 5,
1; Eccli 23, 9-11; Qumrân). L’avvertimento dei sapienti non equivale a un
rifiuto del giuramento, ma dimostra una più acuta intelligenza del suo valore, e
invita a riservarlo per le occasioni solenni.
NUOVO TESTAMENTO
1. Il pensiero di Gesù appare sfumato. Non ricorre mai al giuramento
per garantire la autorità della propria dottrina; si limita a introdurre le sue
affermazioni più solenni con la formula consuetudinaria: «*Amen, io ve lo
dichiaro». D’altronde, nel discorso della montagna, prescrive ai suoi di
astenersi dai giuramenti (Mt 5, 33-37): l’uomo non dovrebbe giurare su quanto è
di proprietà di Dio, in quanto non ne è lui il padrone; e la parola dei
discepoli non ha bisogno di cercare altra garanzia all’infuori della sincerità
fraterna. Tuttavia Gesù si scaglia con forza contro la casistica lassista degli
scribi, che propongono espedienti per attenuare il rigore del giuramento (Mt 23,
16-22); di fronte al sinedrio, accetta di rispondere al sommo sacerdote che lo
scongiura, cioè gli deferisce il giuramento (Mt 26, 63): in questa solenne
circostanza, in cui proclama di fronte all’autorità legittima la propria
missione, Gesù riconosce implicitamente il valore del giuramento.
2. Paolo, che condanna gli spergiuri (1 Tim 1, 10), non
utilizza mai le formule biasimate da Gesù né quelle in uso nel giudaismo.
Tuttavia fa volentieri ricorso alla garanzia divina nelle affermazioni che gli
stanno particolarmente a cuore. Prende Dio a *testimone del proprio disinteresse
(1 Tess 2, 5. 10; 2 Cor 1, 23), della propria sincerità (Gal 1, 20), del proprio
amore per i fedeli (2 Cor 11, 11; Fil 1, 8; Rom 1, 9). Si direbbe che in lui il
precetto di Gesù concernente i giuramenti corregga già le abitudini giudaiche.
3. Gli altri autori del NT manifestano la stessa discrezione di
Gesù. La lettera di Giacomo (Giac 5, 12) interpreta a suo modo l’insegnamento di
Gesù in Mt 5, 33-37; ma la lettera agli Ebrei (6, 16) riconosce il valore del
giuramento. Quanto ai giuramenti attribuiti a Dio, essi vengono ricordati più
volte nel NT (Atti 2, 20; Ebr 3, 11 ss; 6, 13 ss; 7, 20 ss), soprattutto quando
si tratta di giuramenti di portata messianica. Tutto sommato, il NT trasmette il
pensiero di Gesù sulla sincerità che tra gli uomini si impone, sul rispetto
dell’onore divino e sulla gravità dei casi ai quali bisogna riservare il
giuramento.
A. GEORGE
→ alleanza - amen 1 - anatema NT - menzogna - parola umana 1 - promessa I -
testimonianza – verità.
→ giuramento - parola umana 1.
→ apostoli II 1 - autorità NT II 1.3 - Chiesa III 2 c - ministero II.
→ David - Maria 0, II 4, III 2.
Essere
giustificato significa normalmente far trionfare la propria causa su quella di
un avversario, far rifulgere il proprio *diritto. Ma non è necessario che ciò
avvenga in tribunale, né che l’avversario sia un *nemico. Il campo della
giustizia è incomparabilmente più vasto di quello della legge e persino di
quello dei costumi. Ogni relazione umana esige la sua *giustizia, la sua norma
propria: rispettarla significa trattare tutti coloro con cui si viene a contatto
con quella sfumatura esatta che conviene ad ognuno e che non è determinata
soltanto dall’esterno, dal posto che egli occupa nella società e dal modo in cui
agisce, ma anche, e più profondamente, dal suo stesso essere, dai suoi doni e
dai suoi bisogni. Essere giusto significa trovare nei confronti di ciascuno
l’atteggiamento esatto che ci vuole; essere giustificato significa, in caso di
*prova o di dibattito, dimostrare non tanto la propria innocenza, quanto
piuttosto la correttezza di tutto il proprio comportamento, significa far
risaltare la propria giustizia.
I. ESSERE GIUSTIFICATO DI FRONTE A DIO
Voler essere giustificato di fronte a Dio, pretendere di aver ragione contro di
lui, sembra una cosa impensabile. Ben lungi dall’osare un simile tentativo,
l’uomo teme soprattutto che Dio stesso prenda l’iniziativa d’una discussione,
prevedendone l’esito fatale: «Non entrare in giudizio con il tuo servo, perché
giusto non può dirsi al tuo cospetto nessuno dei viventi» (Sal 143, 2), poiché,
«se tu guardi le colpe,... chi potrà resistere?» (Sal 130, 3). La sapienza sta
nel *confessare il proprio peccato, lasciando poi in silenzio che Dio faccia
rifulgere la sua giustizia: «Tu sei giusto quando sentenzi» (Sal 51, 6). In
fondo non è cosa strana che l’uomo non sia mai giustificato di fronte a Dio;
piuttosto è strano che egli possa concepirne l’idea e che la Bibbia non sembri
considerarla mostruosa. Giobbe, pur sapendo che «l’uomo non può aver ragione con
Dio» (Giob 9, 2), che «[Dio] non è un uomo...» e che è «impossibile discutere
con lui, andare insieme in giudizio» (9, 32), non può tuttavia rinunciare ad
«esporre la sua causa, cosciente d’aver ragione» (13, 18 s). Dal momento che Dio
è giusto, Giobbe non ha nulla da temere dal confronto in cui «Dio riconoscerebbe
nel suo avversario un uomo giusto» e Giobbe «andrebbe assolto» (23, 7). Difatti,
Dio stesso, pur riducendo Giobbe al silenzio, pur convincendolo di stoltezza e
di sventatezza (38, 2; 40, 4), non gli dà torto sul punto fondamentale. E nella
*fede di *Abramo riconosce un atto con cui questi, senza evidentemente
acquistare vantaggio su di lui, risponde almeno esattamente a tutte le sue
aspettative (Gen 15, 6). Il VT pone quindi la giustificazione dell’uomo di
fronte a Dio come un’ipotesi irrealizzabile e nello stesso tempo come una
situazione per la quale l’uomo è fatto. Dio è giusto: ciò vuol dire che non ha
mai torto e che nessuno può discutere con lui (Is 29, 16; Ger 12, 1), ma vuol
forse anche dire che, sapendo di qual fango ci ha impastati e per quale
*comunione ci ha creati, egli non rinuncia, proprio in nome della sua giustizia
e per riguardo alla sua creatura, a renderla capace di essere davanti a lui
esattamente ciò che deve essere, giusta.
II. GIUSTIFICATI IN GESÙ CRISTO
1. L’impotenza della legge.
- Il legalismo giudaico in cui fu educato il *fariseo Paolo credeva, se non
proprio di conseguire ciò che forse il VT fa presentire, almeno di dovervi
tendere: poiché la *legge è l’espressione della *volontà di Dio ed è alla
portata dell’uomo (cfr. Deut 30, 11 - infatti, alla portata della sua
intelligenza: intelligibile e facile da conoscere), basta che l’uomo la osservi
integralmente per potersi presentare davanti a Dio ed essere giustificato.
L’errore del fariseo non sta in questo sogno di poter trattare Dio secondo la
giustizia, come merita di essere trattato; sta nell’illusione di credere di
potervi giungere con le proprie risorse, di voler trarre da se stesso
l’atteggiamento che raggiunge Dio e che Dio attende da noi. Questa perversione
essenziale del cuore, che vuole avere «il diritto di gloriarsi di fronte a Dio»
(Rom 3, 27), si traduce in un errore fondamentale nell’interpretazione
dell’*alleanza, che dissocia la legge dalle promesse, scorgendo nella legge il
mezzo di essere giusto di fronte a Dio e dimenticando che questa stessa *fedeltà
non può essere se non *opera di Dio, attuazione della sua *parola.
2. Gesù Cristo.
- Ora Gesù Cristo fu realmente «il giusto» (Atti 3, 14); fu davanti a
Dio esattamente ciò che Dio attendeva, il *servo nel quale il Padre poté
finalmente compiacersi (Is 42, 1; Mt 3, 17); seppe sino alla fine «compiere ogni
giustizia» (Mt 3, 15) e morì affinché Dio fosse glorificato (Gv 17, 1. 4), cioè
apparisse dinanzi al mondo in tutta la sua grandezza ed il suo merito, degno di
tutti i sacrifici e capace d’essere amato più d’ogni altra cosa (Gv 14, 31). In
questa morte, che sembrò quella di un reprobo (Is 53, 4; Mt 27, 43-46), Gesù
trovò in realtà la sua giustificazione, il riconoscimento da parte di Dio
dell’opera compiuta (Gv 16, 10), che questi proclamò *risuscitandolo e
mettendolo nel pieno possesso dello *Spirito Santo (1 Tom 3, 16).
3. La grazia.
- Ma la risurrezione di Gesù Cristo ha come scopo la «nostra giustificazione»
(Rom 4, 25). Ciò che la legge non poteva operare, anzi presentava come
categoricamente escluso, ci viene donato dalla *grazia di Dio, nella *redenzione
di Cristo (Rom 3, 23 s). Questo dono non è un semplice «come se», una
condiscendenza indulgente con cui Dio, vedendo il suo Figlio unico perfettamente
giustificato dinanzi a sé, accetterebbe di considerarci come giustificati, per i
nostri legami con lui. Per designare un semplice verdetto di grazia e di
assoluzione, Paolo non avrebbe usato la parola giustificazione, che significa
invece il riconoscimento positivo del diritto contestato, la conferma della
giustezza della posizione presa. Non avrebbe attribuito l’atto con cui Dio ci
giustifica alla sua giustizia, ma alla sua pura *misericordia. Ora la verità è
questa: Dio, in Cristo, «ha voluto mostrare così la sua giustizia... ed essere
giusto col giustificare chi si fonda sulla fede in Gesù» (Rom 3, 26). 4. Figli
di Dio. - Evidentemente Dio manifesta la sua giustizia in primo luogo verso il
*Figlio suo «consegnato per i nostri peccati» (Rom 4, 25), il quale con la sua
*obbedienza e la sua giustizia ha meritato per una moltitudine di uomini la
giustificazione e la giustizia (Rom 5, 16-19). Ma se Dio concede a Gesù Cristo
di meritare la nostra giustificazione, ciò non vuol dire soltanto che
acconsente, per riguardo verso di lui, a trattarci come giusti: vuol dire che in
Gesù Cristo ci rende capaci di assumere l’atteggiamento esatto che egli attende
da noi, di trattarlo com’egli merita, di rendergli effettivamente la giustizia
alla quale egli ha diritto, in una parola di essere realmente giustificati di
fronte a lui. Così Dio è giusto verso se stesso, non rinunciando in nulla
all’onore ed alla *gloria cui ha diritto, ed è pure giusto verso le creature,
alle quali concede per pura grazia, ma per una grazia che le tocca nel più
intimo del loro essere, di trovare verso di lui l’atteggiamento giusto, di
trattarlo da *Padre quale egli è, di essere cioè realmente suoi figli (Rom 8, 14
- 17; 1 Gv 3, 1 s).
III. GIUSTIFICATI MEDIANTE LA FEDE
Questa rigenerazione interiore con la quale Dio ci giustifica non ha nulla di
una trasformazione magica; si compie realmente in noi, nei nostri atti e nelle
nostre reazioni, ma spogliandoci dell’attaccamento a noi stessi, della nostra
propria storia (cfr. Gv 7, 18) ed unendoci a Gesù Cristo nella *fede (Rom 3, 28
ss). Credere in Gesù Cristo è infatti riconoscere in lui colui che il Padre ha
inviato, è aderire alle sue parole, è rischiare tutto per il suo *regno, è
«accettare di perdere tutto... per poter guadagnare Cristo», di sacrificare «la
propria giustizia, quella che deriva dalla legge», per ricevere «la giustizia...
che deriva da Dio, fondata sulla fede» (Fil 3, 8 s). Credere in Gesù Cristo, è
«conoscere l’amore che Dio ha per noi» e confessare che «Dio è *amore» (1 Gv 4,
16), è penetrare nel più intimo del suo *mistero, e essere giusto.
J. GUILLET
→ fede NT III 2 - empio NT 2 - giudizio VT II 3; NT II 2 - giustizia -
grazia VI - legge B III 5; C III 1 - opere NT II 1 - peccato III 3, IV 3 a c -
perdono II 2 - predestinare 2 - processo - riconciliazione I 2.
Il termine
giustizia evoca anzitutto un ordine giuridico: il giudice amministra la
giustizia facendo rispettare l’usanza o la *legge. La nozione morale è più
ampia: la giustizia rende a ciascuno ciò che gli è dovuto, anche se questo non è
fissato dall’usanza o dalla legge; nel diritto naturale l’obbligo di giustizia
si riduce in definitiva ad una eguaglianza realizzata dallo scambio o dalla
distribuzione. In senso religioso, cioè quando si tratta dei rapporti tra l’uomo
e Dio, il vocabolario della giustizia non conosce, nelle nostre lingue, che
applicazioni limitate. Senza dubbio è cosa corrente l’evocare Dio come giusto
giudice, ed il chiamare *giudizio l’ultimo confronto tra l’uomo e Dio. Ma
quest’uso religioso delle parole di giustizia appare singolarmente ristretto nei
confronti del linguaggio della Bibbia. Benché affine a parecchi altri termini
(rettitudine, santità, dirittura, perfezione, ecc.), il termine è al centro di
un gruppo di vocaboli ben delimitato, tradotto regolarmente nelle nostre lingue
con giusto, giustizia, giustificare, *giustificazione (ebr. sdq; gr. dìkaios).
Secondo una prima corrente di pensiero, presente in tutta la Bibbia, la
giustizia è la *virtù morale che noi conosciamo, estesa fino a designare
l’osservanza integrale di tutti i comandamenti divini, ma sempre concepita come
un titolo da far valere come giustizia dinanzi a Dio. correlativamente Dio si
rivela giusto in quanto è un modello di integrità, anzitutto in quella funzione
giudiziaria che è il governo del popolo e degli individui, poi come Dio della
*retribuzione che punisce o ricompensa secondo le opere. Questo è l’oggetto di
una prima parte: la giustizia nella prospettiva del giudizio. Un’altra corrente
del pensiero biblico, o forse una visione più profonda dell’ordine che Dio vuol
far regnare nella sua creazione, dà alla giustizia un senso più largo ed un
valore più immediatamente religioso. L’integrità dell’uomo non è mai se non
l’eco ed il frutto della giustezza sovrana di Dio, della meravigliosa
delicatezza con cui egli dirige l’universo e colma di favori le sue creature.
Questa giustizia di Dio, che l’uomo percepisce mediante la *fede, coincide in
definitiva con la sua misericordia e designa, al pari di essa, ora un attributo
divino, ora i doni concreti della *salvezza che questa generosità effonde.
Questo allargamento del senso ordinario della nostra parola giustizia è
certamente percepibile nelle versioni moderne della Bibbia, ma rientra nel
linguaggio ieratico limitato al vocabolario tecnico della teologia; leggendo Rom
3, 25, il cristiano, anche colto, sospetta forse che la giustizia rivelata da
Dio in Gesù Cristo è esattamente la sua giustizia salvifica, cioè la sua
*fedeltà misericordiosa? La seconda parte esporrà questa concezione
specificamente biblica: la giustizia nella prospettiva della *misericordia.
A. LA GIUSTIZIA ED IL GIUDIZIO
I. LA GIUSTIZIA UMANA
VECCHIO TESTAMENTO
1. La giustizia nella città.
- Già l’antica legislazione israelitica esige dai giudici l’integrità
nell’esercizio della loro funzione (Deut 1, 16; 16, 18. 20; Lev 19, 15. 36).
Così pure i proverbi più antichi celebrano la giustizia del re (Prov 16, 13; 25,
5). In testi analoghi, il «giusto» è l’avente diritto (Es 23, 6-8), oppure,
raramente, il giudice integro (Deut 16, 19); questi deve, in ogni caso,
*giustificare l’innocente, cioè assolverlo o reintegrarlo nel suo diritto (Deut
25, 1; Prov 17, 15). I profeti preesilici denunciano sovente e vigorosamente
l’ingiustizia dei giudici, la *cupidigia dei re, l’oppressione dei poveri e, per
questi disordini, annunciano la sventura (Am 5, 7; 6, 12; Is 5, 7. 23; Ger 22,
13. 15). Fanno acquistare coscienza della dimensione morale e religiosa della
ingiustizia; ciò che era visto come semplice violazione di regole o di usanze
diventa oltraggio alla *santità di un Dio personale. Perciò le ingiustizie
esigono ben più delle sanzioni abituali: un *castigo catastrofico preparato da
Dio. Nei rimproveri profetici il giusto è quindi ancora l’avente diritto, ma è
quasi sempre evocato nella sua condizione concreta e nel suo ambiente: questo
innocente è un *povero e una vittoria della *violenza (Am 2, 6; 5, 12; Is 5, 23;
29, 20 s). Ai loro rimproveri i profeti aggiungono sovente l’esortazione
positiva: «praticate il diritto e la giustizia» (Os 10, 12; Ger 22, 3 s).
Soprattutto, coscienti della fragilità della nostra giustizia, essi attendono il
*messia futuro come il principe integro che esercita la giustizia senza
debolezza (Is 9, 6; 11, 4 s; Ger 23, 5; cfr. Sal 45, 4 s. 7 s; 72, 1 ss. 7).
2. La giustizia, fedeltà alla legge.
- Ancor prima dell’esilio la giustizia designa l’osservanza integrale
dei precetti divini, la condotta conforme alla *legge; è ciò che appare in
numerosi proverbi (Prov 11, 4 ss. 19; 12, 28), in diversi racconti (Gen 18, 17
ss) ed in Ezechiele (Ez 3, 16-21; 18, 5-24). Correlativamente il giusto è, negli
stessi contesti, il *pio, il *servo irreprensibile, l’amico di Dio (Prov 12, 10;
passim; Gen 7, 1; 18, 23-32; Ez 18, 5-26). Questa concezione pietistica della
giustizia la si avverte moltissimo, dopo l’esilio, nelle lamentazioni (Sal 18,
21. 25; 119, 121) e negli inni (Sal 15, 1 s; 24, 3 s; 140, 14).
3. La giustizia-ricompensa.
- Per un’evoluzione semantica avvenuta ancor prima del1’esilio, essendo la
condotta conforme alla legge fonte di meriti e di prosperità, il termine
giustizia, che designava questa condotta, viene a significare anche le diverse
ricompense della giustizia. Così il compiere un atto di mansuetudine diventa una
giustizia dinanzi a Jahvè, il che si potrebbe quasi tradurre con merito (Deut
24, 13; cfr. 6, 24 s). In Prov 21, 21, «chi pratica la giustizia e la
misericordia troverà la vita, la giustizia e la gloria», la giustizia menzionata
nella seconda parte del versetto equivale a vita e gloria. Nel Sal 24, 3 ss, la
giustizia ottenuta da Dio non è altro che la benedizione divina che ricompensa
la pietà del pellegrino (cfr. Sal 112, 1. 3. 9; 37, 6).
4. Giustizia, sapienza e bontà.
- Negli ultimi libri del VT si ritrovano, con talune sfumature nuove,
tutti i temi tradizionali già evocati. Alla stretta giustizia, che deve regolare
i rapporti degli uomini tra loro (Giob 8, 3; 35, 8; Eccle 5, 7; Eccli 38, 33),
si aggiunge, in Sap 1, 1. 15, un nuovo aspetto: la giustizia è la *sapienza
messa in pratica. L’influsso greco appare in Sap 8, 7, dove la parola dikaiosyne
ha il senso di stretta giustizia, e dove la sapienza insegna la temperanza e la
prudenza, la giustizia e la *forza, le quattro virtù cardinali classiche. In
taluni testi posteriori la giustizia giunge a designare l’*elemosina. «L’acqua
spegne il fuoco ardente, e l’elemosina espia i peccati» (Eccli 3, 30; Tob 12, 8
s; 14, 9 ss). Di questa evoluzione semantica si può trovare un motivo. Per i
Semiti la giustizia non è un atteggiamento passivo di imparzialità; è un impegno
appassionato del giudice in favore dell’avente diritto, «giustizia» giunge così
a designare il risultato del giudizio, ad es. la liberazione del non colpevole;
questo significato concreto di «beneficio», tutto sommato, annuncia quello di
elemosina. correlativamente, il giusto è un uomo buono e caritatevole (Tob 7, 6;
9, 6; 14, 9), ed «è conveniente che il giusto sia filantropo» (Sap 12, 19).
NUOVO TESTAMENTO
1. Gesù.
- L’esortazione alla giustizia nel senso giuridico della parola non è
al centro del messaggio di Gesù. Nel vangelo non si trovano né regolazione dei
doveri di giustizia, né evocazione insistente di una classe di oppressi, né
presentazione del messia come giudice integro. È facile vedere le ragioni di
questo silenzio: i codici del VT, espressione delle volontà divine, erano pure
lo statuto di una società. Al tempo di Gesù, l’esercizio della giustizia spetta
in parte ai Romani, e Gesù non si è eretto a riformatore sociale od a messia
nazionale. Il difetto più grave dei suoi contemporanei non è più l’ingiustizia
sociale; è un male più specificamente religioso, il formalismo e l’*ipocrisia;
la denuncia del *fariseismo occupa quindi, nella predicazione di Gesù, il posto
principale, che, nei profeti, occupavano le invettive contro l’ingiustizia.
Tuttavia Gesù ha voluto esortare i suoi contemporanei a praticare la giustizia
«ordinaria», ma i testi non ne conservano quasi traccia (Mt 23, 23: il *giudizio
krisis, designa la stretta giustizia). Nel linguaggio di Gesù la giustizia
conserva quindi il senso biblico di *pietà legale. Pur non essendo questo il
centro del messaggio, Gesù non ha paura di definire la vita morale come una vera
giustizia, come una obbedienza spirituale ai comandamenti di Dio. Si distinguono
qui due serie principali di frasi. Le une suonano condanna della falsa giustizia
dei farisei; più ancora dei grandi profeti, il messia denuncia nell’osservanza
ipocrita una religione umana ed orgogliosa (Mt 23). Viceversa, il discorso
inaugurale definisce la vera giustizia, quella dei discepoli (Mt 5, 17-48; 6,
1-18). In tal modo la vita del discepolo, liberata da una concezione stretta e
letterale dei precetti, rimane nondimeno una giustizia, cioè una *fedeltà a
leggi, ma queste, nella loro nuova promulgazione ad opera di Gesù, ritrovano lo
spirito di mosaismo, la pura e perfetta volontà di Dio.
2. Il cristianesimo apostolico.
- Neppur qui la giustizia in senso stretto sta al centro delle preoccupazioni.
Il mondo della Chiesa nascente rassomiglia ancor meno di quello dei vangeli alla
comunità di Israele. I problemi della Chiesa sono anzitutto quelli
dell’*incredulità dei Giudei e dell’*idolatria pagana, più che non le questioni
di giustizia sociale. Tuttavia, quando si presenta l’occasione, la
preoccupazione della giustizia rimane viva (1 Tim 6, 11; 2 Tim 2, 22). Si
ritrova parimenti la giustizia-santità. La *pietà legale di un Giuseppe (Mt 1,
19), di un Simeone (Lc 2, 25), li disponeva a ricevere la rivelazione messianica
(cfr. Mt 13, 17). Scrivendo che Gesù, al momento del battesimo, «compì ogni
giustizia», Matteo sembra annunziare uno dei temi principali del suo vangelo:
Gesù porta a termine la giustizia antica, cioè la religione della *legge (Mt 3,
15). La versione che Matteo dà delle *beatitudini fa vedere nel cristianesimo
una forma rinnovata della pietà giudaica (5, 6. 10): la giustizia che bisogna
desiderare e per la quale bisogna soffrire sembra essere la *fedeltà ad una
regola di vita che rimane una legge. Infine, una particolarità di vocabolario
già osservata nel VT, si ritrova nelle lettere apostoliche, dove a volte la
giustizia designa la ricompensa per le osservanze; la giustizia diventa un
frutto (Fil 1, 11; Ebr 12, 11; Giac 3, 18), una corona (2 Tim 4, 8), è come la
sostanza della vita eterna (2 Piet 3, 13).
II. LA GIUSTIZIA DIVINA
VECCHIO TESTAMENTO
Antichi poemi bellici o religiosi celebrano la giustizia divina in senso
concreto: ora giudizio punitivo contro i nemici di Israele (Deut 33, 21), ora
(specialmente al plurale: le giustizie) liberazioni accordate al popolo eletto (Giud
5, 11; 1 Sam 12, 6 s; Mi 6, 3 s). I profeti riprendono questo linguaggio e lo
approfondiscono. Dio dirige i suoi *castighi - la sua giustizia -, non tanto
contro i nemici del popolo, quanto contro i *peccatori, anche israeliti (Am 5,
24; Is 5, 16; 10, 22...). D’altra parte la giustizia di Dio è anche il *giudizio
favorevole, cioè la liberazione dell’avente diritto (Ger 9, 23; 11, 20; 23, 6);
di qui parimenti l’uso corrispondente di «giustificare» (1 Re 8, 32). Lo stesso
duplice senso si ritrova nelle lamentazioni. L’orante ora supplica che Dio,
nella sua fedeltà, lo voglia liberare (Sal 71, 1 s), ora *confessa che Dio,
castigandolo, ha rivelato la sua incorruttibile giustizia (Dan 9, 6 s; Bar 1,
15; 2, 6) e si è mostrato giusto (Esd 9, 15; Neem 9, 32 s; Dan 9, 14). Negli
inni, com’è naturale, si celebra soprattutto l’aspetto favorevole della
giustizia (Sal 7, 18; 9, 5; 96, 13); il Dio giusto è il Dio clemente (Sal 116, 5
s; 129, 3 s).
NUOVO TESTAMENTO
Al contrario dei profeti e dei salmisti, il NT non fa quasi posto agli
interventi della giustizia giudiziaria di Dio nella vita del fedele o della
comunità. Concentra piuttosto l’attenzione sull’ultimo *giudizio. Va da sé che,
in questo giudizio supremo, Dio si mostra giusto, ma il vocabolario di giustizia
è molto sporadico. E questo perché Gesù, senza tuttavia escludere il vocabolario
tradizionale relativo al giudizio ultimo (Mt 12, 36 s. 41 s), rivela la
*salvezza come un dono divino accordato alla *fede ed all’*umiltà. La Chiesa
apostolica, pur rimanendo fedele a questo linguaggio (Gv 16, 8. 10 s; 2 Tim 4,
8), è tuttavia portata ad insistere sul rigore del giudizio divino. Si può
persino parlare di un ritorno al vocabolario della morale delle *opere (Mt 7,
13-14; 13, 49; 22, 14; Lc 13, 24), e di una certa giustapposizione del tema del
*giudizio al messaggio evangelico della salvezza mediante la fede. Più ancora,
qualcosa di questo irriducibile dualismo si ritrova nello stesso S. Paolo.
Certamente, come si vedrà, la dottrina della *grazia e della *fede si dispiega
qui in tutta la sua ampiezza, ma Paolo continua a parlare in termini giudaici
del giusto giudizio di Dio che renderà a ciascuno secondo le sue opere (2 Tess
1, 5 s; Rom 2, 5).
B. LA GIUSTIZIA E LA MISERICORDIA
I. LA GIUSTIZIA DELL’UOMO
VECCHIO TESTAMENTO
L’identificare la giustizia e l’osservanza della legge costituisce il principio
stesso del legalismo, molto anteriore all’esilio. La legge è la norma della vita
morale, e la giustizia del fedele è per esso un titolo alla prosperità ed alla
gloria. Tanto più importante è quindi mettere in rilievo taluni testi in cui
questa giustizia della legge è dichiarata vana od inoperante. Antichi testi
evocano la conquista della terra promessa con accenti che annunziano già la
concezione paolina della *salvezza mediante la *fede: «Non dire in cuor tuo... A
causa della mia giustizia Jahvè mi ha fatto prendere possesso di questo
paese...» (Deut 9, 4 ss). Nella stessa luce si spiega il famoso passo della
Genesi: «[Abramo] credette a Jahvè e [Jahvè] glielo imputò a giustizia» (Gen 15,
6). Sia che la giustizia indichi qui la condotta gradita a Dio, oppure, secondo
la evoluzione già segnalata, la ricompensa e quasi il merito, in entrambi i casi
la *fede viene celebrata come il mezzo per piacere a Dio. Questo legame
essenziale fra la giustizia e l’abbandono a Dio ci allontana, come ben ha
sottolineato S. Paolo, da una concezione legalista della giustizia. La formula è
citata in 1 Mac 2, 52, e si trova come un’eco di questa concezione particolare
della giustizia in 1 Mac 14, 35, dove la giustizia è la fedeltà che Simone
conservò verso il suo popolo. Infine si può pensare che le interrogazioni
drammatiche di Giobbe, ed il «pessimismo ispirato» di Qohelet, mettendo in
dubbio la dottrina della *retribuzione, preparino gli spiriti ad una rivelazione
più alta. «C’è il giusto che perisce nella sua giustizia...» (Eccle 7, 15; cfr.
8, 14; 9, 1 s). «Come potrebbe l’uomo essere giusto dinanzi a Dio?» (Giob 9, 2;
cfr. 4, 17; 9, 20 ...).
NUOVO TESTAMENTO
1. Gesù.
Il messaggio di Gesù accorda senza dubbio il significato più decisivo alla
*fiducia in Dio che non all’osservanza dei comandamenti; ma, senza deviare in
una direzione nuova il vocabolario di giustizia, Gesù sembra aver dato piuttosto
un senso nuovo ad altri termini quali *povero, *umile, peccatore. È possibile
tuttavia che Gesù abbia chiamato vera giustizia la fede, abbia designato i
peccatori come i veri giusti (cfr. Mt 9, 13), ed abbia definito la
*giustificazione come il *perdono promesso agli umili (Lc 18, 14).
2. S. Paolo.
Paolo, prima della conversione, perseguiva la giustizia della legge (Fil 3, 6).
Questa giustizia è acquisita dall’uomo giusto in proporzione delle sue *opere
buone (Rom 9, 30 s; 10, 3); la si può chiamare una giustizia proveniente dalla
*legge (Rom 10, 5; Gal 2, 21; Fil 3, 9) o dalle opere (Rom 3, 20; 4, 2; Gal 2,
16). La conversione dell’apostolo non è di colpo una rottura completa con queste
concezioni. Tuttavia la disputa di Antiochia segna una svolta decisiva: in Gal
2, 11- 21, Paolo oppone due sistemi di *giustificazione e dà al verbo «essere
giustificato» la sua impronta cristiana. «Noi abbiamo creduto in Cristo Gesù,
per essere giustificati a motivo della fede in Cristo, e non a motivo delle
opere della legge» (Gal 2, 16). Con ciò la nozione di giustizia cambia
completamente. Ormai l’uomo crede in Dio, e Dio lo «giustifica», cioè gli
assicura la salvezza mediante la fede e l’unione con Cristo. Ormai la parola
«giustizia» ed i suoi derivati designeranno le realtà cristiane della *salvezza.
Di fatto la certezza della benevolenza divina è acquistata in modo tangibile: lo
*Spirito (Gal 3, 2), la *vita (2, 19 ss) attestano la giustificazione e nello
stesso tempo la costituiscono. Il centro d’interesse si è spostato dal giudizio
ultimo ad una giustizia considerata come uno stato presente, ma che rimane
d’altronde escatologico, perché anticipa i beni celesti.
II. LA GIUSTIZIA DIVINA
VECCHIO TESTAMENTO
Esercitando la sua giustizia giudiziaria, Dio, per lo più, libera gli oppressi.
Per sé, questa *liberazione rimane nella cornice della giustizia giudiziaria,
ma, essendo vista come un beneficio, offre lo spunto per una concezione più
ricca della giustizia di Dio. D’altra parte il VT ha intravisto che l’uomo non
può acquistare il favore divino con la sua propria giustizia, e che vale più
della. fede per essere graditi a Jahvè; è un secondo appiglio per una concezione
della giustizia di Dio come testimonianza di *misericordia, ed una via di
accesso verso il mistero della giustificazione. Lo sviluppo incomincia molto
presto. - Secondo il Deut, Dio non si accontenta di tutelare il diritto
dell’orfano: ama lo *straniero e gli dà cibo e vesti (Deut 10, 18). In Os 2, 21,
Dio promette di fidanzarsi con il suo popolo «nella giustizia e nel giudizio,
nella grazia e nella tenerezza». Si dà il caso che l’orante delle lamentazioni,
facendo appello alla giustizia divina, si aspetti molto di più che una giusta
sentenza: «nella tua giustizia dammi la *vita» (Sal 119, 40. 106. 123; 36, 11);
più ancora, spera una giustizia che è *perdono del peccato (Sal 51, 16; Dan 9,
16); ora, giustificare il peccatore è un atto paradossale, e perfino contrario
alla dottrina giudiziaria, dove la giustificazione del colpevole è precisamente
la colpa per eccellenza. In parecchi inni del salterio si osserva un paradosso
analogo: Dio manifesta la sua giustizia mediante benefizi gratuiti, talvolta
universali, che superano totalmente ciò che l’uomo è in diritto di attendersi (Sal
65, 6; 111, 3; 145, 7. 17; cfr. Neem 9, 8). In Is 40-66 l’espressione «giustizia
di Dio» assume un rilievo ed una portata che annunziano il grande tema paolino.
In questi capitoli la giustizia di Dio è ora la *salvezza del popolo
prigioniero, ora l’attributo divino di *misericordia o di *fedeltà. Questa
salvezza è un *dono che supera di molto l’idea di liberazione o di ricompensa;
implica la concessione di beni celesti, quali la *pace e la *gloria, ad un
popolo che non ha altro «merito» che quello di essere l’*eletto di Jahvè (Is 45,
22 ss; 46, 12 s; 51, 1 ss. 5. 8; 54, 17; 56, l; 9, 9); tutta la discendenza di
Israele sarà giustificata, cioè glorificata (45, 25). Dio quindi si rivela
giusto nel senso che manifesta la sua misericordia e realizza gratuitamente le
sue *promesse (41, 2. 10; 42, 6. 21; 45, 13. 19 ss).
NUOVO TESTAMENTO
1. Gesù.
- Per esprimere la grande rivelazione della salvezza divina, che la sua
venuta nel mondo realizza, Gesù non parla, come aveva fatto il Deutero-Isaia,
come farà S. Paolo, di una manifestazione della giustizia di Dio, ma ricorre
all’espressione equivalente di *regno dei cieli. Il cristianesimo non paolino,
rimasto vicino al linguaggio di Gesù, con l’espressione «giustizia di Dio» non
ha espresso meglio la rivelazione attuale della *grazia divina in *Gesù Cristo.
2. S. Paolo.
- In compenso, il tema è sviluppato da Paolo con la precisione ben nota. Non
precisamente all’inizio del suo ministero: le lettere ai Tessalonicesi e la
lettera ai Galati non lo menzionano. Il primo messaggio paolino della salvezza,
conforme in questo a tutta la predicazione primitiva, è strettamente
escatologico (1 Tess l, 10). L’accento vi è posto indubbiamente sulla
liberazione più che sull’*ira, ma questa *liberazione è piuttosto l’aspetto
favorevole di un giudizio, e si rimane quindi nella cornice della giustizia
giudiziaria di Dio. Tuttavia le controversie con i giudeo-cristiani avevano
portato Paolo a definire la vera giustizia come una grazia accordata
presentemente. Ciò lo induce, nella lettera ai Romani, a definire questa vita
cristiana come giustizia di Dio: l’espressione ha il vantaggio di conservare
qualcosa del senso escatologico connesso primitivamente alla salvezza ed al
regno, e nello stesso tempo di sottolineare che essa, dovendo opporsi alla
giustizia delle opere, è pure una *grazia presente. La giustizia di Dio è quindi
la grazia divina, per sé escatologica ed anche apocalittica, ma anticipata
realmente e sin d’ora nella vita cristiana. Paolo dirà che la giustizia di Dio
discende dal cielo (Rom 1, 17; 3, 21 s; 10, 3), e viene a trasformare l’umanità;
è un bene che appartiene per essenza a Dio, e diventa nostro senza cessare di
essere una cosa celeste. Nello stesso tempo Paolo sottintende che questa
comunicazione di giustizia è fondata sulla *fedeltà di Dio alla sua *alleanza,
cioè, in definitiva, sulla sua *misericordia. Più di rado questo pensiero si
esprime esplicitamente; di qui il secondo senso paolino di «giustizia» di Dio»:
l’attributo divino della misericordia. È quel che appare in Rom 3, 25 s: «Dio
rivela la sua giustizia nei tempi presenti, in modo da essere giusto e da
giustificare colui che ha fede in Gesù». Ed in Rom 10, 3, le due accezioni sono
accostate: «Misconoscendo la giustizia di Dio [la grazia concessa ai cristiani],
e cercando di stabilire la propria, essi non si sono sottomessi alla giustizia
di Dio [la misericordia]». Il messaggio biblico sulla giustizia presenta un
duplice aspetto. A motivo del giudizio divino che si esercita nel corso della
storia, l’uomo deve «compiere la giustizia»; questo dovere è inteso in modo
sempre più interiore, e termina in un’«adorazione in spirito ed in verità».
Nella prospettiva del disegno di salvezza l’uomo comprende d’altra parte di non
poter acquistare questa giustizia con le sue proprie opere, ma che la riceve
come un dono della grazia. In definitiva la giustizia di Dio non può ridursi
all’esercizio di un giudizio, ma è anzitutto misericordiosa fedeltà ad una
volontà di salvezza; crea nell’uomo la giustizia che esige da lui.
A. DESCAMPS
→ castighi 3 - cercare I, II - coscienza 1 - digiuno 2 - diritto VT 2-3
- fierezza VT 3 - giudizio - giustificazione - grazia II 1.3 - ira B NT II 1 -
legge B III 5; C III 2 - opere VT II 3 - pace - Paraclito 3 - perfezione VT -
persecuzione - pietà - poveri VT II; NT III 3 - processo - retribuzione -
salvezza VT I 2 - santo VT IV 2 - vendetta - verità VT 2; NT 1 - violenza I, III
1, IV 2.3 - virtù e vizi 1 - vittoria VT 3 b; NT 2.
→ Abele - beatitudine VT I 2, II - empio VT 2; NT 1.2 - Gesù Cristo II 1 b - giustificazione - giustizia - inferi e inferno VT II - Noè - persecuzione.
I. LA
GLORIA IN GENERALE
Nella Bibbia ebraica la parola che significa gloria, kabod, implica
l’idea di peso. Il peso di un essere nell’esistenza definisce la sua importanza,
il rispetto che ispira, la sua gloria. Per l’ebraico quindi, a differenza dal
greco e dalle lingue moderne, la storia non indica tanto la fama, quanto il
valore reale, stimato dal suo peso. Le basi della gloria possono essere le
*ricchezze. Abramo è detto «molto glorioso», perché possiede «bestiame, argento
ed oro» (Gen 13, 2). La gloria designa pure l’alta posizione sociale occupata da
una persona, e l’autorità che essa le conferisce. Giuseppe dice ai fratelli:
«Raccontate al padre mio tutta la gloria che io ho in Egitto» (Gen 45, 13).
Giobbe, rovinato ed umiliato, esclama: «Egli mi ha spogliato della mia gloria!»
(Giob 19, 9; 29, 1-20). Con la *potenza (Is 8, 7; 16, 14; 17, 3 s; 21, 16; Ger
48, 18), la gloria implica la irradiazione. Designa lo splendore della bellezza.
Si parla della gloria delle vesti di Aronne (Es 28, 2. 40), della gloria del
tempio (Agg 2, 3. 7. 9) o di Gerusalemme (Is 62, 2), della «gloria del Libano» (Is
35, 1 s; 60, 13). La gloria è, per eccellenza, l’appannaggio del re. Con la sua
ricchezza e la sua potenza essa dice lo splendore del suo regno (1 Cron 29, 28;
2 Cron 17, 5). Salomone riceve da Dio «ricchezza e gloria come nessuno tra i re»
(1 Re 3, 9-14; cfr. 6, 29). L’uomo, re nella creazione, è «coronato di gloria»
da Dio (Sal 8, 6).
II. CRITICA DELLA GLORIA UMANA
Il VT ha visto la fragilità della gloria umana: «Non temere quando l’uomo si
arricchisce, quando cresce la gloria della sua casa. Alla morte non può portar
via nulla, con lui non discende la sua gloria» (Sal 49, 17 s). La Bibbia ha
saputo collegare la gloria a valori morali e religiosi (Prov 3, 35; 20, 3; 29,
23). L’obbedienza a Dio prevale su ogni gloria umana (Num 22, 17 s). In Dio è il
solo fondamento solido della gloria (Sal 62, 6. 8). Il sapiente che ha meditato
sulla gloria effimera degli empi non vuol più «avere» che Dio per sua gloria:
«Mi prenderai nella tua gloria» (Sal 73, 24 s). Questo atteggiamento sarà, nella
sua perfezione, quello di Cristo. Quando Satana gli offrirà «tutti i regni del
mondo con la loro gloria», Gesù risponderà: «Adorerai il Signore Dio tuo; a lui
solo renderai culto» (Mt 4, 8 ss).
III. LA GLORIA DI JAHVÈ
L’espressione «la gloria di *Jahvè» designa *Dio stesso in quanto si
rivela nella sua maestà, nella sua potenza, nello splendore della sua santità,
nel dinamismo del suo essere. La gloria di Jahvè ha quindi carattere di
epifania. Il VT conosce due tipi di manifestazioni o di epifanie della gloria
divina: i grandi atti di Dio e le sue apparizioni.
1. I grandi atti di Dio.
- Dio manifesta la sua gloria con i suoi interventi meravigliosi, i suoi
*giudizi, i suoi «*segni» (Num 14, 22). Tale è, per eccellenza, il *miracolo del
Mar Rosso (Es 14, 18); tale quello della *manna e delle quaglie: «Al mattino
vedrete la gloria di Jahvè» (Es 16, 7). Dio viene in aiuto ai suoi. Allora la
gloria è quasi sinonimo di *salvezza (Is 35, 1-4; 44, 23; cfr. Is 40, 5 e Lc 3,
6). Il Dio dell’*alleanza pone la sua gloria nel salvare e nel risollevare il
suo popolo; la sua gloria è la sua potenza al servizio del suo *amore e della
sua *fedeltà: «Quando Jahvè ricostruirà Sion, lo si vedrà nella sua gloria» (Sal
102, 17; cfr. Ez 39, 21-29). L’opera *creativa manifesta anch’essa la gloria di
Dio. «La gloria di Jahvè riempie tutta la terra» (Num 14, 21); tra i fenomeni
naturali l’*uragano è uno dei più espressivi della gloria (Sal 29, 3-9; cfr. 97,
1-6).
2. Le apparizioni della «gloria di Jahvè».
- Nel secondo tipo di manifestazioni divine, la gloria, realtà visibile (Es 16,
10), è la irradiazione folgorante dell’essere divino. Di qui la preghiera di
Mosè: «Fammi *vedere, ti prego, la tua gloria!» (Es 33, 18). Sul Sinai la gloria
di Jahvè assumeva l’aspetto di un fuoco in cima al *monte (Es 24, 15 ss; Deut 5,
22 ss). Dopo esservisi accostato nella *nube, Mosè ritorna «con la pelle del
volto raggiante» (Es 34, 29), «di una gloria tale, come dirà Paolo, che i figli
di Israele non lo potevano fissare» (2 Cor 3, 7). Dopo il Sinai la gloria
investe il santuario: «Esso sarà consacrato dalla mia gloria» (Es 29, 43; 40,
34). La gloria di Jahvè vi troneggia sul1’*arca d’alleanza. Da allora Israele è
al servizio di questa gloria (Leo 9, 6. 23 s), sotto il cui splendore vive,
cammina e trionfa (Es 40, 36 ss; Num 16, 1-17; 15; 20, 1- 13). L’arca e la
gloria sono strettamente legate. Per Israele perdere l’una significa perdere
l’altra (1 Sam 4, 21 s). Più tardi la gloria riempirà il *tempio (1 Re 8, 10 ss)
e di lì in segno di disapprovazione si ritirerà al tempo dell’esilio (Ez 9 -
11). Tra questa concezione locale e cultuale della gloria e la concezione attiva
e dinamica, il rapporto rimane stretto. Nell’un caso e nell’altro, Dio si rivela
*presente al suo *popolo per salvarlo, santificarlo e governarlo. Il legame tra
le due nozioni appare chiaramente al momento della consacrazione del santuario.
Allora Dio dice: «Essi sapranno che io, Jahvè, loro Dio, li ho fatti uscire dal
paese d’Egitto per dimorare in mezzo ad essi» (Es 29, 46). Sotto l’aspetto di
una gloria regale Isaia contempla la gloria di Jahvè. Il profeta vede il
*Signore, il suo trono elevato, i lembi del suo mantello che riempiono il
santuario, la sua corte di Serafini che proclamano la sua gloria (Is 6, 1 ss).
Questa è un *fuoco divoratore, *santità che mette a nudo l’immondezza della
creatura, il suo nulla, la sua fragilità radicale. Tuttavia il suo trionfo non
consiste nel distruggere, ma nel purificare e nel rigenerare, e vuole invadere
tutta la terra. Le visioni di Ezechiele dicono la libertà trascendente della
gloria, che abbandona il tempio (Ez 11, 22 s), poi risplende su una comunità
rinnovata dallo *spirito (36, 23 ss; 39, 21-29). L’ultima parte del libro di
Isaia unisce i due aspetti della gloria: Dio regna nella città santa, ad un
tempo rigenerata dalla sua *potenza ed illuminata dalla sua *presenza: «Alzati,
rivestiti di luce, perché viene la tua *luce, la gloria di Jahvè risplende sopra
di te» (Is 60, 1). *Gerusalemme si vede «eretta in gloria al centro della terra»
(62, 7; cfr. Bar 5, 3). Da essa la gloria di Dio irradia su tutte le *nazioni,
che vengono ad essa, abbagliate (Is 60, 3). Nei profeti dell’esilio, nei salmi
del regno, nelle apocalissi, la gloria raggiunge questa dimensione universale,
di carattere escatologico: «Verrò a radunare le nazioni di tutte le lingue. Esse
verranno a vedere la mia gloria» (66, 18 s; cfr. Sal 97, 6; Ab 2, 14). Su questo
sfondo luminoso si distacca la figura «senza bellezza, senza splendore» (Is 52,
14) del personaggio che tuttavia ha l’incarico di far risplendere la gloria
divina fino alle estremità della terra: «Tu sei il mio *servo, in te io rivelerò
la mia gloria» (49, 3).
IV. LA GLORIA DI CRISTO
La rivelazione essenziale del NT è il legame della gloria con la
persona di Gesù. La gloria di Dio è tutta presente in lui. *Figlio di Dio, egli
è «lo splendore della sua gloria, l’immagine della sua sostanza» (Ebr 1, 3). La
gloria di Dio è «sul suo volto» (2 Cor 4, 6); da lui essa irradia sugli uomini
(3, 18). Egli è «il Signore della gloria» (1 Cor 2, 8). Già Isaia contemplava la
sua gloria e «di lui parlava» (Gv 12, 41).
1. Gloria escatologica.
- La manifestazione completa della gloria divina di Gesù avrà luogo alla
parusia. «Il *figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi
*angeli» (Mc 8, 38; cfr. Mt 24, 30; 25, 31) e manifesterà la sua gloria con la
consumazione della sua *opera, che è ad un tempo *giudizio e *salvezza. Il NT è
teso verso questa «apparizione della gloria del nostro grande Dio e salvatore,
Cristo Gesù» (Tito 2, 13 s), verso la «gloria eterna in Cristo» (1 Piet 5, 10),
alla quale Dio ci ha chiamati (1 Tess 2, 12) e che «sarà rivelata» (1 Piet 5,
1); «la piccola tribolazione di un momento ci prepara, ben oltre ogni misura, un
peso eterno di gloria» (2 Cor 4, 17). La *creazione intera aspira alla
rivelazione di questa gloria (Rom 8, 19). Giovanni vede la nuova *Gerusalemme
discendere dal *cielo, inondata di luce: «La gloria di Dio l’ha illuminata e la
sua lucerna è l’*agnello» (Apoc 21, 23).
2. Gloria pasquale.
- Con la *risurrezione e l’*ascensione Cristo è già «entrato» (Lc 24, 26) nella
gloria divina che il Padre, nel suo amore, gli ha «dato prima della creazione
del mondo» (Gv 17, 24), e che gli appartiene come Figlio alla pari del Padre.
L’uomo-Dio è stato preso nella *nube divina, «elevato in alto» (Atti 1, 9. 11),
«assunto nella gloria» (1 Tim 3, 16). «Dio lo ha risuscitato...e gli ha dato la
gloria» (1 Piet 1, 21). Ha «glorificato il suo servo Gesù» (Atti 3, 13). Questa
gloria, come la «gloria di Jahvè» nel VT, è sfera di purità trascendente, di
santità, di luce, di potenza, di vita. Gesù risorto irradia questa gloria in
tutto il suo essere. Stefano morente vede «la gloria di Dio e Gesù in piedi alla
*destra di Dio» (7, 55). Saulo è accecato dalla sua «gloria luminosa» (22, 11).
In confronto, la gloria del Sinai non è nulla (2 Cor 3, 10). La gloria di Cristo
risorto abbaglia Paolo come la *luce di una nuova *creazione: «Quel Dio che ha
detto: "Risplenda dalle tenebre la luce", è colui che la fece risplendere anche
nei nostri *cuori per irradiare la conoscenza della gloria di Dio, che brilla
sul volto (*faccia) di Cristo» (4, 6).
3. La gloria nel ministero terreno e nella passione di Cristo.
- La gloria di Dio non si è manifestata soltanto nella risurrezione, ma nella
vita, nel ministero e nella morte di Gesù. Ne fanno fede i vangeli, soprattutto
quello di Luca, tra i sinottici. Nella scena dell’annunciazione la discesa dello
*Spirito Santo su *Maria evoca la discesa della gloria nel santuario del VT (Lc
1, 35). Alla natività, «la gloria del Signore» avvolge della sua luce i pastori
(2, 9 s). Questa gloria traspare al battesimo di Gesù ed alla sua
*trasfigurazione (9, 32. 35; 2 Piet 1, 17 s), nei suoi *miracoli, nella sua
*parola, nella santità eminente della sua vita, nella sua morte. Questa non è
soltanto l’atrio che introduce il *messia nella sua «gloria» (Lc 24, 26); i
segni che l’accompagnano rivelano nel crocifisso lo stesso «*Signore della
gloria» (1 Cor 2, 8). In Giovanni, la rivelazione della gloria nella vita e
nella morte di Gesù appare ancora più esplicita. Gesù è il Verbo incarnato.
Nella sua *carne abita e si rivela la gloria del Figlio unico di Dio (Gv 1,
14.18). Essa si manifesta fin dal primo «*segno» (2, 11). Appare nell’unione
trascendente di Gesù con il Padre che lo manda, meglio ancora nella loro *unità
(10, 30). Le *opere di Gesù sono le opere del Padre che, nel Figlio, le «compie»
(14, 10) e vi rivela la sua gloria (11, 40), *luce e *vita per il *mondo. Questa
gloria risplende soprattutto nella passione, che è l’*ora di Gesù, la più grande
delle teofanie. Gesù si «consacra» alla sua morte (17, 19) con piena lucidità
(13, l. 3; 18, 4; 19, 28) in obbedienza al Padre (14, 31), e per la gloria del
suo *nome (12, 28). Fa libero dono della sua vita (10, 18) per amore verso i
suoi (13, 1). La *croce, trasfigurata, diventa il segno della «elevazione» del
figlio dell’uomo (12, 23. 31). Il Calvario offre agli sguardi di tutti (19, 37)
il mistero dell’IO SONO divino di Gesù (8, 27). L’*acqua ed il *sangue, sgorgati
dal costato di Cristo, simboleggiano la *fecondità della sua *morte, sorgente di
*vita: tale è la sua gloria (7, 37 ss; 19, 34. 36).
4. La gloria ecclesiale.
- La glorificazione di Cristo giunge a compimento nei cristiani (Gv 17, 10). In
essi il sacrificio di Gesù porta il suo *frutto a gloria del Padre e del Figlio
(12, 24; 15, 8). Lo *Spirito Santo, mandato dal Padre e dal Figlio è, con
l’acqua ed il sangue sacramentali (1Gv 5, 7), l’artefice di questa
glorificazione. Per mezzo suo i cristiani entrano nella *conoscenza e nel
possesso delle *ricchezze di Cristo (Gv 16, 14 s; 2 Cor 1, 22; 5, 5). Già la
gloria di Cristo risorto si riflette in essi, trasformandoli a sua *immagine «di
gloria in gloria» (3, 18; Col 1, 10 s; 2 Tess 1, 12). Per mezzo dello *Spirito
la stessa *sofferenza è trasfigurata (1 Piet 4, 14).
5. L’onore cristiano.
- La coscienza di questa gloria genera il sentimento della dignità cristiana e
dell’onore cristiano. Già nel VT la grandezza di Israele è di essere il popolo a
cui Dio ha rivelato la sua gloria. Ad *Israele «appartiene la gloria» (Rom 9,
4). Dio è «la sua gloria» (Sal 106, 20). Già in Israele la *fedeltà a Dio si
tinge di un senso religioso dell’onore. Il comandamento divino è la gloria di
Israele (Sal 119, 5 s), 1’*idolatria, il suo supremo decadimento, come il suo
supremo peccato: allora Israele «baratta la sua gloria con l’idolo» (Sal 106,
20). In mezzo ad un mondo che si è perduto per non aver voluto rendere a Dio la
gloria che gli è dovuta (Rom 1, 21 s), i cristiani sanno di essere «cittadini
dei cieli» (Fil 3, 20), «*risorti con Cristo» (Col 3, 1), «essi brillano come
fari di *luce» (Fil 2, 15 s). Torna a loro onore che «gli uomini, vedendo le
loro *opere buone, rendano gloria al [loro] Padre che è nei cieli» (Mt 5, 16).
Dinanzi alla gloria del *nome cristiano sparisce ogni sentimento di inferiorità
sociale: «Il *fratello di umile condizione si glorierà della sua esaltazione ed
il ricco della sua umiliazione» (Giac 1, 9), perché non c’è più posto per
«discriminazioni personali» (Giac 2, 1 ss). Il sentimento della *fierezza
cristiana si estende fino al *corpo, nel quale i cristiani devono «glorificare
Dio» (1 Cor 6, 15. 19 s). Infine, patire per il *nome cristiano è una gloria (1
Piet 4, 15 s). Secondo Giovanni, proprio la ricerca dell’onore mondano ha
precluso a più d’uno l’accesso alla *fede (Gv 5, 44; 12, 43). Gesù stesso ha
aperto la via al senso cristiano dell’onore. Indifferente alla gloria degli
uomini (5, 41), «disprezzò l’infamia della *croce» (Ebr 12, 2). Il suo unico
onore era di compiere la sua *missione, «non ricercando la propria gloria», ma
«la gloria di colui che l’ha mandato» (Gv 7, 18), rimettendosi per il suo onore
al Padre solo (8, 50. 54).
V. LA LODE DELLA GLORIA
Il dovere dell’uomo è di riconoscere e di celebrare la gloria divina Il
VT canta la gloria del *creatore, *re, salvatore e *santo d’Israele (Sal 147,
1). Deplora il *peccato che la vela (Is 52, 5; Ez 36, 20 s; Rom 2, 24). Arde del
desiderio di vederla riconosciuta da tutto l’universo (Sal 145, 10 s; 57, 6.
12). Nel NT la dossologia ha come centro Cristo. «Grazie a lui noi diciamo il
nostro *amen alla gloria di Dio» (2 Cor 1, 20). Per mezzo suo sale «a Dio solo
sapiente... la gloria per tutta l’eternità» (Rom 16, 27; Ebr 13, 15). A Dio è
resa gloria per la sua nascita (Lc 2, 20), per i suoi miracoli (Mc 2, 12...) e
per la sua morte (Lc 23, 47). Le dossologie scandiscono i progressi del suo
messaggio (Atti 11,18; 13, 48; 21, 20), così come punteggiano le esposizioni
dogmatiche di Paolo (Gal 1, 3 s; ecc.). Le dossologie dell’Apocalisse
ricapitolano in una solenne liturgia tutto il dramma redentore (Apoc 15, 3 s).
Infine, poiché la *Chiesa è «il *popolo che Dio si è acquistato per la *lode
della sua gloria» (Ef 1, 14), al Padre è resa «gloria nella Chiesa ed in Cristo
Gesù per tutte le generazioni e tutti i secoli!» (3, 21). Alla dossologia
liturgica il *martire aggiunge la dossologia del sangue. «Disprezzando la sua
vita fino alla morte» (Apoc 12, 11), il fedele professa in tal modo che la
*fedeltà a Dio supera ogni gloria ed ogni valore umano. Egli, come Pietro,
«glorifica Dio» (Gv 21, 18) a prezzo del suo *sangue. L’ultima dossologia, al
termine della storia, è il canto delle «nozze dell’*agnello» (Apoc 19, 7). La
*sposa appare ornata di «una veste di lino di bianchezza splendente» (19, 8).
Nel fuoco della «grande tribolazione» la Chiesa si è abbigliata, per le nozze
eterne, della sola gloria degna del suo sposo, delle virtù, delle offerte, dei
sacrifici dei *santi. Tuttavia la gloria della sposa le viene tutta dallo sposo.
Nel suo *sangue sono state «*imbiancate» le vesti degli eletti (7, 14; 15, 2) e
se la sposa porta questa splendida acconciatura, si è perché «le è stato dato»
di farlo (19, 8). Essa si è lasciata rivestire giorno per giorno delle «buone
*opere che Dio ha preparato in anticipo affinché noi le pratichiamo» (Ef 2, 10).
L’amore di Cristo è all’origine di questa gloria; infatti «Cristo ha amato la
Chiesa e si è dato per essa...: voleva presentarla a se stesso tutta
risplendente di gloria, senza macchia né ruga, né altra cosa del genere, ma
santa ed immacolata» (5, 25. 27). In questo mistero di *amore e di *santità
termina la rivelazione della gloria di Dio.
D. MOLLAT
→ angeli - apparizioni di Cristo 1 - arca d’alleanza III - ascensione -
beatitudine VT I 1 - benedizione IV 1 - bianco - cielo III - croce I 4, II 1.3 -
destra 2 - Dio NT III - faccia 5 – fierezza NT 3 - figlio dell’uomo - forza II -
fuoco VT I - Gesù Cristo II 1 a b; II 2 d - giorno del Signore NT I 1, III 2 -
immagine V - luce e tenebre VT I 2; NT 1 3 - Mosè 4 - nome VT 4; NT 1 - nube 2.4
- opere VT II 3 - potenza - presenza di Dio VT II; NT III - retribuzione II 4 -
ringraziamento 0; VT 2; NT 1 - risurrezione NT I 2.4 - sofferenza NT III 2 -
speranza NT III, IV - Spirito di Dio NT V 1 - trasfigurazione - umiltà IV -
vedere - veste II - vittoria NT 2.
→ conoscere NT 3 - Gesù Cristo II 2 - mistero 0 - rivelazione 0.
liberazione-libertà I 2 - sangue VT 1 - vendetta 1.3.
→ desiderio II - fame e sete VT 1 a.
→ autorità - ministero II - re.
→ Dio III 5 - forza - gloria - potenza - santo VT I 1.
→ frutto II - martire 2 - messe - seminare.
→ Abramo I 1, II 3 - elezione - grazia - predestinare - retribuzione 0, III 2.
I. IL
SENSO DELLA PAROLA
La parola che designa la grazia (gr. chàris) non è una pura creazione del
cristianesimo; compare nel VT. Ma il NT ne ha fissato il senso e le ha dato
tutta la sua estensione. Se n’è servito precisamente per caratterizzare il nuovo
regime instaurato da Gesù Cristo e per opporlo alla economia antica: questa era
governata dalla *legge, quello lo è dalla grazia (Rom 6, 14 s; Gv 1, 17). La
grazia è il *dono di Dio che contiene tutti gli altri, quello del *Figlio suo
(Rom 8, 32), ma non semplicemente l’oggetto di questo dono. È il dono che
irradia la generosità del donatore e che avvolge di questa generosità la
creatura che lo riceve. Dio dona per grazia, e colui che riceve il suo dono
trova grazia e compiacenza dinanzi a lui. Per una coincidenza significativa, la
parola ebraica e la parola greca, tradotte in latino con gratia, si prestano
l’una e l’altra a designare nello stesso tempo la sorgente del dono in colui che
dona e l’effetto del dono in colui che riceve. E ciò perché il dono supremo di
Dio non è del tutto estraneo agli scambi con cui gli uomini si uniscono tra loro
e perché tra lui e noi esistono legami che rivelano in noi la sua *immagine.
Mentre l’ebraico hen designa in primo luogo il favore, la benevolenza gratuita
d’una persona altolocata, poi la testimonianza concreta di questo favore, resa
da colui che dà e fa grazia, raccolta da colui che riceve e trova grazia, infine
il fascino che attira lo sguardo e conserva il favore, il greco chàris, con un
processo pressappoco inverso, designa innanzitutto la seduzione raggiante della
bellezza, poi lo splendore più interno della bontà, infine i doni che
testimoniano questa generosità.
II. LA GRAZIA NELL’ANTICA ALLEANZA
Rivelata e data da Dio in Gesù Cristo, la grazia è presente nel VT come una
*promessa e come una *speranza. Sotto forme diverse, sotto nomi vari, ma che
uniscono sempre il Dio che dona all’uomo che riceve, la grazia appare dovunque
nel VT. La lettura cristiana del VT, qual è proposta da S. Paolo ai Galati,
consiste nel riconoscere, nell’antica alleanza, le opere e i tratti del Dio
della grazia.
1. La grazia in Dio.
- Dio si autodefinisce: «Jahvè, Dio di tenerezza e di grazia, tardo all’ira e
ricco di misericordia e fedeltà» (Es 34, 6). La grazia in Dio è ad un tempo
*misericordia chinata sulla miseria (hen), *fedeltà generosa verso i suoi (hesed),
fermezza incrollabile nei suoi impegni (‘emet), attaccamento di cuore e di tutto
l’essere a coloro che egli *ama (rahamîm), *giustizia inesauribile (sédeq),
capace di assicurare a tutte le sue creature la pienezza dei loro diritti e di
soddisfare tutte le loro aspirazioni. che Dio possa essere la *pace e la *gioia
dei suoi, è effetto della sua grazia: «Quanto preziosa è la tua grazia (hesed),
o Dio! Gli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali, si inebriano della
sovrabbondanza della tua casa e tu li abbeveri al torrente delle tue delizie» (Sal
36, 8 ss), «perché la tua grazia (hesed) è migliore della vita» (63, 4). La
*vita, il più prezioso di tutti i beni, impallidisce dinanzi all’esperienza
della generosità divina, sorgente inesauribile. La grazia di Dio può dunque
essere una vita, più ricca e più piena di tutte le nostre esperienze.
2. Le manifestazioni della grazia divina.
- La generosità di Dio si effonde su ogni carne (Eccli 1, 10), la sua
grazia non rimane un tesoro gelosamente custodito. Ma lo splendido segno di
questa generosità è l’*elezione di Israele. È una iniziativa totalmente
gratuita, non giustificata nel popolo eletto da alcun merito, da alcun valore
antecedente, né dal numero (Deut 7, 7), né dalla buona condotta (9, 4), né «dal
vigore della mano» (8, 17), ma soltanto «dall’amore per voi e dalla fedeltà al
giuramento fatto ai vostri padri» (7, 8; cfr. 4, 37). Al punto di partenza di
Israele non c’è che una spiegazione: la grazia del Dio fedele che mantiene la
sua *alleanza ed il suo *amore (7, 9). Il simbolo di questa grazia è la *terra
che Dio dà al suo popolo, «paese di torrenti e di fonti» (8, 7), «di monti e di
valli bagnate dalla pioggia del cielo» (11, 11), «città che tu non hai
costruito... case che tu non hai riempito, pozzi che tu non hai scavato» (6, 10
s). Questa gratuità non è senza scopo, non spande alla cieca *ricchezze di cui
non sa che fare. L’elezione ha come scopo l’alleanza; la grazia che sceglie e
che dà è un atto di *conoscenza, si attacca a colui che sceglie, e ne aspetta
una risposta, la riconoscenza e l’amore: tale è la predicazione del Deuteronomio
(6, 5. 12 s; 10, 12 s; 11, 1). La grazia di Dio vuole un partner, uno scambio,
una *comunione.
3. La grazia di Dio sui suoi eletti.
- La parola che indubbiamente rende meglio l’effetto prodotto sull’uomo
dalla generosità di Dio è quella di *benedizione. La benedizione è molto più di
una protezione esterna; alimenta, in chi la riceve, la *vita, la *gioia, la
*pienezza della *forza, stabilisce tra Dio e la sua creatura un incontro
personale, fa posare sull’uomo lo sguardo ed il sorriso di Dio, lo splendore
della sua *faccia e della sua grazia (hen: Num 6, 25), e questo legame ha
qualcosa di vitale, si avvicina alla potenza creativa. Al *padre spetta
benedire, e se la storia di Israele è quella di una benedizione destinata a
tutte le nazioni (Gen 12, 3), si è perché Dio è padre e plasma il destino dei
suoi figli (Is 45, 10 ss). La grazia di Dio è l’amore di un padre, crea dei
*figli. Poiché questa benedizione è quella del Dio *santo, il legame che essa
stabilisce con i suoi eletti è quello di una consacrazione. L’elezione è appello
alla santità e promessa di vita consacrata (Es 19, 6; Is 6, 7; Lev 19, 2). A
questa risposta filiale, a questa consacrazione della vita e del cuore, Israele
si rifiuta (cfr. Os 4, 1 s; Is 1, 4; Ger 9, 4 s). «Come un pozzo che fa
scaturire la sua acqua, così (Gerusalemme) fa scaturire la sua iniquità» (Ger 6,
7; cfr. Ez 16; 20). Allora Dio inventa di fare nell’uomo ciò di cui l’uomo è
radicalmente incapace e di fare che l’uomo stesso ne sia l’autore. Di una
Gerusalemme corrotta farà una città giusta (Is 1, 21-26), di *cuori
incurabilmente ribelli (Ger 5, 1 ss), farà dei cuori *nuovi, capaci di
*conoscerlo (Os 2, 21; Ger 31, 31). Questa sarà l’opera del suo spirito (Ez 36,
27); questo sarà l’avvento nel mondo della sua stessa *giustizia (Is 45, 8. 24;
51, 6).
III. LA GRAZIA DI DIO SI È RIVELATA IN GESÙ CRISTO
La venuta di *Gesù Cristo fa vedere fin dove può giungere la generosità divina:
fino a darci il suo proprio *Figlio (Rom 8, 32). La fonte di questo atto
inaudito è quella mescolanza di tenerezza, di fedeltà e di misericordia con cui
Jahvè definiva se stesso, ed alla quale il NT darà il nome specifico di grazia,
chàris. L’augurio della grazia di Dio, (quasi sempre accompagnata dalla sua
*pace, cosicché il grande augurio semitico era associato all’ideale tipicamente
greco della chàris) costituisce l’introduzione di quasi tutte le letture
apostoliche e fa vedere che, per i cristiani, essa è il *dono per eccellenza,
quello che riassume tutta l’azione di Dio e tutto ciò che noi possiamo augurare
ai nostri fratelli. Nella persona di Cristo «ci sono venute la grazia e la
verità» (Gv 1, 17), noi le abbiamo *viste (1, 14), e subito abbiamo conosciuto
*Dio nel suo Figlio unico (1, 18). Come abbiamo conosciuto che «Dio è *amore» (1
Gv 4, 8 s), così, vedendo Gesù Cristo, conosciamo che la sua azione è grazia
(Tito 2, 11; cfr. 3, 4). La tradizione evangelica comune ai sinottici, pur non
conoscendo il termine, è pienamente cosciente della realtà. Anche per essa Gesù
è il dono supremo del Padre (Mt 21, 37 par.), dato per noi (26, 28). La
sensibilità di Gesù alla miseria umana, la sua emozione dinanzi alla sofferenza,
manifestano d’altronde la tenerezza e la misericordia con cui Dio definiva se
stesso nel VT e S. Paolo, per incoraggiare i Corinti alla generosità, ricorda
loro «la liberalità (chàris) di Gesù Cristo, ... che da ricco si è fatto povero
per voi» (2 Cor 8, 9).
IV. GRATUITÀ DELLA GRAZIA
Se la grazia di Dio è il segreto della *redenzione, è pure il segreto
del modo concreto in cui ogni cristiano (Rom 12, 6; Ef 6, 7), ogni Chiesa la
riceve e la vive. Le Chiese della Macedonia hanno ricevuto la grazia della
generosità (2 Cor 8, 1 s), i Filippesi hanno ricevuto la loro porzione della
grazia dell’apostolato (Fil 1, 7; cfr. 2 Tim 2, 9), che spiega tutta l’attività
di Paolo (Rom 1, 5; cfr. 1 Cor 3, 10; Gal 1, 15; Ef 3, 2). Attraverso alla
varietà dei *carismi si rivela l’*elezione, la scelta venuta da Dio, prima di
tutte le opzioni umane (Rom 1, 5; Gal 1, 15), che introduce nella *salvezza (Gal
1, 6; 2 Tim 1, 9), che consacra ad una *missione propria (1 Cor 3, 10; Gal 2, 8
s). La gratuità iniziale dell’elezione (Rom 11, 5), per Paolo, segnerà tutta
l’esistenza cristiana. La salvezza è il dono di Dio e non il salario meritato
per un lavoro (Rom 4, 4); diversamente «la grazia non è più grazia» (11, 6). Se
la salvezza fosse dovuta a una qualunque osservanza, la grazia di Dio non
avrebbe più oggetto, «la fede non avrebbe più senso e la promessa sarebbe senza
effetto» (4, 14). Solo la *fede nella *promessa rispetta il vero carattere
dell’opera di Dio, che è per natura innanzitutto una grazia. Quel che raddoppia
la gratuità dell’elezione, sono le condizioni concrete in cui interviene. È un
*nemico quello che Dio sceglie, un condannato quello che grazia: «Allora noi
eravamo ancora senza forza... peccatori... nemici di Dio, impotenti a sottrarci
al peccato, «Dio ci ha riconciliati con lui per mezzo della morte di suo Figlio»
(Rom 5, 6-10). E la grazia di Dio non si limita a salvarci dalla morte con un
gesto di assoluzione (3,24; Ef 2, 5); spinge la generosità oltre ogni limite. Là
dove il peccato aveva proliferato, sovrabbonda la grazia (Rom 5, 12-21); essa
apre senza riserve la *ricchezza inesauribile della generosità divina (Ef 1, 7;
2, 7) e la diffonde senza misura (2 Cor 4, 15; 9, 14; cfr. 1 Cor 1, 7). Dal
momento che Dio ha dato per noi suo Figlio «come potrebbe non elargirci ogni
grazia?» (Rom 8, 32).
V. FECONDITÀ DELLA GRAZIA
La grazia di Dio «non è sterile» (1 Cor 15, 10). Essa concede alla fede di
produrre *opere, di fornire lavoro (1 Tess 1, 3; 2 Tess 1, 11), di «operare
tramite la carità» (Gal 5, 6) e di produrre *frutti (Col 1, 10), «le buone opere
che Dio ha preparato in anticipo affinché noi le producessimo» (Ef 2, 10). La
grazia rappresenta per gli apostoli una fonte perenne di attività (Atti 14, 26;
15, 40); fa di Paolo tutto ciò che è, fa in lui tutto ciò che egli fa (1 Cor 15,
10), cosicché la parte più intima di lui, «ciò che io sono», è proprio l’opera
di questa grazia. Poiché la grazia è principio di trasformazione e di azione,
esige una costante collaborazione. «Investiti di questo ministero, non veniamo
meno» (2 Cor 4, 1) sempre attenti ad «obbedire alla grazia» (1, 12) e a
«risponderle» (Rom 15, 15; cfr. Fil 2, 12 s). La grazia non fa mai difetto,
«basta» sempre, sia pure nella miseria peggiore, perché proprio allora esplode
la sua *potenza (2 Cor 12, 9). La grazia è così la *nascita a una nuova
esistenza (Gv 3, 3 ss), quella dello *Spirito che anima i *figli di Dio (Rom 8,
14-17). Questa esistenza viene spesso descritta da Paolo con l’aiuto di
categorie giuridiche, tendenti a sottolineare la realtà del regime cristiano
istituito dalla grazia. Il cristiano è «chiamato nella grazia» (Gal 1, 6),
«stabilito nella grazia» (Rom 5, 2), vive sotto il suo regno (5, 21; 6, 14). Ma
questa esistenza non è soltanto uno stato di fatto, la cui denominazione
giuridica sia fissata da un’autorità; è una vita nel senso più pieno della
parola, la vita di coloro che, «ritornati dalla morte», vivono una vita nuova
con Cristo risorto (Rom 6, 4. 8. 11. 13). L’esperienza paolina, che era partita
da un diverso orizzonte, si congiunge qui perfettamente alla esperienza
giovannea: la grazia di Cristo è il dono della vita (Gv 5, 26; 6, 33; 17, 2).
Questa esperienza della vita è quella dello *Spirito Santo. Il regime della
grazia è quello dello Spirito (Rom 6, 14; 7, 6); l’uomo liberato dal peccato
porta frutti di santificazione (6, 22; 7, 4). Lo Spirito, che è il *dono di Dio
per eccellenza (Atti 8, 20; 11, 17) «attesta al nostro spirito» (Rom 8, 16)
attraverso un’esperienza indubitabile, che la grazia fa realmente di noi dei
figli di Dio, in grado di invocare Dio come *Padre: Abba. Questa è la
*giustificazione operata dalla grazia (Rom 3, 23 s): poter essere al cospetto di
Dio esattamente quel che egli si attende da noi, dei figli davanti al Padre loro
(Rom 8, 14-17; 1 Gv 3, 1 s). Il cristiano, scoprendo allora nella grazia di Dio
la fonte di tutti i suoi atti, trova l’atteggiamento esatto nei confronti degli
uomini, l’autentica *fierezza, che non si gloria di possedere alcunché, ma di
aver tutto ricevuto per grazia, prima fra tutto la giustizia. Fierezza e grazia,
Paolo associa volentieri le due parole (Rom 4, 2 s; 5, 2 s; 2 Cor 12, 9; cfr. Ef
1, 6). Nella grazia di Dio, l’uomo riesce ad essere se stesso.
J. GUILLET
→ beatitudine VT I 1 - bene e male III 3 - benedizione - carismi - dono - fede
NT III 2 - giustificazione II 3 - giustizia - liberazione-libertà I, III 2 a c -
legge B III 5; C III 1 - misericordia - opere NT II 1 - ringraziamento -
salvezza NT - tenerezza.
→ Chiesa IV 2 - eresia 3 - giudeo - nazioni NT - sapienza 0.
→ pastore e gregge.
→ gioia 0 - preghiera - sofferenza VT I 1.
→ malattia - guarigione.
La guerra non è
soltanto un fatto umano che pone problemi morali; la sua presenza nel mondo
biblico permette alla rivelazione di esprimere, partendo da un’esperienza
comune, un aspetto essenziale del dramma in cui è impegnata l’umanità e la cui
posta è la *salvezza: la lotta spirituale tra Dio e Satana. È vero che il
disegno di Dio ha come fine la *pace; ma questa pace suppone essa stessa una
*vittoria acquistata a prezzo del combattimento.
VECCHIO TESTAMENTO
I. GUERRE UMANE E COMBATTIMENTI DI DIO
1. La guerra, forma di *violenza, è un elemento importante della
condizione umana. Nell’Oriente antico era un fatto endemico: ad ogni inizio
d’anno i re «scendevano in campo» (2 Sam 11, 1). Invano gli imperi, nei periodi
di grande civiltà, firmavano trattati di «pace perpetua»: l’evoluzione dei fatti
rompeva presto questi fragili contratti. Inserita in questa cornice, la storia
di Israele comporterà quindi un’esperienza, ora esaltante ed ora crudele, dei
combattimenti umani. Ma, introdotta nella prospettiva del *disegno di Dio,
questa esperienza vi acquista una portata specificamente religiosa: la guerra vi
si rivela ad un tempo come una realtà permanente di questo mondo e come un male.
2. Tuttavia, trasferendo nel campo religioso i risultati della
sua esperienza sociale, l’Oriente antico non tralasciava di introdurre anche la
guerra nella sua rappresentazione del mondo divino. Immaginava volentieri, nei
tempi primordiali, una guerra degli dèi, della quale tutte le guerre umane erano
come i prolungamenti e le imitazioni terrene. Israele, pur eliminando il
politeismo supposto da tali immagini, conserva non di meno quella di un Dio
combattente (Sal 74, 13 ss; 89, 10 s); ma la trasforma per adattarla al suo
monoteismo e per darle un posto nella realizzazione terrena del *disegno di Dio.
II. ISRAELE AL SERVIZIO DELLE GUERRE DI JAHVÈ
1. Le prospettive aperte dall’alleanza sinaitica non sono di
pace, ma di lotta: Dio dà una *patria al suo popolo, ma questo la deve
conquistare (Es 23, 27-33). Guerra offensiva, che è sacra e si giustifica nella
prospettiva del VT: Canaan, con la sua civiltà corrotta accompagnata da un culto
reso alle forze della natura, costituisce un’insidia per Israele (Deut 7, 3 s);
perciò Dio sanziona il suo sterminio (Deut 7, 1 s); le guerre nazionali di
Israele saranno quindi le «guerre di *Jahvè» mentre il bottino conquistato verrà
votato all’*anatema (Gios 6). Più ancora, facendo nascere Israele alla storia,
Dio instaura il suo proprio *regno in terra, grazie ad un popolo che gli rende
culto ed osserva la sua legge. Difendendo la propria indipendenza contro gli
aggressori esterni, Israele difende quindi nello stesso tempo la causa di Dio:
ogni combattimento difensivo è ancora una «guerra di Jahvè».
2. In tal modo, nel corso dei secoli, Israele fa l’esperienza
di una vita combattiva, in cui il dinamismo nazionale è posto al servizio di una
causa religiosa. Guerre offensive contro Sikhon ed Og (Num 21, 21-35; Deut 2, 26
- 3, 17), poi conquista di Canaan (Gios 6 - 12). Guerre difensive contro Madian
(Num 31) e contro gli oppressori dell’epoca dei giudici (Giud 3 - 12). Guerra di
liberazione nazionale con Saul e David (1 Sam 11 - 18; 28 - 30; 2 Sam 5; 8; 10).
In questo complesso di avvenimenti Israele appare come l’araldo di Dio in terra;
il suo re è il luogotenente di Jahvè nella storia. L’ardore delle fede esige
prodezze militari, sostenute dalla certezza dell’aiuto divino e dalla speranza
di una *vittoria ad un tempo politica e religiosa (cfr. Sal 2; 45, 4 ss; 60,
7-14; 110). Ma forte sarà la tentazione di confondere la causa di Dio con la
prosperità terrena di Israele.
III. I COMBATTIMENTI DI JAHVÈ NELLA STORIA
1. Jahvè combatte per il suo popolo.
- Le guerre di Jahvè condotte da Israele non sono tuttavia che un aspetto dei
combattimenti condotti da Dio nella storia umana. Fin dalle origini egli è
personalmente in lotta contro le forze malvagie che si oppongono ai suoi
disegni. Il fatto è posto in evidenza nella storia del suo popolo, quando
diversi *nemici tentano di intralciarne il cammino. Allora Dio, affermando la
sua padronanza sugli avvenimenti, interviene mediante la sua azione sovrana, ed
Israele fa l’esperienza di meravigliose liberazioni: al tempo dell’esodo, Jahvè
combatte contro l’Egitto, colpendolo con prodigi di ogni specie (Es 3, 20),
colpendolo nei suoi primogeniti (Es 11, 4 ...) e nel suo capo (Es 14, 18 ... );
in Canaan sostiene gli eserciti di Israele (Giud 5, 4. 20; Gios 5, 13 s; 10,
10-14; 2 Sam 5, 24); nel corso dei secoli assiste i re (Sal 20; 21) e libera la
sua città santa (Sal 48, 4-8; 2 Re 19, 32-36)... Tutti questi fatti mostrano che
le lotte umane non raggiungono il loro scopo se non per la sua forza; gli uomini
combattono, ma Dio solo dà la *vittoria (Sal 118, 10-14; 121, 2; 124).
2. Dio combatte contro i peccatori.
- Ora i combattimenti terreni di Israele non hanno come fine ultimo il
trionfo temporale di Israele. La sua *gloria è di natura diversa; il suo regno
di ordine diverso. Egli vuole che si stabilisca un *regno di prosperità e di
giustizia, come lo definisce la sua *legge. Israele ha la missione di
realizzarlo; ma se non lo fa, Dio è in dovere di combattere il suo popolo
peccatore allo stesso titolo per cui combatte le potenze pagane. Perciò, come
contropartita delle sue infedeltà, Israele fa pure l’esperienza dei rovesci
militari: al tempo del deserto (Num 14, 39-44), di Giosuè (7, 2...), dei giudici
(1 Sam 4), di Saul (1 Sam 31). Al tempo dei re, il fatto ritorna periodicamente
e, dopo le distruzioni di molteplici invasioni, Israele e Giuda finiranno per
conoscere una completa rovina nazionale. Agli occhi dei profeti questi sono i
risultati di *giudizi divini: Jahvè colpisce il suo popolo peccatore (Is 1,
4-9); manda gli invasori incaricati di *castigarlo (Ger 4, 5 - 5, 17; 6; Is 5,
26-30). Gli eserciti di *Babilonia sono ai suoi ordini (Ger 25, 14-38) e
Nabuchodonosor è suo servo (Ger 27, 6 ss). Attraverso questi avvenimenti
terribili Israele comprende ora che la guerra è fondamentalmente un male.
Risultato dell’*odio fratricida fra gli uomini (cfr. Gen 4), essa è legata al
destino di una razza peccatrice. Flagello di Dio, essa non sparirà quindi
radicalmente dalla terra se non quando sarà sparito il *peccato stesso (Sal 46,
10; Ez 39, 9 s). Perciò le promesse escatologiche dei profeti terminano tutte
con una meravigliosa visione di *pace universale (Is 2, 4; 11 , 6-9; ecc.).
Questa è la *salvezza autentica alla quale Israele deve aspirare, piuttosto che
a guerre sante di conquista e di distruzione.
IV. I COMBATTIMENTI ESCATOLOGICI
1. L’assalto delle forze nemiche.
- Tuttavia questa salvezza non verrà senza combattimento. Ma questa volta la
lotta, attraverso i diversivi temporali, rivelerà il suo carattere
essenzialmente religioso molto meglio che nel passato. Indubbiamente la sua
evocazione anticipata ha ancora l’aspetto di un assalto militare dei pagani
contro Gerusalemme (Ez 38; Zac 14, 1-3; Giudit 1-7). Ma nell’apocalisse di
Daniele, scritta durante la sanguinosa persecuzione scatenata dal re Antioco, è
chiaro che la potenza nemica, rappresentata sotto i tratti di *bestie mostruose,
ha come primo disegno di «fare la guerra ai santi» e di combattere Dio stesso
(Dan 7, 19-25; 11, 40-45; cfr. Giudit 3, 8). Dietro la lotta politica si può
così discernere la lotta spirituale di *Satana e dei suoi alleati contro Dio.
2. La replica di Dio.
- Dinanzi a questo assalto che un impero pagano totalitario muove alla sua fede,
il giudaismo può bensì reagire ancora mediante una rivolta militare che si
ricollega alle tradizioni della guerra santa (1 Mac 2 - 4; 2 Mac 8 - 10). Ma di
fatto sa di essere impegnato in una lotta più alta, per la quale deve contare
soprattutto sul soccorso di Dio (cfr. 2 Mac 15, 22 ss; Giudit 9): al tempo
fissato Jahvè decreterà la morte della *bestia (Dan 7, 11. 26) e ne spezzerà il
potere (Dan 8, 25; 11, 45). Questa prospettiva supera il piano delle guerre
temporali. Sfocia nel combattimento celeste con cui Dio coronerà tutti quelli
che ha già sostenuto nella storia (cfr. Is 59, 15-20; 63, 1-6), tutti quelli che
sostiene attualmente per difendere i giusti contro i loro *nemici (Sal 35, 1
ss). Questo combattimento avrà come cornice il *giudizio finale. Porrà termine
in terra ad ogni iniquità (Sap 5, 17-23) e preluderà così direttamente al *regno
di Dio in terra. Sarà perciò seguito da una *pace eterna, alla quale
parteciperanno tutti i giusti (Dan 12, 1 ss; Sap 4, 7 ss; 5, 15 s).
NUOVO TESTAMENTO
Il NT realizza queste promesse. La guerra escatologica vi è scatenata su un
triplice terreno: quello della vita terrena di Gesù, quello della storia della
sua Chiesa, quello della consumazione finale.
I. GESÙ
In Gesù si rivela pienamente la natura profonda della lotta escatologica: non
lotta temporale per un regno di questo mondo (Lc 22, 50 s; Gv 18, 38), e perciò
Gesù rifiuta ogni violenza umana per difenderlo (Mt 26 - 52; Gv 18, 11), bensì
lotta spirituale contro *Satana, contro il *mondo, contro il male. Gesù è il
*forte che viene ad abbattere il principe di questo mondo (Mt 4, 1-11 par.; 12,
27 ss par.; Lc 11, 18 ss). Quindi anche questi reagisce tentando contro di lui
un ultimo assalto: la condanna a morte di Gesù è il suo ultimo tentativo (Lc 22,
3; Gv 13, 2. 27; 14, 30); egli suscita l’azione delle potenze terrene collegate
contro l’unto del Signore (Atti 4, 25-28; cfr. Sal 2). Ma, così facendo,
accelera la propria sconfitta. Di fatto, paradossalmente, la *croce di Gesù
assicura la sua *vittoria (Gv 12, 31): quando egli risuscita, le *potenze
ostili, malvagie, spogliate del loro dominio, figurano nel suo corteo trionfale
(Col 2, 15). Vincitore del mondo mediante la sua stessa morte (Gv 16, 33), egli
possiede oramai il governo della storia (Apoc 5); ma il combattimento che egli
ha sostenuto personalmente si prolungherà attraverso i secoli nella vita della
sua Chiesa.
II. LA CHIESA DI GESÙ
1. La Chiesa militante.
- La *Chiesa non è un’entità di ordine temporale, com’era ancora l’antico
*popolo di Israele; quindi le guerre umane non sono più affare suo. Ma, sul suo
proprio piano, essa è in stato militante per tutto il tempo che durerà la storia
presente. Ciò che Gesù, per mezzo di essa, apporta agli uomini è bensì, sotto un
certo rapporto; la *pace con Dio e la pace tra loro (Lc 2, 14; Gv 14, 27; 16,
33); ma una simile pace non è di questo mondo. Perciò gli uomini che credono in
lui saranno sempre esposti all’*odio del mondo (Gv 15, 18-21); sul piano
temporale Gesù non ha portato loro la pace, ma la spada (Mt 10, 34 par.), perché
il regno di Dio è esposto alla *violenza (Mt 11, 12 par.). Individualmente, ogni
cristiano dovrà sostenere una lotta, non contro avversari di carne e di sangue,
ma contro Satana ed i suoi alleati (Ef 6, 10 ss; 1 Piet 5, 8 s).
Collettivamente, la Chiesa sarà esposta agli assalti delle potenze di questo
mondo, che si faranno alleate di Satana - come la Roma imperiale, nuova
*Babilonia (Apoe 12, 17 - 13, 10; 17).
2. Le armi cristiane.
- In questo combattimento la Chiesa ed i suoi membri non si servono più delle
armi temporali, ma di quelle che Gesù ha lasciato in eredità. Le virtù cristiane
sono le armi di luce che il soldato di Cristo riveste (1 Tess 5, 8; Ef 6, 11.
13-17); è la *fede in Cristo a vincere il maligno ed il mondo (1 Gv 2, 14; 4, 4;
5, 4 s). In apparenza il *mondo può trionfare dei cristiani quando li
*perseguita ed uccide (Apoc 11, 7-10); vittoria precaria, che prelude ad un
rovesciamento di situazione, così come la croce di Cristo preparava la sua
risurrezione in gloria (Apoc 11, 11. 15-18). L’*agnello fu vincitore del demonio
con la sua morte; così anche i suoi compagni ne trionfano con il loro *martirio
(Apoc 12, 11; 14, 1-5). L’eroismo di simili combattimenti supera di molto quello
delle antiche guerre di Jahvè e non esige minor valore.
III. IL COMBATTIMENTO FINALE
1. Prodromi.
- Gli «ultimi tempi» inaugurati da Gesù assumono così l’aspetto di una
guerra a morte tra due campi: quello di Cristo e quello dell’*anticristo. Non
c’è dubbio che la lotta debba crescere in astuzia, in brutalità, in intensità, a
mano a mano che la storia si avvicinerà alla sua fine. Ma il mondo malvagio, il
mondo di peccato, è già colpito da una condanna divina, di cui il suo destino
porta ormai il segno. Qui le guerre umane rivelano la pienezza del loro
significato. Nell’intimo dell’esperienza temporale degli uomini esse scrivono i
segni del *giudizio futuro (Mt 24, 6 par.; Apoc 6, 1-14; 9, 1-11). Rivelano le
opposizioni interne, alle quali è votata l’umanità peccatrice nella misura in
cui non accoglie la pace di Cristo.
2. Immagini dell’ultimo combattimento.
- Infatti il tempo scorre infallibilmente verso la sua fine. Se da un lato
Cristo raduna a poco a poco nella sua Chiesa tutti i figli di Dio dispersi (Gv
11, 52), dall’altro Satana, che lo scimmiotta, si sforza anch’egli di unire in
un solo esercito gli uomini che ha sedotto. Al termine dei secoli l’Apocalisse
ce li presenta riuniti sotto la sua guida per scatenare l’ultimo combattimento (Apoc
19, 19; 20, 7 ss). Ma questa volta Cristo vincitore farà rifulgere visibilmente
la sua sovranità (cfr. *Signore), Verbo di Dio apparso nella sua gloria in
funzione di sterminatore (Apoc 19, 11-16. 21; cfr. Mt 24, 30 par.). L’aspetto
temporale dei fatti futuri si cela per noi dietro questa evocazione
soprannaturale che sfocia, al di là del tempo, nel castigo eterno di Satana e
dei suoi accoliti (Apoc 19, 20; 20, 10). Dopo di che, superata ogni
contraddizione, sia tra Dio e gli uomini, sia tra i diversi gruppi umani, la
*pace perfetta della nuova Gerusalemme introdurrà nuovamente nel *paradiso
l’umanità salvata (Apoc 21). Visione di *vittoria finale, che giustifica la
costanza e la fiducia dei santi (Apoc 12, 10), perché allora la Chiesa militante
si trasformerà per sempre in Chiesa trionfante, riunita attorno a Cristo
vincitore (Apoc 3, 21 s; 7).
H. CAZELLES e P. GRELOT
→ anatema VT - anticristo - arca d’alleanza I - Babele-Babilonia - bestie e
Bestia - calamità - castighi - demoni - giorno del Signore VT - Giosuè 1 -
nemico - odio I 3 - pace - persecuzione I 4 a - re NT II 2 - Satana - violenza
III 2 - vittoria.
→ arca d’alleanza I - esempio - nube 1 - seguire - via I, III.
Gustare significa
talvolta prendere cibo (Giona 3, 7; Col 2, 21), ma in primo luogo apprezzare i
sapori a tutti i livelli della nostra esperienza (2 Sam 19, 36). La Bibbia
applica il termine al discernimento dei valori morali e alla conoscenza
piacevole di Dio e di Cristo, delizie della nostra vita in terra ed in cielo.
1. Il discernimento.
- Il gusto comprende diverse forme della *sapienza: saper fare (1 Sam
25, 33), tatto (Prov 11, 22), giudizio prudente (Prov 26, 16). Dono di Dio (Sal
119, 66) che può ritorglierlo (Giob 12, 20), esso è nello stesso tempo il frutto
dell’età e dell’esperienza (Giob 12, 11 s). Orienta la condotta dell’uomo nei
campi più pratici (Prov 31, 18); tuttavia la sua forma superiore, il
discernimento del bene e del male, non è un valore semplicemente morale, ma già
religioso, a base di fede (Sal 119, 66), e culmina nell’attrattiva per la
*parola di Dio che si trova dolce (Ez 3, 3), e per i suoi comandamenti (Sal 119,
16; Rom 7, 22).
2. L’esperienza religiosa.
- Al di là del discernimento della sapienza, si trova l’esperienza vissuta
dell’amore che Dio ci porta. Le *benedizioni temporali formano le delizie del
*giusto del VT che obbedisce alla legge divina (Neem 9, 25; Is 55, 2). Egli
gusta le delizie indefinitamente varie della *manna (Sap 16, 20 s), esperimenta
quanto è buono il Signore (Sal 34, 9) e si attacca a lui come al suo solo tesoro
(Giob 22, 26). Nel NT tutta la vita del battezzato è unione con Cristo risorto,
ma il ricevere il battesimo comporta l’esperienza piacevole di aver avuto
definitivamente accesso ai beni celesti della salvezza: la partecipazione allo
Spirito Santo, la parola del vangelo assimilata per mezzo della fede, le
manifestazioni della potenza di Dio che crea già il mondo nuovo (Ebr 6, 4 s).
Tutto ciò è il pegno sovraeminente della bontà di Dio (1 Piet 2, 3). Questa
*dolcezza (cfr. *mitezza) ci viene dall’amarezza della morte che Gesù ha gustato
(Ebr 2, 9) per risparmiare a noi di gustare la morte eterna (Gv 8, 52). Essa è
una pregustazione della *beatitudine (Apoc 2, 17).
P. SANDEVOIR
→ beatitudine - cercare I - conoscere - frutto III, IV - gioia - manna 2 -
mitezza 1 - riposo - sapienza.