Nel suo significato più comune indica la capacità e l’abilità di compiere qualche fatto, qualche azione. Denota pertanto l’idea di attività e di efficienza. Invece nella metafisica aristotelica e scolastica potenza si oppone ad atto e significa la condizione di passività, la possibilità di venire prodotto di ciò che non è ancora realizzato. E questo secondo concetto di potenza che ci interessa ora vedere come è stato inteso e usato da S. Tommaso.
1. IL CONCETTO DI POTENZA IN ARISTOTELE
1. IL CONCETTO DI POTENZA IN ARISTOTELE
La dottrina dell’atto e potenza è la grande scoperta di Aristotele (vedi: ATTO), il quale ne fece largo uso soprattutto per spiegare i rapporti tra materia e forma, tra sostanza e accidenti, tra causa ed effetto e per risolvere molti intricati problemi metafisici, in particolare il problema del divenire. Per potenza, Aristotele intende tutto ciò che è indeterminato ed è suscettibile di ulteriori determinazioni: "La potenza è nel paziente stesso il principio di una mutazione passiva provocata da un altro o da sé in quanto altro" (Metaf. 1046a, 11-12). Invece l’atto è qualsiasi realizzazione di una perfezione. L’atto ha priorità ontologica sulla potenza. Infatti la potenza anche quando esiste cronologicamente prima dell’atto al quale è ordinata come potenza, acquista questo atto soltanto grazie a qualche cosa che è gia in atto. La potenza riceve l’atto e lo moltiplica. Infatti, l’atto non si moltiplica se non è ricevuto nella potenza correlativa. Così, ciascun uomo differisce quanto all’insieme da tutti gli altri, ma quanto alla specie non differisce, perché tali differenze non riguardano la forma (atto) la quale e un principio ultimo e indivisibile, ma la materia (potenza)"(Metal. 1058b, 8-10). Potenza e atto sono principi correlativi, perciò si richiamano sempre a vicenda e formano un unico tutto. La potenza fornisce all’atto un soggetto da determinare, mentre a sua volta l’atto comunica alla potenza la propria perfezione e con la propria perfezione delle caratteristiche ben definite: "Mediante la forma (atto) la materia (potenza) diventa una cosa ben determinata" (Metaf. 1041b, 8-9). In quanto sono princìpi correlativi l’atto e la potenza non possono sussistere ciascuno per conto proprio. D’altra pane pur dovendo coesistere nello stesso soggetto, sono realmente distinti: "L’atto e la potenza pur esistendo nello stesso soggetto non sono la stessa cosa"(Fisica ILI, 3). Infatti la potenza è ciò che è determinabile, mentre l’atto è ciò che determina.
2. IL CONCETTO DI POTENZA IN S. TOMMASO
2. IL CONCETTO DI POTENZA IN S. TOMMASO
S. Tommaso riprende integralmente la dottrina aristotelica sulla potenza (e atto), ma ne amplifica notevolmente l’orizzonte di applicazione: esso non abbraccia più soltanto la materia (rispetto alla forma) e la sostanza (rispetto agli accidenti) ma include anche l’essenza: questa non si identifica più con l’atto come aveva insegnato Aristotele, ma rispetto all’essere è potenza. Pertanto, riprendendo la dottrina aristotelica dell’atto e della potenza, S. Tommaso vi apporta due importanti modifiche, esigite dalla sua scoperta del concetto intensivo dell’essere, l’essere concepito come perfectio omnium perfectionum e come actualitas omnium actuum: esse riguardano, 1) la tesi di Aristotele secondo cui l’atto svolge la funzione di delimitare la potenza, 2) l’altra tesi aristotelica secondo cui l’atto è di natura sua finito. Ad esse S. Tommaso contrappone le tesi 1) della infinità dell’atto quando si tratta dell’essere, 2) della funzione della potenza di porre dei limiti all’atto, quando il ruolo di potenza viene svolto dall’essenza in ordine all’essere. Per questo motivo S. Tommaso insiste che la composizione che si instaura all’interno dell'ente per mezzo dell’essenza e dell’essere ha connotati ben diversi da quelli della composizione in materia e forma(cfr. C. G., II, c. 54; De sub. Sep., c. 1). Mentre infatti negli angeli si dà soltanto la composizione di essenza e di atto d’essere (actus essendi), in tutte le cose materiali si dà una duplice composizione, anzitutto quella di materia e forma (che danno origine all’essenza) e poi quella di essenza e atto d’essere. "Nelle sostanze che sono composte di materia e forma, vi sono due composizioni di atto e potenza: la prima è della sostanza stessa che si compone di materia e forma; la seconda risulta dalla stessa sostanza già composta e dall’essere, e questa può dirsi emergere da ciò che è e dall’essere, oppure da ciò che è e da ciò per cui è. Si vede dunque chiaramente come la composizione di atto e potenza sia superiore alla composizione di materia e forma. Infatti, la materia e la forma sono divisioni della sostanza naturale (fisica), mentre l’atto e la potenza dividono l’ente in generate (ens commune)"(C. G., II, c. 54).
Il guadagno più cospicuo che S. Tommaso ottiene con la sua revisione del concetto di potenza riguarda l’angelologia (vedi: ANGELO). Concependo l’essenza come potenza, che esercita la funzione di limite rispetto all’atto dell’essere, egli non ha più bisogno di assegnare un elemento materiale alle nature angeliche, come faceva Bonaventura e la gran parte dei suoi contemporanei. "Anche nelle sostanze spirituali (ossia gli angeli) vi è composizione di atto e potenza (solo Dio è atto puro). Infatti quando in una cosa si trovano due elementi, dei quali uno è complemento dell’altro, il rapporto dell’uno all’altro è come il rapporto della potenza all’atto. Ora nella sostanza intellettuale creata si trovano due elementi, cioè l’essenza (substantia) e l’essere, il quale non è l’essenza stessa: l’essere è il complemento dell’essenza esistente, poiché ogni cosa è in atto quando ha l’essere. Rimane dunque che in ognuna delle suddette sostanze si ha composizione di atto e potenza"(C. G., III, c. 53, nn. 1282-1283).
Un genere speciale di potenza e quella che S. Tommaso chiama "potenza obbedienziale". Essa si distingue dalla potenza naturale, in quanto mentre questa rientra nelle normali possibilità della natura e sta alla natura stessa portarla a compimento, quella obbedienziale dipende esclusivamente dalla volontà di Dio e solamente Dio può realizzarla. "La capacità (capacitas) di una natura si può intendere in due modi: o secondo la potenza naturale (secundum potentiam naturalem) che appartiene alla ragione seminale, e tale capacità della creatura generalmente Dio non la lascia mai vuota (vacua), a meno che in casi particolari non intervenga qualche impedimento; oppure secondo la potenza obbedienziale (secundum potentiam oboedientiae), grazie alla quale Dio può trarre da una creatura tutto ciò che vuole; di questo genere è la capacità che la natura umana possiede di essere assunta nell’unità della natura divina. Né è necessario che Dio realizzi tale capacità, come non è necessario che Dio faccia tutto ciò che può, ma soltanto quanto corrisponde all’ordine della sua divina sapienza" (III Sent., d. 1, q. 1, a. 3, ad 4).
Come risulta dall’esempio addotto da S. Tommaso, che è quello della Incarnazione (l’assunzione della natura umana da parte della Persona del Verbo): la potenza obbedienziale non suppone nella creatura (natura) nessuna attitudine, nessuna disposizione, nessuna aspirazione, nessun desiderio. Pertanto non si deve parlare di "potenza obbedienziale" riguardo alla grazia, come fanno alcuni teologi. Anche se l’uomo non ha affatto il potere di ottenere la grazia, perché questa è dono assolutamente gratuito, tuttavia, secondo l’Angelico, egli porta nella sua stessa natura un’attitudine e un desiderio della grazia. "Nella natura che riceve c’è un ordine naturale alla recezione della grazia e della gloria e non soltanto una potenza obbedienziale (in natura recipiente est ordo naturalis ad gratiae et gloriae receptionem et non solum potentia oboedientialis)"(IV Sent., d. 17, q. 1, a. 5, sol. 1). Mentre la potenza obbedienziale è basata esclusivamente sulla potenza assoluta di Dio, indipendentemente dalle qualità insite nelle creature, la grazia, per contro, è perfettamente in linea con le aspirazioni più profonde della natura umana e col fine ultimo a cui si sente intimamente orientata, la visione di Dio: "Sin dalla sua prima origine la natura umana è ordinata al fine della beatitudine, non come a un fine dovuto all’uomo (non quasi in finem debitum homini) in forza della sua natura, ma per mera liberalità di Dio"(De Pot., q. 14. a. 10, ad 2).
Sul piano della potenzialità grazia e Incarnazione non si possono equiparare: la grazia, anche se propriamente parlando non si può dire che rientri nella potentia naturalis, si avvicina di più al concetto di potenza naturale; mentre l’incarnazione si avvicina di più alla pura potentia oboedientialis. Di fatto tutte due, grazia e Incarnazione, suppongono nell’uomo una certa capacità (una potentia): ma la grazia rientra nell’ordine provvidenziale generale (ab ipsa prima institutione humana natura est ordinata in finem beautudinis); mentre l’Incarnazione fa parte di un ordine storico specialissimo: quello della economia della salvezza. Di fatto il dono della grazia è programmato per tutti gli uomini; quello dell’incarnazione è riservato a uno solo, Gesù Cristo.