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1. Il
volto ed il cuore.
- «Come il riflesso del volto nell’acqua, così il cuore dell’uomo per
l’uomo» (Prov 27, 19): lo specchio dell’acqua rivela il paradosso del volto
umano, che è, della persona, nello stesso tempo ciò che vede e ciò che è visto;
il faccia a faccia degli incontri umani simboleggia e suscita il riconoscimento
interiore dei cuori. Infatti il volto è lo specchio del *cuore. Non vi si legge
soltanto il dolore (Ger 30, 6; Is 13, 8) o la fatica (Dan 1, 10), o l’afflizione
(Neem 2, 2) ma anche la gioia (Prov 15, 13) del cuore in festa (Eccli 13, 26;
Sal 104, 15), la severità che un padre deve mostrare alle sue figlie (Eccli 7,
24), ma anche la durezza spietata (Deut 28, 50), ostinata nel suo orgoglio (Ez
2, 4; Dan 8, 23): di fatto «il cuore dell’uomo modella il suo volto, sia in bene
che in male» (Eccli 13, 25). Ma lo specchio del volto può essere ingannatore.
Mentre l’uomo è incline a giudicare in base alle apparenze (Giac 2, 9), Dio
guarda solo al cuore (1 Sam 16, 7) e giudica le azioni umane secondo i cuori (Ger
11, 20; Eccli 35, 22; Mt 22, 16).
2. Il volto del principe.
- Le relazioni tra suddito e principe si esprimono in un gioco di
volti: si chiede di vedere la faccia del re (2 Sam 14, 32), ma alla sua presenza
ci si prostra «faccia a terra» (2 Sam 1, 2; 14, 33). È un favore insigne poter
guardare il volto del re (Est 1, 14), una *grazia ansiosamente spiata vederlo
illuminarsi di un sorriso (Giob 29, 24 s), perché «nella luce del volto regale e
la vita» (Prov 16, 15).
3. Cercare la faccia di Dio.
- Benché Dio non sia un uomo (Num 23, 19) e nessuna creatura possa dare
un’idea della sua gloria (Is 40, 18; 46, 5), ha nondimeno, come un uomo, dei
disegni e delle intenzioni, vuole entrare in comunicazione con l’uomo; anche
egli quindi ha un volto. Di volta in volta lo può mostrare nella sua benevolenza
(Sal 4, 7; 80, 4. 8. 20) e nasconderlo nella sua *ira (Is 54, 8; Sal 30, 8; 104,
29). In mezzo ad Israele abita questo volto divino. Benché invisibile, esso è
pieno della straordinaria vitalità del *Dio vivente, e questa *presenza della
faccia divina è la forza del suo popolo (Es 33, 14; 2 Sam 17, 11; Deut 4, 37; Is
63, 7). Essa dà il suo valore all’aspirazione *cultuale di *vedere la faccia di
Dio (Sal 42, 3), di «*cercare la faccia di Dio» (Am 5, 4; Sal 27, 8; 105, 4). Ma
poiché il volto di Jahvè è quello del Dio santo e giusto, soltanto «i cuori
retti contempleranno la sua faccia» (Sal 11, 7).
4. Il faccia a faccia con Dio.
- La faccia di Dio è mortalmente temibile per l’uomo (Giud 13, 22; Es 33, 20) a
motivo del suo peccato (Is 6, 5; Sal 51, 11); e tuttavia è la vita e la salvezza
dell’uomo (Sal 51, 13 s). Eccezionalmente «Jahvè conversava con *Mosè faccia a
faccia, come un uomo conversa con il suo *amico» (Es 33, 11). Ma quando Mosè
chiede di vedere la gloria di Dio, vede Dio solo di spalle (Es 33, 18-23).
«Seguire uno significa vederlo di dietro. Così Mosè, che ardeva dal desiderio di
vedere la faccia di Dio, impara come si vede Dio: seguire Dio dovunque egli
conduca, questo stesso è vedere Dio» (Gregorio Nisseno).
5. Sulla faccia di Cristo, Dio ha fatto rispondere per noi il suo volto
e ci ha fatto grazia (cfr. Num 6, 24).
Di fatto su questa faccia risplendette la *gloria di Dio (2 Cor 4, 6); la gloria
della trasfigurazione (Mt 17, 2 par). è il segno che, in Gesù, Dio stesso si è
dato un volto (cfr. Apoc 1, 16) e che in lui si è fatta vedere la faccia che
«nessuno mai ha visto» (Gv 1, 18): «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,
9). È una faccia umana, schernita, velata (Mc 14, 65 par.), sfigurata (cfr. Is
52, 14), ma è «l’impronta della sostanza divina» (Ebr 1, 3). Per aver visto la
gloria di questo volto, il cristiano, per mezzo dello *Spirito Santo che abita
in esso, rimane in permanenza illuminato e trasformato, non con una
manifestazione passeggera come il volto di Mosè (2 Cor 3, 7 s), ma con una
irradiazione di vita e di salvezza: «Noi tutti che, a volto scoperto,
rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati in questa stessa immagine,
sempre più gloriosa, come conviene all’azione del Signore che è spirito» (2 Cor
3, 18). Questa «gloria di Dio sul volto di Cristo» il servizio del *vangelo la
fa irradiare «su ogni coscienza umana» (2 Cor 4, 2-6). Così trasfigurati nello
Spirito dalla gloria del Signore, i cristiani hanno la certezza di scoprire un
giorno «faccia a faccia» colui che non conoscono ancora se non «in uno
specchio», di conoscere come sono conosciuti (1 Cor 13, 12), di «vedere Dio» (Mt
5, 8). Sarà così soddisfatto il *desiderio che attirava Israele al tempio: «Il
trono di Dio e dell’agnello sarà innalzato, ed i servi lo adoreranno, vedranno
la sua faccia» (Apoc 22, 3 s).
F. GILS e J. GUILLET
→ cercare I - cuore I 1 - Dio NT III - fierezza - gloria IV - grazia II 3 - luce
e tenebre VT II 2 - presenza di Dio - vedere.
La fame e la
sete, dato che esprimono un bisogno vitale, rivelano il senso dell’esistenza
umana di fronte a Dio: rivestono perciò una certa ambivalenza (Prov 30, 9). Aver
fame e aver sete è un’esperienza positiva che deve aprire a Dio; ma la
condizione di affamato è un male che Dio non vuole e bisogna cercare di
sopprimerlo; se assume le proporzioni di un fatto collettivo (per esempio, la
carestia), la Bibbia vi vede una *calamità, segno di un *giudizio divino.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Fame e sete, prova della fede.
a) Nel deserto Dio ha fatto passare il suo popolo attraverso
alla fame per *provarlo, e conoscere il fondo del cuore (Deut 8, 1 ss). Israele
doveva imparare che, nella sua esistenza, dipendeva totalmente da Jahvè, il
quale solo gli dà il suo cibo (cfr. *nutrimento) e la sua bevanda. Ma oltre, e
meglio di questi bisogni fisici, Israele deve scoprire un bisogno ancora più
vitale, quello di Dio. La *manna che viene dal cielo evoca appunto ciò che esce
dalla bocca di Dio, cioè la sua parola, la legge, in cui il popolo deve trovare
la vita (Deut 30, 15 ss; 32, 46 s). Ma il popolo non comprende e non pensa che
alle carni dell’Egitto: «Ah! quale ricordo!» (Num 11, 4 s) e Dio, invece della
prova salutare della fame, è ridotto a rimpinzare Israele di carne «finché gli
esca dalle narici» (11, 20; cfr. Sal 78, 26-31).
b) Insediato nella sua terra e saziato dai suoi beni, Israele,
dimenticando la lezione del *deserto, li attribuisce a suo merito e se ne fa
gloria dinanzi a Jahvè (Deut 32, 10-15; Os 13, 4-8). Bisogna che Dio riconduca
il suo popolo nel deserto (Os 2, 5), affinché, morendo di sete, piangendo il suo
grano perduto e le sue vigne devastate (2, 11. 14), il *cuore di Israele si
risvegli (2, 16) e risenta la fame e la sete essenziali, quelle «di ascoltare la
parola di Jahvè» (Am 8, 11).
c) I profeti ed i sapienti raccolgono queste lezioni. Il
bisogno ed il desiderio dei beni, che Dio riserva a coloro che lo amano, è
espresso costantemente nelle immagini del pasto, del pane, dell’acqua, del vino.
Si ha fame del banchetto che Jahvè prepara sul suo monte per tutti i popoli (Is
25, 6), si ha sete della *sapienza che disseta (Prov 5, 15; 9, 5), del *vino
inebriante che è l’amore (Cant 1, 4; 4, 10), si corre a ricevere da Dio, «senza
pagare», la bevanda degli assetati ed il cibo che sazia (Is 55, 1 ss). Ma si ha
sete dell’*acqua più pura, del solo vino la cui ebbrezza (cfr. *ubriachezza) sia
la vita, di Dio (Sal 42, 2); e Dio stesso è pronto a soddisfare questo
desiderio: «Apri larga la tua bocca, ed io la riempirò» (Sal 81, 11).
2. Fame e sete, appello alla carità.
- La prova della fame e della sete deve restare eccezionale. I *poveri,
che non scompariranno dal paese (Deut 15, 11), sono appelli viventi a coloro che
li avvicinano. Uno dei doveri primordiali dell’Israelita è quindi di dare pane
ed acqua al suo *fratello, al suo compatriota (Es 23, 11), a chiunque ne ha
bisogno (Tob 4, 16 s), ed anche al suo *nemico (Prov 25, 21); ciò significa
praticare la *giustizia Ez 18, 7. 16) e rendere il proprio *digiuno gradito a
Dio (Is 58, 7. 10). Alla fine Jahvè stesso interverrà in favore degli affamati
per invitarli al banchetto che sazierà la loro fame e la loro sete (Is 25, 6;
cfr. 65, 13).
NUOVO TESTAMENTO
1. Gesù. messia dei poveri.
- Gesù Cristo, messia dei poveri (Lc 1, 53), proclama che coloro, i quali hanno
fame e sete, saranno saziati (6, 21). Inaugura la sua missione assumendo la
condizione dell’affamato e dell’assetato. Messo alla prova, come Israele nel
deserto, afferma e dimostra che il bisogno essenziale dell’uomo è la parola di
Dio, la volontà del Padre (Mt 4, 4), di cui egli fa il suo cibo e ne vive (Gv 4,
32 ss). Sulla croce, avendo bevuto «il calice che il Padre gli aveva dato» (Gv
18, 11), la sua sete di crocifisso è inseparabile dal desiderio che egli ha di
«adempiere tutta la Scrittura» (Gv 19, 28), di portare a compimento l’opera del
Padre suo, ma anche di «comparire dinanzi alla sua faccia» (Sal 42, 3).
2. Gesù placa e suscita fame e sete.
- Come già aveva fatto Dio nel deserto, Gesù allevia la fame del popolo che lo
segue (Mc 8, 1 ss) e si preoccupa pure di suscitare il desiderio della *parola
di Dio, del vero *pane che è egli stesso (Gv 6), il desiderio dell’*acqua viva
che è il suo *Spirito (Gv 7, 37 ss). Ne suscita la sete nella Samaritana (Gv 4,
1-14), così come invita Marta a desiderare la sua parola, unica cosa necessaria
(Lc 10, 39-42).
3. Il cristiano e gli affamati.
- Per i discepoli di Gesù il dovere di nutrire gli affamati è più
esigente che mai. La sete torturante nella Geenna attende colui che non ha visto
l’affamato alla sua porta (Lc 16, 19-24); la ricompensa è per colui che ha dato
un bicchier d’acqua ad uno dei discepoli di Gesù (Mt 10, 42). Proprio su questo
sarà fatto il giudizio, perché nutrire l’affamato, dissetare l’assetato,
significa placare, attraverso ai suoi *fratelli, la fame e la sete di Gesù (Mt
25, 35. 42). Di questa carità, con cui plachiamo le sofferenze degli altri,
dobbiamo sempre aver sete; la fonte ne è aperta, gratuita, alle anime
desiderose, assetate di Dio e della visione della sua faccia, assetate della
vera vita (Is 55, 1 ss; Apoc 21, 6; 22, 17).
J. BRIÈRE
→ acqua-beatitudine NT II - deserto - desiderio II - nutrimento - pane
- pasto.
→ autorità VT 1 1.2; NT II 2 - bambino - casa - donna VT 2; NT 3 - edificare I 1 - educazione - fratello - generazione - insegnare VT I 1 - madre - matrimonio - padri e Padre - Popolo A II 1 - sacerdozio VT I 1 - uomo I 1 c, Il 1 a.
→ castighi 1 - Egitto - indurimento I 1, II 1.2 - miracolo I 3 - Mosè 1.2 - orgoglio 2 - potenza III 1 - re 0.
La setta ebriaca
dei Farisei (ebr. perûšîm: «i separati») al tempo di Gesù contava circa seimila
membri; come quella degli Esseni, essa è ordinariamente collegata agli Asidei (ebr.
hasidîm: «i pii») che al tempo dei Maccabei lottarono con accanimento contro
l’influenza pagana (1 Mac 2, 42). Comprendeva quasi tutti gli scribi ed i
dottori della legge, ma anche un certo numero di sacerdoti. Organizzando i suoi
membri in confraternite religiose, mirava a mantenerli nella fedeltà alla legge
e nel fervore.
1. Alle origini del conflitto con Gesù.
- Storicamente sembra che la responsabilità della morte di Gesù ricada anzitutto
sulla casta sacerdotale e sui Sadducei; i Farisei non sono nominati nei racconti
della passione (salvo Gv 18, 3); molti sembra siano stati quelli che vollero
prendere contatto con Gesù invitandolo alla loro tavola (Lc 7, 36; 11, 37; 14,
1); taluni di essi presero apertamente la difesa di Gesù (Lc 13, 31; Gv 7, 50) e
dei cristiani (Atti 5, 34; 23, 9); parecchi videro in Gesù Cristo colui che
portava a *compimento la loro fede giudaica (Atti 15, 5); così Paolo, il loro
rappresentante più illustre (Atti 26, 5; Fil 3, 5). Nondimeno è certo che un
gran numero di essi si oppose ferocemente all’insegnamento ed alla persona di
Gesù. Questa opposizione, e non l’opportunismo dei sommi sacerdoti, presentava
interesse agli occhi degli evangelisti, perché caratterizzava il conflitto tra
giudaismo e cristianesimo. Per non giudicare farisaicamente i Farisei del tempo
passato, è necessario riconoscere le qualità che stanno all’origine dei loro
eccessi. Gesù ammira il loro *zelo (Mt 3, 15), la loro preoccupazione della
perfezione e della *purità (5, 20); Paolo sottolinea la loro volontà di
praticare minuziosamente la legge; sono ammirevoli nel loro attaccamento a
tradizioni orali vive. Ma, forti della loro scienza legale, certuni di essi
annientano il precetto di Dio sotto le loro *tradizioni umane (Mt 15, 1-20),
disprezzano gli ignoranti, in nome della loro propria giustizia (Lc 18, 11 s);
impediscono ogni contatto con i peccatori ed i pubblicani, limitando così al
loro orizzonte 1’*amore di Dio; considerano persino di avere diritti su Dio, in
nome della loro pratica (Mt 20, 1-15; Lc 15, 25-30). E poiché, secondo Paolo
(Rom 2, 17-24), non possono mettere in pratica questo ideale, si comportano da
*ipocriti, «sepolcri imbiancati» (Mt 23, 27). Questo è l’universo legalista che
hanno dipinto i vangeli, non senza precisare come deve essere il comportamento
di questo o quello. È già chiara l’intenzione degli autori di non fermarsi a
degli individui, ma di considerare l’atteggiamento di coloro che sono ciechi a
qualsiasi luce che venga da fuori e che si rifiutano di riconoscere in Gesù
altro che un impostore od un alleato del demonio.
2. Il fariseismo.
- Questa utilizzazione del termine «farisei» in un contesto di polemica ha
purtroppo determinato un abuso di linguaggio che non si può definire cristiano.
Tuttavia se si ha cura di stigmatizzare così, non i Giudei, ma il comportamento
di ogni uomo chiuso, il fariseismo così inteso non ha nulla a che vedere con il
fariseismo: è uno spirito opposto al vangelo. Il quarto vangelo ha conservato
alcune scene tipiche sull’accecamento dei Farisei (Gv 8, 13; 9, 13. 40), ma li
assimila ordinariamente ai «*Giudei», facendo così vedere che il loro conflitto
con Gesù ha un valore ultrastorico. C’è fariseismo quando ci si ricopre della
maschera della *giustizia per dispensarsi dal viverla internamente o dal
riconoscersi *peccatori e dall’ascoltare la chiamata di Dio, quando si chiude
l’amore di Dio nella stretta cerchia della propria scienza religiosa. Questa
mentalità si ritrova nel cristianesimo nascente, nei giudeocristiani con i quali
si scontrò Paolo (Atti 15, 5): essi vogliono sottomettere a pratiche giudaiche i
convertiti provenienti dal paganesimo, e mantenere così sotto il giogo della
*legge coloro che ne erano stati *liberati dalla morte di Cristo. Fariseismo
ancora nel cristiano che disprezza il Giudeo troncato dall’albero (Rom 11, 18
ss). Il fariseismo minaccia il cristianesimo nella misura in cui questo ritorna
allo stadio di un’osservanza legale e disconosce l’universalità della *grazia.
J. CANTINAT e X. LÉON
DUFOUR
→ empio NT 1 - Giudeo - incredulità II 1 - ipocrita - legge B III 5; C I 1 -
orgoglio 1.3 - retribuzione III 2 - zelo II 1.
→ liberazione-libertà I - predestinare.
→ lavoro - riposo.
→ eresia 3 - errore NT - insegnare NT II 3 - verità 2 c.
Dio, la cui
pienezza sovrabbondante è fecondità oltre ogni misura, ha creato Adamo a sua
*immagine, ad immagine di quel Figlio unico che esaurisce da solo la fecondità
divina ed eterna. Per realizzare questo mistero, l’uomo, trasmettendo la *vita,
comunica nel corso del tempo la propria immagine, sopravvivendo così nelle
*generazioni.
I. L’APPELLO ALLA FECONDITÀ
Dal fondo delle età risuona l’appello incessante del creatore: «Crescete e
moltiplicatevi!», e la creatura riempie la terra.
1. Il comando e la benedizione.
- Chiamando, Dio dà modo di rispondere. Questo è il significato della
*benedizione, che, dopo aver penetrato le piante e gli animali, rende l’uomo e
la donna capaci di «creare» degli esseri a loro immagine. La gioia della
fecondità fa quindi esultare Eva, madre dei viventi, al momento del suo primo
parto: «Grazie a Jahvè ho procreato un figlio» (Gen 4, 1). Il libro della Genesi
è la storia delle *generazioni dell’uomo: genealogie, aneddoti, nascite
desiderate, difficili, impossibili, progetti di matrimonio, vera corsa alla
generazione. Come una sinfonia che sviluppa l’accordo di base stabilito dal
Signore all’aurora del tempo. Il Signore scandisce questa storia con le
benedizioni che, oltre alla terra promessa, annunciano una «posterità numerosa
come le stelle del cielo e la sabbia in riva al mare» (Gen 22, 17). Sarà lo
stesso per la Gerusalemme di dopo l’esilio, che vede venire verso di lei i suoi
figli (Is 49, 21; 54, 1 ss; 60, 4. 15; 62, 4).
2. La protezione delle sorgenti della vita.
- Due racconti fan vedere, tra altri insegnamenti, il rispetto di cui bisogna
circondare le origini della vita. Non bisogna guardare la nudità del proprio
padre, anche se ubriaco, sotto pena di incorrere nella *maledizione (Gen 9,
20-27); Dio in persona interviene quando è minacciato il seno delle mogli dei
patriarchi. Infatti Sara, Rebecca devono essere le madri del popolo eletto, di
Israele: come oserebbero il faraone (Gen 12, 12-20) oppure Abimelech (Gen 20;
26, 7-12) mescolare le loro opere umane all’azione di Dio? Ed Onan che, nel suo
egoismo, pretende di impedire al *seme di suscitare la vita, perde egli stesso
la vita (Gen 38, 8 ss).
3. Leggi e cantici.
- La legge viene a proteggere a sua volta la fecondità umana enunciando
interdetti: regole concernenti i mestrui della donna (Lev 20, 18), protezione
delle fanciulle e delle fidanzate (Deus 22, 23-29), ed anche sanzioni su certi
atti (ad es. Deut 25, 11 s)... Anche se queste regole, indubbiamente di origine
premosaica, derivano da tabù istintivi, sono riprese ed orientate in funzione
della fecondità del popolo eletto. E la legge conclude: «Se sei fedele a Jahvè,
sarà benedetto il frutto delle tue viscere» (Deut 28, 4). A loro volta i salmi
ripetono in coro: «Generosità di Jahvè i figli, ricompensa il frutto delle
viscere» (Sal 127, 3; cfr. Sal 128, 3; Prov 17, 6). Ed ecco l’augurio classico
rivolto alla giovane sposa: «O sorella nostra, possa tu diventare migliaia di
miriadi!» (Gen 24, 60; cfr. Rut 4, 11 s).
II. ALLA RICERCA DELLA POSTERITÀ
Animato dalla benedizione divina e dall’augurio degli uomini, il sogno di ognuno
è di perpetuare il proprio *nome oltre la morte.
1. Il profondo desiderio della natura è espresso in un
racconto di carattere scandaloso, ma ammirato dalla tradizione rabbinica
posteriore (Gen 19, 30-38). Piuttosto di lasciarsi appassire senza portare
frutto, le figlie di Lot, derelitte, fanno in modo che il loro padre, a sua
insaputa, susciti loro una discendenza. Questo racconto di un incesto,
indubbiamente condannato dalla legge (cfr. Lev 18, 6-18), vuole essere una
satira contro i Moabiti, ma lascia trasparire una certa ammirazione per
l’astuzia delle figlie di Eva che compirono in tal modo il voto del creatore.
2. La legge del levirato (Deut 25, 5-10) prende la
difesa di colui che è morto senza posterità (Rut 4, 5. 10); il cognato di una
vedova senza figli, in certe condizioni, le deve suscitare una progenie. Il
poema di Rut è scritto a gloria della fecondità, che è assicurata nonostante la
morte o l’esilio. Esso prolunga la storia di Tamar che non esita a passare per
una prostituta ed ottiene in tal modo di essere feconda, nonostante l’egoismo
del cognato Onan e l’ingiustizia del suocero Giuda (Gen 38, 6-26; cfr. Rut 4,
12; Mt 1, 3).
3. Per lottare contro la *sterilità si ricorre all’adozione
mediante lo stratagemma, allora legale, consistente nel far partorire la serva
sulle proprie ginocchia, cioè nel considerare come proprio il figlio del proprio
sposo (Gen 16, 2; 30, 3...) oppure della propria figlia (Rut 4, 16 s). Le
genealogie non si preoccupano molto di seguire di padre in figlio la catena
delle *generazioni. Il dono fisico della vita, se è alla base della paternità,
non ne esaurisce il senso, perché la benedizione divina non si trasmette
soltanto con i vincoli del sangue. Così, quando la Genesi racconta come fu
popolata la terra, le genealogie possono fare di un uomo il padre di una città o
di una nazione: l’autore vuol dire che all’origine dei popoli non c’era soltanto
l’estensione di un ceppo, ma c’erano immigrazioni, matrimoni, alleanze,
conquiste. La linea razziale potrà quindi allargarsi ed assumere valore
spirituale; nella discendenza di Abramo, dei proseliti verranno ad unirsi al
clan privilegiato. Così la storia biblica è anzitutto una genealogia. Concezione
dell’esistenza secondo cui l’uomo è rivolto tutto verso il futuro, verso Colui
che deve venire: tale è il senso dell’impulso posto nell’uomo dal creatore: non
soltanto sopravvivere, ma contemplare un giorno in un figlio d’uomo l’immagine
perfetta di Dio.
III. LA FECONDITÀ IN CRISTO
Questa immagine si è manifestata in Gesù Cristo, che non sopprime, ma soddisfa
il desiderio della fecondità dandogli il suo senso pieno.
1. Gesù Cristo e le generazioni umane.
- Secondo il VT la storia dell’uomo si compie nella sua posterità (cfr.
Gen 5, 1; 11, 10; 25, 19 ...), e tutta la storia è rivolta ansiosamente verso il
futuro in cui si compirà la promessa. Gesù non ha discendenti secondo la carne,
ma ha degli antenati ed una posterità spirituale.
a) Cristo viene alla fine della storia sacra, nella
pienezza dei *tempi (Gal 4, 4). Secondo un computo apocalittico del libro di
Enoch, inaugura la settima settimana, quella del Messia, a partire dalla
chiamata di Abramo; questa è forse l’intenzione di Matteo nel riferire le 3 X 14
*generazioni che costituiscono la genealogia di Cristo (Mt 1, 1-17). Gesù si
presenta come l’erede definitivo, colui che le generazioni attendevano da
secoli.
b) Cristo realizza l’universalismo abbozzato nel VT.
Quattro nomi di donne scandiscono la genealogia, che non sono quelli delle mogli
di patriarchi, ma quelli di straniere o di madri che partorirono in condizioni
irregolari: Tamar (Gen 38) e Rahab (Gios 2, 11); Rut (Rut 1, 16; 2, 12) e
Betsabea (2 Sam 11, 3). Il fiore di Israele ha nella sua ascendenza degli
antenati che lo collegano ad un terreno non giudaico e non giusto, e lo fanno
erede nello stesso tempo della gloria e del peccato degli uomini. Contrasto tra
la fecondità secondo la carne e la maternità tutta pura, divina della Vergine
che partorisce per opera dello Spirito Santo.
c) Cristo è la fine della storia, perché è il nuovo
*Adamo di cui Matteo riferisce la «genesi» (Mt 1, 1; cfr. Gen 5, 1). Il futuro è
ormai giunto in colui che doveva venire. Il passato trova in lui il suo senso.
Gesù realizza in una generazione spirituale la trasmissione terrena delle
benedizioni di Dio. Israele aumentava per la nascita di nuovi figli d’uomo; il
*corpo di Cristo cresce per la *nascita spirituale dei figli di Dio.
2. Vita di fede e fecondità verginale.
- Gesù non ha giudicato opportuno rinnovare il comandamento della
Genesi sul dovere della fecondità; in contrasto con la tradizione giudaica che
un giorno esclamerà: «Non procreare significa versare sangue umano», egli ha
persino incoraggiato la *sterilità volontaria (Mt 19, 12); di più, ha rivelato
il senso della fecondità stessa. Gesù lo ha fatto in primo luogo a proposito di
*Maria. Non nega la bellezza della sua vocazione materna; ma alla donna che va
in estasi su una simile fortuna, ne rivela il senso profondo: «Beati piuttosto
coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono!» (Lc 11, 27). Maria è
beata perché ha creduto; con la sua maternità verginale è il modello di tutti
coloro che mediante la fede aderiscono senza riserva a Dio solo. Gesù precisa
ancora in quale senso la *fede è fecondità spirituale; vuole ignorare i suoi
congiunti secondo la carne, e proclama: «Chi è mia madre? Chi sono i miei
fratelli? Chiunque fa la *volontà di Dio, questi è a me fratello, sorella e
madre» (Mt 12, 48 s par.). Generando il suo Figlio, Dio ha detto tutto e fatto
tutto. Il credente che si unisce a Dio partecipa quindi alla generazione del
Figlio. La fecondità spirituale suppone la verginità della fede.
3. La fecondità della Chiesa.
- Assicurando la loro fecondità spirituale, i credenti non fanno che partecipare
alla fecondità della Chiesa intera. La loro opera è quella della *donna che
partorisce, la *madre del bambino maschio (Apoc 12). Tale è in primo luogo la
funzione dell’apostolo, vissuta ed enunciata da Paolo in modo privilegiato. Come
una madre, egli partorisce nuovamente nel dolore (Gal 4, 19), nutre i suoi
piccoli ed ha cura di essi (1 Tess 2, 7; 1 Cor 3, 2); padre unico, egli li ha
generati in Cristo (1 Cor 4, 15) e li esorta con fermezza (1 Tess 2, 11). Queste
immagini non sono semplici metafore, ma esprimono un’esperienza autentica
dell’apostolato nella Chiesa.Ogni credente deve quindi portare *frutto nella
Chiesa, come vero tralcio della vera vite (Gv 15, 2-8). Mediante queste *opere
egli glorifica la fonte di ogni fecondità, il *Padre che è nei cieli (Mt 5, 16).
X. LÉON-DUFOUR
→ bambino - benedizione - casa I 2 - crescita - donna VT 2; NT 1 - frutto -
generazione - grazia V - madre - matrimonio - morte VT III 4; NT II 2, III 3 -
padri e Padre I, II - seminare II 1 - sessualità I 1 - solitudine I 2, II 2 -
sterilità - uragano 1-3 - verginità - visita VT 1 - vita - vite-vigna 2.
Per la Bibbia la
fede è la sorgente e il centro di tutta la vita religiosa. Al disegno, che Dio
realizza nel tempo, l’uomo deve rispondere mediante la fede. Sulle orme di
Abramo, «padre di tutti coloro che credono» (Rom 4, 11), i personaggi esemplari
del VT sono vissuti e sono morti nella fede (Ebr 11) che Gesù «porta a
perfezione» (Ebr 12, 2). I discepoli di Cristo sono «coloro che hanno creduto»
(Atti 2, 44) e «che credono» (1 Tess 1, 7). La varietà del vocabolario ebraico
della fede riflette la complessità dell’atteggiamento spirituale del credente.
Tuttavia due radici sono dominanti: ‘aman (cfr. *amen) evoca la fermezza e la
certezza; batah, la sicurezza e la *fiducia. Il vocabolario greco è ancora più
vario. Di fatto la religione greca praticamente non concedeva posto alla fede;
quindi i LXX, non disponendo di parole appropriate per rendere l’ebraico, sono
andati a tastoni. Alla radice batah, corrispondono soprattutto: elpìs, elpìzo,
pèpoitha (Volg.: spes, sperare, confido); alla radice ‘aman: pìstis, pistèuo,
alètheia (Volg.: fedes, credere, veritas). Nel NT le ultime parole greche,
relative al campo della conoscenza, diventano nettamente predominanti. Lo studio
del vocabolario rivela già che la fede, secondo la Bibbia, ha due poli: la
fiducia che si pone in una persona «fedele» ed impegna tutto l’uomo; e
dall’altra parte, un passo dell’intelligenza, cui una parola o dei *segni
permettono di accedere a realtà che non si vedono (Ebr 11, 1). Abramo, padre dei
credenti. - Jahvè chiama *Abramo, il cui padre «serviva altri dèi» in Caldea (Gios
24, 2; cfr. Giudit 5, 6 ss), e gli promette una *terra ed una numerosa
discendenza (Gen 12, 1 s). Contro ogni verosimiglianza (Rom 4, 19), Abramo
«crede in Dio» (Gen 15, 6) e nella sua parola, obbedisce a questa *vocazione ed
impegna la sua esistenza su questa *promessa. Nel giorno della *prova la sua
fede sarà capace di sacrificare il figlio nel quale è già realizzata la promessa
(Gen 22); per questa fede infatti la *parola di Dio è ancor più vera dei suoi
frutti: Dio è *fedele (cfr. Ebr 11, 11) ed onnipotente (Rom 4, 21). Abramo è
ormai il tipo stesso del credente (Eccli 44, 20); preannunzia coloro che
scopriranno il vero Dio (Sal 47, 10; cfr. Gal 3, 8) od il Figlio suo (Gv 8,
31-41. 56), coloro che si rimetteranno, per la propria salvezza, a Dio solo ed
alla sua parola (1 Mac 2, 52-64; Ebr 11, 8-19). Un giorno la promessa si
realizzerà nella risurrezione di Gesù, discendenza di Abramo (Gal 3, 16; Rom 4,
18- 25). Abramo sarà allora il «padre di una moltitudine di popoli» (Rom 4, 17
s; Gen 17, 5): tutti coloro che la fede unirà a Gesù.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA FEDE, ESIGENZA DELL’ALLEANZA
Il Dio di Abramo *visita in Egitto il suo popolo infelice (Es 3, 16). Chiama
Mosè, gli si rivela e gli promette «d’essere con lui» per condurre Israele nella
sua *terra. (Es 3, 1-15). «Come se *vedesse l’invisibile», Mosè risponde a
questa iniziativa divina con una fede che «rimarrà salda» (Ebr 11, 23- 29)
nonostante eventuali debolezze (Num 20, 1-12; Sal 106, 32 s). *Mediatore, egli
comunica al popolo il disegno di Dio, mentre i suoi *miracoli indicano l’origine
della sua *missione. Israele è così chiamato a «credere in Dio e in Mosè, suo
servo» (Es 14, 31; Ebr 11, 29) con un’assoluta fiducia (Num 14, 11; Es 19, 9).
L’*alleanza consacra questo impegno di Dio nella storia di Israele. In cambio,
esige che Israele *obbedisca alla *parola di Dio (Es 19, 3-9). Ora, «*ascoltare
Jahvè» significa anzitutto «credere in lui» (Deut 9, 23; Sal 106, 24 s);
l’alleanza esige quindi la fede (cfr. Sal 78, 37). La vita e la morte di Israele
dipenderanno ormai dalla sua libera *fedeltà (Deut 30, 15-20; 28; Ebr 11, 33)
nel mantenere l’amen della fede (cfr. Deut 27, 9-26) che ha fatto di lui il
*popolo di Dio. Nonostante le innumerevoli infedeltà che costituiscono il
tessuto della storia della traversata del deserto, della conquista della terra
promessa e dello stanziamento in Canaan, questa epopea ha potuto essere così
riassunta: «Per mezzo della fede caddero le mura di Gerico... e mi manca il
tempo per parlare di Gedeone, Barac, Sansone, Jefte, David» (Ebr 11, 30 ss).
Secondo le promesse dell’alleanza (Deut 7, 17-24; 31, 3-8), l’onnipotente
fedeltà di Jahvè si era sempre manifestata al servizio di Israele, quando
Israele aveva avuto fede in essa. Quindi, proclamare queste meraviglie del
passato e in particolare dell’esodo come le gesta del Dio invisibile,
significava per Israele *confessare una fede (Deut 26, 5-9; cfr. Sal 78; 105)
che si trasmetteva di generazione in generazione, in particolare in occasione
delle grandi *feste annuali (Es 12, 26; 13, 8; Deut 6, 20). Il popolo conservava
così *memoria dell’amore di Jahvè suo Dio (Sal 136).
II. I PROFETI E LA FEDE DI ISRAELE IN PERICOLO
Le difficoltà dell’esistenza di Israele sino alla sua rovina furono una
dura *tentazione per la sua fede. I profeti denunciarono l’*idolatria (Os 2,
7-15; Ger 2, 5-13) che sopprimeva la fede in Jahvè, il formalismo cultuale (Am
5, 21; Ger 7, 22 s) che ne limitava mortalmente le esigenze, la ricerca della
salvezza con la *forza delle armi (Os 1, 7; Is 31, 1 ss). Isaia fu il più
notevole di questi araldi della fede (Is 30, 15). Egli richiama Achaz dal
*timore alla *fiducia serena in Jahvè (7, 4-9; 8, 5-8) che manterrà le sue
promesse alla casa di David (2 Sam 7; Sal 89, 21-38). Ispira ad Ezechia la fede
che permetterà a Jahvè di salvare Gerusalemme (2 Re 18- 20). E nella fede scopre
la *sapienza paradossale di Dio (Is 19, 11-15; 29, 13 - 30, 6; cfr. 1 Cor 1,
195). La fede di Israele fu minacciata specialmente in occasione della caduta di
Gerusalemme e dell’esilio. «Miserabile e povero» (Is 41, 17), Israele correva
rischio di attribuire la sua sorte all’impotenza di Jahvè e di rivolgersi agli
dèi di Babilonia vittoriosa. I profeti proclamano allora l’onnipotenza del Dio
di Israele (Ger 32, 27; Ez 37, 14), creatore del mondo (Is 40, 28 s; cfr. Gen
1), signore della storia (Is 41, 1-7; 44, 24 s), *roccia del suo popolo (44, 8;
50, 10). Gli *idoli non sono nulla (44, 9-20). «Fuori di Jahvè non c’è altro
dio» (44, 6 ss; 43, 8-12; cfr. Sal 115, 7-11); contro ogni apparenza egli merita
sempre una fiducia totale (Is 40, 31; 49, 23).
III. I PROFETI E LA FEDE DELL’ISRAELE FUTURO
1. La fede, realtà futura.
- Israele nel complesso non ascolta l’appello di Dio lanciato dai profeti (Ger
29, 19). Per udirlo, si sarebbe dovuto innanzitutto credere ai profeti (Tob 14,
4) come un tempo in Mosè (Es 14, 31). Ma Israele qui incontrava un duplice
ostacolo. Prima di tutto l’esistenza dei falsi profeti (Ger 28, 15; 29, 31):
come distinguerli dai profeti autentici (23, 9-32; Deut 13, 2-6; 18, 9-22)? Poi
la stessa fede, a motivo delle sue prospettive paradossali e delle sue difficili
esigenze pratiche. Il Dio *fedele non poteva mancare di realizzare le sue
*promesse. Ma, nel quadro dell’alleanza, questa realizzazione dipendeva dalla
fede; e questa fede all’Israele storico mancava. Per i profeti, la fede divenne
perciò una realtà futura che sarebbe stata concessa da Dio all’Israele della
nuova alleanza. Un giorno, Dio rinnoverà i *cuori (Ger 32, 39 s; Ez 36, 26) che
potranno così passare dall’*indurimento (Is 6, 9 s) alla fede (Rom 10, 9 s; cfr.
Gv 12, 37-43); vi infonderà la *conoscenza (Ger 31,33s) e l’*obbedienza (Ez 36,
27) la cui fonte è la fede.
2. La fede, legame dell’Israele futuro.
- I profeti, su esempio di *Abramo e di *Mosè, collocavano dal canto
loro alla base della propria vita la fede in Jahvè, nella propria *vocazione e
nella propria *missione (cfr. Ebr 11, 33-40). Questa fede spesso era,
improvvisamente,incrollabile (Is 6; 7, 17; 12, 2; 30, 18). Talvolta esitava a
consolidarsi di fronte alla *prova di una chiamata troppo esigente (Ger 1; cfr.
Es 3, 10 ss; 4, 1-17) o di un’apparente assenza di Dio (1 Re 19; Ger 15, 10-21;
20, 7-18), prima di pervenire a una fermezza definitiva (Ger 26, 37- 38). Questa
fede dei profeti comunque irraggiava in un gruppo più o meno nutrito di
discepoli (cfr. Is 8, 16; Ger 45) e di ascoltatori. Appariva così sempre di più
come un impegno e un atteggiamento personale che riunivano già il *resto
annunciato dai profeti. Questi vedono l’Israele futuro ad immagine di queste
piccole comunità. Riunito nella fede nella misteriosa *pietra di Sion (Is 28,
16; cfr. 1 Piet 2, 6 s), sarà un popolo di *poveri che la fede in Dio avvicina
(Mi 5, 6 s; Sof 3, 12-18). Solo «il giusto vivrà, grazie alla sua fedeltà (LXX:
alla sua fede)» (Ab 2, 4). 1 profeti intravvedono quindi non più una nazione
salvata come tale, ma già una *chiesa, una comunità di poveri il cui legame è la
fede personale. Per questo popolo della fede, il *servo di Jahvè sarà una figura
esemplare. Alle prese con una *prova che si spinge fino alla *morte (Is 50, 6;
53) «irrigidisce il volto» in una fede assoluta in Dio (Is 50,7 ss; cfr. Lc 9,
51) che l’avvenire giustificherà (53, 10 ss; cfr. Sal 22).
3. La fede delle nazioni
- La missione del servo si estende alle *nazioni (ls 42, 4; 49, 6). Del resto,
visto che l’Israele futuro sarà riunito innanzitutto dalla fede, potrà aprire le
proprie file alle nazioni. Esse, così, nella fede scopriranno il Dio unico (43,
10), lo confesseranno come tale (45, 14; 52, 15; cfr. Rom 10, 16; 56, 1-8) e
attenderanno la salvezza solo dal suo potere (51, 5 s).
IV. VERSO IL RADUNO DEI CREDENTI
Nei secoli seguenti l’esilio, l’Israele storico tende a configurarsi
all’Israele futuro intravvisto dai profeti, senza tuttavia cessare di essere una
nazione per diventare una vera «*assemblea di credenti» (1 Mac 3, 13).
1. La fede dei sapienti, dei poveri e dei martiri.
- Al pari dei profeti, i sapienti di Israele sapevano da tempo di non
dover contare che su Jahvè per essere «salvati» (Prov 20, 22). Quando ogni
salvezza sparisce sul piano visibile, la *sapienza esige una fiducia totale in
Dio (Giob 19, 25 s), con una fede che «sa» che Dio rimane onnipotente (Giob 42,
2). Qui i sapienti sono vicinissimi ai *poveri che hanno cantato la loro fiducia
nei salmi. Tutto il salterio proclama la fede di Israele in Jahvè, Dio unico (Sal
18, 32; 115), creatore (8; 104) onnipotente (29), Signore fedele (89) e
misericordioso (136) per il suo popolo (105), re universale del futuro (47; 96 -
99). Molti salmi esprimono la fiducia di Israele in Jahvè (44; 74; 125). Ma le
più alte testimonianze di fede sono *preghiere in cui la fede di Israele si
manifesta in una fiducia individuale di rara qualità. Fede del giusto
perseguitato in Dio, che presto o tardi lo salverà (7; 11; 27; 31; 62); fiducia
del peccatore nella misericordia di Dio (40, 13 18; 51; 130); tranquilla
sicurezza di Dio (4; 23; 121; 131), più forte della morte (16; 49; 73): tale e
la preghiera dei poveri, riuniti dalla certezza che al di là di ogni prova (22)
Dio riserva loro la buona novella (Is 61, l; cfr. Lc 4, 18) ed il possesso della
terra (Sal 37, 11; cfr. Mt 5, 4). Per la prima volta senza dubbio nella sua
storia (cfr. Dan 3), Israele, dopo l’esilio, è esposto ad una sanguinosa
*persecuzione religiosa (1 Mac 1, 62 ss; 2, 29-38; cfr. Ebr 11, 37 s). I
*martiri non muoiono soltanto malgrado la loro fede, ma a motivo di essa.
Tuttavia la fede dei martiri, affrontando questa suprema assenza di Dio, non
vien meno (1 Mac 1, 62); anzi, si approfondisce fino a sperare, dalla fedeltà di
Dio, la *risurrezione (2 Mac 7; Dan 12, 2 s) e l’immortalità (Sap 2, 19 s; 3,
1-9). Così, affermandosi sempre più, la fede personale raduna a poco a poco il
*resto beneficiario delle promesse (Rom 11, 5).
2. La fede dei pagani convertiti.
- Alla stessa epoca, una corrente missionaria passa in Israele. Come già Naaman
(2 Re 5), numerosi pagani credono nel Dio di Abramo (cfr. Sal 47, 10). Si scrive
allora la storia dei Niniviti che la predicazione di un solo profeta - a
vergogna di Israele - porta a «credere in Dio» (Giona 3, 4 s; cfr. Mt 12, 41);
quella della conversione di Nabuchodonosor (Dan 3 - 4) o di Achior che «crede ed
entra nella casa di Israele» (Giudit 14,10; cfr. 5, 5-21): Dio lascia alle
*nazioni il tempo di «credere in lui» (Sap. 12, 2; cfr. Eccli 36, 4).
3. Le imperfezioni della fede di Israele.
- La persecuzione suscitò certo dei martiri, ma anche dei combattenti che
rifiutavano di morire senza lottare (1 Mac 2, 39 ss) per liberare Israele (2,
11). Essi contavano su Dio per assicurare la loro *vittoria in una lotta
disuguale (2, 49-70; cfr. Giudit 9, 11-14). Fede ammirevole in se stessa (cfr.
Ebr 11, 34. 39), ma che coesisteva con una certa fiducia nella *forza umana.
Un’altra imperfezione minacciava la fede di Israele. Martiri e combattenti erano
morti per fedeltà a Dio e alla *legge (1 Mac 1, 52-64). Di fatto Israele aveva
finito per comprendere che la fede richiedeva l’*obbedienza alle esigenze
dell’alleanza. In questa linea essa era minacciata dal pericolo cui
soccomberanno molti *farisei: formalismo che badava più alle esigenze rituali
che agli appelli religiosi e morali della *Scrittura (Mt 23, 13-30), *orgoglio
che faceva più assegnamento sull’uomo e sulle sue *opere che non su Dio solo per
essere *giustificati (Lc 18, 9-14). La fiducia di Israele in Dio non era quindi
pura, in parte perché sussisteva un velo tra la sua fede ed il disegno di Dio
annunciato dalla Scrittura (2 Cor 3, 14). D’altronde la vera fede non era stata
promessa che all’Israele futuro. I pagani, dal canto loro, difficilmente
potevano condividere una fede che sfociava in primo luogo in una *speranza
nazionale od in pesantissime esigenze rituali. D’altronde, che cosa avrebbero
guadagnato a farlo (Mt 23, 23)? Infine, accedere alla fede dei poveri non poteva
far partecipi i pagani di una salvezza che non era ancora che una speranza.
Israele - e le nazioni - non poteva quindi che attendere colui che avrebbe
portato la fede a perfezione (Ebr 12, 2; cfr. 11, 39 s) e avrebbe ricevuto lo
Spirito «oggetto della promessa» (Atti 2, 33).
NUOVO TESTAMENTO
I. LA FEDE NEL PENSIERO E NELLA VITA DI GESÙ
1. Le preparazioni.
- La fede dei *poveri (cfr. Lc 1, 46-55) accoglie il primo annunzio
della salvezza. Imperfetta in Zaccaria (1, 18 ss; cfr. Gen 15, 8), esemplare in
Maria (Lc 1, 35 ss. 45; cfr. Gen 18, 14), condivisa a poco a poco da altri (Lc 1
- 2 par.), l’umiltà delle apparenze non le vela l’iniziativa divina. Coloro che
credono in Giovanni Battista sono pure dei poveri, coscienti del loro peccato, e
non dei *farisei orgogliosi (Mt 21, 23-32). Questa fede li raduna a loro
insaputa attorno a Gesù, venuto tra essi (3, 11-17 par.), e li orienta verso la
fede in lui (Atti 19, 4; cfr. Gv 1, 7).
2. La fede in Gesù e nella sua parola.
- Tutti potevano «sentire e vedere» (Mt 13, 13 par.) la *parola ed i *miracoli
di Gesù che proclamavano la venuta del regno (11, 3-6 par.; 13, 16-17 par.). Ma
«*ascoltare la parola» (11, 15 par.; 13, 19-23 par.) e «metterla in pratica» (7,
24-27 par.; cfr. Deut 5, 27), *vedere veramente, in una parola: «credere» (Mc 1,
15; Lc 8, 12; cfr. Deut 9, 23), fu la caratteristica dei *discepoli (Lc 8, 20
par.). D’altra parte, parola e miracoli ponevano la domanda: «Chi è costui?» (Mc
4, 41; 6, 1-6. 14 ss par.). Questa questione fu una *prova per *Giovanni
Battista (Mt 11, 2 s) ed uno *scandalo per i farisei (12, 22-28 par.; 21, 23
par.). La fede richiesta per i miracoli (Lc 7, 50; 8, 48) non vi rispondeva che
parzialmente riconoscendo la onnipotenza di Gesù (Mt 8, 2; Mc 9, 22 s). Pietro
diede la vera risposta: «Tu sei il Cristo» (Mt 16, 13-16 par.). Questa fede in
Gesù unisce ormai i discepoli con lui e tra di loro, facendoli partecipi del
segreto della sua persona (16, 18-20 par.). Attorno a Gesù, che è un *povero (Mt
11, 29) e si è rivolto ai poveri (5, 2-10 par.; 11, 5 par.), si è così
costituita una comunità di poveri, di «piccoli» (10, 42), il cui legame, più
prezioso di ogni cosa, è la fede in lui e nella sua parola (18, 6-10 par.).
Questa fede viene da Dio (11, 25 par.; 16, 17) e sarà condivisa un giorno dalle
*nazioni (8, 5-13 par.; 12, 38-42 par.). Le profezie si compiono.
3. La perfezione della fede.
- Quando Gesù, il *servo, prende la via di Gerusalemme per *obbedire fino alla
*morte (Fil 2, 7 s), «fa il viso duro» (Lc 9, 51; cfr. Is 50, 7). In presenza
della morte egli «porta alla *perfezione la fede» (Ebr 12, 2) dei poveri (Lc 23,
46 = Sal 31, 6; Mt 27, 46 par. = Sal 22), mostrando una fiducia assoluta in
«colui che poteva», con la risurrezione, «salvarlo dalla morte» (Ebr 5, 7).
Malgrado la loro conoscenza dei *misteri del regno (Mt 13, 11 par.), i discepoli
ebbero difficoltà a mettersi sulla via in cui, nella fede, dovevano *seguire il
*figlio dell’uomo (16, 21- 23 par.). La fiducia che esclude ogni *preoccupazione
ed ogni *timore (Lc 12, 22-32 par.) non era loro abituale (Mc 4, 35-41; Mt 16,
5-12 par.). Quindi, la *prova della passione (Mt 26, 41) sarà per essi uno
*scandalo (26, 33). Ciò che allora essi vedono richiede molta fede (cfr. Mc 15,
31 s). La fede dello stesso Pietro, senza sparire - perché Gesù aveva pregato
per essa (Lc 22, 32) - non ebbe il coraggio di affermarsi (22, 54-62 par.). La
fede dei discepoli doveva ancora fare un passo decisivo per diventare la fede
della Chiesa.
II. LA FEDE DELLA CHIESA
1. La fede pasquale.
- Questo passo fu compiuto quando i discepoli, dopo molte esitazioni in
occasione delle *apparizioni di Gesù (Mt 28, 17; Mc 16, 11-14; Lc 24, 11),
credettero alla sua *risurrezione. *Testimoni di tutto ciò che Gesù ha detto e
fatto (Atti 10, 39), essi lo proclamano «Signore e Cristo», nel quale sono
compiute invisibilmente le promesse (2, 33-36). Ora la loro fede è capace di
giungere «fino al sangue» (cfr. Ebr 12, 4). Essi chiamano i loro uditori a
condividerla per beneficiare della promessa ottenendo la remissione dei loro
peccati (Atti 2, 38 s; 10, 43). La fede della Chiesa è nata.
2. La fede nella parola.
- Credere significa innanzitutto accogliere questa *predicazione dei
testimoni, il *vangelo (Atti 15, 7; 1 Cor 15, 2), la *parola (Atti 2, 41; Rom
10, 17; 1 Piet 2, 8), *confessando Gesù come *Signore (1 Cor 12, 3; Rom 10, 9;
cfr. 1 Gv 2, 22). Questo messaggio iniziale, trasmesso come una *tradizione (1
Cor 15, 1-3), potrà arricchirsi e precisarsi in un *insegnamento (1 Tim 4, 6; 2
Tim 4, 1-5): questa parola umana sarà sempre, per la fede, la parola stessa di
Dio (1 Tess 2, 13). Riceverla, vuol dire per il pagano abbandonare gli *idoli e
rivolgersi al *Dio vivo e vero (1 Tess 1, 8 ss), significa per tutti riconoscere
che il *Signore Gesù porta a compimento il disegno di Dio (Atti 5, 14; 13,
27-37; cfr. 1 Gv 2, 24). Significa, ricevendo il *battesimo, *confessare il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Mt 28, 19). Questa fede, come constaterà
Paolo, apre all’intelligenza «i tesori di *sapienza e di scienza (*conoscenza)»
che sono in Cristo (Col 2, 3): la sapienza stessa di Dio rivelata dallo Spirito
(1 Cor 2), così diversa dalla sapienza umana (1 Cor 1, 17-31; cfr. Giac 2, 1-5;
3, 13-18; cfr. Is 29, 14) e la conoscenza di Cristo e del suo amore (Fil 3, 8;
Ef 3, 19; cfr. 1 Gv 3, 16).
3. La fede e la vita del battezzato.
- Condotto dalla fede sino al *battesimo e alla *imposizione delle mani
che lo fanno entrare pienamente nella Chiesa, colui che ha creduto nella parola
partecipa all’insegnamento, allo spirito, alla «liturgia» di questa Chiesa (Atti
2, 41-46). In essa infatti Dio realizza il suo *disegno operando la salvezza di
coloro che credono (2, 47; 1 Cor 1, 18): la fede si manifesta nell’obbedienza a
questo disegno (Atti 6, 7; 2 Tess 1, 8). Si dispiega nell’attività (1 Tess 1, 3;
Giac 1, 21 s) di una vita morale fedele alla *legge di Cristo (Gal 6, 2; Rom 8,
2; Giac 1, 25; 2, 12); agisce per mezzo dell’*amore fraterno (Gal 5, 6; Giac 2,
14-26). Si conserva in una *fedeltà capace di affrontare la morte sull’esempio
di Gesù (Ebr 12; Atti 7, 55- 60), in una *fiducia assoluta in colui «nel quale
ha creduto» (2 Tim 1, 12; 4, 17 s). Fede nella parola, obbedienza nella fiducia,
questa è la fede della Chiesa, che separa coloro i quali si perdono -
l’*eretico, per esempio (Tito 3, 10) - da coloro che sono salvati (2 Tess 1,
3-10; 1 Piet 2, 7 s; Mc 16, 16).
III. SAN PAOLO E LA SALVEZZA MEDIANTE LA FEDE
Per la Chiesa nascente, come per Gesù, la fede era un dono di Dio (Atti
11, 21 ss; 16, 14; cfr. 1 Cor 12, 3). Quando perciò si convertirono dei pagani,
era Dio stesso che «purificava il loro cuore per mezzo della fede» (Atti 11, 18;
14, 27; 15, 7 ss). «Per aver creduto», essi ricevevano lo stesso Spirito dei
Giudei credenti (11, 17). Furono quindi accolti nella Chiesa.
1. La fede e la legge giudaica.
- Ma presto sorse un problema: bisognava sottometterli alla *circoncisione e
alla *legge giudaica (Atti 15, 5; Gal 2, 4)? D’accordo con i responsabili (Atti
15; Gal 2, 3-6), Paolo ritiene assurdo costringere i pagani a «giudaizzare»,
perché gli stessi Giudei sono stati salvati dalla fede in Cristo (Gal 2, 15 s).
Quando si volle imporre la circoncisione ai suoi cristiani di Galazia (5, 2; 6,
12), Paolo avvertì quindi facilmente che ciò significava annunziare un altro
*vangelo (1, 6-9). Questa nuova crisi fu per lui l’occasione per riflettere in
profondità sul compito della *legge e della fede nella storia della salvezza. Da
Adamo (Rom 5, 12-21) tutti gli uomini, pagani o Giudei, sono colpevoli dinanzi a
Dio (1, 18 - 3, 20). La legge stessa, fatta per la vita, non ha generato che il
*peccato e la *morte (7, 7-10; Gal 3, 10-14. 19-22). La venuta (Gal 4, 4 s) e la
morte di Cristo pongono fine a questa situazione manifestando la *giustizia di
Dio (Rom 3, 21-26; Gal 2, 19 ss) che si ottiene per mezzo della fede (Gal 2, 16;
Rom 3, 22; 5, 2). Il compito della legge è quindi terminato (Gal 3, 23 - 4, 11).
Ritorna il regime della *promessa - ora compiuta in Gesù - (Gal 3, 15-18); al
pari di Abramo, i cristiani sono giustificati dalla fede, senza la legge (Rom 4;
Gal 3, 6-9; cfr. 15, 6; 17, 11). D’altronde, secondo i profeti, il giusto doveva
vivere per mezzo della fede (Ab 2, 4 = Gal 3, 11; Rom 1, 17), ed il *resto di
Israele (Rom 11, 1-6) doveva essere salvato dalla sola fede nella *pietra posta
da Dio (Is 28, 16 = Rom 9, 33; 10, 11), il che gli permetteva di aprirsi alle
*nazioni (Rom 10, 14-21; 1 Piet 2, 4-10).
2. La fede e la grazia.
- «L’uomo è giustificato dalla fede senza le *opere della legge» (Rom
3, 28; Gal 2, 16). Questa affermazione di Paolo proclama l’inutilità delle
pratiche della legge sotto il regime della fede; ma, ancor più profondamente,
significa che la salvezza non è mai un diritto dell’uomo, bensì una *grazia di
Dio accolta mediante la fede (Rom 4, 4-8). Certamente Paolo non ignora che la
fede deve «operare» (Gal 5, 6; cfr. Giac 2, 14-26) nella docilità allo Spirito
ricevuto al momento del battesimo (Gal 5, 13-26; Rom 6; 8, 1-13). Ma sottolinea
con forza che il credente non può né «gloriarsi» (*fierezza) della «sua propria
giustizia», né appoggiarsi alle sue opere, come faceva il fariseo Saulo (Fil 3,
4. 9; 2 Cor 11, 16-12, 4). Anche se «la sua coscienza non gli rimprovera nulla»
dinanzi a Dio (1 Cor 4, 4), egli fa affidamento su Dio solo, che «opera in lui
il volere ed il fare» (Fil 2, 13). Egli lavora quindi alla sua salvezza «con
timore e tremore» (Fil 2, 12), ma anche con una gioiosa speranza (Rom 5, 1-11;
8, 14-39): la sua fede lo rende certo «dell’amore di Dio manifestato in Cristo
Gesù» (Rom 8, 38 s; Ef 3, 19). Grazie a Paolo la fede pasquale, vissuta dalla
comunità primitiva, ha preso una chiara coscienza di se stessa. Si è liberata
dalle impurità e dai limiti insiti nella fede di Israele. È in pieno la fede
della Chiesa.
IV. LA FEDE NEL VERBO FATTO CARNE
Al termine del NT la fede della Chiesa, con S. Giovanni, medita sulle sue
origini. Come per meglio affrontare il futuro, essa ritorna a colui che le ha
dato la sua perfezione. La fede di cui parla Giovanni è la stessa dei sinottici.
Essa raggruppa la comunità dei discepoli attorno a Gesù (Gv 10, 26 s; cfr. 17,
8). Orientata da Giovanni Battista (1, 34 s; 5, 33 s), scopre la gloria di Gesù
a Cana (2, 11); «riceve le sue parole» (12, 46 s) ed «ascolta la sua voce» (10,
26 s; cfr. Deut 4, 30); si afferma, per bocca di Pietro, a Cafarnao (6, 68). La
passione è per essa una prova (14, 1. 28 s; cfr. 3, 14 s) e la risurrezione il
suo oggetto decisivo (20, 8. 25-29). Ma il quarto vangelo è, molto più dei
sinottici, il vangelo della fede. Anzitutto la fede vi è esplicitamente
accentrata in Gesù e nella sua *gloria divina. Bisogna credere in Gesù (4, 39;
6, 35) e nel suo *nome (1, 12; 2, 23). Credere in Dio e in Gesù è la stessa cosa
(12, 44; 14, 1; cfr. 8, 24 = Es 3, 14). Infatti Gesù ed il Padre sono uno (10,
30; 17, 21); questa, stessa *unità è oggetto di fede (14, 10 s). La fede
dovrebbe accedere alla realtà invisibile della gloria di Gesù senza aver bisogno
di *vedere i numerosi *segni che la manifestano (2, 11 s; 4, 48; 20, 29). Ma se,
di fatto, essa ha bisogno di vedere (2, 23; 11, 45) e di toccare (20, 27), è non
di meno chiamata a manifestarsi nella *coscienza (6, 69; 8, 28) e nella
contemplazione (1, 14; 11, 40) dell’invisibile. Giovanni inoltre insiste sul
carattere attuale delle conseguenze invisibili della fede. Per colui che crede
non ci sarà *giudizio (5, 24). Egli è già risuscitato (11, 25 s; cfr. 6, 40),
cammina nella luce (12, 46) e possiede la vita eterna (3, 16; 6, 47). Per
contro, «colui che non crede è già condannato» (3,18). La fede riveste così la
grandezza tragica di una opzione urgente tra la morte e la vita, la *luce e le
tenebre; di una opzione tanto più difficile, in quanto dipende dalle qualità
morali di colui al quale è proposta (3, 19-21). Questa insistenza di Giovanni
sulla fede, sul suo oggetto proprio, sulla sua importanza, si spiega con lo
scopo stesso del suo vangelo: portare i lettori a condividere la sua fede,
credendo «che Gesù è íl Cristo, II Figlio di Dio» (20, 31), a diventare figli di
Dio mediante la fede nel Verbo fatto carne (1, 9-14). L’opzione della fede
rimane possibile attraverso la *testimonianza attuale di Giovanni (1 Gv 1, 2 s).
Questa fede è la fede tradizionale della Chiesa, essa confessa Gesù come *Figlio
nella fedeltà all’insegnamento ricevuto (1 Gv 2, 23-27; 5, 1) e deve
manifestarsi in una vita senza peccato (3, 9 s), animata dall’amore fraterno
(4,10 ss; 5, 1-5). Al pari di Paolo (Rom. 8, 31-39; Ef 3, 19), Giovanni ritiene
che essa porti a riconoscere l’amore di Dio per gli uomini (1 Gv 4, 16). Dinanzi
alle lotte future l’Apocalisse esorta i credenti alla «*pazienza ed alla fedeltà
dei santi» (Apoc 13, 10) fino alla morte. All’origine di questa fedeltà c’è
sempre la fede pasquale in colui che può dire: «Sono stato morto, ed eccomi vivo
per i secoli dei secoli» (1, 18), il Verbo di Dio che stabilisce
irresistibilmente il suo *regno (19, 11-16; cfr. Atti 4, 24-30). Il *giorno in
cui, finendo la fede, «vedremo Dio com’è» (1 Gv 3, 2), sarà quindi proclamata
ancora la fede di Pasqua: «Questa è la vittoria che ha trionfato del mondo: la
nostra fede» (5, 4).
J. DUPLACY
→ Abramo I 1.2, II 3.4 - amen - apparizioni di Cristo - ascoltare 0.1 -
battesimo IV 3 - cercare II - confessione VT 1; NT 1 - conoscere NT 3 -
coscienza 2 a - cuore II 2 b - fecondità III 2 - fedeltà VT 2; NT 2 - fiducia -
fierezza NT 2.3 - eresia - Gesù (nome di) III - Gesù Cristo I 2.3 - gioia NT II
1 - giustificazione I, III - giustizia B I - liberazione-libertà III 1 - legge C
III 1.3 - Maria IV - Messia NT II - miracolo I 3, II 3, III 1.2 b. 3 b - nascita
(nuova) 3 a - Noè 3 - nome NT 3 a - obbedienza II, IV - opere NT II 1.2 - parola
di Dio VT III 2; NT I 2, II 2, III 2 - penitenza-conversione NT III 1 - Pietro
(S.) 3 b - preoccupazioni 2 - promesse - prova-tentazione VT I 1 - retribuzione
II 3 c - salvezza VT II 1; NT I 1 a. 2 a, II 2 - sapienza VT I 3 - scisma VT 2 -
segno - seguire 1.2 c - speranza - testimonianza NT III - timore di Dio II -
vangelo IV 3 - vedere VT II; NT I 2 - verità NT 2 a. 3.
→ apostoli II 2 - discepolo NT - fedeltà NT 2.
La fedeltà (ebr.
‘emet), che caratterizza Dio (Es 34, 6), è associata sovente alla sua bontà
paterna (ebr. hesed) verso il popolo dell’alleanza. Questi due attributi
complementari indicano che l’*alleanza è nello stesso tempo un dono gratuito ed
un legame la cui saldezza è a prova di secoli (Sal 119, 90). A questi due
atteggiamenti, in cui sono riassunte le vie di Dio (Sal 25, 10), l’uomo deve
rispondere conformandovisi; la *pietà filiale, che egli deve a Dio, avrà come
prova della sua *verità la fedeltà nell’osservare i precetti dell’alleanza.
Lungo la storia della salvezza, la fedeltà divina si rivela immutabile dinanzi
alla costante infedeltà dell’uomo, fino a che Cristo, *testimone fedele della
verità (Gv 18, 37; Apoc 3, 14), comunichi agli uomini la grazia di cui è ripieno
(Gv 1, 14. 16) e li renda capaci di meritare la corona della vita, imitando la
sua fedeltà fino alla morte (Apoc 2, 10).
VECCHIO TESTAMENTO
1. Fedeltà di Dio.
- Dio è la «roccia» di Israele (Deut 32, 4); questo nome simboleggia la
sua immutabile fedeltà, la verità delle sue *parole, la fermezza delle sue
*promesse. Le sue parole non passano (Is 40, 8), le sue promesse saranno
mantenute (Tob 14, 4); Dio non mente, né si ritratta (Num 23, 19); il suo
disegno è attuato (Is 25, 1) mediante la potenza della sua parola che, uscita
dalla sua bocca, non ritorna se non dopo aver compiuto la sua missione (Is 55,
11); Dio non muta (Mal 3, 6). Egli quindi vuole unire a sé la sposa che si è
scelta mediante il legame di una fedeltà perfetta (Os 2, 22) senza la quale non
si può conoscere Dio (4, 2). Non è quindi sufficiente lodare la fedeltà divina
che supera i cieli (Sal 36, 6), né proclamarla per invocarla (Sal 143, 1) o per
ricordare a Dio le sue promesse (Sal 89, 1-9. 25-40). Bisogna pregare il Dio
fedele per ottenere da lui la fedeltà (1 Re 8, 56 ss), e cessare di rispondere
alla sua fedeltà con l’empietà (Neem 9, 33). Di fatto Dio solo può *convertire
il suo popolo infedele e dargli la felicità, facendo germogliare dalla terra la
fedeltà che ne deve essere il frutto (Sal 85, 5. 11 ss).
2. Fedeltà dell’uomo.
- Dio esige dal suo popolo la fedeltà all’alleanza che egli rinnova liberamente
(Gios 24, 14); i sacerdoti devono essere fedeli in modo speciale (1 Sam 2, 35).
Se Abramo e Mosè (Neem 9, 8; Eccli 45, 4) sono modelli di fedeltà, Israele nel
suo complesso imita l’infedeltà della generazione del deserto (Sal 78, 8 ss. 36
s; 106, 6). E quando non si è fedeli a Dio, sparisce la fedeltà verso gli
uomini; non si può contare su nessuno (Ger 9, 2-8). Questa corruzione non è
esclusiva di Israele, perché vale per tutti i luoghi il proverbio: «Un uomo
sicuro, chi lo troverà?» (Prov 20, 6). Israele, scelto da Dio per essere suo
testimone, non è quindi stato un servo fedele; è rimasto cieco e sordo (Is 42,
18 s). Ma Dio ha eletto un altro *servo sul quale ha posto il suo spirito (Is
42, 1 ss), al quale ha fatto il dono di ascoltare e di parlare; questo eletto
proclama fedelmente la *giustizia, senza che le *prove lo possano rendere
infedele alla sua *missione (Is 50, 4-7), perché Dio è la sua forza (Is 49, 5).
NUOVO TESTAMENTO
1. Fedeltà di Gesù.
- Il servo fedele così annunciato è *Gesù Cristo, Figlio e Verbo di
Dio, il vero ed il fedele, che viene a compiere la Scrittura e l’opera del Padre
suo (Mc 10, 45; Lc 24, 44; Gv 19, 28. 30; Apoc 19, 11 ss). Per mezzo suo sono
mantenute tutte le promesse di Dio (2 Cor 1, 20); in lui sono la salvezza e la
gloria degli eletti (2 Tim 2, 10); con lui, gli uomini sono chiamati dal Padre
ad entrare in *comunione; e per mezzo suo i credenti saranno confermati e resi
fedeli alla loro *vocazione fino al termine (1 Cor 1, 8 s). In Cristo quindi si
manifesta in *pienezza la fedeltà di Dio (1 Tess 5, 23 s) e il fedele viene
rassicurato (2 Tess 3, 3 ss): i *doni di Dio sono irrevocabili (Rom 11, 29).
Dobbiamo imitare la fedeltà di Cristo, tenendo duro fino alla morte, e contare
sulla sua fedeltà per vivere e regnare con lui (2 Tim 2, 11 s). Più ancora,
anche se noi siamo infedeli, egli rimane fedele; perché, se può rinnegarci, non
può rinnegare se stesso (2 Tim 2, 13); oggi, come ieri e per sempre, egli rimane
ciò che è (Ebr 13, 8), il sommo sacerdote misericordioso e fedele (Ebr 2, 17)
che permette di accedere con sicurezza al trono della grazia (Ebr 4, 14 ss) a
coloro che, fondandosi sulla fedeltà della promessa divina, conservano una *fede
ed una *speranza indefettibili (Ebr 10, 23).
2. I fedeli di Cristo.
- Il titolo di «fedeli» è sufficiente a designare i *discepoli di Cristo, coloro
che hanno *fede in lui (Atti 10, 45; 2 Cor 6, 15; Ef 1, 1). Esso include
certamente le virtù naturali di lealtà e di buona fede che i cristiani devono
aver cura di praticare (Fil 4, 8); designa inoltre quella fedeltà religiosa, che
è una delle prescrizioni principali di cui Cristo esige l’osservanza (Mt 23,
23), e che caratterizza coloro che sono mossi dallo Spirito Santo Gal 5, 22) e
in modo tutto particolare gli apostoli, intendenti dei misteri di Dio (1 Cor 4,
1 s; Lc 12, 42); essa appare nelle minute circostanze dell’esistenza (Lc 16, 10
ss) e domina così tutta la vita sociale.Nella nuova alleanza questa fedeltà ha
un’anima, ed è l’*amore; per contro, essa è la prova dell’amore autentico. Gesù
insiste su questo punto: «Rimanete nel mio amore. Se osservate i miei
comandamenti, *rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del
Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 9 s; cfr. 14, 15. 21. 23 s).
Giovanni, fedele alla lezione di Cristo, la inculca ai suoi «figli», invitandoli
a «camminare nella * verità», Cioè nella fedeltà al comandamento del mutuo amore
(2 Gv 4 s); ma aggiunge subito: «Ora l’amore consiste nel vivere secondo i
comandamenti di Dio» (2 Gv 6). A questa fedeltà è riservata la ricompensa di
partecipare alla gioia del Signore (Mi 25, 21. 23; Gv 15, 11). Ma questa fedeltà
esige una lotta contro il tentatore, il maligno, che richiede vigilanza e
preghiera (Mt 6, 13; 26, 41; 1 Piet 5, 8 s). Negli ultimi tempi la prova di
questa fedeltà sarà terribile: i santi vi dovranno esercitare una costanza (Apoc
13, 10; 14, 12), la cui grazia viene loro dal *sangue dell’agnello (Apoc 7, 14;
12, 11).
C. SPICQ e M. F. LACAN
→ Abramo II 1 - adulterio - alleanza - amen - amore 1 - delusione III - deserto
VT I 2.3; NT I 1 - errore - esempio - fede - fiducia 3 - gioia VT II 2 -
giustizia - grazia II 1.2 - incredulità I 2 - Maria IV 2 - matrimonio VT II 3;
NT I - obbedienza II 3 - pazienza - pietà VT - promesse - prova-tentazione VT I
2 - Provvidenza 2 - resto VT 3.4 - roccia 1 - seguire 1 - servo di Dio II -
speranza - Sposo-sposa VT 2 - testimonianza - verità - virtù e vizi 1.
→ beatitudine - bene e male II 1.3 - cielo VI - pace - paradiso.
→ fede 0 - fedeltà - fiducia - verità VT 1.2.
In tutte le
religioni la festa è un elemento essenziale del *culto: mediante certi riti
fissati in certi *tempi, l’assemblea fa omaggio, ordinariamente nella *gioia, di
questo o di quell’aspetto della vita umana; rende grazie ed implora il favore
della divinità. Ciò che caratterizza la festa nella Bibbia è il suo legame con
la storia sacra, perché mette in contatto con Dio che agisce incessantemente per
i suoi eletti; tuttavia queste feste hanno radici nel terreno comune
dell’umanità.
VECCHIO TESTAMENTO
I. ORIGINE DELLE FESTE EBRAICHE
Il ritorno del ciclo lunare, che delimitava il mese israelitico, diede luogo con
tutta naturalezza a feste: talvolta la luna piena (Sal 81, 4), ordinariamente la
luna nuova (neomenia: 1 Sam 20, 5; 2 Re 4, 23; Am 8, 5), infine il *sabato che
ritma la *settimana (Es 20, 8-11). Il ciclo solare riportava la festa del nuovo
anno, conosciuta da tutte le civiltà; essa fu unita da prima alla festa del
raccolto in autunno (Es 23, 16), poi alla *Pasqua della primavera (Es 12, 2); da
questa liturgia derivano taluni riti del giorno dell’*espiazione (cfr. Lev 16).
Oltre alla cornice formata dal ritmo degli *astri, la vita quotidiana
dell’ebreo, prima pastore e poi agricoltore, determinò feste che tendono a
confondersi con le precedenti. In occasione della *Pasqua, festa pastorale della
primavera, aveva luogo l’offerta delle *primizie del gregge; il lavoro della
terra diede origine a tre grandi feste annuali: azzimi in primavera, *messi o
settimane in estate, raccolto o *vendemmia in autunno (Es 23, 14-17; 34, 18.
22). Il Deuteronomio unisce la Pasqua agli azzimi e dà alla festa del raccolto
il nome di festa dei tabernacoli (Deut 16, 1-17). Taluni riti delle feste
attuali non si possono comprendere se non in ragione dei loro addentellati
pastorali od agricoli. Dopo l’esilio apparvero alcune feste secondarie: Purim (Ese
9, 26; cfr. 2 Mac 15, 36 s), Dedicazione e giorno di Nicanore (1 Mac 4, 52-59;
7, 49; 2 Mac 10, 5 s; 15, 36 s).
II. SENSO DELLE FESTE EBRAICHE
Le diverse feste assumono un senso nuovo in funzione del passato che ricordano,
del futuro che annunciano, del presente di cui rivelano l’esigenza.
1. Celebrazione riconoscente dei grandi fatti di Jahvè.
- Israele celebra il suo Dio a diversi titoli. Il creatore è commemorato ogni
sabato (Es 20, 11); il liberatore dall’Egitto è presente non soltanto nel giorno
di sabato, ma anche quando si celebra la Pasqua (Deut 5, 12-15; 16, 1); la festa
dei tabernacoli ricorda le marce nel *deserto e il tempo del fidanzamento con
Jahvè (Lev 23, 42 s; cfr. Ger 2, 2); infine il tardo giudaismo collegò alla
festa delle settimane (in greco, *Pentecoste) il dono della legge al Sinai. Così
le feste agricole diventavano feste commemorative: nella preghiera dell’ebreo,
che offre le sue primizie, s’innalza il ringraziamento per i doni della terra e
per i grandi fatti del passato (Deut 26, 5-10).
2. Anticipazione gioiosa del futuro.
- La festa attualizza in una *speranza autentica il termine della
salvezza; il passato di Dio assicura il futuro del popolo. L’esodo commemorato
annunzia e garantisce un *nuovo *esodo: un giorno Israele sarà definitivamente
liberato (Is 43, 15-21; 52, 1-12; 55, 12 s), il regno di Jahvè si estenderà a
tutte le *nazioni che saliranno in *pellegrinaggio a Gerusalemme per la festa
dei tabernacoli (Zac 14, 16-19). Il popolo sia dunque «tutto nella *gioia» (Sal
118; 122; 126): non è forse in presenza di Dio (Deut 16, 11-15; Lev 23, 40)?
3. Esigenze per il presente.
- Ma questa gioia non è autentica se non emana da un cuore contrito e
purificato; gli stessi salmi di gioia ricordano queste esigenze: «O popolo mio,
se tu potessi ascoltare!», si dice in occasione della festa dei tabernacoli (Sal
81, 9 ss). Più precisamente, la festa della espiazione dice il *desiderio di una
conversione profonda attraverso *confessioni collettive (Sal 106; Neem 9, 5-37;
Dan 9, 4-19). Dal canto loro i profeti non cessano di protestare contro la
sicurezza illusoria che può dare una liturgia gioiosa compiuta da cuori
infedeli: «Io odio e disdegno le vostre feste...» (Am 5, 21; cfr. Os 2, 13; Is
1, 13 s). Con questi oracoli apparentemente distruttori non si fa appello alla
soppressione reale delle feste, ma alla pienezza del loro significato:
l’incontro con il Dio vivente (Es 19, 17).
NUOVO TESTAMENTO
I. DALLE FESTE EBRAICHE ALLA FESTA ETERNA
Senza dubbio Gesù ha osservato le feste ebraiche del suo tempo, ma mostrava già
che soltanto la sua persona e la sua opera conferivano loro un pieno
significato: così per la festa dei tabernacoli (Gv 7, 37 ss; 8, 12; cfr. Mt 21,
1-10 par.) o per la dedicazione (Gv 10, 22-38). Soprattutto egli ha
deliberatamente suggellato la nuova alleanza del suo sacrificio in una cornice
pasquale (Mt 26, 2. 17 ss. 28 par.; Gv 13, 1; 19, 36; 1 Cor 5, 7s). Con questa
Pasqua nuova e definitiva Gesù ha pure realizzato il voto della festa della
espiazione, perché il suo sangue dà accesso al vero santuario (Ebr 10, 19) ed
alla grande assemblea festiva della Gerusalemme celeste (12, 22s). Ormai la vera
festa si celebra in cielo. Con le palme in mano, come nella festa dei
tabernacoli (Apoc 7, 9), la folla degli eletti redenti dal sangue del vero
*agnello pasquale (5, 8-14; 7, 10-14) canta un cantico sempre *nuovo (14, 3) a
gloria dell’agnello e del Padre suo. La festa di Pasqua è diventata la festa
eterna del cielo.
II. LE FESTE CRISTIANE
Se la Pasqua celeste ha riportato alla sua unità escatologica la
molteplicità delle feste ebraiche, conferisce ormai un senso nuovo alle
molteplici feste della Chiesa in terra. A differenza delle feste ebraiche, esse
commemorano un fatto avvenuto una volta per sempre, che ha valore di eternità;
ma al pari delle feste ebraiche, le feste cristiane rimangono soggette al ritmo
del tempo e della terra, pur collegandosi ai fatti principali della esistenza di
Cristo. La Chiesa, se pur deve stare attenta a non conferire un valore eccessivo
alle sue feste (cfr. Gal 4, 10), che rimangono anch’esse l’ombra della vera
festa (cfr. Col 2, 16), non ha da temere la molteplicità delle feste. Essa
concentra anzitutto la celebrazione nel mistero pasquale commemorato
nell’*eucaristia che raduna la comunità alla domenica, *giorno della
risurrezione del Signore (Atti 20, 7; 1 Cor 16, 2; Apoc 1, 10). Punto di
partenza della *settimana di cui il sabato era il termine, la domenica segna la
novità radicale della festa cristiana, festa unica la cui irradiazione illumina
l’intero anno, e la cui ricchezza si sviluppa in un ciclo festivo centrato sulla
Pasqua. Essa potrà in seguito ritrovare i cicli naturali (ad es. le quattro
tempora) evocando le ricchezze del suo patrimonio ebraico; ciò avverrà sempre
attualizzandolo con il fatto di Cristo ed orientandolo secondo il mistero della
festa celeste eterna.
D. SESBOÜÈ e M.-F. LACAN
→ bianco - culto - gioia VT II 1 - giorno del Signore NT III 3 - messe I -
Pasqua - pasto II, III - pellegrinaggio - Pentecoste - riposo I 3 - sabato -
settimana 1 - tempo VT I 2; NT II 3 - vendemmia 1. FESTINO→ gioia VT; NT III -
pasto - vino II 2 b.
→ matrimonio - Sposo-sposa.
Posto di fronte
ai compiti della vita e ai suoi pericoli, l’uomo ha bisogno di appoggi su cui
poter contare (ebr. batah), di rifugi dove ripararsi (ebr. hasah); per non
essere paralizzato dall’angoscia ma per perseverare nonostante le *prove e
sperare di giungere alla meta, bisogna aver fiducia. Ma in chi confidare?
1. Fiducia e fede in Dio.
- Fin dall’origine il problema si pone e Dio ne rivela la risposta;
proibendo all’uomo il frutto dell’albero della scienza, lo invita a confidare in
lui solo per discernere il bene dal male (Gen 2, 17). Credere nella parola
divina significa scegliere tra due sapienze, prestar fiducia a quella di Dio,
rinunziare a fidarsi della propria intelligenza (Prov 3, 5);. significa pure
aver fiducia nella onnipotenza e nella *provvidenza del creatore, perché tutto è
opera sua in cielo ed in terra (Gen 1, 1; Sal 115, 3. 15); l’uomo quindi non ha
nulla da temere dalle creature che, al contrario, ha la missione di dominare (Gen
1, 28). Ma l’uomo e la donna, che hanno preferito confidare in una creatura,
imparano dall’esperienza ciò che significa fidarsi della menzogna (Gen 3, 4 ss;
Gv 8, 44; Apoc 12, 9); entrambi gustano i frutti della loro vana fiducia; hanno
paura di Dio e *vergogna l’uno di fronte all’altro; la fecondità della donna e
quella del suolo diventano dolorose; infine essi faranno l’esperienza della
morte (Gen 3, 7. 10. 16-19). Nonostante l’esempio di Abramo, fiducioso fino al
sacrificio (Gen 22, 8-14; Ebr - 11, 17) perché è sicuro che «Dio provvederà», il
popolo di Israele non confida nell’onnipotente che lo ha liberato e nel suo
amore che l’ha scelto gratuitamente per figlio (Deut 32, 6. 10 ss); privato di
ogni appoggio creato in mezzo al deserto (Es 16, 3), rimpiange la sua schiavitù
e mormora. Nel corso della sua storia non vuole confidare nel suo Dio (Is 30,
15; 50, 10) e gli preferisce gli idoli di cui i profeti denunciano «l’impostura»
(Ger 13, 25) ed «il nulla» (Is 59, 4; cfr. Sal 115, 8). Anche i sapienti
affermano che è vano appoggiarsi sulla ricchezza (Prov 11, 28; Sal 49, 7 s),
sulla violenza (Sal 62, 11), sui principi (Sal 118, 8 s; 146, 3); insensato è
l’uomo che si fida della propria intelligenza (Prov 28, 26). In breve, «guai
all’uomo che confida nell’uomo... beato colui che confida in Jahvè» (Ger 17, 5.
7). Gesù finisce di rivelare l’esigenza di questa massima: ricorda la necessità
della scelta iniziale che rigetta ogni altro padrone all’infuori di quello la
cui potenza, sapienza ed amore paterno meritano una fiducia assoluta (Mt 6,
24-34); lungi dal confidare nella propria giustizia (Lc 18, 9-14), bisogna
cercare quella del regno (Mt 5, 20; 6, 33), che viene da Dio solo e non è
accessibile che alla fede (Fil 3, 4-9).
2. Fiducia ed umile preghiera.
- La fiducia in Dio, che ha radici in questa fede, è tanto più
incrollabile quanto più è umile. Di fatto, per avere fiducia, non si tratta di
disconoscere l’azione nel mondo delle potenze malvagie che pretendono di
dominarlo (Mt 4, 8 s; 1 Gv 5, 19) e, meno ancora di dimenticare che si è
peccatori. Si tratta di riconoscere l’onnipotenza e la misericordia del creatore
che vuole salvare tutti gli uomini (l Tim 2, 4) e farne i suoi figli adottivi in
Gesù Cristo (Ef 1, 3 ss).Già Giuditta predicava una fiducia incondizionata, di
cui dava essa stessa un esempio indimenticabile (Giudit 8, 11-17; 13, 19); e
questo perché invocava il suo Dio sia come il salvatore di coloro la cui
situazione è disperata, sia come il Dio degli umili (9, 11); di fatto, fiducia e
*umiltà sono inseparabili. Esse si esprimono nelle preghiere dei poveri che,
come Susanna, senza difesa ed in pericolo mortale, confidano in Dio (Dan 13,
35).«Dal fondo dell’abisso» (Sal 130, 1) salgono quindi gli appelli fiduciosi
dei salmi: «Il Signore pensa a me, povero e misero» (Sal 40, 18); «io confido
nel tuo amore» (13, 6); «chi confida in Jahvè, la grazia lo attornia» (32, 10);
«beato chi si rifugia in lui» (2, 12). Il Sal 131 è la pura espressione di
questa umile fiducia, alla quale Gesù apporterà la sua perfezione. Di fatto egli
invita i suoi discepoli ad aprirsi come bambini al dono di Dio (Mc 10, 15); la
preghiera al Padre celeste è allora sicura di ottenere tutto (Lc 11, 9-13 par.);
per mezzo di essa il peccatore ottiene di essere giustificato e salvato (Lc 7,
50; 18, 13 s); per mezzo di essa l’uomo ritrova il suo potere sulla creazione
(Mc 11, 22 ss; cfr. Sap 16, 24). Tuttavia i figli di Dio devono aspettarsi di
vedere gli empi metterli in ridicolo e perseguitarli proprio a motivo della loro
fiducia filiale; Gesù stesso ne ha fatto l’esperienza (Mt 27, 43; cfr. Sap 2,
18), nel momento in cui, consumando il suo sacrificio, spirava con un grido di
fiducia (Lc 23, 46).
3. Fiducia e sicurezza gioiosa.
- Con questo atto d’amore fiducioso Gesù riportava la vittoria su tutte
le potenze del male e attirava a sé tutti gli uomini (Gv 12, 31 s; 16, 33). Non
suscitava soltanto la loro fiducia, ma poneva il fondamento della loro
sicurezza. Di fatto il discepolo fiducioso diventa testimone fedele; appoggiando
la sua *fedeltà su quella di Dio, ha fiducia che la grazia divina porterà a
termine la sua opera (Atti 20, 32; 2 Tess 3, 3 ss; Fil 1, 6; 1 Cor 1, 7 ss.).
Questa fiducia, che l’apostolo afferma anche nelle ore di crisi (Gal 5, 10), gli
dà una sicurezza indefettibile per annunziare in tutta libertà (parresìa) la
parola di Dio ( Tess 2, 2; Atti 28, 31). Se già i primi discepoli avevano reso
testimonianza con tanta sicurezza, si è perché la loro fiducia ne aveva ottenuto
la grazia mediante la preghiera (Atti 4, 24-31). Questa fiducia incrollabile,
condizione della fedeltà (Ebr 3, 14), dà ai testimoni di Cristo una sicurezza
gioiosa e *fiera (3, 6); essi sanno di aver accesso al trono della grazia (4,
16), la cui via è loro aperta dal sangue di Gesù (10, 19); il loro ardire non ha
nulla da temere (13, 6); essi sanno in chi hanno confidato (2 Tim 1, 12); nulla
li separerà dall’amore di Dio (Rom 8, 38 s) che, dopo averli giustificati, è
stato loro comunicato e li rende fieri e costanti nella prova (Rom 5, 1-5), per
modo che tutto, ed essi ben lo sanno, coopera al loro bene (Rom 8, 28). La
fiducia, che è la condizione della fedeltà, ne è a sua volta confermata. Infatti
1’*amore, di cui la fedeltà perseverante è la prova (Gv 15, 10), dà alla fiducia
la sua pienezza. Coloro che rimangono nell’amore avranno, essi soli, piena
sicurezza nel giorno del giudizio e dell’avvento di Cristo, perché l’amore
perfetto elimina il timore (1 Gv 2, 28; 4, 16 ss). Essi sanno fin d’ora che Dio
ascolta ed esaudisce la loro preghiera, e che la loro tristezza presente si
cambierà in gioia, una gioia che nessuno potrà loro togliere, perché è la gioia
del Figlio di Dio (Gv 16, 20 ss; 17, 13).
M. F. LACAN
→ angoscia 3 - bambino I, II - beatitudine VT I 2, II 2 - carne II 1 - creazione
IV 2 - delusione - fede - fierezza 0; NT 2 - incredulità I 2 -
liberazione-libertà III 3 a - persecuzione II - preghiera II 3 - preoccupazioni
2 - Provvidenza - roccia 1 - salvezza VT II; NT II 3 - silenzio 2 - sonno I 1 -
speranza - umiltà II, III - vergogna I 1, II 1.
Per liberarsi dal
sentimento di inferiorità, i Greci facevano sovente appello ad una sapienza del
tutto umana; la Bibbia fonda la fierezza dell’uomo sulla sua condizione di
creatura e di figlio di Dio: a meno che non sia *schiavo del *peccato, l’uomo
non può aver *vergogna né davanti a Dio, né davanti agli uomini. La fierezza
autentica non ha nulla a che vedere con l’*orgoglio, che ne è la caricatura; è
perfettamente compatibile con l’*umiltà. Così la vergine *Maria, che canta il
Magnificat, ha piena coscienza del suo valore, di un valore creato da Dio solo,
e lo proclama dinanzi a tutte le generazioni (Lc 1, 46-50). La Bibbia non ha un
termine proprio per designare la fierezza; ma la caratterizza in base a due
atteggiamenti. Uno sempre nobile, che i traduttori greci chiamano parresìa, è
collegato alla *libertà; gli Ebrei lo descrivono mediante una perifrasi: il
fatto di stare in piedi, d’aver la *faccia alta, di esprimersi apertamente; la
fierezza si manifesta con una piena libertà di linguaggio e di comportamento.
L’altro atteggiamento è affine alla *fiducia di cui è il riflesso; i traduttori
greci lo chiamano kàuchesis: è il fatto di gloriarsi di qualcosa o di fondarsi
su di essa, per darsi un contegno, per esistere di fronte a sé, agli altri, a
Dio stesso; questa *gloria può essere nobile o vana, secondo che trova alimento
in Dio o nell’uomo.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Fierezza del popolo eletto.
- Quando Israele fu strappato alla schiavitù e fatto libero, essendo
state spezzate le sbarre del suo giogo, poté «camminare a testa alta» (Lev 26,
13), con parresìa (LXX). Fierezza derivante da una consacrazione definitiva,
questa nobiltà obbliga il popolo a vivere nella *santità stessa di Dio (Lev 19,
2). Pur potendo degenerare facilmente in disprezzo (ad es. Eccli 50, 25 s),
questo sentimento giustifica in Israele la cura di separarsi dagli altri popoli
idolatri (Deut 7, 1-6). La fierezza sopravvive nella stessa umiliazione, ma
allora diventa *vergogna, come quando Israele «striscia col ventre sul suolo»
perché Jahvè nasconde la sua *faccia (Sal 44, 26); ma basta che si umilii, e
potrà nuovamente «levare verso Dio la sua faccia» (Giob 23, 26). Ad ogni modo,
schiacciato al suolo o con lo sguardo fisso al cielo, il popolo conserva in cuor
suo la fierezza della sua *elezione (Bar 4, 2 ss; cfr. 2, 15; Sal 119, 46).
2. Fierezza e vanità.
- Dalla fierezza all’*orgoglio non c’è che un passo (Deut 8, 17); la
fierezza diventa allora vanità, perché il suo sostegno è illusorio. Questo
processo di degradazione si osserva anche nelle *nazioni, che, come creature,
devono rendere *gloria a Dio soltanto e non inorgoglirsi per la propria
bellezza, potenza o ricchezza (Is 23; 47; Ez 26-32). Al contrario, l’autentica
fierezza è l’irraggiamento della *fiducia in Dio solo, la fioritura della
fedeltà alla sua alleanza. Vana è la gloria di possedere un *tempio in cui
dimori Dio, se il popolo per questo si reputa dispensato dal *culto spirituale (Ger
7, 4-11). «Il sapiente non si glorii della sua sapienza, il valente non si
glorii della sua valentia, il ricco non si glorii della sua ricchezza! Ma chi
vuole gloriarsi trovi la sua gloria in questo: avere senno e *conoscermi» (9, 22
s). Infine i sapienti ripetono volentieri che il *timore di Dio è il solo motivo
di fierezza (Eccli 1, I1; 9, 16), e non già la ricchezza o la povertà (10, 22);
la vera gloria è l’essere figli del Signore (Sap 2, 13), l’avere Dio per padre
(2, 16). Ora la fierezza del giusto non è soltanto interna, ed il suo riflesso
condanna l’*empio, il quale, in cambio, *perseguita il giusto. E la fierezza del
giusto oppresso si esprime nella preghiera che rivolge, in nome del suo dirítto,
a colui che lo fa esistere: «Io non sarò confuso» (Sal 25, 3; 40, 15 ss).
3. La fierezza del servo di Dio.
- I supplici del salterio attendono da un intervento immediato di Jahvè
la fine della propria vergogna; ringraziano perché la confusione è ricaduta sui
loro nemici: «Tu mi esalti al di sopra di tutti i miei aggressori» (Sal 19, 49);
«nel tuo favore, esalti il nostro corno» (89, 18). Ma durante l’esilio, Israele
avverte che il giusto può essere riconfermato nella sua fierezza secondo le vie
dell’umiliazione accettata per tutti. Senza dubbio Dio continua a sostenere il
suo *servo, lo tiene per mano (Is 42, 1 6); perseguitato, egli sa che verrà
confuso (50, 7 s). Tuttavia il profeta annuncia che le moltitudini sono state
prese da orrore nei suoi confronti: egli non aveva più l’aspetto di *uomo,
sfigurato com’era (52, 14); dinanzi a lui si distoglieva il volto, perché egli
stesso era divenuto spregevole e disprezzato (53, 2 s). Ma se il servo ha perso
la *faccia agli occhi degli uomini, Dio ne prende in mano la causa e giustifica
la sua fierezza interna inconcussa, «glorificandolo» dinanzi ai popoli: «Egli
sarà onorato, esaltato e innalzato assai: il mio servo avrà successo» (52, 13) e
«condividerà i trofei con i potenti» (53, 12). Sull’esempio del servo, ogni
*giusto può fare appello al *giudizio di Dio: mentre è stato ritenuto stolto e
miserabile, ecco che, nell’ultimo giorno, «il giusto starà in piedi, pieno di
sicurezza» (Sap 5, 1-5).
NUOVO TESTAMENTO
1. La fierezza di Cristo.
- Gesù, che sa donde viene e dove va, manifesta la sua fierezza quando si
proclama *Figlio di Dio. Il quarto vangelo presenta questo comportamento come
una parresìa. Non rivendicando onori personali, ma cercando solo la gloria del
Padre (Gv 8, 49 s), Gesù ha parlato «apertamente» al mondo (Gv 18, 20 s), tanto
che il popolo si chiedeva se le autorità non lo avessero riconosciuto per il
Cristo (7, 26 s); ma poiché questo parlare schiettamente non ha nulla a che
vedere con la pubblicità chiassosa del *mondo (7, 3-10), egli non è compreso e
deve ritirarsi (11, 54); Gesù cede quindi il posto al *Paraclito, che in quel
*giorno dirà tutto chiaramente (16, 13. 25). Benché il termine non vi si trovi
se non a proposito dell’annunzio della passione (Mc 8, 32), i sinottici
descrivono comportamenti di Gesù che esprimono la sua parresìa. Così quando egli
rivendica dinanzi ad ogni *autorità i diritti del Figlio di Dio o del Padre suo:
dinanzi ai suoi genitori (Lc 2, 49), dinanzi agli abusi empi (Mt 21, 12 par.),
dinanzi alle autorità costituite (Mt 23), come quando è insultato in casa di
Anna (Gv 18, 23).
2. Fierezza e libertà del credente.
- Con la sua fede il fedele di Cristo ha ricevuto una fierezza iniziale
(Ebr 3, 14), che deve conservare fino al termine come una gioiosa fierezza della
speranza (3, 6). Di fatto, in virtù del *sangue di Gesù, egli è pieno di
sicurezza (10, 19 s) e può avanzare verso il trono della *grazia (4, 16); non
può perdere questa sicurezza neppure nella *persecuzione (10, 34 s), sotto pena
di veder Gesù arrossire di lui (Lc 9, 26 par.) nel giorno del *giudizio; ma può
rassicurare il suo cuore se è stato fedele, perché Dio è più grande del nostro
cuore (1 Gv 2, 28; 3, 21ss; 4, 17). La fierezza del cristiano si manifesta
quaggiù nella libertà con cui egli rende testimonianza a Cristo risorto. Così
fin dai primi giorni della Chiesa gli apostoli - persone illetterate (Atti 4,
13) - annunziavano la parola con ardire (4, 29. 31; 9, 27 s; 18, 25 s), dinanzi
ad un pubblico ostile o sprezzante. Paolo caratterizza questo atteggiamento con
l’assenza di velo sulla faccia del credente: egli riflette la *gloria stessa del
Signore risorto (2 Cor 3, 11 s); tale è il fondamento della fierezza apostolica:
«Noi crediamo, e perciò parliamo» (4, 13).
3. Fierezza e gloria.
- Come Geremia, che già negava ad ogni uomo il diritto di «gloriarsi» se non
della conoscenza di Jahvè, così anche Paolo (1 Cor 1, 31 kàuchesis). Ma egli
conosce il mezzo radicale scelto da Dio per togliere all’uomo ogni tentazione di
vanità: la *fede. Ormai non c’è più privilegio sul quale ci si possa fondare, né
il nome di giudeo, né la legge, né la circoncisione (Rom 2, 17-29). Se lo stesso
Abramo non ha potuto gloriarsi di alcuna *opera (4, 2), tanto meno noi, che
siamo tutti peccatori (3, 19 s. 27). Ma, grazie a Gesù che gli ha procurato la
riconciliazione, il fedele può gloriarsi in Dio (5, 11), e nella *speranza della
gloria (5, 2), frutto della *giustificazione mediante la fede. Tutto il resto è
spregevole (Fil 3, 3-9); soltanto la *croce di Gesù è fonte di gloria (Gal 6,
14), ma non i predicatori di questa croce (1 Cor 3, 21). Infine il cristiano può
essere fiero delle sue tribolazioni (Rom 5, 3); tanto più l’apostolo attraverso
le sue debolezze (1 Cor 4, 13; 2 Cor 11, 30; 12, 9 s); la sua corona di gloria
sono le Chiese da lui fondate (1 Tess 2, 19; 2 Tess 1, 4); può essere fiero
delle sue pecorelle, anche attraverso le difficoltà che esse suscitano (2 Cor 7,
4. 14; 8, 24). Il mistero della fierezza cristiana ed apostolica è il mistero
pasquale, quello della gloria che traduce attraverso le tenebre.
M. JOIN-LAMBERT e X-
LÉON-DUFOUR
→ carne II 1 - delusione I 2 - fiducia 3 - forza - gloria IV 5 -
liberazione-libertà III 3 a - orgoglio - predicare II 2 b – vergogna.
Nei vangeli Gesù
abitualmente designa se stesso con il titolo di figlio dell’uomo, espressione
enigmatica che, pur velandolo, suggeriva l’aspetto più trascendente della sua
fisionomia. Per comprenderne la portata bisogna riferirsi ai suoi usi nel VT e
nel giudaismo.
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL LINGUAGGIO CORRENTE DELLA BIBBIA
L’espressione ebraica ed aramaica «figlio d’uomo» (ben-’adam, bar-’enâš)
appare molto spesso come sinonimo di «*uomo» (cfr. Sal 80, 18). Designa un
membro della razza umana («*figlio di umanità»). Pensando a colui che è il padre
di tutta la stirpe e ne porta il nome, si potrebbe tradurre «figlio di *Adamo».
L’uso dell’espressione sottolinea la precarietà dell’uomo (Is 51, 12; Giob 25,
6), la sua piccolezza dinanzi a Dio (Sal 11, 4), talvolta la sua condizione di
peccatore (Sal 14, 2 s; 31, 20), votato alla morte (Sal 89, 48; 90, 3). Quando
Ezechiele, uomo della muta adorazione prostrato dinanzi alla gloria divina, è
interpellato da Jahvè come «figlio d’uomo» (Ez 2, 1. 3 ecc.), il termine segna
le distanze e ricorda al profeta la sua condizione mortale. Tanto più ammirevole
è la bontà di Dio per i «figli di Adamo»: egli moltiplica per essi le sue
meraviglie (Sal 107, 8) e la sua *sapienza si compiace di dimorare con essi (Prov
8, 31). Ci si stupisce che un essere così debole sia stato da lui incoronato
come il re di tutta la creazione: «che cos’è l’uomo perché tu ti ricordi di lui,
il figlio d’uomo perché tu ne abbia cura?» (Sal 8, 5; cfr. Gen 1). Qui è tutta
l’antropologia religiosa del VT; dinanzi a Dio l’uomo non è che un soffio, e
tuttavia Dio lo ha colmato dei suoi doni.
II. IL LINGUAGGIO DELLE APOCALISSI
1. Il libro di Daniele.
- Per rappresentare concretamente la successione degli imperi umani che
crolleranno per far posto al *regno di Dio, l’apocalisse di Daniele 7 si serve
di un’immagine sorprendente. Gli imperi sono *bestie che salgono dal *mare. Sono
spogliate della loro potenza quando compaiono al tribunale di Dio, che è
rappresentato sotto i tratti di un vegliardo. Allora sulle (o con le) *nubi del
cielo arriva «come un figlio d’uomo»; avanza fino al tribunale di Dio e riceve
la sovranità universale (7, 13 s). L’origine di questa concezione è incerta. Il
«figlio dell’uomo» dei Salmi o di Ezechiele non basta a spiegarla. Certuni
invocano il mito iranico dell’uomo primordiale che ritorna come salvatore alla
fine dei tempi. Forse bisogna cercare dalla parte delle tradizioni che
presuppongono la *sapienza divina personificata o l’Adamo di Gen 1 e di Sal 8,
creato ad immagine di Dio e «di poco inferiore a Dio». In Dan 7, Figlio d’uomo e
bestie si oppongono come il divino al satanico. Nell’interpretazione che segue
la visione, la sovranità tocca al «popolo dei *santi dell’altissimo» (7, 18. 22.
27); esso dunque viene rappresentato a quanto pare dal figlio d’uomo, non di
certo nella sua condizione di perseguitato (7, 25), ma nella sua gloria finale.
Tuttavia le bestie raffiguravano sia gli imperi che i loro capi. Non si può
quindi escludere del tutto che ci sia allusione al capo del popolo santo a cui
sarà dato il dominio, in partecipazione col regno di Dio. Ad ogni modo, le
attribuzioni del figlio d’uomo trascendono quelle del *messia, figlio di David:
tutto il contesto lo pone in rapporto con il mondo divino e ne accentua la
trascendenza.
2. La tradizione giudaica.
- L’apocalittica giudaica posteriore al libro di Daniele ha ripreso il simbolo
del figlio d’uomo, ma interpretandolo in modo strettamente individuale e
accentuandone gli attributi trascendenti. Nelle parabole di Enoch (la parte più
recente del libro), è un essere misterioso, dimorante presso Dio, possessore
della giustizia e rivelatore dei beni della salvezza, tenuti in serbo per la
fine dei tempi; allora egli siederà sul suo trono di gloria, giudice universale,
salvatore e vendicatore dei giusti, che vivranno presso di lui dopo la loro
risurrezione. Gli vengono attribuiti alcuni dei tratti del *messia regale e del
*servo di Jahvè (egli è l’eletto di giustizia, cfr. Is 42, 1), ma non si parla a
suo riguardo di sofferenza ed egli non ha una origine terrena. Benché la data
delle parabole di Enoch sia discussa, esse rappresentano uno sviluppo dottrinale
che doveva essere acquisito in taluni ambienti giudaici prima del ministero di
Gesù. D’altronde l’interpretazione di Dan 7 ha lasciato tracce nel libro IV di
Esdra e nella letteratura rabbinica. La fede in questo salvatore celeste che sta
per rivelarsi prepara l’uso evangelico dell’espressione «figlio dell’uomo».
NUOVO TESTAMENTO
I. I VANGELI
Nei vangeli, «figlio dell’uomo» (espressione greca ricalcata su una
aramaica, che si sarebbe dovuto tradurre «figlio d’uomo») si trova settanta
volte. A volte è solo l’equivalente del pronome personale «io» (cfr. Mt 5, 11 e
Lc 6, 22; Mt 16, 13-21 e Mc 8, 27-31). Il grido di Stefano che vede «il figlio
dell’uomo in piedi alla destra di Dio» (Atti 7, 56) può indicare che questa
concezione era viva in certi ambienti della Chiesa nascente. Ma la loro
influenza non è sufficiente a spiegare tutti gli usi evangelici di questa
espressione. Il fatto che essa compaia esclusivamente sulla bocca di Gesù
presuppone che la si sia ritenuta una delle sue espressioni tipiche, mentre la
fede postpasquale lo designava con altri titoli. A volte Gesù non si identifica
esplicitamente con il figlio dell’uomo (Mt 16, 27; 24, 30 par.); ma altrove è
chiaro che parla di se stesso (Mt 8, 20 par.; 11, 19; 16, 13; Gv 3, 13 s; 12,
34). È possibile che abbia scelto l’espressione a motivo della sua ambiguità:
suscettibile di un senso banale («l’uomo che io sono»), essa racchiudeva pure
una netta allusione all’apocalittica giudaica.
1. I sinottici.
a) I quadri escatologici di Gesù si ricollegano alla tradizione
apocalittica: il figlio dell’uomo verrà sulle nubi del cielo (Mt 24, 30 par.),
siederà sul suo trono di gloria (19, 28), giudicherà tutti gli uomini (16, 27
par.). Ora, nel corso del suo processo, interrogato dal sommo sacerdote per
sapere se egli è «il *messia, *figlio del benedetto», Gesù risponde
indirettamente alla domanda identificandosi con colui che siede alla destra del
Dio (cfr. Sal 110, 1) e viene sulle nubi del cielo (cfr. Dan 7, 13; Mt 26, 64
par.). Questa affermazione lo fa condannare come bestemmiatore. Di fatto,
scartando ogni concezione terrena del *messia, Gesù ha lasciato apparire la sua
trascendenza. Il titolo di figlio dell’uomo, in base ai suoi antecedenti, si
prestava a questa rivelazione.
b) Per contro, Gesù ha pure collegato al titolo di figlio
dell’uomo un contenuto che la tradizione apocalittica non prevedeva
direttamente. Egli viene a realizzare nella sua vita terrena la vocazione del
*servo di Jahvè, rigettato e messo a morte per essere infine glorificato e
salvare le moltitudini. Ora egli deve subire questo destino in qualità di figlio
dell’uomo (Mc 8, 31 par.; Mt 17, 9 par. 22 s par.; 20, 18 par.; 26, 2. 24 par.
45 par.). Prima di apparire m gloria nell’ultimo giorno, il figlio dell’uomo
avrà condotto un’esistenza terrena in cui la sua gloria era velata nella
umiliazione e nella sofferenza, così come nel libro di Daniele la gloria dei
santi dell’altissimo presupponeva la loro persecuzione. Per definire quindi
l’insieme della sua carriera, Gesù preferisce il titolo di figlio dell’uomo a
quello di messia (cfr. Mc 8, 29 ss), troppo compromesso nelle prospettive
temporali della speranza giudaica.
c) Nell’umiltà di questa condizione nascosta (cfr. Mt 8, 20
par.; 11, 19), che può scusare le *bestemmie che vengono proferite contro di lui
(Mt 12, 32 par.), Gesù incomincia non di meno ad esercitare taluni dei poteri
del figlio dell’uomo: potere di rimettere i *peccati (Mt 9, 6 par.), padronanza
del *sabato (Mt 12, 8 par.), annunzio della *parola (Mt 13, 37). Questa
manifestazione della sua dignità segreta annunzia in qualche misura quella
dell’ultimo *giorno.
2. Il quarto vangelo.
I testi giovannei sul figlio dell’uomo ritrovano a modo loro tutti gli aspetti
del tema che si sono notati nei sinottici. L’aspetto glorioso: come figlio
dell’uomo il *Figlio di Dio eserciterà nell’ultimo giorno il potere di giudicare
(Gv 5, 26-29). Allora si vedranno gli angeli salire e scendere su di lui (1,
51), e questa glorificazione finale manifesterà la sua origine celeste (3,
13),poiché «egli risalirà dov’era prima» (6, 62). Ma prima, il figlio dell’uomo
deve passare attraverso uno stato di umiliazione, in cui gli uomini avranno
difficoltà a scoprirlo per credere in lui (9, 35). Affinché possano «mangiare la
sua carne e bere il suo sangue» (6, 53), bisognerà che la sua carne sia «data
per la vita del mondo» in sacrificio (cfr. 6, 51). Tuttavia, nella prospettiva
giovannea, la croce si confonde con il ritorno al cielo del figlio dell’uomo per
costituire la sua elevazione. «Bisogna che il figlio dell’uomo sia innalzato»
(3, 14 s; 12, 34); questa elevazione è, in modo paradossale, la sua
glorificazione (12, 23; 13, 31), e per mezzo di essa si compie la rivelazione
completa del suo mistero: «allora saprete che io sono» (8, 28). Si comprende
come, per anticipazione di questa gloria finale, il figlio dell’uomo eserciti
fin d’ora taluni dei suoi poteri, specialmente quello di giudicare e vivificare
gli uomini (5, 21 s. 25 ss) mediante il dono della sua carne (6, 53), cibo che
egli solo può dare, perché il Padre lo ha segnato col suo sigillo (6, 27).
II. GLI SCRITTI APOSTOLICI
Il ricorso a questo stesso simbolo è molto raro nel resto del NT, ad eccezione
di alcuni passi apocalittici. Stefano vede Gesù in gloria, alla destra di Dio
(cfr. Sal 110, 1), nella situazione del figlio dell’uomo (Atti 7, 55 s). Così
pure il veggente dell’Apocalisse (Apoc 1, 12-16), che contempla in anticipo la
sua parusia per la *messe escatologica (Apoc 14, 14 ss). Forse S. Paolo si
ricorda pure del tema del figlio dell’uomo quando descrive Gesù come 1’*Adamo
celeste, di cui gli uomini risuscitati rivestiranno l’immagine (1 Cor 15,
45-49). Infine la lettera agli Ebrei, applicando a Gesù il Sal 8, 5 ss, vede in
Gesù «l’uomo», il «figlio d’uomo», umiliato prima di essere chiamato alla gloria
(Ebr 2, 5-9). Giunta a questo punto, la riflessione cristiana opera il legame
tra il «figlio di Adamo» dei salmi, il figlio d’uomo delle apocalissi ed il
nuovo Adamo di S. Paolo. Come figlio di Adamo Gesù ha condiviso la nostra
condizione umiliata e sofferente. Ma poiché, fin da questo momento, egli era il
figlio d’uomo di origine celeste, chiamato a ritornare per il *giudizio, la sua
passione e la sua morte lo portavano alla sua *gloria di risorto, in qualità di
nuovo Adamo, capo dell’umanità rigenerata. In lui, le due figure contrastate di
Adamo, di Gen 1 e 3, giungevano a compimento. Perciò, quando egli sarà
manifestato nell’ultimo giorno, saremo stupiti di averlo già incontrato,
misteriosamente nascosto nel più piccolo dei suoi *fratelli bisognosi (cfr. Mt
25, 31 ss).
J. DELORME
→ Adamo I 2 b, II - cielo V 2.4 - disegno di Dio NT I 2 - figlio di Dio 0; NT I
1 - Gesù Cristo I 3; II 2 b - giorno del Signore NT I 1 - giudizio VT lI 2; NT I
- mediatore I 2 - messia VT II 3; NT I 2, II 2 - nube 4 - regno VT III; NT III 1
- Signore - sofferenza NT II - uomo - vittoria VT 3 a.
→ David 3 - messia VT I 1.
In ebraico la
parola «figlio» non esprime soltanto le relazioni di consanguineità in linea
retta; significa anche sia l’appartenenza ad un gruppo: «figlio di Israele»,
«figlio di Babilonia» (Ez 23, 17), «figlio di Sion» (Sal 149, 2), «figlio dei
profeti» (2 Re 2, 5), «figlio d’uomo» (Ez 2, 1...; Dan 8, 17); sia il possesso
di una qualità: «figlio della pace» (Lc 10, 6), «figlio della luce» (Lc 16, 8;
Gv 12, 36). Qui importa soltanto l’uso della parola per rendere i rapporti fra
gli uomini e Dio.
VECCHIO TESTAMENTO
Nel VT l’espressione «figli di Dio» designa sporadicamente gli *angeli che
costituiscono la corte divina (Deut 32, 8; Sal 29, 1; 89, 7; Giob 1, 6). È
probabile che quest’uso rifletta lontanamente la mitologia di Canaan, dove
l’espressione era intesa in senso stretto. Nella Bibbia, poiché Jahvè non ha
sposa, essa non ha più che un significato attenuato: sottolinea soltanto la
partecipazione degli angeli alla vita celeste di Dio.
I. ISRAELE, FIGLIO DI DIO
Applicata ad Israele, l’espressione traduce in termini di parentela umana i
rapporti tra Jahvè ed il suo popolo. Attraverso gli avvenimenti dell’*esodo
Israele ha sperimentato la realtà di questa filiazione adottiva (Es 4, 22; Os
11, 1; Ger 3, 19; Sap 18, 13); Geremia la ricorda quando annunzia come un nuovo
esodo la liberazione escatologica (Ger 31, 9. 20). In base a questa esperienza
il titolo di «figlio» può essere attribuito (al plurale) a tutti i membri del
popolo di Dio, sia per insistere sulla loro consacrazione religiosa a colui che
è il loro *padre (Deut 14, 1 s; cfr. Sal 73, 15), sia per rimproverare loro con
più vigore la loro infedeltà (Os 2, l; Is 1, 2; 30, 1. 9; Ger 3, 14). Infine la
coscienza della filiazione adottiva diventa uno degli elementi essenziali della
*pietà giudaica. Essa costituisce il fondamento sia della speranza delle
restaurazioni future (Is 63, 8; cfr. 63, 16; 64, 7), sia di quella della
retribuzione d’oltre tomba (Sap 2, 13. 18): i giusti, figli di Dio, saranno
associati per sempre agli angeli, figli di Dio (Sap 5, 5).
II. IL RE, FIGLIO DI DIO
Quando l’Oriente antico celebrava la filiazione divina dei re, lo
faceva sempre in una prospettiva mitica in cui la persona del monarca era
propriamente divinizzata. Il VT esclude questa possibilità. Il *re non vi è più
che un uomo tra gli altri, soggetto alla stessa legge divina e passibile dello
stesso giudizio. Tuttavia *David e la sua discendenza sono stati oggetto di una
*elezione particolare che li associa definitivamente al destino del popolo di
Dio. Per rendere la relazione così creata tra Jahvè e la schiatta regale, Dio
dice per mezzo del profeta Natan: «Sarò per lui un padre, ed egli sarà un figlio
per me» (2 Sam 7, 14; cfr. Sal 89, 27 s). Ormai il titolo di «figlio di Jahvè» è
un titolo regale, che con tutta naturalezza diventerà un titolo messianico (Sal
2, 7) quando l’escatologia profetica avrà di mira la nascita futura del *re per
eccellenza (cfr. Is 7, 14; 9, 1...).
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ, FIGLIO UNICO DI DIO
1. Nei sinottici, il titolo di Figlio di Dio,
facilmente associato a quello di *Cristo (Mt 16, 16; Mc 14, 61 par.), appare da
prima come titolo messianico. Con ciò è esposto ad equivoci che Gesù dovrà
dissipare. Già all’inizio, la scena della tentazione rivela l’opposizione tra
due interpretazioni. Per Satana, essere figlio di Dio significa assicurarsi una
*potenza prodigiosa ed una protezione invulnerabile (Mt 4, 3. 6); per Gesù,
significa non trovare cibo ed aiuto che nella *volontà di Dio (Mt 4, 4. 7).
Rigettando ogni suggestione di messianismo terreno, Gesù fa già apparire il
legame indissolubile che lo unisce al *Padre. Agisce allo stesso modo dinanzi
alle dichiarazioni degli indemoniati (Mc 3, 11 par.; 5, 7 par.), che mostrano
nei demoni un riconoscimento involontario della sua persona (Mc 1, 34); ma esse
sono ambigue, e perciò Gesù impone il silenzio. La confessione di fede di
Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», proviene da una adesione
di fede autentica (Mt 16, 16 s), e l’evangelista che la riferisce le può dare
senza difficoltà tutto il suo senso cristiano. Tuttavia Gesù previene subito un
equivoco: il suo titolo non gli assicura un destino di gloria terrena; il figlio
dell’uomo morrà per accedere alla sua gloria (16, 21). Infine, quando Caifa pone
solennemente la domanda essenziale: «Sei tu il Cristo, il figlio del benedetto?»
(Mt 26, 63; Mc 14, 61), Gesù sente che l’espressione potrebbe ancora essere
intesa nel senso di un messianismo temporale. Risponde quindi indirettamente,
aprendo un’altra prospettiva: annuncia la sua venuta come giudice sovrano sotto
i tratti del figlio dell’uomo. Ai titoli di *messia e di *figlio dell’uomo dà
così una portata propriamente divina, ben sottolineata nel vangelo di Luca: «Tu
sei dunque il Figlio di Dio? - Voi lo dite, io lo sono» (Lc 22, 70). Rivelazione
paradossale: spogliato di tutto ed apparentemente abbandonato da Dio (cfr. Mt
27, 46 par.), Gesù conserva intatte le sue rivendicazioni; fino alla morte
resterà sicuro del Padre suo (Lc 23, 46). D’altronde questa morte finisce per
dissipare ogni equivoco: citando la confessione del centurione (Mc 15, 39 par.),
gli evangelisti sottolineano che la croce è alla origine della fede cristiana.
Si illuminano allora retrospettivamente parecchie frasi in cui Gesù aveva
rivelato la natura dei suoi rapporti con Dio. Nei confronti di Dio egli è «il
figlio» (Mt 11, 27 par.; 21, 37 par.; cfr. 24, 36 par.); formula familiare, che
gli permette di rivolgersi a Dio chiamandolo «Abba! Padre!» (Mc 14, 36; cfr. Lc
23, 46). Tra lui e Dio regna quella profonda intimità che suppone una perfetta
conoscenza reciproca ed una comunicazione totale (Mt 11, 25 ss par.). Così Gesù
dà tutto il loro senso alle proclamazioni divine: «Tu sei il mio figlio» (Mc 1,
11 par.; 9, 7 par.).
2. Per mezzo della *risurrezione di Gesù gli apostoli
hanno finalmente compreso il mistero della sua filiazione divina: la
risurrezione realizzava il Sal 2, 7 (cfr. Atti 13, 33); apportava la conferma di
Dio alle rivendicazioni di Gesù dinanzi a Caífa e sulla croce. Già l’indomani
della Pentecoste, la *testimonianza apostolica e la confessione di fede
cristiana hanno dunque per oggetto «Gesù, Figlio di Dio» (Atti 8, 37; 9, 20).
Presentando l’infanzia di Gesù, Matteo e Luca sottolineano discretamente questo
tema (Mt 2, 15; Lc 1, 35). In Paolo esso diventa il punto di partenza di una
riflessione teologica molto più spinta. Dio ha inviato quaggiù il Figlio suo
(Gal 4, 4; Rom 8, 3) affinché siamo riconciliati mediante la sua morte (Rom 5,
10). Attualmente egli lo ha stabilito nella sua *potenza (Rom 1, 4) e ci chiama
alla *comunione con lui (1 Cor 1, 9), perché ci ha trasferiti nel suo regno (Col
1, 13). La vita cristiana è una vita «nella fede nel Figlio di Dio che ci ha
amati e si è dato per noi» (Gal 2, 20), ed un’attesa del *giorno in cui egli
ritornerà dal cielo per «liberarci dall’ira» (1 Tess 1, 10). Le stesse certezze
pervadono la lettera agli Ebrei (1, 2. 5. 8; passim).
3. In S. Giovanni la teologia della filiazione divina
diventa un tema dominante. Talune confessioni di fede dei personaggi del vangelo
possono ancora implicare un senso ristretto (Gv 1, 34; 1, 51; soprattutto 11,
27). Ma Gesù parla in termini chiari dei rapporti tra il Figlio ed il Padre: c’è
tra essi unità di operazione e di gloria (Gv 5, 19. 23; cfr. 1 Gv 2, 22 s); il
Padre comunica tutto al Figlio perché lo ama (Gv 5, 20): potere di vivificare
(5, 21. 25 s) e potere di giudicare (5, 22. 27); quando Gesù ritorna a Dio, il
Padre glorifica il Figlio affinché il Figlio lo glorifichi (Gv 17, 1; cfr. 14,
13). Si precisa in tal modo la dottrina della incarnazione: Dio ha mandato nel
mondo il suo Figlio unico per salvare il mondo (1 Gv 4, 9 s. 14); questo Figlio
unico è il rivelatore di Dio (Gv 1, 18), e comunica agli uomini la vita eterna
che viene da Dio (1 Gv 5, 11 s). L’*opera da compiere è quindi di credere in lui
(Gv 6, 29; 20, 31; 1 Gv 3, 23; 5, 5. 10): chi crede nel Figlio ha la vita eterna
(Gv 6, 40), chi non crede è condannato (Gv 3, 18).
II. GLI UOMINI, FIGLI ADOTTIVI DI DIO
1. Nei sinottici la filiazione adottiva, di cui
parlava già il VT, è affermata a più riprese: Gesù non insegna soltanto ai suoi
a chiamare Dio «Padre nostro» (Mt 6, 9), ma dà il titodo di «figli di Dio» ai
pacifici (5, 9), ai caritatevoli (Lc 6, 35), ai giusti risuscitati (20, 36).
2. Il fondamento di questo titolo è precisato nella
teologia paolina. L’adozione filiale era già uno dei privilegi di Israele
(Rom 9, 4), ma in un senso molto più stretto tutti i cristiani sono ora figli di
Dio mediante la fede in Cristo (Gal 3, 26; Ef 1, 5). Hanno in sé lo *Spirito che
li rende figli adottivi (Gal 4, 5 ss; Rom 8, 14-17); sono *predestinati a
riprodurre in sé l’*immagine del Figlio unico (Rom 8, 29); sono istituiti
*coeredi con lui (Rom 8, 17). Ciò suppone in essi una vera rigenerazione (Tito
3, 5; cfr. 1 Piet 1, 3, 2, 2) che li fa partecipare alla vita del Figlio; tale è
di fatto il senso del *battesimo,, che fa vivere l’uomo di una vita nuova (Rom
6, 4). Così siamo figli di adozione nel Figlio per natura, e Dio ci tratta come
tali, anche quando gli avviene di mandarci i suoi castighi (Ebr 12, 5-12).
3. La dottrina degli scritti giovannei ha esattamente
lo stesso suono. Bisogna *rinascere, dice Gesù a Nicodemo (Gv 3, 3. 5)
dall’acqua e dallo Spirito. E questo perché, effettivamente, a coloro che
credono in Cristo, Dio dà il potere di diventare figli di Dio (Gv 1, 12). Questa
vita di figli di Dio è per noi una realtà attuale, benché ignorata dal mondo (1
Gv 3, 1). Giorno verrà in cui essa sarà manifestata apertamente, ed allora
saremo simili a Dio, perché lo *vedremo come egli è (1 Gv 3, 2). Non si tratta
quindi più soltanto di un titolo che mostra l’amore di Dio per le sue creature:
l’uomo partecipa alla natura di colui che lo ha adottato come figlio (2 Piet 1,
4).
H. RENARD e P. GRELOT
→ amore I NT - bambino - battesimo III 2, IV 2.4 - Dio NT - discepolo
VT 1 - educazione - eredità NT - figlio dell’uomo NT I - Gesù Cristo I 2, II -
grazia II 3 - immagine IV - messia NT II 2 - nascita (nuova) - padri e Padre III,
IV, V - rivelazione NT I 1 c, II 2.3, III - santo NT I - schiavo II - Signore -
Spirito di Dio - trasfigurazione 2.3.
Il greco týpos ed
il latino figura sono usati dai teologi per designare i simbolismi più originali
che si incontrino nel linguaggio della Bibbia: le prefigurazioni. I libri sacri
usano allo stesso scopo parecchi altri termini esprimenti idee connesse:
antìtypos (replica del týpos), bypòdeigma (esempio, donde immagine
annunciatrice, riproduzione anticipata), paràdeigma (esempio), parabolè
(simbolo), skià (ombra), mìmema (imitazione). Per il senso generale tutti questi
termini si ricollegano ad immagine (eikòn), modello (týpos: 1 Tess 1, 7); ma per
lo più implicano una sfumatura particolare che li avvicina a tipo/figura.
VECCHIO TESTAMENTO
II linguaggio del VT, come ogni linguaggio religioso, ricorre frequentemente al
simbolismo senza soffermarsi a definirne la natura e le fonti. Ma è facile
identificare le concezioni fondamentali da cui deriva il suo uso dei simboli; ed
è quanto qui importa.
I. SIMBOLISMO ESEMPLARISTA: IL MODELLO CELESTE E LE SUE IMITAZIONI
TERRENE
Come tutte le religioni antiche, il VT si raffigura il mondo divino, il mondo
celeste, come il prototipo sacro, ad immagine del quale è organizzato il mondo
di quaggiù. Come un re, Dio risiede in un palazzo celeste (Mi 1, 3); è
circondato da una corte di servi (Is 6, 1 ss), ecc. E poiché lo scopo del culto
è di mettere l’uomo in rapporto con Dio, ci si sforza di riprodurre in esso quel
modello ideale, cosicché il mondo celeste sia in qualche modo messo alla portata
dell’uomo. Così Gerusalemme ed il suo tempio sono l’imitazione del palazzo
divino, con il quale in certo modo si identificano (cfr. Sal 48, l-4). Perciò il
codice sacerdotale mostra Dio che sul Sinai comunica a Mosè un modello al quale
egli dovrà conformare il tabernacolo (ebr. tabnit; gr. týpos, Es 25, 40, o
paràdeigma, Es 25, 9); questo modello è una specie di disegno di architetto
(cfr. 1 Cron 28, 11: tabnit, paràdeigma) stabilito da Dio in base alla sua
propria dimora. Così pure, secondo Sap 9, 8, il tempio costruito da Salomone è
«l’imitazione (mìmema) della tenda sacra che Dio si è preparata fin
dall’origine». Questo simbolismo esemplarista non è molto lontano dalla teoria
platonica delle «Idee». Platone quindi, su questo punto, non fa che elaborare
filosoficamente un dato corrente nelle tradizioni religiose dell’Oriente antico.
II. SIMBOLISMO ESCATOLOGICO: LA STORIA DELLA SALVEZZA E LA SUA
CONSUMAZIONE FINALE
1. La concezione biblica della storia sacra.
- Le mitologie antiche applicavano lo stesso principio esemplarista ai cicli
cosmici (ritorno dei giorni, delle stagioni, ecc.) ed alle esperienze
fondamentali della storia umana (avvento del re, guerra, ecc.). Nell’un caso e
nell’altro esse vedevano i riflessi terreni di una storia divina verificatasi
prima di tutti i tempi, archetipo primordiale di ogni divenire cosmico e di ogni
agire umano. Questo archetipo, imitato indefinitamente nel tempo, conferiva alle
cose di quaggiù il loro significato sacro. Perciò il mito era attualizzato nel
culto mediante un dramma rituale, al fine di mettere gli uomini in rapporto con
l’azione degli dèi. Ora la rivelazione biblica, eliminando il politeismo, svuota
del suo contenuto la sola storia sacra che i paganesimi vicini conoscono: per
essa Dio non ha più attività se non nei confronti della sua creazione. Ma in
questa nuova prospettiva essa scopre un’altra specie di storia sacra, che i
paganesimi ignoravano totalmente: la storia del *disegno di Dio, che
dall’origine si svolge nel *tempo in modo lineare e non ciclico, fino alla sua
realizzazione completa che avverrà al termine del tempo, nella escatologia.
2. Il senso degli avvenimenti della storia sacra.
- Il termine del disegno di Dio non sarà rivelato chiaramente se non quando
prenderà corpo nell’avvenimento escatologico. Tuttavia Dio ha già incominciato a
darne un’oscura conoscenza al suo popolo a partire dagli avvenimenti della sua
storia. Esperienze come 1’*esodo, 1’*alleanza sinaitica, l’ingresso nella *terra
promessa ecc., non erano accidenti privi di senso. Atti di Dio nel tempo umano,
essi portavano in se stessi il segno del fine che Dio persegue dirigendo il
corso della storia, ne abbozzavano progressivamente i tratti. Perciò possono già
nutrire la fede del popolo di Dio. Perciò anche i profeti, evocando nei loro
oracoli escatologici il termine del disegno di Dio, vi mostrano la ripresa più
perfetta delle esperienze passate: *nuovo *esodo (Is 43, 16-21), nuova *alleanza
(Ger 31, 31-34), nuovo ingresso nella *terra promessa verso una nuova
*Gerusalemme (Is 49, 9- 23), ecc. Così quindi la storia sacra, con tutti gli
elementi che la compongono (avvenimenti, personaggi, istituzioni), possiede quel
che si può chiamare un simbolismo escatologico: manifestazione parziale dei
disegni di Dio ad un livello ancora imperfetto, essa mostra in modo velato il
termine verso il quale questo disegno cammina.
3. L’escatologia e le origini.
- Lo stesso principio si applica eminentemente al punto di partenza della storia
sacra, la *creazione. Infatti, se nella rivelazione biblica non c’è più una
storia divina primordiale, sussiste questo atto primordiale mediante il quale
Dio ha inaugurato il suo disegno, svelando fin dall’inizio gli scopi che
intendeva perseguire quaggiù. L’escatologia, atto finale di Dio, ne deve
ritrovare i tratti. Secondo gli oracoli profetici essa non sarà soltanto un
nuovo esodo, ecc.; sarà una nuova creazione (Is 65, 17), analoga alla prima
perché riprenderà lo stesso disegno, più perfetta perché scarterà gli ostacoli
che in un primo tempo fecero fallire i disegni di Dio: il *peccato e la *morte.
Le stesse immagini quindi di perfezione e di felicità servono ad evocare, ai due
capi del tempo, il *paradiso primitivo ed il paradiso ritrovato (ad es.: Os 2,
20- 24; Is 11, 5-9; 51, 3; 65, 19-25; Ez 36, 35). Tra i due si svolge la storia
sacra, coscientemente vissuta dal popolo dell’antica alleanza che ne aspetta la
consumazione nella nuova alleanza.
4. Il culto e la storia sacra.
- Il *culto del VT non deve più attualizzare una storia mitica degli dèi in un
dramma rituale per farvi partecipare gli uomini. Ma, poiché la storia sacra
rimane un atto divino compiuto nel tempo umano, le *feste liturgiche acquistano
a poco a poco la funzione di commemorare (ed in questo senso di attualizzare per
la fede di Israele) i grandi fatti che la compongono. Il *sabato diventa un
memoriale della creazione (Gen 2, 2 s; Es 31, 12 ss); la *Pasqua un memoriale
dell’esodo (Es 12, 26 s); la *Pentecoste un memoriale dell’alleanza sul Sinai
(nel giudaismo post-biblico); i tabernacoli un memoriale del soggiorno nel
deserto (Lev 23, 42 s). E poiché, d’altra parte, questi avvenimenti passati
erano presagi della salvezza finale, la loro commemorazione cultuale è
portatrice di speranza: Israele non ricorda i benefici storici di Dio se non per
attendere con maggior fede il beneficio escatologico, di cui essi sono gli
annunzi velati, inscritti nella trama della storia.
III. ESEMPLARISMO MORALE
Infine il VT conosce un esemplarismo morale, in cui gli uomini-tipi del
passato sono modelli disposti da Dio in vista della istruzione del suo popolo.
Così Enoch fu un esempio (bypòdeigma) in vista della penitenza (Eccli 44, 16).
Un esemplarismo di questo genere è sfruttato frequentemente nei libri
sapienziali. Assume una forza particolare quando si fonda sul simbolismo
escatologico della storia sacra, quale l’abbiamo definito (cfr. Sap 10-19). Si
vede che la dottrina delle prefigurazioni è già ben viva nel VT. Derivando da
una concezione della storia sacra che appartiene in proprio alla rivelazione
biblica, essa differisce profondamente dal semplice simbolismo esemplarista, che
non di meno il VT conosce ed all’occasione sfrutta. Essa fornisce agli oracoli
profetici il linguaggio, grazie al quale possono evocare in anticipo il mistero
della salvezza. È in tal modo legata alla dialettica stessa della rivelazione.
Il NT lo mostrerà pienamente.
NUOVO TESTAMENTO
I. GLI ATTEGGIAMENTI DI GESÙ
Gesù ha coscienza di portare a termine i tempi preparatori (Mc 1, 15) e di
inaugurare quaggiù lo stato di cose annunciato dagli oracoli profetici (cfr. Mt
11, 4 ss; Lc 4, 17 ss). Tutta la storia sacra svoltasi sotto il regime della
prima alleanza acquista quindi il suo significato definitivo negli atti che egli
compie, nelle istituzioni che crea, nel dramma che vive. Perciò, per definire la
sua opera e renderla intelligibile, egli l’accosta intenzionalmente agli
elementi figurativi contenuti in questa storia. La comunità che egli crea si
chiamerà *Chiesa (Mt 16, 18), cioè un’assemblea cultuale analoga a quella di
Israele nel deserto (cfr. Atti 7, 38); essa poggerà sui dodici *apostoli, il cui
*numero ricorda quello delle tribù, struttura fondamentale del popolo di
*Israele (cfr. Mt 19, 28). Così pure la cena, che spiega il senso della sua
croce e ne rende presente la realtà sotto *segni sacramentali, si comprende in
funzione della *Pasqua (Lc 22, 16 par.) e dell’*alleanza sinaitica (Lc 22, 20);
il pane di vita promesso, che è il suo corpo, supera per i suoi effetti la
*manna che ne era l’immagine imperfetta (Gv 6, 58). Questi esempi mostrano come
Gesù, raccogliendo i simbolismi escatologici della storia sacra, li sfrutta per
evocare concretamente il mistero della salvezza giunto alla fine dei tempi,
inaugurato nella sua persona e nella sua vita, chiamato ad attualizzarsi nella
storia della sua Chiesa ed a consumarsi nell’eternità quando il tempo umano avrà
avuto fine. Con ciò egli fa comprendere come in lui gli avvenimenti e le
istituzioni del VT acquistano il loro pieno senso, fino allora parzialmente
velato, ma ora pienamente rivelato dall’avvenimento al quale tendevano.
II. LO SFRUTTAMENTO DELLE FIGURE BIBLICHE
Sull’esempio di Gesù, l’insieme degli autori sacri del NT fa appello
incessante al principio figurativo, ora per mostrare che il mistero della
salvezza si svolge «conformemente alle Scritture», ora per definirlo con un
linguaggio onusto di portata religiosa. Così Matteo riferisce a Gesù ciò che
Osea diceva di Israele, «figlio di Dio» (Mi 2, 15; cfr. Os 11, 1), mentre
Giovanni applica a Cristo in croce la descrizione dell’*agnello pasquale (Gv 19,
36). In entrambi i casi il *compimento delle Scritture ha per fondamento il
compimento delle prefigurazioni bibliche. In numerosi passi il linguaggio
dottrinale del NT prende così lo spunto dalla esperienza storica del popolo di
Israele, sia che gli oracoli profetici ne abbiano già trasferito ed applicato i
dati all’escatologia (così Apoc 21 che riprende Is 62), sia che questo
trasferimento dei testi appartenga in proprio agli autori del NT (così 1 Piet 2,
9 che riprende Es 19, 5 s). Tuttavia bisogna giungere a S. Paolo ed alla lettera
agli Ebrei per veder definire nettamente il principio teologico delle
prefigurazioni.
III. S. PAOLO
Per Paolo i personaggi ed i fatti della storia sacra racchiudono le figure
annunciatrici (è questo il senso che egli dà alla parola týpos) del mistero di
Cristo e delle realtà cristiane. Già alle origini, *Adamo era una figura
dell’Adamo futuro (Rom 5, 14). Più tardi, gli avvenimenti dell’*esodo sono
accaduti in figura (1 Cor 10, 11); sono «figure che riguardano noi, che siamo
giunti alla fine dei tempi» (1 Cor 10, 6); la realtà prefigurata da questi tipi
è la nostra partecipazione effettiva al mistero di Cristo, assicurata dai
sacramenti cristiani. Così in 1 Piet 3, 21 il battesimo è chiamato un «antitipo»
del *diluvio. L’esemplarismo morale procede facilmente da questa interpretazione
figurativa della storia sacra: i *castighi dei nostri padri nel deserto sono una
lezione per noi (cfr. 1 Cor 10, 7 ss) ed annunziano la condanna definitiva dei
cristiani infedeli; la distruzione di Sodoma e la preservazione di Lot sono un
esempio (bypòdeigma) per gli empi futuri (2 Piet 2, 6); viceversa, la fede di
*Abramo «aveva parimenti di mira noi» (Rom 4, 23), per modo che «coloro che si
appellano alla fede sono i figli di Abramo» (Gal 3, 7).Prolungando le linee di
questa tipologia, Paolo si permette di interpretare allegoricamente talune
pagine della Scrittura, dove trova i simboli delle realtà cristiane. Lo dice
esplicitamente in Gal 4, 24, quando applica ai cristiani ciò che la Genesi
diceva di Isacco, figlio della promessa. Questa allegorizzazione non si confonde
puramente e semplicemente con la tipologia che le sta alla base; resta un metodo
pratico, sfruttato per adattare i testi biblici ad un oggetto diverso da quello
che essi intendevano primitivamente, salvo poi a sovrapporre un significato
secondario a tutti i particolari che essi contengono. Del resto Paolo ha
coscienza che le figure bibliche non erano che immagini imperfette in rapporto
alle realtà ora svelate. Così il culto giudaico non conteneva che «l’ombra delle
cose future» (skià), mentre la realtà (sòma) è il corpo di Cristo (Col 2, 17).
IV. LA LETTERA AGLI EBREI
In S. Paolo il simbolismo escatologico, già sfruttato dagli oracoli profetici,
trovava espressione nei binomi týpos/antìtypos e skià/sòma. Nella lettera agli
Ebrei questo simbolismo escatologico si intreccia con un simbolismo esemplarista
comune alle religioni orientali, al platonismo ed allo stesso VT. E questo
perché il *mistero di Cristo, il sacrificio che egli compie, la salvezza che
apporta, sono ad un tempo le cose celesti (Ebr 8, 5; 9, 23; 12, 22), eterne per
natura (5, 9; 9, 12; 13, 20), e le «cose future» (6, 5; 10, 1), avvenute alla
fine dei secoli (9, 26). Tali sono le vere realtà (8, 2; 9, 24), alle quali i
nostri padri nella fede, gli uomini del VT, potevano soltanto aspirare (11, 16.
20), mentre noi cristiani le abbiamo già gustate con l’iniziazione battesimale
(6, 4). Di fatto la prima *alleanza ne conteneva soltanto riproduzioni
anticipate (bypòdeigma, 8, 5; 9, 23), ombre (skià, 8, 5), repliche (antìtypos,
9, 24) di un modello che esisteva fin d’allora in cielo, pur non dovendo essere
rivelato quaggiù che per mezzo di Cristo. Questo modello (týpos), che fu
mostrato a Mosè sulla montagna quando costruiva il tabernacolo (8,5 = Es 25, 40;
cfr. Atti 7, 44), è il *sacrificio di Cristo, il quale è entrato nel santuario
celeste come sommo sacerdote dei beni futuri, per realizzare la nuova alleanza
(9, 11 s). Ora le realtà ecclesiali non racchiudono più soltanto un’ombra (skià)
dei beni futuri, ma un’*immagine (eikòn) che ne contiene tutta la sostanza e
permette di parteciparvi misteriosamente. Così viene ad essere definita
l’economia sacramentale della nuova alleanza, in opposizione all’economia antica
ed al suo culto figurativo. In questo linguaggio tecnico la parola týpos riveste
un senso inverso a quello che aveva in S. Paolo, perché non designa più le
prefigurazioni del NT nel VT, ma l’atto di Cristo che, al termine dei tempi,
realizza il fatto della salvezza. C’è qui una netta traccia di simbolismo
esemplarista, perché il rapporto del VT al mistero di Cristo è lo stesso che
quello delle cose cultuali della terra al loro archetipo celeste. Tuttavia,
poiché questo archetipo è nello stesso tempo il termine della storia sacra,
proprio in virtù di un simbolismo escatologico le cose del VT ne sono le
repliche (antìtypos); in Cristo, che appartiene contemporaneamente al tempo ed
all’eternità, il rapporto della terra con il cielo ed il rapporto della storia
figurativa con il suo termine si intersecano, o meglio si identificano. Di fatto
si constata in altri passi che l’autore della lettera, al pari di Paolo, è
attento alla dimensione orizzontale della tipologia, anche se il suo linguaggio
ne suggerisce soprattutto la dimensione verticale. In effetti egli scopre negli
avvenimenti del VT le prefigurazioni dell’avvenimento della salvezza: Isacco
sulla catasta è un simbolo (parabolè) di Cristo morto e risorto (11, 19); il
*riposo della terra promessa in cui entrarono i nostri padri simboleggia il
riposo divino in cui l’economia cristiana ci introduce (4, 9 s; cfr. 12, 23). Da
questo simbolismo escatologico deriva naturalmente un esemplarismo morale: gli
Ebrei nel *deserto sono per noi un esempio (hypòdeigma, 4, 11) di disobbedienza,
ed il loro castigo presagisce quello che attende noi se, sul loro esempio, siamo
infedeli; al contrario, i santi del VT sono per noi un esempio di fede (11). Il
principio delle prefigurazioni, abbozzato già nel VT, sfruttato costantemente
nel NT, definito esplicitamente (con notevoli sfumature) da San Paolo e dalla
lettera agli Ebrei, è quindi essenziale alla rivelazione biblica, di cui
permette di comprendere lo sviluppo. Dall’uno all’altro testamento esso mette in
luce la continuità di una vita di fede condotta dal popolo di Dio a livelli
diversi, il primo dei quali annunziava quello che doveva seguirlo «a modo di
figure».
P. GRELOT
→ Adamo II 2 - compiere - immagine - rivelazione VT II 1 a - segno.
→ amico - amore II - elemosina VT 3; NT 2 c.
→ figlio di Dio - padri e Padre.
→ giorno dei Signore - mondo VT III; NT III 3 - tempo VT III; NT III.
→ bestie e Bestia 3 a - calamità.
Nella Bibbia la
follia si oppone alla *sapienza (ad es. Prov 10, 1- 14) e, al pari di questa,
viene definita in rapporto alla condotta della *vita ed alla *conoscenza di Dio.
Il folle è lo stolto e l’imprudente, ed è pure 1’*empio (Prov 1, 22-32; Eccli
22, 9-18) che non conosce né la legge (VT) né Cristo (NT).
1. I sapienti mettono il giovane senza esperienza in
guardia contro le seduzioni che lo indurrebbero ad una condotta stolta: quella
delle donne perverse (Prov 7, 5-27), quella di signora follia, personificazione
dell’*empietà (Prov 9, 13-18). Essi delineano il ritratto degli stolti per
mostrare ai loro discepoli quel che diverrebbero in mancanza di disciplina (Eccli
21, 14-20); non giungerebbero a pensare che il Signore non fa giustizia, oppure
non vede nulla (Eccli 16, 17-23), oppure persino che non esiste (Sal 14, l)? In
conseguenza, riterrebbero i giusti stolti (Sap 5, 4) e la loro morte una
disgrazia irreparabile (Sap 3, 2).
2. Dinanzi al regno di Dio, presente nella persona di
Cristo, la follia non consiste soltanto nell’empietà che rigetta la legge di
Dio, ma in una sapienza che si chiude alla sua grazia. Una conversione radicale
è necessaria a tutti per accogliere le parole di Cristo e metterle in pratica,
senza di che si è insensati (Mt 7, 26). Follia appoggiarsi alla propria
*ricchezza (Lc 12, 20); follia non rispondere alle esigenze di Dio, come le
vergini stolte (Mt 25, l-13), oppure tentare di eluderle, come i *farisei (Mt
23, 17). Agli occhi di colui che ammette un nesso tra malattia, peccato e
demoni, la follia che diventa amore potrebbe venir simboleggiata dalla storia
dell’indemoniato di Gerasa, quel pazzo furioso che, dopo aver terrorizzato la
regione, vuol seguire Gesù suo salvatore (Mc 5, 1-20 par.). Per Paolo la vera
follia consiste nel non credere alla sapienza di Dio che si rivela in Cristo
*crocifisso e nella follia della sua *predicazione (1 Cor 1, 18-29). Ma il
credente deve accettare di essere considerato, come Cristo stesso (Mc 3, 21), un
insensato agli occhi del mondo (1 Cor 3, 18 ss); così Paolo è stato ritenuto uno
stolto (1 Cor 4, 10; Atti 26, 24); ed ogni apostolo di Cristo crocifisso avrà la
stessa sorte, perché annunzia una *salvezza che è opera della follia di Dio,
follia di amore che è suprema sapienza (1 Col 1, 25).
J. AUDUSSEAU
→ croce I 1 - cupidigia NT 2 - educazione I - empio VT 2 - riso 1 - sapienza -
scandalo I 4 - semplice 1.
FONDAZIONI - FONDAMENTA (inizio)
→ apostoli I 1 - Chiesa III 2 - edificare II, III 2 - roccia 1.
→ acqua - roccia 2 - vita III 2, IV 2.
→ fariseo - ipocrita - puro NT I 1.
Tutta la Bibbia
parla di forza e ne sogna, ma nello stesso tempo annunzia la caduta finale dei
*violenti e la elevazione dei piccoli. Questo paradosso si sviluppa fino alla
predicazione della *croce, in cui ciò che pare «debolezza di Dio» è proclamato
più forte dell’uomo (l Cor l, 25). Così il gigante Golia, «uomo di guerra fin
dalla giovinezza», che si leva con la sua spada, la sua lancia ed il suo
giavellotto, è vinto da David, giovanetto biondo, munito d’una fionda e di
cinque pietre, ma che avanza nel *nome di Jahvè (l Sam 17, 45). E Paolo
caratterizza il metodo divino: «Ciò che è debole nel mondo, Dio lo ha scelto per
confondere i forti» (1 Cor l, 27). Questa non è apologia della debolezza, ma
glorificazione della «forza di Dio per la salvezza del credente» (Rom 1, 16).
Con queste parole Paolo non vuole, come farà più tardi l’Islam, esaltare una
*potenza divina sopra il nulla dei mortali; egli oppone la forza, che l’uomo
trova in Dio, alla impotenza in cui rimane senza Dio; con Dio, uno solo
combatterà vittoriosamente contro mille (Gios 23, 10; Lev 26, 8); senza Dio, si
sarà ridotti a fuggire al rumore di una foglia morta (Lev 26, 36). «Con Dio
faremo prodezze» canta il salmista (Sal 60, 14). «Tutto posso in colui che mi
rende forte», esclama Paolo (Fil 4, 13).
I. LA FORZA DEGLI ELETTI DI DIO
1. La forza che incute rispetto.
- L’israelita sogna la forza, perché sogna di imporsi in modo duraturo al mondo
che lo circonda: «Divieni forte in Efrata, si augura a Booz; fatti un *nome in
Betlemme» (Rut 4, 11). La forza, che permette di imporsi, è anzitutto la forza
delle *braccia (Sal 76, 6) e delle *reni (Sal 93, 1), quella delle *ginocchia
che non piegano, del *cuore che tien duro nella lotta (Sal 57, 8); è pure la
forza rappresentata dalla potenza vitale di un essere, dalla sua salute e dalla
sua *fecondità (Gen 49, 3); oppure ancora la sua potenza economica, quella che
Israele esaurisce pagando tributo o comperandosi alleati (Os 7, 9; Is 30, 6).
Infine, se la forza che i malvagi traggono dalle loro *ricchezze è scandalosa (Giob;
Sal 49, 73), la virtù invece, ad es. quella della «donna forte» (Prov 31,
10-31), è degna di lode. Poiché si tratta di imporsi all’esterno, essere forte
significa di fatto «essere più forte di». Il forte oppone al nemico la
resistenza della *pietra, del diamante (Ez 3, 9), del bronzo (Giob 6, 12), la
resistenza della *roccia che l’assalto furioso dei mari non riesce a scuotere (Sal
46, 3 s), la resistenza della cittadella imprendibile (Is 26, 5), del rifugio
appollaiato su monti inaccessibili (Ab 3). Il forte sta in piedi, mentre il
debole barcolla e cade, steso come morto: «Jahvè è la mia pietra, il mio
bastione... La mia cittadella, il mio rifugio... Un Dio che mi cinge di forza...
e mi tiene in piedi sui monti» (Sal 18; 62, 3). Questa forza nel far fronte non
potrebbe restare puramente difensiva. Nella lotta per la vita si è vincitori o
vinti; non c’è soluzione intermedia. L’*unto di Jahvè, che la forza divina fa
stare ritto dinanzi al mondo coalizzato, finirà per veder rotolare sotto i suoi
piedi tutti i nemici (Sal 18, 48), senza che nessuno di essi gli possa sfuggire
(Sal 21, 9). A giudicare dall’insistenza dei salmi regali, si impone la verità:
non c’è *pace senza una *vittoria totale e definitiva.
2. La forza al servizio di Dio.
- Se Israele sogna in tal modo di essere forte, lo fa in vista di realizzare il
piano di Dio. Diversamente, avrebbe potuto Giosuè conquistare la terra di Canaan
(Gios 1, 6), ed il popolo eletto aver accesso alla salvezza (Is 35, 3 s)? Non
occorre minor forza, né minor violenza per entrare nel regno di Dio (Lc 16, 16).
«Animati da una potente energia mediante il vigore della sua gloria,
acquisterete una perfetta costanza e perseveranza» (Col 1, 11). La forza
necessaria al cristiano appare anch’essa come un potenziale di vita ed un
vittorioso far fronte. Partecipazione alla forza stessa di Cristo risorto, che
siede alla *destra del Padre (Ef 1, 19 s), essa ne fa un vincitore del mondo (1
Gv 5, 5), facendolo trionfare su ogni potenza del male (Mc 15, 17 s), anzitutto
in se stesso (1 Gv 2, 14; 5, 18; sulla qual cosa il VT non insisteva molto) e
poi attorno a sé. Lo *spirito del Signore è potenza di *risurrezione anche per
noi (Fil 3, 10 s), fortifica in noi l’uomo interiore (Ef 3, 16), fino a
permetterci di entrare con la nostra *pienezza nella pienezza stessa di Dio (3,
19).
II. LA FORZA NELLA DEBOLEZZA
L’uomo non possiede in se stesso la forza che gli dia la *salvezza: «Il re non è
salvato da una grande forza... Fallace è il corsiero a salvezza» (Sal 33, 16 s).
Questa confessione d’impotenza è certamente un luogo comune di ogni *preghiera.
Disarmati dinanzi ad un mondo più forte di essi, i mortali cercano di mettere
dalla loro parte la *potenza degli dèi. Ma la Bibbia si guarda bene dal fornire
così all’uomo ricette efficaci per compensare la sua impotenza naturale. È Dio
ad impegnarci al suo servizio; se rende l’uomo forte, lo fa perché egli compia
la sua volontà e realizzi il suo disegno (Sal 41, 10; 2 Cor 13, 8). Ora, sia che
si tratti della forza oppure degli altri doni di Jahvè, Israele finisce per
dimenticare l’origine, per appropriarseli e rendersi indipendente da colui dal
quale ha ricevuto tutto: «Guardati dal dire: è stata la mia forza, il vigore del
mio braccio, a procurarmi questo potere» (Deut 8, 17). Mantenere l’equivoco
significherebbe aprire la via al rinnegamento. Jahvè quindi, per far ben
comprendere che non si è forti se non per mezzo suo ed in lui, si sceglie uomini
di apparenza modesta, ma il cui *cuore è sicuro (1 Sam 16, 7), a preferenza di
persone che, come Saul, sorpassano gli altri di tutta la testa (1 Sam 10, 23).
Egli vuole agire con mezzi umani sempre più umili: «il popolo, che è con te, è
troppo numeroso perché io dia Madian nelle loro mani. Israele potrebbe trarne
gloria a mie spese, e dire: è stata la mia propria mano a liberarmi» (Giud 7, 2;
Is 30, 15 ss). Il Signore rivela così a Paolo: «La mia grazia ti basta: poiché
la mia forza si mostra appieno nella debolezza» (2 Cor 12, 9). Di fatto la sua
*gloria non potrebbe manifestarsi diversamente. Quando l’uomo non può più nulla,
Dio interviene (Is 41, 12 ss), in modo tale che sia ben chiaro che egli solo ha
agito. Non tiene alcun conto dell’ordine di grandezza delle realtà naturali:
riversando il suo disprezzo sui principi (Sal 107, 40), fa quindi sedere al suo
fianco il *povero che ha sollevato dalla polvere (Sal 113, 7). Trova la sua
gloria nell’esaltazione del suo servo, che, rigettato dalla società, rifiuta di
difendersi con le proprie forze, ed aspetta la salvezza soltanto da Dio; la
manifesta pienamente nella *risurrezione di Gesù crocifisso, mistero la cui
*predicazione costituisce il messaggio stesso della potenza di Dio: (1 Cor 1,
18). L’*umiltà cristiana è quella di Maria nel Magnificat. Essa non si riduce al
sentimento della debolezza di creatura o di peccatore, ma è nello stesso tempo
presa di coscienza di una forza che procede interamente da Dio: «Portiamo questo
tesoro in vasi di argilla, affinché si veda bene che questa straordinaria
potenza appartiene a Dio e non viene da noi» (2 Cor 4, 7).
É. BEAUCAMP
→ demoni NT 1 - destra 1 - donna VT 3 - Egitto 1 - pane I 2 - potenza -
reni 1 - roccia 1 - Spirito di Dio – violenza.
La parola
«fratello», nel senso più stretto, designa le persone nate dallo stesso seno
materno (Gen 4, 2). Ma in ebraico, come in molte altre lingue, si applica per
estensione ai membri di una stessa famiglia (Gen 13, 8; Lev 10, 4; cfr. Mc 6,
3), d’una stessa tribù (2 Sam 19, 13), di uno stesso popolo (Deut 25, 3; Giud 1,
3), in opposizione agli *stranieri (Deut 1, 16; 15, 2 s); designa infine i
popoli discendenti da uno stesso antenato, come Edom ed Israele (Deut 2, 4; Am
1, 11). Accanto a questa fraternità fondata sulla carne, la Bibbia ne conosce
un’altra, il cui legame è di ordine spirituale: fraternità per la fede (Atti 2,
29), la simpatia (2 Sam 1, 26), la funzione simile (2 Cron 31, 15; 2 Re 9, 2),
l’alleanza stipulata (Am 1, 9; 1 Re 20, 32; 1 Mac 12, 10)... Questo uso
metaforico della parola fa vedere che la fraternità umana, come realtà vissuta,
non si limita alla semplice consanguineità, benché questa ne costituisca il
fondamento naturale. La rivelazione non parte da una riflessione sul fatto che
tutti gli uomini sono naturalmente fratelli. Non che essa respinga l’ideale di
fraternità universale; ma sa che è irrealizzabile, e ne ritiene la ricerca
fallace, finché non è compiuta in Cristo. Del testo, infatti, proprio ad esso
mira già il VT attraverso comunità fraterne elementari fondate sulla stirpe, il
sangue o la religione; ed infine il NT incomincia a realizzarlo nella comunità
della Chiesa.
VECCHIO TESTAMENTO
VERSO LA FRATERNITÀ UNIVERSALE
1. Alle origini.
- Creando il genere umano «da un sol principio» (Atti 17, 26; cfr. Gen 1- 2),
Dio ha posto nel cuore degli uomini il sogno di una fraternità in *Adamo; ma
questo sogno non diventerà realtà se non dopo un lungo cammino. Infatti, tanto
per incominciare, la storia dei figli di Adamo è quella di una fraternità
spezzata: geloso di *Abele, Caino lo uccide; non vuol neppur sapere dov’è suo
fratello (Gen 4, 9). Da Adamo, l’umanità era peccatrice. Con Caino si rivela in
essa un volto di *odio, che vanamente essa cercherebbe di velare dietro il mito
di una bontà umana originale. L’uomo deve riconoscere che il peccato è in
agguato alla porta del suo cuore (Gen 4, 7): ne dovrà trionfare, se non vuole
esserne dominato.
2. La fraternità nell’alleanza.
- Prima che Cristo assicuri questo trionfo, il popolo eletto farà un
lungo apprendistato della fraternità. Non già, di colpo, la fraternità con tutti
gli uomini; ma la fraternità tra figli di *Abramo, mediante la fede nello stesso
Dio e mediante la stessa *alleanza. Questo è l’ideale definito dalla legge di
santità: «Non odierai il tuo fratello..., amerai il tuo *prossimo» (Lev 19, 17
s). Niente dispute, niente rancori, niente vendette! Un’assistenza positiva,
come quella richiesta dalla legge del levitato a proposito del dovere essenziale
di *fecondità: quando un uomo muore senza figli, il parente più prossimo deve
«suscitare una posterità al suo fratello» (Deut 25, 5-10; Gen 38, 8. 26). Le
tradizioni patriarcali riferiscono begli esempi di questa fraternità: Abramo e
Lot sfuggono alle discordie (Gen 13, 8), Giacobbe si riconcilia con Esaù (33,
4), Giuseppe perdona ai suoi fratelli (45, 1-8). Ma l’attuazione di un simile
ideale urta continuamente contro la durezza dei cuori umani. La società
israelitica, come la vedono i profeti, ne rimane molto lontana. Nessun amor
fraterno (Os 4, 2); «nessuno risparmia il proprio fratello» (Is 9, 18 ss);
l’ingiustizia è universale, non è più possibile nessuna fiducia (Mi 7, 2-6); non
ci si può «fidare di nessun fratello, perché ogni fratello vuole soppiantare
l’altro» (Ger 9, 3), ed anche Geremia è perseguitato dai suoi stessi fratelli (Ger
11, 18; 12, 6; cfr. Sal 69, 9; Giob 6, 15). A questo mondo duro i profeti
ricordano le esigenze della *giustizia, della bontà, della compassione (Zac 7, 9
s). Il fatto di avere il loro creatore come *padre comune (Mal 2, 10) non
conferisce a tutti i membri dell’alleanza una fraternità ancor più reale della
loro comune discendenza da Abramo (cfr. Is 63, 16)? Similmente i sapienti
vantano la vera fraternità. Nulla è più doloroso che l’abbandono dei fratelli (Prov
19, 7; Giob 19, 13); ma un vero fratello ama sempre, anche nell’avversità (Prov
17, 17); non lo si può barattare con l’oro (Eccli 7, 18), perché «un fratello
aiutato dal suo fratello è una roccaforte» (Prov 18, 19 LXX). Dio odia le
contese (Prov 6, 19), ama la concordia (Eccli 25, 1). «Oh! com’è dolce per i
fratelli abitare assieme!» (Sal 133, 1).
3. Verso la riconciliazione dei fratelli nemici.
- Tuttavia il dono della legge divina non è sufficiente a ricreare un mondo
fraterno. La fraternità umana vi fa difetto a tutti i livelli. Al di là delle
querele individuali, Israele vede dissolversi il legame delle sue tribù (cfr. 1
Re 12, 24), e lo *scisma ha come conseguenza guerre fratricide (ad es. Is 7,
1-9). All’esterno, esso urta contro i popoli-fratelli più vicini, come Edom, che
ha il dovere di amare (Deut 23, 8), ma che, dal canto suo, non lo risparmia
punto (Am 1, 11; cfr. Num 20, 14-21). Che dire delle nazioni più lontane, che un
*odio rigoroso oppone tra loro? In presenza di questo peccato collettivo, i
profeti si rivolgono a Dio. Egli solo potrà restaurare la fraternità umana
quando realizzerà la *salvezza escatologica. Allora riunirà Giuda e Israele in
un sol popolo (Os 2, 2 s. 25), perché Giuda ed Efraim non saranno più gelosi (Is
11,13 s); radunerà tutto Giacobbe (Mi 2, 12), sarà il Dio di tutte le tribù (Ger
31, 1); i «due popoli» cammineranno d’accordo (Ger 3, 18) grazie al *re di
giustizia (23, 5 s) e non ci sarà più che un solo regno (Ez 37, 22). Infine
questa fraternità si estenderà a tutte le *nazioni: riconciliate tra loro, esse
ritroveranno la *pace e l’unità (Is 2, 1-4; 66, 18 ss).
NUOVO TESTAMENTO
TUTTI FRATELLI IN GESÙ CRISTO
Il sogno profetico di fraternità universale diventa realtà in Cristo, nuovo
*Adamo La sua realizzazione terrena nella Chiesa, per quanto ancora imperfetta,
è il segno tangibile del suo compimento finale.
1. Il primogenito tra molti fratelli.
- Con la sua morte in *croce Gesù è diventato «il primogenito tra molti
fratelli» (Rom 8, 29); ha *riconciliato con Dio e fra loro le due frazioni
dell’umanità: il popolo *giudaico e le *nazioni (Ef 2, 11-18). Esse hanno ora
accesso insieme al *regno, ed il fratello più vecchio - il popolo giudaico - non
deve più essere geloso del prodigo, ritornato infine alla casa del padre (Lc 15,
25-32). Dopo la risurrezione, Cristo può chiamare i discepoli fratelli (Gv 20,
17; Mt 28, 10). Questa è ora la realtà: tutti coloro che lo ricevono diventano
figli di Dio (Gv 1, 12), fratelli, non in ragione della filiazione di Abramo
secondo la carne, ma grazie alla *fede in Cristo e alla realizzazione della
*volontà del Padre (Mt 12, 46-50 par.; cfr. 21, 28- 32). Gli uomini diventano
così fratelli di Cristo non in senso figurato ma in virtù di una nuova *nascita
(Gv 3, 3). Sono nati da Dio (l, 13), e hanno la stessa origine di Cristo che li
ha santificati e «non arrossisce nel chiamarli fratelli» (Ebr 2, 11). Cristo
infatti è diventato in tutto simile a noi, per farci diventare figli con lui (2
10-17). Figli di Dio in senso pieno, in grado di dirgli «Abba», siamo così
coeredi di Cristo, in quanto divenuti suoi fratelli (Rom 8, 14-17), molto più
legati a lui di quanto potremmo esserlo a dei fratelli secondo la carne.
2. La comunità dei fratelli in Cristo.
- Ancor vivente, Gesù ha posto egli stesso le basi ed ha enunciato la
legge della nuova comunità fraterna: ha ripreso e perfezionato i comandamenti
concernenti le relazioni tra fratelli (Mt 5, 21-26), dando un posto notevole al
dovere della correzione fraterna (Mt 18, 15 ss). Se quest’ultimo testo lascia
intravvedere una comunità limitata, da cui il fratello infedele può essere
escluso, altrove si vede che essa è aperta a tutti (Mt 5, 47): ognuno deve
esercitare il suo amore verso il più piccolo dei suoi fratelli sventurati,
perché in essi trova sempre Cristo (Mt 25, 40). Dopo la risurrezione, quando
Pietro ha «confermato i suoi fratelli» (Lc 22, 31 s), i discepoli costituiscono
dunque tra loro una «comunità di fratelli» (1 Piet 5, 9). Certamente,
all’inizio, continuano a dare il nome di «fratelli» ai Giudei, loro compagni di
razza (Atti 2, 29; 3, 17 ...). Ma Paolo vede in essi soltanto più suoi fratelli
«secondo la carne» (Rom 9, 3). Infatti una nuova razza è sorta dai Giudei e
dalle nazioni (Atti 14, 1 s), riconciliati nella fede in Cristo. Nulla più
divide tra loro i suoi membri, neppure la differenza di condizione sociale tra
padroni e schiavi (Filem 16); essi sono tutti * uno in Cristo, tutti fratelli,
fedeli diletti da Dio (ad es. Col 1, 2). Tali sono i veri figli di Abramo (Gal
3, 7-29): costituendo il *corpo di Cristo (1 Cor 12, 12-27), essi hanno trovato
nel nuovo *Adamo il fondamento e la fonte della loro fraternità.
3. L’amore fraterno.
- L’*amore fraterno si esercita anzitutto in seno alla comunità credente. Questa
«filadelfia sincera» non è una semplice filantropia naturale: non può venire che
dalla «nuova *nascita» (1 Piet 1, 22 s). Non ha nulla di platonico, perché, pur
cercando di raggiungere tutti gli uomini, si esercita all’interno della piccola
comunità: fuga dai dissensi (Gal 5, 15), mutuo aiuto (Rom 15, 1), *elemosina (2
Cor 8 - 9; 1 Gv 3, 17), delicatezza (1 Cor 8, 12). Essa conforta Paolo quando
giunge a Roma (Atti 28, 15). Nella sua lettera, Giovanni sembra aver dato alla
parola «fratello» un’estensione universale, che altrove è riservata piuttosto
alla parola «*prossimo». Ma il suo insegnamento è identico, e pone l’amore
fraterno in netta antitesi con l’atteggiamento di Caino (1 Gv 3, 12-16),
facendone il segno indispensabile dell’amore verso Dio (1 Gv 2, 9-12).
4. Verso la fraternità perfetta.
- Tuttavia la comunità dei credenti non è mai perfettamente realizzata
qui in terra: vi si possono sempre trovare persone indegne (1 Cor 5, 11), ed
introdurre falsi fratelli (Gal 2, 4 s; 2 Cor 11, 26). Ma essa sa che un giorno
il demonio, l’accusatore di tutti i fratelli dinanzi a Dio, sarà cacciato fuori
(Apoc 12, 10). In attesa di questa vittoria finale, che le permetterà di
realizzarsi pienamente, essa attesta già che la fraternità umana è in cammino
verso l’*uomo nuovo sognato fin dalle origini.
A. NÉGRIER e X. LÉON-DUFOIR
→ Abele 1 - amico - amore II - comunione VT 5; NT I - educazione III 2
- elemosina - Maria II 5 - misericordia 0; VT II; NT II - nemico - ospitalità -
padri e Padre - prossimo - schiavo I - straniero I - tenerezza 3 - unità I -
vendetta 2 a - vergogna II 2.
→ comunione NT 1 - eucaristia II 3 - pane I 1 - Pasqua III 1 - pasto III.
Sia che
significhi in senso proprio la *fecondità (ad es. il frutto del seno: Lc 1, 42)
od in senso figurato il risultato ottenuto (ad es. il frutto delle azioni: Ger
10, 10), la parola frutto designa ciò che è prodotto da un essere vivente - più
precisamente da una creatura -, perché se Dio pianta e semina come un uomo, non
si dice che porta frutti: miete i frutti che devono manifestare la sua gloria.
I. IL DOVERE DI PORTARE FRUTTI
L’atto creativo, che ha posto in ogni essere un *seme di vita, è una
trionfante *benedizione. La terra deve produrre alberi fruttiferi che facciano
frutto secondo la loro specie (Gen 1, 11 s); gli animali e l’uomo ricevono il
comando: «Siate fecondi e moltiplicatevi!» (Gen 1, 22. 28). Seminata in terra,
la *vita è fecondità sovrabbondante. Ora uno dei segni della vita è che colui íl
quale pianta raccolga i frutti (Is 37, 30; 1 Cor 9, 7; 2 Tim 2, 6). Dio esige
quindi frutti dalla sua *vigna: ogni inerzia è condannabile (Giuda 12), i tralci
improduttivi sono gettati nel fuoco e bruciano (Gv 15, 6; cfr. Mt 3, 10); la
vigna sarà affidata ad altri vignaioli (Mt 21, 41 ss). Il fico sterile non ha
più il diritto di occupare il suolo (Lc 13, 6-9). Infine, secondo un’antica
istituzione orientale concernente gli affari commerciali, il proprietario ha il
diritto di punire colui che non ha osservato il contratto: «Fate fruttare (i
miei talenti) fin quando io ritorni» (Lc 19, 13).
II. COOPERAZIONE DELL’UOMO CON DIO
1. Dio, padrone della vita.
- Lungo la sua storia, Efraim (il cui nome significa «che ha reso fecondo»
Giuseppe: Gen 41, 52), dovrà comprendere che, se porta frutto, lo deve a Jahvè,
cipresso verdeggiante, vero albero di vita (Os 14, 9). Israele deve quindi
offrire le *primizie dei suoi frutti in segno di riconoscenza (Deut 26, 2); deve
soprattutto ricorrere alla *sapienza divina, i cui fiori danno frutti
meravigliosi (Eccli 24, 17).
2. L’acqua vivificante
- Nello stesso giardino di Eden, perché nascesse la vegetazione, era quindi
necessario che Dio facesse piovere e formasse un uomo per coltivare il suolo (Gen
2, 5). Secondo il simbolismo biblico la terra, sotto l’azione dell’uomo, non può
produrre il suo frutto se l’acqua non fa germogliare il seme. Senz’*acqua la
terra rimane *sterile; è il *deserto, come a Sodoma dove «gli arbusti danno
frutti che non maturano» (Sap 10, 7). Senza Jahvè, sola roccia fedele, l’uomo
non può portare frutto, «le sue uve sono velenose» (Deut 32, 32); egli deve
quindi pregare, come Elia, affinché, grazie alla pioggia, «la terra dia il suo
frutto» (Giac 5, 17 s). Questa allora accoglie la benedizione di Dio e produce
piante utili (Ebr 6, 7 s), ed il giusto, simile ad «un albero piantato in riva
all’acqua» (Ger 17, 8; Sal 1, 3), «porta ancora frutto nella sua vecchiaia» (Sal
92, 14 s).
3. La funzione dell’uomo.
- Se l’acqua dipende innanzitutto da Dio, la scelta e la cura del terreno sono
affidate all’uomo. Seminato nelle spine, il grano non giunge a maturità (Lc 8,
14); e porta più o meno frutto secondo la qualità del terreno dov’è caduto (Mt
13, 8). Ma, in ogni modo, la *crescita non dipende in primo luogo dagli sforzi
dell’uomo: «da sé» (gr. automatè) la terra produce il suo frutto (Mc 4, 26-29).
Senza dubbio è stato necessario penare per coltivare la sapienza, ma si può
contare sui suoi frutti eccellenti (Eccli 6, 19). Lezione, ad un tempo, di
fatica nel lavoro e di *pazienza nell’attesa del frutto.
III. FRUTTI BUONI E CATTIVI
Non avendo voluto ricevere da Dio solo il frutto di vita che gli era destinato,
Adamo si vede obbligato a coltivare un suolo maledetto che, in luogo degli
alberi del giardino «piacevoli da vedere e buoni da mangiare» (Gen 2, 9), farà
spuntare spine e cardi (Gen 3, 18). Avendo gustato del frutto dell’albero della
scienza del bene e del male, Adamo pretende di determinare egli stesso ciò che è
bene e ciò che è male; i suoi atti diventano ambigui ai suoi stessi occhi. Ma
Dio, che scruta i reni ed i cuori, giudica la sua vigna Israele dai frutti che
porta: ne attendeva uva, vi trova soltanto uva acerba (Is 5, 1-7). Come il
frutto manifesta la qualità del frutteto, così la parola rivela i pensieri del
cuore (Eccli 27, 6). Giovanni Battista denunzia pure l’illusione di coloro che
si vantano di essere figli di Abramo e che non portano frutti buoni (Mt 3, 8
ss). Gesù proclama: «Dai frutti si riconosce l’albero», e dietro la corteccia
farisaica rivela un umore maligno (Mt 12, 33 ss); insegna ai suoi discepoli a
distinguere i falsi profeti: «li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie
forse uva sulle spine? O fichi sui cardi?» (Mt 7, 16). Quindi, più generalmente,
c’è un’ambiguità nel cuore dell’uomo, che può «produrre frutti per la morte»,
mentre deve «produrre frutti per la vita» (Rom 7, 4 s).
IV. LA LINFA DI CRISTO ED IL FRUTTO DELLO SPIRITO
Ma Cristo ha tolto questa ambiguità. Ha vissuto la legge della
fruttificazione che enunciava dinanzi al mondo: «Se il chicco di frumento
gettato in terra non muore, rimane solo; se muore, porta molto frutto» (Gv 12,
24); ha accolto l’*ora del sacrificio ed è stato glorificato dal Padre. Per la
mediazione di Cristo la legge di natura è divenuta la legge dell’esistenza
cristiana. «Io sono la vera vite, ed il mio Padre è il vignaiolo. Ogni tralcio
che in me non porta frutto, lo taglia» (Gv 15, 1 s), perché, per portare frutto,
bisogna *rimanere nella vite (15, 4), cioè essere *fedeli a Cristo. L’unione con
Gesù dev’essere feconda, generosa: «Ogni tralcio che porta frutto, il Padre lo
monda affinché ne porti di più» (15, 2): tale è il modo divino, la
sovrabbondanza, che suppone la purificazione continua del discepolo, e la sua
*pazienza (Lc 8, 15). Allora giungerà «a piena maturità il frutto di giustizia
che noi portiamo in virtù di Gesù Cristo per la gloria e la lode di Dio» (Fil 1,
11; cfr. Gv 15, 8). Allora è compiuta la profezia escatologica. La vigna di
Israele, un tempo magnifica (Ez 17, 8), poi inaridita (19, 10-14; cfr. Os 10, 1;
Ger 2, 21), dà nuovamente il suo frutto, e la terra il suo prodotto (Zac 8, 12);
è possibile inebriarsi della sapienza (Eccli 1, 16), ed anche divenire fonte di
vita: «dal frutto della giustizia nasce un albero di vita» (Prov 11, 30). Il NT
permette di precisare in che cosa consiste esattamente il frutto dello Spirito,
portato dalla linfa di Cristo; non è molteplice, ma si moltiplica, è la carità
che si manifesta in virtù di ogni specie (Gal 5, 22 s). E l’amore non è soltanto
un «frutto dolce al palato» della sposa (Cant 2, 3); lo stesso diletto può
«entrare nel suo giardino e *gustarne i frutti deliziosi» (Cant 4, 16). Alla
fine dei tempi il profeta aveva intravisto che la regolarità delle stagioni (Gen
8, 22; Atti 14, 17) sarebbe rinnovata: ogni mese, gli alberi che fiancheggiano
il torrente che scaturisce dal fianco del tempio, darebbero i loro frutti (Ez
47, 12); collegando questa visione a quella del *paradiso, l’Apocalisse non
contempla più che un solo *albero di vita, quello che è divenuto l’albero della
*croce, capace di guarire gli stessi pagani (Apoc 22, 2).
C. SPICQ e X. LÉON-DUFOUR
→ albero - crescita - fecondità - lavoro III, IV 2 - messe - opere -
primizie I - seminare - sterilità - vendemmia - virtù e vizi 2 - vite-vigna.
→ deserto - Egitto I - esodo.
Fin dall’elezione
di Abramo il segno del fuoco risplendette nella storia delle relazioni di Dio
con il suo popolo (Gen 15, 17). Questa rivelazione biblica non ha alcuna misura
in comune con le filosofie della natura o con le religioni che divinizzano il
fuoco. Indubbiamente Israele condivide con tutti i popoli antichi la teoria dei
quattro elementi; ma nella sua religione il fuoco ha soltanto valore di segno,
che bisogna superare per trovare Dio. Di fatto Dio si manifesta «in forma di
fuoco» sempre nel corso di un dialogo personale; d’altra parte questo fuoco non
è l’unico simbolo che serve a tradurre l’essenza della divinità: o si trova
associato a simboli contrari, come il soffio, l’Acqua o il vento, oppure si
trasforma in *luce.
VECCHIO TESTAMENTO
I. TEOFANIE
1. Nell’esperienza fondamentale del popolo nel
*deserto, il fuoco esprime non già innanzitutto la *gloria, ma la *santità
divina, ad un tempo attraente e temibile. Sul monte Horeb Mosé è attratto dallo
spettacolo del roveto ardente, che il fuoco non «divora»; ma la voce divina gli
fa sapere che non potrebbe avvicinarsi se Dio non lo chiama ed egli non si
purifica (Es 3, 2 s). Al Sinai la montagna fuma sotto il fuoco che l’avvolge
(19, 18), senza tuttavia essere distrutta; mentre il popolo trema di terrore e
non deve accostarsi, Mosè è ancora chiamato a salire presso Dio che si rivela.
Così, quando Dio si manifesta come un fuoco divorante, non lo fa per consumare
tutto sul suo passaggio, perché chiama coloro che rende puri. Un’ulteriore
esperienza fatta nel medesimo luogo aiuta a meglio percepire il valore simbolico
del fuoco. *Elia, il profeta pieno di *zelo simile al fuoco (Eccli 48, 1), cerca
al Sinai la presenza di Jahvè. Dopo l’uragano ed il terremoto, vede del fuoco;
ma «Jahvè non era nel fuoco»: il passaggio di Dio è annunciato da un simbolo
opposto: una brezza leggera (1 Re 19, 12). Così pure, quando Elia sarà rapito in
cielo in un carro di fuoco (2 Re 2, 11), questo fuoco non sarà che un simbolo
fra gli altri per esprimere la visita del Dio vivente.
2. La tradizione profetica tende anch’essa a collocare
al suo posto il segno del fuoco nel simbolismo religioso. Isaia non vede che
fumo al momento della sua *vocazione, e pensa di morire per essersi accostato
alla *santità divina; ma al termine della visione le sue *labbra sono state
purificate da un carbone di fuoco (Is 6). Nella visione inaugurale di Ezechiele
l’*uragano ed il fuoco sono associati all’arcobaleno che brilla nelle nubi, ma
ne sorge un’apparenza d’uomo: questa evocazione ricorda più la *nube luminosa
dell’esodo che la teofania del Sinai (Ez 1). Nell’apocalisse di Daniele il fuoco
fa parte della cornice in cui si manifesta la *presenza divina (Dan 7, 10), ma
ha una parte soprattutto nella descrizione del *giudizio (7, 11).
3. Interpretando la teofania del deserto, le
tradizioni deuteronomica e sacerdotale hanno precisato la duplice portata del
segno del fuoco: *rivelazione del Dio vivente ed esigenza di purità del Dio
santo. Dal fuoco Dio ha parlato (Deut 4, 12; 5, 4. 22. 24) e ha dato le tavole
della legge (9, 10), per far comprendere che non c’è possibilità di
rappresentarlo con *immagini. Ma si trattava pure di un fuoco distruttore (5,
25; 18, 16), spaventoso per l’uomo (5, 5); soltanto l’eletto di Dio constata di
aver potuto affrontarne la presenza senza morire (4, 33). Giunto a questo stadio
Israele può, senza pericolo di confondere Dio con un elemento naturale,
considerare il suo Dio come «un fuoco divoratore» (4, 24; 6, 15); l’espressione
non fa che trasporre il tema della gelosia divina (Es 20, 5; 34, 14; Deut 5, 9;
6, 15). Il fuoco simboleggia l’intransigenza di Dio dinanzi al *peccato; come
esso divora ciò che incontra, così fa Dio nei confronti del peccatore ostinato.
Diversamente avviene per i suoi eletti, ma, in ogni modo, egli deve trasformare
colui al quale si accosta.
II. NEL CORSO DELLA STORIA
1. Il sacrificio mediante il fuoco.
- Una rappresentazione analoga di Dio, fuoco divoratore, si ritrova
nell’uso liturgico degli olocausti. Nella consumazione della vittima, il cui
fumo saliva poi verso il cielo, Israele esprimeva forse il suo desiderio di
purificazione totale, e, più sicuramente, la sua volontà di offrire così un dono
irreversibile. Anche qui il fuoco non ha che un valore simbolico ed il suo uso
non santifica un qualsiasi rito: è vietato consumare con il fuoco il figlio
primogenito (Lev 18, 21; cfr. Gen 22, 7. 12). Ma questo valore simbolico ha una
grande importanza nel culto: un fuoco perpetuo dev’essere mantenuto sull’altare
(Lev 6, 2-6), senza essere prodotto dalla mano dell’uomo: guai a chi osasse
sostituire un fuoco «profano» al fuoco di Dio (Lev 9, 24 - 10, 2). Dio non era
forse intervenuto in modo meraviglioso in occasione dei sacrifici celebri:
Abramo (Gen 15, 17), Gedeone (Giud 6, 21), David (1 Cron 21, 26), Salomone (2
Cron 7, 1 ss), Elia (1 Re 18, 38), in attesa che acque stagnanti si
incendiassero meravigliosamente in un nuovo fuoco perpetuo (2 Mac 1, 18 ss)?
Mediante il fuoco Dio gradisce il sacrificio dell’uomo, per suggellare con esso
un’alleanza cultuale.
2. I profeti ed il fuoco.
- Il popolo, se praticava volentieri i sacrifici, non aveva tuttavia voluto
guardare il fuoco del Sinai. Non di meno il fuoco divino discende tra gli uomini
nella persona dei *profeti, ma ordinariamente per *vendicare la santità divina
purificando o castigando. Mosè nasconde con un velo lo splendore del fuoco
divino che brilla sul suo volto (Es 34, 29); ma brucia col fuoco il «peccato»
costituito dal vitello d’oro (Deut 9, 21), e mediante il fuoco si compie la sua
vendetta nei confronti dei rivoltosi (Num 16, 35), come già degli Egiziani (Es
9, 23). Come Mosè, Elia sembra disporre a piacer suo della folgore per
annientare gli orgogliosi (2 Re 1, 10-14): è una «face vivente» (Eccli 48, 1). I
profeti scrittori annunciano e descrivono volentieri l’*ira di Dio come un
fuoco: castigo degli empi (Am 1, 4-2, 5), abbruciamento delle nazioni peccatrici
in un gigantesco olocausto che ricorda le liturgie cananee di Tofet (Is 30,
27-33), incendio della foresta di Israele, a tal punto che il peccato stesso
diventa fuoco (Is 9, 17 s; cfr. Ger 15, 14; 17, 4. 27). Tuttavia il fuoco non è
destinato soltanto a distruggere: purifica; ne è testimonianza l’esistenza
stessa dei profeti che hanno avvicinato Dio senza esserne consunti. Il *resto di
Israele sarà come un tizzone salvato da un incendio (Am 4, 11). Se Isaia, le cui
labbra sono state purificate dal fuoco (Is 6, 6), proclama la parola senza
sembrarne tormentato, Geremia ha nel cuore come un fuoco divoratore che non può
contenere (Ger 20, 9), diventa il crogiuolo incaricato di provare il popolo (6,
27-30); è il portavoce del Dio che ha detto: «La mia parola non è forse un
fuoco?» (23, 29). Così, nell’ultimo giorno, i capi del popolo devono diventare
fiaccole accese nella stoppia (Zac 12, 6), che esercitano esse stesse il
giudizio divino.
3. Sapienza e pietà.
- Gli stessi individui beneficiano di questa esperienza religiosa. Già il
Deutero-Isaia parlava del crogiuolo della sofferenza rappresentato dall’esilio (Is
48, 10). Così i sapienti paragonano i *castighi che colpiscono l’uomo agli
effetti del fuoco. Giobbe è simile al disgraziato ribelle del deserto od alle
vittime del fuoco di Elia (Giob 1, 16; 15, 34; 22, 20), che subirono sia il
fuoco che le grandi acque devastatrici (20, 26. 28). Ma, accanto a questo
aspetto terribile del fuoco, ecco la sua azione purificatrice e trasformatrice.
La fornace della umiliazione o della persecuzione prova gli eletti (Eccli 2, 5;
cfr. Dan 3). Il fuoco diventa persino il simbolo dell’ardore che trionfa di
tutto: «l’*amore è una fiamma di Jahvè, le grandi acque non lo possono spegnere»
(Cant 8, 6 s); qui i due simboli principali, fuoco ed acqua, sono opposti tra
loro; vince il fuoco.
III. ALLA FINE DEI TEMPI
Il fuoco del giudizio diventa castigo senza rimedio, vero fuoco dell’*ira,
quando cade sul peccatore *indurito. Ma allora - tale è la forza del simbolo -
questo fuoco, che non può più consumare 1’impurítà, rimesta ancora le scorie
(cfr. Ez 22, 18-22). La rivelazione esprime così quel che può essere l’esistenza
di una creatura che rifiuta di essere purificata dal fuoco divino, ma ne rimane
bruciata. Qui c’è qualcosa di più che non nella tradizione che riferisce
l’annientamento di Sodoma e Gomorra (Gen 19, 24). Fondandosi forse sulle
liturgie sacrileghe della Geenna (Lev 18, 21; 2 Re 16, 3; 21, 6; Ger 7, 31; 19,
5 s), approfondendo le immagini profetiche dell’incendio (Is 29, 6; 30, 27-33;
31, 9) e della fusione dei metalli, si giunge a rappresentare il *giudizio
escatologico come un fuoco (Is 66, 15 s), che prova l’oro (Zac 13, 9). Il
*giorno di Jahvè è come il fuoco del fonditore (Mal 3, 2), e brucia come una
fornace (Mal 3, 19) e divora tutta la terra (Sof 1, 18; 3, 8) a cominciare da
Gerusalemme (Ez 10, 2; Is 29, 6). Ora questo fuoco sembra bruciare dall’interno,
come quello che «esce di mezzo a Tiro» (Ez 28, 18). Dei cadaveri di quelli che
furono ribelli, «il verme non morrà ed il loro fuoco non si spegnerà» (Is 66,
24; cfr. Mc 9, 48), «fuoco e verme saranno nella loro carne» (Giudit 16, 17). Ma
qui si ritrova ancora l’ambivalenza del simbolo: mentre gli empi sono
abbandonati al loro fuoco interiore ed ai vermi (Eccli 7, 17), gli scampati dal
fuoco si trovano circondati dal muro di fuoco che Jahvè rappresenta per essi (Is
4, 4 s; Zac 2, 9). Giacobbe ed Israele, purificati, diventano a loro volta un
fuoco (Ab 18), come se partecipassero alla vita di Dio.
NUOVO TESTAMENTO
Con la venuta di Cristo sono incominciati gli ultimi *tempi, quantunque la fine
dei tempi non sia ancora giunta. Anche nel NT il fuoco conserva il suo valore
escatologico tradizionale, ma la realtà religiosa che esso significa si attua
già nel tempo della Chiesa.
I. PROSPETTIVE ESCATOLOGICHE
1. Gesù.
- Annunciato come il vagliatore che getta la paglia nel fuoco (Mt 3, 10) e
battezza nel fuoco (3, 11 s), Gesù, pur rifiutando la funzione di giustiziere,
ha mantenuto i suoi uditori nell’attesa del fuoco del giudizio, riprendendo il
linguaggio classico del VT. Egli parla della «Geenna del fuoco» (5, 22), del
fuoco in cui saranno gettati la zizzania improduttiva (13, 40; cfr. 7, 19) ed i
sarmenti (Gv 15, 6): sarà un fuoco che non si spegne (Mc 9, 43 s), in cui «il
loro verme» non muore (9, 48), vera fornace ardente (Mt 13, 42. 50). Null’altro
che un’eco solenne del VT (cfr. Lc 17, 29).
2. I primi cristiani.
I primi cristiani hanno conservato questo linguaggio, adattandolo a situazioni
diverse. Paolo se ne serve per dipingere la fine dei tempi (2 Tess 1, 8);
Giacomo descrive la ricchezza marcia, arrugginita, consegnata al fuoco
distruttore (Giac 5, 3); la lettera agli Ebrei mostra la prospettiva terribile
del fuoco che deve divorare i ribelli (Ebr 10, 27). Altrove è evocata la
conflagrazione ultima, in vista della quale «cieli e terra sono tenuti in serbo»
(2 Piet 3, 7. 12). La fede deve essere purificata in funzione di questo fuoco
escatologico (1 Piet 1, 7), e così pure l’opera apostolica (1 Cor 3, 15) e
l’esistenza cristiana perseguitata (1 Piet 4, 12-17). 3. L’Apocalisse conosce i
due aspetti del fuoco: quello delle teofanie e quello del giudizio. Dominando la
scena, il figlio dell’uomo appare con gli occhi fiammeggianti (Apoc 1, 14; 19,
12). Da un lato, ecco la teofania: è il mare di cristallo mescolato a fuoco (15,
2). Dall’altro, ecco il castigo: il lago di fuoco e di zolfo per il demonio (20,
10), il che è la seconda morte (20, 14 s).
II. NEL TEMPO DELLA CHIESA
1. Gesù ha inaugurato una nuova epoca. Non ha agito
immediatamente come prevedeva Giovanni Battista, cosicché la fede di
quest’ultimo ha potuto avere delle esitazioni (Mt 11, 2-6). Si è opposto ai
figli del tuono che volevano far discendere il fuoco dal cielo sui Samaritani
inospitali (Lc 9, 54 s). Ma se, durante la sua vita terrena, non è stato lo
strumento del fuoco vendicatore, ha tuttavia realizzato a modo suo l’annunzio di
Giovanni. È quanto egli proclamava in una frase di difficile interpretazione:
«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!
Devo ricevere un battesimo...» (Lc 12, 49 s). La morte di Gesù non è forse il
suo *battesimo nello spirito e nel fuoco?
2. La Chiesa ormai vive di questo fuoco che infiamma
il mondo grazie al sacrificio di Cristo. Esso ardeva nel cuore dei pellegrini di
Emmaus, mentre ascoltavano il risorto parlare (Lc 24, 32). È disceso sui
discepoli radunati nel giorno della *Pentecoste (Atti 2, 3). Questo fuoco del
cielo non è quello del giudizio, ma quello delle teofanie che realizza il
battesimo di fuoco e di spirito (Atti 1, 5): il fuoco simboleggia ora lo
Spirito, e, se non è detto che questo Spirito è la carità stessa, il racconto
della *Pentecoste mostra che esso ha la missione di trasformare coloro che
devono diffondere attraverso tutte le *nazioni lo stesso linguaggio, quello
dello Spirito. La vita cristiana è quindi sotto il segno del fuoco cultuale, non
più di quello del Sinai (Ebr 12, 18), ma di quello che consuma l’olocausto delle
nostre vite in un *culto accetto a Dio (12, 29). Trasponendo la gelosia divina
in una consacrazione cultuale di ogni istante, questo fuoco rimane un fuoco
consumante. Ma per coloro che hanno accolto il fuoco dello Spirito, la distanza
tra l’uomo e Dio è superata da Dio stesso, presente nel più intimo dell’uomo;
forse è questo il senso della frase enigmatica: si diventa fedeli quando si è
stati «*salati per mezzo del fuoco», il fuoco del giudizio e quello dello
Spirito (Mc 9, 48 s). Secondo una frase attribuita a Gesù da Origene: «Chi è
presso di me, è vicino al fuoco; chi è lontano da me, è lontano dal regno».
B. RENAUD e X. LÉON-DUFOUR
→ battesimo II, IV 1 - calamità - Elia VT 2; NT 2 - giudizio VT II 2;
NT II 1 - gloria III 2 - inferi e inferno - ira B VT I 1; NT I 1 - luce e
tenebre VT I 2 - nube 1.2 - Pentecoste I 1 - presenza di Dio VT II - sale 2 -
Spirito di Dio 0; NT II 1 - zelo.