Di un calendario della Chiesa Universale si può parlare solo dall'anno 1568 in poi, dal momento, cioè, in cui Pio V impose a tutta la Chiesa latina il Breviario riformato, con l'annesso calendario. L'identico calendario si trova poi nel Messale romano, riformato e prescritto ugualmente da Pio V a tutta la Chiesa latina nel 1570. Il Papa permise di ritenere Breviario e Messale proprio solo a quegli Ordini e diocesi che li usavano da duecento anni. Di questa facoltà si servirono tutti i rami dell'Ordine benedettino, i Domenicani, Carmelitani, Premostratensi, Certosini, e alcune poche diocesi (Milano, Aquileia, Parigi, Lione, ecc.) le quali poi quasi tutte, in tempi successivi, adottarono il Messale e il Breviario romano, cosicché la Chiesa latina quasi al completo si serve di un calendario unico, nel quale le singole chiese e Ordini inseriscono le feste proprie. Ogni cambiamento di questo calendario, come l'inserzione di feste nuove, variazioni di rito, spostamenti di feste ecc. spetta unicamente alla S. Sede la quale esplica questa attività attraverso la S. Congregazione dei Riti (v.). Non è qui il luogo di fare la storia del santorale (v.), o dell'origine e dello sviluppo delle feste (v.); basti dire che la base di questo calendario fu costituita da quello dei libri liturgici, detti "della Curia" ossia di Roma, ma con una saggia riduzione di feste e di rito, in modo da ripristinare in gran parte la liturgia feriale. Infatti, il c. di Pio V ha soltanto 120 feste, di cui 30 semidoppi, 57 doppi, e 33 memorie. Le grandi feste erano 20 di prima e 17 di seconda classe. Clemente VIII, nel 1602, in occasione della nuova edizione del Breviario introdusse una nuova classe di feste, il doppio maggiore (16 feste). Da questo momento incominciò la prevalenza del santorale (v.) sopra il temporale (v.), e la ininterrotta inserzione di nuove feste, di aumenti di riti, di distinzioni sempre più raffinate nelle singole categorie della gradazione liturgica. Al tempo di Benedetto XIV il numero delle feste era già salito a 228. Esistevano inoltre 36 feste "ad libitum", vale a dire che una chiesa o un ordine le poteva inserire o meno nel calendario; però, una volta inserite, la festa si doveva celebrare: il numero complessivo dunque di feste era 264. Leone XlII, nel 1893 e 1895, stabilì una ulteriore distinzione di grado, le feste primarie e secondarie. La riforma di Pio X del 1911 perfezionò tutto il sistema della gradazione codificandolo definitivamente; ma omise di fermare in qualche modo l'aggiunta di nuove feste. Attualmente siamo arrivati ad un complesso di 338 giorni festivi, di cui 50 mobili (compresi giorni di ottave privilegiate) e 288 feste fisse.
Bibliografia Il calendario di s. Pio V del 1568 si trova nell'edizione originale romana, dal titolo: Breviarium Romanum, ex decreto sacrosanctj Concilii Tridentini restitutum, Pii V Pont. Max. jussu editum, Cum privilegio Pii V. Pont. Max., Roma 1568 apud Paulum Manutium, e nelle successive edizioni romane e extraromane. Una edizione del calendario piano con note critiche in G. Schober, Explanatio critica editionis Breviarii Romani quae a S. R. C. uti typica declarata est, Ratisbona 1891, pp. 26-38. J. B. Pittonius, Constitutiones Pontificiae et Romanarum Congregationum Decisiones ad sacros Ritus spectantes, Venezia 1730; B. Gavantis - C. M. Merati, Thesaurus Sacrorum Rituum, ivi 1752; G. G. Novara, Elementi della storia de' Sommi Pontefici, Roma 1821-22: R. Aigrain, Liturgia, Encyclopédie populaire dei connaissances liturgiques, Parigi 1935, porta a pp. 646-50 un elenco molto sommario delle feste introdotte dopo s. Pio V. - Tutte le indicazioni riportate sono state controllate e completate direttamente su documenti dell'archivio della S. Congregazione dei Riti; Giuseppe Löw, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 364-372.
CALICE
CALICE
È quello, tra i vasi sacri, nel quale è consacrato il vino eucaristico nella Messa. La coppa dev'essere d'oro o d'argento, dorato internamente. Deve avere una forma tale da non suscitare meraviglia nei fedeli.
CALZARI
CALZARI
Sotto il nome di calzari si suole comunemente intendere tutto ciò che copre il piede e la gamba, sia scarpa o calza; ma liturgicamente parlando si distinguono i calzari dai sandali: questi sono le calzature esterne, quelli le calze propriamente dette che avvolgono tutto il piede e la gamba fino al ginocchio. Da principio il clero, anche per le calzature, usò quelle stesse della vita civile. Ma poi fin dal sec. V i calzari (caligae, tibialia, campagi, udones) usati dai senatori e dai dignitari imperiali passarono in uso all'alto clero, non solamente a Roma, ma a Milano e a Ravenna: segno manifesto della crescente influenza delle autorità ecclesiastiche, soprattutto nelle città imperiali. Al sec. VI il Papa ed i suoi diaconi avevano dei calzari (campagi) di forma speciale, come risulta da una lettera di s. Gregorio Magno a Giovanni vescovo di Siracusa. Nel sec. VIII la falsa donazione di Costantino accorda a tutto il clero romano il diritto di usare, come il Senato, delle calzature "cum udonibus, id est candido linteamine": questi udones sarebbero i nostri calzari. Nei musaici di Roma e Ravenna si possono vedere dei calzari vari di forma e di colore. Poi man mano questo uso generale si restringe, e dal sec. X in poi i calzari furono riservati ai soli vescovi. Nel sec. XII li ebbero anche i cardinali preti. La concessione agli abati fu generale a partire dal sec. XI. Nella disciplina odierna dobbiamo distinguere le calze dai calzari propriamente detti. Le calze fanno parte dell'abbigliamento ecclesiastico e seguono per il loro colore le regole delle vesti dei chierici. Il Sommo Pontefice porta le calze bianche sopra le quali nei pontificali indossa i calzari bianchi o rossi secondo il rito. I cardinali hanno le calze rosse, eccetto il Venerdì Santo e durante la vacanza della Sede Apostolica, quando prendono quelle paonazze. I cardinali appartenenti ad ordini monastici o mendicanti non portano le calzature rosse, ma ritengono il colore dell'abito religioso. I patriarchi, arcivescovi, vescovi, hanno l'uso delle calze di seta paonazza, ma con quella medesima distinzione che si è detta dei cardinali religiosi. Nel tempo di Sede vacante e il Venerdì Santo portano le calze nere. Tutti i prelati della S. Sede portano le calze paonazze con le eccezioni sopra riferite. I monsignori di mantellone usano le calze nere. I calzari invece hanno uso esclusivamente liturgico e sono adoprati nelle messe pontificali dai cardinali, vescovi, abati e dai prelati che ne hanno il privilegio. Non si portano nelle messe funebri, e il Venerdì Santo. La loro forma è quella di una calza un poco più ampia, e sono di seta, oppure di lama d'oro e d'argento, in tutti i colori liturgici, salvo il nero.
Bibliografia
Ch. de Linos, Anciens vetements sacerdotaux et ancien, tissus, Parigi 1877, p. 55 sg.; J. Braun : Die liturg. Gewandung, Friburgo in Br. 1907, pp. 394-424; Enrico Dante, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 418-419.
CAMAURO
CAMAURO
È una specie di berretto che copre tutta la testa ed anche le orecchie, che si adoprava fuori delle funzioni sacre. Nella forma attuale è privilegio esclusivo del Sommo Pontefice, che lo porta di velluto rosso filettato di ermellino nell'inverno, e di raso rosso in estate, come la mozzetta da lui indossata. L'origine non è certa. Alcuni autori, dalla parola latina camelauciumvogliono si chiami così perché è un copricapo fatto di peli di cammello. Altri vi vedono la definizione dell'effetto che doveva produrre il camauro quella cioè di conservare il calore. Altri infine lo ritengono un ornamento femminile, che è passato poi, come la mitra e la tiara, ai prelati ecclesiastici. Nella sua forma primitiva era composto di quattro pezzi di stoffa, cuciti in forma di croce, abbastanza ampio sì da coprire anche le orecchie, come lo si trova in una medaglia di Alessandro VI. Non è certa l'epoca nella quale i papi cominciarono a portarlo. Nei medaglioni dei papi esistenti nella basilica di S. Paolo in Roma, vediamo che i primi papi che portano il camauro sono i papi di Avignone Clemente V e Giovanni XXII. Il tipo variò secondo il gusto dell'epoca, ed anche secondo i desideri dei pontefici. Da Pio VI in poi i papi non lo portano quasi mai, ma usano lo zucchetto bianco. Il camauro viene posto sul capo del pontefice defunto prima di essere vestito dei paramenti sacri per essere esposto al pubblico.
Bibliografia
Enrico Dante, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 421.
CAMICE
CAMICE
Veste di lino bianca (detta perciò in linguaggio liturgico alba), lunga fino ai piedi, usata dagli ecclesiastici nelle funzioni liturgiche. Deriva dalla tunica che i Greci e i Romani portavano sola, o sotto le altre vesti. Era senza maniche e giungeva alle ginocchia, quella muliebre discendeva sino ai piedi, donde il suo nome di talare. Nel sec. III, sotto l'influsso dei costumi orientali, furono aggiunte le maniche. Semplice e senza ornato da principio, ebbe in seguito delle lunghe strisce di porpora o di altro colore, che scendevano, dalle spalle ai piedi, tanto di dietro che davanti. È precisamente questa tunica talare, bianca, senza ornato, con le maniche lunghe e strette ai polsi, che i chierici usarono per compiere i sacri ministeri. Il Concilio di Cartagine del 398 stabilì che il diacono indossasse la tunica solamente nel tempo dell'oblazione o delle lezioni. Nel sec. VI anche i suddiaconi cominciarono a portarla. Nell'830 Leone IV prescrisse per le funzioni sacre un camice diverso dall'ordinario; così quando i civili cessarono di portare la tunica, questa fu conservata nella liturgia e divenne indumento sacro. Nell'Ordo Romanus I la tunica di lino è già certamente una veste liturgica. L'antica tunica era abbastanza ampia, e vi furono applicati ornamenti di seta o di oro, non solo alla estremità e alle maniche, ma anche sul petto, sulle spalle, alle falde. Con l'andar del tempo questi ornamenti scompaiono, per dar luogo, specialmente dal sec. XVI, a merletti e trine di vario genere. Oggi il camice, secondo le prescrizioni canoniche, deve essere di tela bianca, di taglio abbastanza ampio e scendere fino ai talloni, stretto con il cingolo, intorno ai fianchi. Nessun ornato è prescritto; si può quindi seguire l'uso invalso di applicarvi dei merletti intorno al collo, alle estremità delle maniche, e dell'orlo inferiore. I camici fatti di soli merletti non sono permessi; sono invece tollerati i fondi di vario colore da sottoporsi al merletto delle maniche e della frangia; rappresentando essi il colore della sottana del celebrante. L'uso del camice è riservato dal sec. XII-XIII ai soli ministri in sacris per la Santa Messa, e tutte le volte che si indossa la dalmatica o la tunicella. Il sacerdote non l'usa nei vespri, matutino e lodi, e nelle esequie. Il camice deve essere benedetto dal vescovo o da chi ne ha la facoltà.
Bibliografia
J. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 70-77; V. Casagrande, L'arte a servizio della Chiesa, ivi 1938, pp. 194-97; Enrico Dante, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 436-437.
CAMPANELLO
CAMPANELLO
Quando nel sec. XII s'introdusse nella Messa l'elevazione delle sacre Specie, cominciarono ad usarsi campanelli o tintinnaboli, noti già presso gli antichi popoli, per richiamare l'attenzione dei fedeli. L'uso divenne comune con l'introduzione del Messale romano sotto s. Pio V. Il Ritus celebrandi prescrive un segno di campanello al Sanctus ed all'Elevazione. Nelle Messe solenni delle basiliche patriarcali romane non si danno i segni col campanello. Secondo il monito del Rituale romano, nel portare il S.mo Sacramento ad un ammalato, il chierico "campanulam iugiter pulset", per richiamar l'attenzione dei fedeli.
Bibliografia
G. Durando, Rationale div. off., Napoli 1839, pp. 4, 42, 53; R. de Fleury, La Messe, Parigi 1883-89, VI, pp. 154-64 e tavv. cdxcvii-di; Schellen, in Kirchenlexikon, Friburgo in Br. 1897, coll. 773-74; P. Lavedan, Clochette, in Dict. illustré de la mythologie et des antiquités grecques et romaines, p. 250; H. Leclercq, Clochette, in DACL, III, coll. 1954-91; Filippo Oppenheim, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 456.
CANDELE
CANDELE
Sono il mezzo più comune e obbligatorio dell'illuminazione liturgica nelle funzioni religiose. Secondo le prescrizioni le candele devono essere di cera, e cioè fatte in tutto o in massima parte con l'omonimo prodotto delle api.
CANDELIERE
CANDELIERE
Il candeliere liturgico trae la sua origine dal mobilio solito delle case romane, e per questo nella sua forma non ha nulla di tipicamente sacrale. La legislazione ecclesiastica vuole che i candelieri siano posti sul piano dell'altare. È permesso che stiano sul piccolo piano rialzato che completa la parte posteriore dell'altare, rimanendo proibito l'infiggerli alla parete.
CANONE DELLA MESSA
CANONE DELLA MESSA
La parola canone entrata nel lessico ecclesiastico dal VI secolo la si impiega per indicare la parte più solenne e la formula essenziale del rito eucaristico.
CANONE INNODICO
CANONE INNODICO
Indica la regola che deve seguirsi nella poesia liturgica. Il ritmo, in tale caso, presenta una forma o un modulo già fissato, al quale deve adattarsi il compositore. Fu già osservata una regola o canone innodico nella poesia classica greca, sia nel numero dei piede che delle strofe. La tendenza, però, alla libertà artistica, dava occasione a molte eccezioni o sostituzioni, chiamate "licenze poetiche". In un certo tempo le composizioni poetiche che meno seguivano il detto canone furono chiamate "irmos" (ε̉ιρμός). La poesia liturgica ebbe e ha ancora i suoi canoni, benché alcuni siano diversi da quelli della poesia classica. In Oriente da s. Efrem, poi in Occidente, specialmente per opera di s. Ilario e di s. Ambrogio, la poesia o inno fu adoperata per scopo popolare. S. Ambrogio se ne servì per istruire il popolo circa il dogma cattolico, e per combattere gli errori degli eretici; per adattarsi meglio allo stile popolare egli sostituì la quantità dei piedi classici con la tonicità o accento delle parole. Diversi generi di composizione sono stati adattati nel corso dei tempi per la innodia liturgica: ma il tipo classico è il verso di otto sillabe, con strofe di quattro versi, a somiglianza del "giambico-metrico". Di tutti i canoni innodici resta soltanto, di fatto, il numero delle sillabe. Non si sa se in principio la melodia fosse assolutamente e sempre sillabica: il fatto però è certo che inni di tipo molto antico hanno già melodie più o meno ornate, e quindi l'effetto armonico cadenzale degli otto tempi è meno sensibile. In ogni modo, almeno nella recita, è osservata la "elisione" quando ci sono più di otto sillabe; e anche nel canto è preferita tale pratica.
Bibliografia
Gregorio M. Suñol, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 549-550.
CAPPA
CAPPA
In origine era un ampio mantello senza maniche, spesso fornito di un cappuccio, e copriva tutta la persona; fu usato dall'antichità sino a tutto il medioevo come abito contro le intemperie e per viaggio, sia dai laici che dagli ecclesiastici. Per i laici infatti divenne quasi contrassegno delle persone gravi, quando i giovani usarono vesti succinte, particolarmente in tempo di guerra. Quando sorsero gli Ordini mendicanti la usarono aperta sul davanti con ampio cappuccio che scendeva tutt'intorno alle spalle sino a formare una specie di mantellina. Laici ed ecclesiastici la portarono guarnita di pelli intorno alla testa ed alle spalle. Mentre i monaci come abito corale usarono la cocolla, gli altri religiosi usarono o la cotta o la cappa, o semplicemente la veste del loro Ordine.
- I papi, prima che in Avignone s'introducesse l'uso della mozzetta con cappuccio sopra il rocchetto, usarono nel medioevo una cappa di saia rossa guarnita di ermellini, cha da ultimo sino a Pio VI si portò soltanto nelle funzioni dei Matutini del triduo della Settimana Santa e del Venerdì Santo; mentre nelle circostanze solenni indossavano il grande manto, più ampio e prezioso del semplice pluviale.
- I cardinali portano la cappa di cerimonia in tutto eguale a quella dei vescovi: essa consiste in un lungo mantello a strascico con cappuccio ampio che scende attorno alle spalle a forma di mantellina chiusa sul davanti; nel tempo invernale alla mantellina è sovrapposta un'altra mantellina di pelliccia bianca che guarnisce anche il cappuccio. Il mantello è tutto chiuso con una sola apertura longitudinale sul davanti del petto attraverso cui passare le mani; perciò per usare più liberamente le braccia, la cappa si arrovescia sugli avambracci. Per distinguere i cardinali dagli altri prelati fu concesso loro di usare cappe di colore rosso-porpora; ciò avvenne sotto Paolo II (o, secondo altri, sino dal tempo di Bonifacio VIII); però nell'Avvento, Quaresima, vigilie, il colore della cappa è pavonazzo. Il tessuto è sempre di seta ondata (amoerro); di lana pure pavonazza nel Venerdì Santo e nei giorni di stretta penitenza. I cardinali eletti dagli ordini monastici o mendicanti portano cappe di lana del colore del loro ordine; quelli provenienti dai chierici regolari cappe purpuree e pavonazze come i loro colleghi, ma sempre di lana.
- I vescovi nelle loro diocesi portano la cappa pavonazza di forma eguale, come s'è detto a quella dei cardinali, di lana o di seta, mentre la parte superiore quando non è coperta dalla pelliccia è sempre di seta cremisi; in Curia portano o la cappa a modo dei prelati o la mantelletta. I religiosi portano la cappa, come la sottana, la mantelletta, del colore del loro Ordine; sino a non molto tempo fa non usavano rocchetto se non per concessione particolare, ma ora tale concessione è largamente diffusa.
- I prelati vestono anch'essi la cappa sopra la veste pavonazza ed il rocchetto; ma essa non è mai portata distesa, bensì attorcigliata in modo da passare sotto il braccio sinistro dov'è tenuta aderente alla persona da una fettuccia pendente dalle spalle sotto la mantellina. Così la portano i prelati della corte e della curia: vice-camerlengo, uditore e tesoriere della Camera Apostolica (prelati di fiocchetto), i protonotari di numero e soprannumerari, i chierici di Camera, i prelati domestici, i canonici delle basiliche patriarcali, i votanti e referendari di segnatura e gli stessi vescovi presenti in curia. Per concessione papale portano pure nella loro diocesi tale cappa i canonici di alcune chiese metropolitane o cattedrali, particolarmente quelli che sono assomigliati ai protonotari, e i canonici di alcune delle basiliche romane minori. Non ne hanno invece diritto i camerieri e i cappellani segreti per i quali la veste solenne di cerimonia è la croccia.
Bibliografia
G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-eccles., VIII, Venezia, 1842, p. 80 ss. XCVI, ivi 1859, p. 265; J. Braun, I paramenti sacri, trad. it., Torino, 1914, p. 160; E. Roulin, Linges, insignes et vêtements liturgiques, Parigi, 1930, p. 143; L. Eisenhofer, Handbuch der katholischen Liturgie, I, Friburgo in Br., 1932, p. 435; L. Mattei Cerasoli, s.v. in Enc. Ital. VIII, 1930,p.880; Pio Paschini, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 695-696.
CARTEGLORIA
CARTEGLORIA
Sono tre tabelle che si pongono al centro e ai due lati dell'altare per aiutare la memoria del celebrante nella recita di alcune formule della messa. La tabella di mezzo, che è l'unica prescritta, contiene preghiere del Canone e dell'Offertorio (tabella secretarumo del Canone). Per aiutare la memoria del celebrante, fin dal sec. XVI si soleva mettere nel mezzo dell'altare una tabella, contenente alcune orazioni della Messa; s. Carlo, nel sinodo del 1576 ricorda per la prima volta le 3 tabellae. La tabella di mezzo, che è l'unica prescritta, contiene preghiere del Canone e dell'Offertorio (Canon minor): per questo fu chiamata tabella secretarum o del Canone. Generalmente si aggiungono anche altri testi, come quelli del Gloria in excelsis, del Credo, del Munda cor, del Supplices te rogamus e del Placeat tibi, e ciò per la difficoltà di usare il messale durante la loro recitazione, in quanto il sacerdote deve stare chinato sull'altare. La tabella al lato dell'Epistola contiene il salmo Lavabo e l'orazione Deus qui humanae substantiae; quella al lato del Vangelo l'inizio del Vangelo secondo Giovanni. Per i vescovi invece si usa il cosiddetto Canon episcopalis, cioè il libro contenente il Canone. Durante l'esposizione del S.mo Sacramento devono essere rimosse (S. Congr. dei Riti, decr. 3130 ad 3). Da principio contenevano probabilmente i soli toni dell'intonazione del Gloria, e da qui forse trassero nome. È essenziale che il contenuto delle cartegloria sia facilmente leggibile.
Bibliografia
L. Eisenhofer, Handbuch der kathol. Liturgie, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 364-365; P. Bayart, in R. Aigrain, Liturgia, Parigi 1935, p. 215; Filippo Oppenheim, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 956-957.
CATALANI GIUSEPPE
CATALANI GIUSEPPE
Celebre liturgista, nato a Paola (Cosenza) il 14 giugno 1698, morto a Roma il 10 agosto 1764. Opere liturgiche principali:
- Pontificale Romanum prolegomenis et commentariis illustratum (3 voll., Roma 1738-1740);
- Caeremoniale episcoporum commentariis illustratum(2 voll., Roma 1744);
- Sacrarum caeremoniarum sive rituum ecclesiasticorum S. R. Ecclesiae libri tres (2 voll., Roma 1750-1751).
CENERI (MERCOLEDI' DELLE)
CENERI (MERCOLEDI' DELLE)
Negli ultimi anni di san Gregorio Magno si cominciò il digiuno quaresimale con il mercoledì precedente la domenica I di Quaresima, che perciò fu chiamato caput ieiunii o anche caput Quadragesimae. La penitenza al principio della Quaresima era inculcata ai fedeli con l'espulsione dei pubblici penitenti da parte del vescovo. Il rito ne è conservato nel Pontificale romano.
CERIMONIA
CERIMONIA
Nel senso liturgico la cerimonia è un gesto, un'azione, un movimento o un complesso di essi, istituito dalla competente autorità, per accompagnare la preghiera o l'esercizio pubblico del culto divino. L'insieme e l'ordine delle varie cerimonie è ciò che costituisce un rito. L'etimologia della parola risulta incerta. L'origine delle cerimonia è fondata nella stessa natura umana, poiché i gesti che accompagnano la parola manifestano naturalmente i sentimenti e i movimenti dell'animo. Non vi è infatti religione, che non abbia tutto un corredo di riti e di cerimonie. Questa intima connessione tra religione e cerimonia, la si trova ampiamente illustrata nel Vecchio Testamento: i quattro ultimi libri del Pentateuco, specialmente il Levitico, espongono le diverse pratiche rituali del popolo ebraico. Nella religione cristiana le cerimonie sono antiche quanto il cristianesimo. Gesù stesso ne è l'iniziatore; e quindi gli Apostoli, e poi la Chiesa hanno costituito il primo nucleo del rituale liturgico, che completato, modificato, ampliato con l'andare dei secoli, costituisce oggi il cerimoniale della Chiesa che concorre sì mirabilmente a farne apprezzare e venerare dai fedeli la santità e la dignità. Per le origini delle varie cerimonie basterà accennare alle diverse cause che ne determinarono l'inizio o la scomparsa; perché alle volte solo così ci si può rendere ragione di esse. Come cause storiche si ricorderanno l'influsso della religione mosaica sul culto cristiano; l'assunzione da parte della Chiesa di alcuni riti pagani, trasformati e santificati; ed infine il fatto che molte cerimonie e riti sono comuni a tutte le religioni, essendo di loro natura atti ad esprimere i sensi intimi dell'anima umana. Il fine inteso dalla Chiesa nelle sacre cerimonie è primieramente di rendere degno il culto tributato a Dio con lo splendore dei sacri riti, e attrarre gli uomini alle cose celesti sollevandone lo spirito, favorendone la pietà. Si rende così sensibile l'azione intrinseca e spirituale del sacrificio della Messa, e dei Sacramenti, per mezzo delle cerimonie e dei riti, facilmente percepibili nel loro significato. reale. Ma oltre questo senso morale, un altro mistico senso possiamo e dobbiamo trovare in molte cerimonie. L'interpretazione simbolica dei riti, come non è da trascurare, così non deve essere spinta all'eccesso. Purtroppo non mancarono abusi e, durante tutto il medioevo fino al sec. XVII, l'interpretazione mistica fu estesa oltre ogni convenienza e ragione.
Bibliografia
Desloge, Etudes sur la signification des choses liturgiques, Parigi 1906; G. B. Menghini, Elementa iuris liturgici, Roma 1907; Enrico Dante, da Enciclopedia Cattolica,III, Città del Vaticano, 1949, coll. 1316-1317.
CERIMONIALE DEI VESCOVI
CERIMONIALE DEI VESCOVI
È il complesso di regole e di direttive sacre che disciplinano la preparazione e gli atteggiamenti, movimenti e gesti da osservarsi nella celebrazione solenne della Messa e dell'Ufficio corale presente il vescovo, e il comportarsi di questi nelle manifestazioni della sua personalità.
CEROFERARIO
CEROFERARIO
Colui che nelle funzioni solenni porta il cero acceso sul candelabro.
CERO PASQUALE
CERO PASQUALE
Cero di grandi dimensioni, artisticamente decorato, benedetto nel Sabato Santo, e posto sopra un candelabro dal lato del Vangelo dell'altare maggiore fino alla festa dell'Ascensione.
CINGOLO
CINGOLO
Dall'uso profano di una cintura per tenere fissa intorno ai fianchi la tunica, è sorto l'indumento sacro in forma di cordone, con due fiocchi alle estremità, che serve per stringere il camice. I primi accenni al cingolo si hanno in una lettera di papa Celestino nel 430 ai vescovi di Narbona e Vienna nelle Gallie. Poi i monaci, memori della parola del Signore: "siano cinti i vostri lombi", ritennero incompatibile per il loro stato la tunica discinta, e concorsero così a generalizzare, l'uso del cingolo. Dalla semplice cinta di cuoio o di corda dei monaci, si passò nella liturgia alla fascia di seta riccamente ornata, con pietre preziose e borchie d'oro, specialmente durante il medioevo. Poi si tornò alla semplicità primitiva, ed eliminata la fascia si riprese il cordone. La Chiesa non ha determinato né la forma né il colore del cingolo; se ne possono quindi fare di seta, lino, lana, cotone; il loro colore può essere sempre bianco oppure simile a quello dei paramenti. Vario ne è il significato simbolico secondo gli autori, ma quasi tutti convengono nel ritenerlo il simbolo della castità, come indica la preghiera liturgica che il sacerdote deve recitare quando lo cinge.
Bibliografia
J. Braun,Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 102-15; id., I paramenti sacri, vers. it., Torino 1924, pp. 77-84; Enrico Dante, da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 1678.
COLLETTA
COLLETTA
Indica: 1) il luogo di convegno che negli antichi Ordini romani viene indicato regolarmente nei singoli giorni di Quaresima. 2) L'orazione del giorno che anticamente si diceva sopra il popolo adunato per la celebrazione della Messa. 3) Fin dal secolo IX, è il nome della prima orazione della messa.
COLLETTARIO
COLLETTARIO
Chiamato talvolta Orazionario, deriva dal Sacramentarioin quanto anticamente solo questo libro conteneva le orazioni recitate dal vescovo o dal sacerdote a nome della collettività.
COLORI LITURGICI
COLORI LITURGICI
Secondo il carattere del giorno o dell'occasione della funzione sacra, sono prescritti diversi colori per i paramenti sacri, e cioè bianco, rosso, verde, violaceo e nero. Inoltre nelle domeniche Gaudete (3ª di Avvento) e Laetare (4ª di Quaresima) è permesso il rosaceo. Il colore oro può essere usato in luogo del bianco, del rosso e del verde, a causa della preziosità o della solennità (S. Rit. Congr., n. 3646 ad 2), l'argenteo solo al posto del bianco (ibid., ad 3). I primi cristiani non conobbero un colore liturgico determinato per le vesti che indossavano nel culto; presto, però, si hanno notizie di una veste bianca, richiesta specialmente per i sacerdoti (Constitutiones Apostolorum, VIII, 12; Canones Ps. Athanasii, can. 28; Canones Ps. Basilii, can. 99). Tracce dei suddetti colori si trovano nell'evo carolingio, e anche prima negli Ordines Romani; nel sec. XII esisteva però a Roma un canone preciso per i colori dei paramenti, a seconda del tempo, come è attestato e spiegato da papa Innocenzo III (De Sacro altaris mysterio, I, 65: PL 217, 199 sg.; cf. Durando, Rationale, 3, 18). Non vi era però uniformità, e i colori continuavano a differire a seconda dei luoghi e dei tempi. Inoltre erano usati il giallo, bruno, azzurro, grigio e, non essendovi un apposito precetto, in molti luoghi serviva di regola l'uso o la tradizione o anche il gusto del celebrante. L'uniformità fu raggiunta solo dopo la promulgazione del Messale di s. Pio V, ma soltanto presso i Latini; gli orientali continuarono ad usarne differenti; la liturgia ambrosiana conservava i suoi e la Spagna otteneva il privilegio dell'azzurro nelle feste mariane. Altre norme complementari che riguardano i colori liturgici per l'amministrazione dei Sacramenti o Sacramentali si trovano nel Rituale romano e nei decreti della S. Congregazione dei Riti. La scelta di un dato colore per determinati giorni proviene da considerazioni simboliche, volendosi anche con esso esprimere il carattere e il senso di una solennità. Secondo Innocenzo III, il bianco, nelle feste di vergini e confessori, simboleggia la purezza e l'innocenza; a Pasqua e all'Ascensione ricorda le bianche vesti degli angeli; dovunque è simbolo della gioia. Il rosso, prescritto per le feste degli Apostoli e dei martiri, simboleggia il sangue da essi versato; alla Pentecoste, la carità e l'ardore dello Spirito Santo. Il nero è segno di lutto nella Messa per i morti, e di penitenza, come, anticamente, nei giorni dell'Avvento e della Quaresima. Il verde, sempre secondo il detto Papa, è un colore intermedio tra il bianco il rosso, ed è usato nelle domeniche, salvo quelle dell'Avvento e della Quaresima. Il violaceo è una specie temperata di nero, perciò un tempo era usato nelle domeniche Gaudete e Laetare, nelle quali oggidì si usa il rosaceo.
Bibliografia
J. Braun. Die liturgische Gewandung in Occident und Orient, Friburgo 1907, pp. 728-60; J. Braun. I paramenti sacri, Torino 1914. pp. 38-46; L. R. Barin, Catechismo liturgico, I, V ed., Rovigo 1927, pp. 388-91; L. Eisenhofer, Compendio di liturgia, Torino 1940, p. 60 sgg.; Filippo Oppenheim, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 22-23.
COMMEMORAZIONE
COMMEMORAZIONE
Quando di uno o più santi o di una feria, vigilia od ottava non si può recitare l'ufficio o la messa per l'occorrenza di una festa di rito più elevato, allora di essi si fa spesso la commemorazione o memoria nell'ufficio e nella messa del giorno. I cicli del Temporale e del Santorale infatti corrono simultaneamente ed il Martirologio riporta molti santi che nello stesso giorno ascesero alla gloria del cielo. Non è raro quindi il caso di un conflitto nel calendario tra una festa, una domenica, una feria, una vigilia o una ottava. Le regole liturgiche tendono ad eliminare od attenuare questi conflitti, sia sopprimendo le feste meno importanti, sia trasportando quelle più nobili, oppure commemorandone semplicemente alcune. Questa commemorazione consta di un'antifona col relativo versetto ed orazione ai Vespri e alle Lodi, e della orazione nella Messa.
Bibliografia
Silverio Mattei, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 50.
COMMUNE SANCTORUM
COMMUNE SANCTORUM
È la terza delle grandi parti in cui si dividono il Messale e il Breviario romano, e comprende una raccolta di formole liturgiche (messe e uffici) per le feste di quei santi che mancano in tutto o in parte di formulari propri.
COMMUNIO
COMMUNIO
È l'antifona che nella Messa solenne viene cantata dal coro dopo la Comunione del celebrante; in tutte le Messe è letta semplicemente dal celebrante stesso. Anticamente si cantava durante la distribuzione della Comunione dei fedeli, intercalandola con i versi di un salmo. A poco a poco, il salmo fu abbreviato fino a scomparire totalmente, sicché rimase la sola antifona, nella quale è riassunto qualche pensiero del giono o della festa che si celebra; un vestigio dell'antico uso è rimasto nella sola Messa per i defunti. Nella liturgia ambrosiana è detta Transitorium.
Bibliografia
I. Schuster, Liber Sacramentorum, 3ª ed., Torino 1932, p. 100; III, ivi 1933, p. 70; G. Destefani, La messa nella liturgia romana, ivi 1935, pp. 307, 751 sg.; Filippo Oppenheim, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 70-71.
CORPORALE
CORPORALE
Quadrato di lino su cui si posano le specie eucaristiche e i vasi sacri. Il suo nome deriva dall'ufficio di raccogliere il Corpo di Cristo. Il suo nome deriva dall'ufficio di raccogliere il Corpo di Cristo. Nei primi secoli non si stendevano tovaglie sull'altare; solo alla Messa, prima dell'offerta, i diaconi stendevano un panno di lino per posarvi il pane e il vino destinati al sacrificio eucaristico, e con un lembo si copriva il calice. Introdottasi l'abitudine di coprire l'altare con due, tre tovaglie e diminuite d'altra parte le offerte, il corporale fu accorciato così che sino dal medioevo appare già ridotto alla forma presente. Il calice venne allora coperto con un altro piccolo corporale detto palla. A determinare la materia fu il richiamo alla Sindone nella quale era stato avvolto il corpo esanime di Gesù: perciò il sacrificio della Messa deve essere offerto sopra un panno di lino. Nella liturgia ambrosiana si tiene vivo questo raffronto con l'orazione precedente l'Offerta, chiamata: "sopra la Sindone". Si conservano tuttavia antichi corporali di seta. Anticamente, dopo la consumazione, il corporale veniva piegato tre volte, ponendo verso l'interno le due estremità in modo che "né l'un capo né l'altro apparissero fuori". I liturgisti medievali videro simboleggiata la divinità di Cristo che non ha principio né fine, ma il motivo stava piuttosto nella preoccupazione che i minuti frammenti eucaristici ivi rimasti non avessero a cadere in luogo profano; per questo motivo la conservazione e lavatura del c. impose sempre religiosa attenzione; e nel sec. IX esiste già la prescrizione di non mandare al bucato corporale prima che siano stati lavati almeno una volta da un sacerdote, un diacono o suddiacono. Le prescrizioni di Cluny in proposito sono minuziose e curiosissime. Si conoscono corporali molto ornati, ma l'odierna legislazione permette soltanto i lini damascati, qualche ricamo agli angoli, una piccola croce al centro senza rilievo; gli orli possono essere ornati di pizzi. Viene portato all'altare entro una borsa che segue le regole dei colori liturgici.
Bibliografia
G. Braun. I paramenti sacri, trad. it., Torino 1914, p. 184-88; C. Callewaert, De Missalis Romani liturgia, sez. 1ª, Bruges 1937, nn. 433. 437, 438; Enrico Cattaneo, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 598.
CORPUS DOMINI
CORPUS DOMINI
Solennità del S.mo Corpo di Cristo, celebrata il giovedì dopo la 1ª domenica di Pentecoste, per commemorare in modo tutto speciale la Eucaristia: sacrificio e Sacramento.
COTTA
COTTA
Tunica bianca usata dai sacerdoti nei riti non uniti alla messa, e dai chierici. La liturgia cristiana volle sempre gli ecclesiastici indistintamente rivestiti di un abito-base bianco a somiglianza dei 24 Seniori e della turba innumere che, in cielo, sta attorno al trono dell'Agnello (Apoc. 4, 4). Nella forma originaria si è conservato nel camice dal quale derivò la cotta. Appare nel sec. XI in Inghilterra, nella Francia del nord e nella Spagna, sul finire del sec. XI in Italia, e, costituendo per sé una novità, solo più tardi a Roma. Venne pure chiamata soprapelliccia (superpelliceum) perché messa sopra gli abiti fatti di pelli di animali (Durando) richiesti dal freddo intenso dei paesi nordici: il camice, con le sue maniche strette e la necessità di recingerlo ai fianchi, mal si adattava; se ne allargarono pertanto le maniche e se ne accorciò un poco la lunghezza risultandone la cotta. Anche laddove non si usavano pellicce, la praticità suggerì egualmente d'accorciare la tunica dei fanciulli cantori e si ebbe il camisium (cotta a maniche strette) attestato a Milano nel sec. XII. All'inizio le caratteristiche della cotta sono: maniche molto larghe, foro circolare per introdurvi il capo, misura lunga e ampia senza alcun ornamento, fino quasi ai piedi. Dopo il sec. XIII venne accorciata sino allo stinco; nel sec. XV-XVI, al di sopra dei ginocchi. Su ciò influì l'uso, sviluppatosi nel sec. XVI, di pieghettarla: poiché infatti la larghezza delle maniche era diminuita in proporzione della lunghezza della cotta, si volle dare un aspetto meno goffo alla tunica, conservata solo nel nome, creandosi così le cotte ricce usate oggi principalmente nelle cattedrali e chiese collegiate. Solo con il sec. XVII diventa uso generale ornare la cotta con pizzi. La cotta deve essere di lino o di cotone bianco; il taglio sul petto non è d'uso generale. Il suo simbolismo è vario. A chi la riveste ufficialmente la prima volta accedendo alla tonsura il Pontificale romano dice: "Ti rivesta il Signore dell'uomo nuovo, quello che per volere di Dio fu creato giusto e veramente santo". Ed il candore richiama infatti lo stato di Grazia.
Bibliografia
M. Magistretti, Delle vesti ecclesiastiche in Milano, II ed., Milano 1905, pp. 30-34: G. Braun, I paramenti sacri, trad. ital., Torino 1914, pp. 81-84; E. Roulin, Linges. insignes et vêtements liturgiques, Parigi 1930, pp. 28-34; Enrico Cattaneo, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 784-785.
CROCE NELLA LITURGIA
CROCE NELLA LITURGIA
LE FESTE DELLA SANTA CROCE
I libri liturgici attuali ne hanno due: In Inventione S. Crucis(3 maggio) e In Exaltatione S. Crucis(14 sett.). Le feste seguirono lo sviluppo della devozione alla reliquia della Santa Croce, che ebbe origine col suo ritrovamento. L'anno di questo avvenimento resta incerto. La Cronaca alessandrina lo assegna al 320, il Lib. Pont. al 310 (I, p. 167), la Dottrina d'Addai la riporta addirittura al tempo di Tiberio (14-37). La Peregrinatio Aetheriae (ca. 394) la suppone avvenuta prima del 335, ma Eusebio nella Vita Constantini, scritta nel 337 non ne parla affatto. Il primo documento sicuro è la testimonianza di s. Cirillo di Gerusalemme nella Cathech., XIII, 4: PG 33, 775; scritta nel 347. Meno informati ancora si è sul giorno della Inventio. Da notarsi però che la Cronaca e la Peregrinatio danno il 14 sett. e questo è stato causa di non poca confusione per l'individuazione delle due feste nei documenti. Storicamente la festa liturgica dell'Exaltatio precede quella della Inventio. L'origine è palestinese, anzi locale di Gerusalemme e deve ricercarsi nell'annuale celebrazione della dedicazione (avvenuta il 13 e 14 sett. 335) delle due basiliche costantiniane dell'Anastasis e del Martyrion. La festa giunse a grande celebrità. Alla fine del sec. IV la Peregrinatio parla di moltitudini di monachi, episcopi (fino a 40 e 50), clerici, saeculares, tam viri quam feminae, che per otto giorni continui accorrevano da tutte le parti dell'Oriente per prendervi parte. Essa non cedeva in nulla alle feste di Pasqua e dell'Epifania (Peregrinatio ad loca sacra, cap. 48, in Itinera, ed. Geyer, p. 100). Con il tempo s'incominciò a fare una solenne ostensione delle reliquie della vera Croce, sicché a poco a poco questo rito diventò l'oggetto principale della solennità, facendo dimenticare quasi del tutto la dedicazione. Alessandro di Cipro (sec. VI) la designa esattamente con il nome poi rimasto: Exaltatio praeclarae Crucis (PG 86, 2176). Da Gerusalemme la solennità si diffuse in molte chiese orientali, specie dove si possedeva una reliquia della vera Croce, come a Costantinopoli, ad Apamea e ad Alessandria. Per l'Occidente la prima testimonianza d'una festa liturgica della Santa Croce si trova nella biografia di Sergio I (687-701), nella quale si legge: Qui etiam ex die illo pro salute humani generis ab omni populo christiano die Exhaltationis Sanctae Crucis in basilicam Salvatoris, quae appellatur Constantiniana, osculatur et adoratur (Lib. Pont., I p. 374). Il testo lascia intendere che la festa era già celebrata prima di Sergio; probabilmente dapprima nell'oratorio della Santa Crcoe al Laterano, poi nella basilica Sessoriana Sanctae Crucis in Hierusalem. Ma non si deve andare molto indietro, come mostra l'incertezza dei documenti nel segnalarla: p. es., si trova nel Sacramentario gelasiano (metà sec. VIII; cf. ed. Wilson, p. 198), ma manca nel manoscritto di Epternach del Martirologio geronimiano, eseguito da un vescovo consacrato da Sergio I (cf. Lib. Pont., I, p. 387, nota 29). Alla festa Sergio dovette aggiungere la solenne ostensione e adorazione della Croce conservata nel Sancta Sanctorum del Laterano di cui parla il testo riferito, cerimonia attestata ancora nell'Ordo di Cencio Camerario al principio del sec. XIII. Mentre a Roma s'affermava la festa dell'Exaltatio, fissata al 14 sett., nelle Gallie s'era introdotta, e con successo, una festa Inventionis Sanctae Crucis stabilita al 3 maggio. Pare che essa entrasse nelle chiese gallicane nella prima metà del sec. VIII: non si trova nei Sacramentari leoniano (sec. VI) e gregoriano (sec. VII), non ne fa cenno Gregorio di Tours (593-94), così abbondante in simile materia, manca nel Lezionario di Luxeuil (fine sec. VII). La riportano invece i manoscritti del Martirologio geronimiano di Wolfenbüttel (772) e di Berna (di poco posteriore), i calendari mozarabici, i Sacramentari gelasiani del sec. VIII (cf. P. de Puniet, Le Sacramentaire romaine de Cellone, Roma [1938], pp. 92*-93*; Sacramentarium Pragense, ed. A. Dolci, Beuron 1949, p. 71). La data del 3 maggio fu suggerita, a quanto sembra, dalla leggenda di Giuda Ciriaco, vescovo di Gerusalemme (BHL, 7022). Il Missale Gothicum (secc. VII-VIII) e quello di Bobbio (sec. VIII) mettono la festa tra l'ottava di Pasqua e le Rogazioni, senz'altra indicazione. Il Reg. 316 e il Pragense hanno già la data del 3 maggio. In sostanza i due calendari, il romano e il gallicano, avevano una propria festa della Santa Crcoe in date diverse e ambedue sono rimaste nei libri liturgici quando questi, emigrati in Gallia, ritornarono a Roma con le note aggiunte e trasformazioni. Anche il formolario liturgico delle due feste ha risentito delle loro vicende. L'ufficiatura della Exaltatio è di evidente fattura romana: lo mostra tra l'altro l'antifona: O magnum pietatis opus, tratta dall'epigrafe metrica di papa Simmaco (498-514) per l'oratorio della Santa Crcoe in S. Pietro, e l'altra Salva nos, Christe, che ricorda lo stemma della medesima basilica (cf. U. Mannucci, Per la storia dell'ufficio della S. C., in Rass. Gregor., 1910, col. 249). Le lezioni narrano il recupero della Santa Croce dalle mani dei Persiani, avvenuto nel 665 sotto Eraclio. L'ufficiatura dell'Inventio, invece, è gallicana. Le antifone del sec. XII accennavano alla leggenda di Giuda Ciriaco e furono soppresse da Clemente VIII (1592-1605) "quia historiam continebant dubiam" e sostituite dalle attuali (v. l'antico formolario in Tommasi, Opera, t. IV, p. 250). Le lezioni rimaste raccontano il ritrovamento della Croce fatto da s. Elena. La Messa è di classico tipo gallicano (cf. G. Manz, Ist die Messe de Inventione S. Crucis im Sacram. Gelas. gallischen Ursprungs?, in Ephem. lit., 47 [1938], pp. 192-96). Nel 1741 la Commissione nominata da Benedetto XIV per la riforma del Breviario stabili di sopprimere la festa del 3 maggio, ma l'intero progetto, com'è noto, fallì e anche le due feste della Santa Croce sono rimaste finora al loro posto.
Bibliografia
Bibl.: A. Holder, Inventio S. Crucis, Lipsia 1889; P. Bernadakis, Le culte de la Croix chez les grecs, in Echos d'Orient, 5 (1902), pp. 193 sgg., 257 sgg.: L. De Combes, La vraie Croix perdue et retrouvée, Parigi 1902, p. 265-73; id., De l'invention à l'exaltation de la S. Croix, Parigi 1903; J. Straubinger, Die Kreuzauffindungslegende, Paderborn 1912; K. A. H. Kellner, L'Anno ecclesiastico, Roma 1914, p. 285 sgg.; H. Leclercq, Croix (invention de la), in DACL, III, coll. 3131-39; A. Kleinclausz, Eginhard, Parigi 1942, pp. 175-99, 249-55.
CROCE DELL'ALTARE
CROCE DELL'ALTARE
Nei primi secoli, soltanto la materia del sacrificio poteva essere posta sull'altare. La Croce e i candelieri, portati in testa alla processione, venivano collocati o dietro l'altare o ai suoi lati. Talvolta la Croce era pendente sotto il ciborio o scolpita sul frontone dello stesso: tuttavia nessun testo ci dice la ragione precisa della sua presenza. Con il sec. XI viene ornata del Crocifisso fiancheggiato talvolta dalla Madonna e s. Giovanni Evangelista; un foro nell'altare od apposito piedistallo permette di fissarla sull'altare stesso durante la celebrazione del S. Sacrificio. L'introduzione e il propagarsi delle Messe private non è escluso abbiano influito a porla definitivamente sull'altare. Il Cerimoniale dei vescovi, ordinando che la "Crux Domini" sia sull'altare, stabilisce il suo basamento alto quanto il più vicino dei candelieri voluti d'altezza varia, perché, con il loro ascendere, maggiormente siano d'ornamento alla Ccroce La sua presenza sull'altare, come i ripetuti inchini e gli sguardi ad essa rivolti dal sacerdote celebrante la S. Messa, vogliono inculcare essere questa la reale rappresentazione del sacrificio della Croce. Pertanto è sempre necessaria, salvo durante l'esposizione del S.mo Sacramento, perché l'immagine cede alla realtà.
Bibliografia
J. Braun, Das christliche Altargerät, Friburgo in Br. 1932, pp. 466-92; C. Callewaert, De Missalis Romani liturgia, I, Bruges 1937, n. 442.
CROCE PETTORALE
CROCE PETTORALE
È una piccola croce d'oro o di altro metallo dorato, che i vescovi portano appesa al collo come proprio distintivo. Vi sono due specie di Croce pettorale: una è appesa ad una catena d'oro od altro metallo dorato, che si usa con le vesti ordinarie, l'altra pende da un cordone di seta rossa per i cardinali e verde per i vescovi, e si porta nelle funzioni sacre e sulla mozzetta. Il Cerimoniale dei vescovi fa cenno solo di questa seconda, e la considera come ornamento pontificale, mentre della prima non parla affatto. L'origine della Croce pettorale si riallaccia molto probabilmente agli encolpi ed a quegli oggetti sacri che i cristiani portavano sul petto. Gli scrittori antichi non ne parlano: ciò significa che in origine si trattava solo di una devozione personale. Più tardi i papi fecero di essa un ornamento sacro, imitati successivamente dai vescovi e dagli abati. I primi esempi risalgono ca. al sec. IX. Alla Croce pettorale, come ornamento liturgico del papa, accenna Innocenzo III nel De sacro altaris sacrificio, I, cap. 2. Un Pontificale del sec. XII enumera fra i paramenti liturgici del vescovo la "Crux pectoralis, si quis ea uti velit" (E. Martène, De ant. Eccl. rit., 1, Anversa 1736, cap. 4, art. 12, ordo 23).
Bibliografia
A. Du Saussay, Panoplia episcopalis, seu de sacro episcoborum ornatu, VII, Parigi 1646, pp. 294-329; L. Thomassinus, Vetus et nova Ecclesiae disciplina, II, Napoli 1769, cap. 58, nn. 4-5; J. L. Ferraris, Cruz, in Prompta bibliotheca canonica, Parigi 1858, nn. 51-55: A. Fivizzani, De ritu S. Crucis, Roma 1892, cap. 7, p. 53; F. Eygen, in Liturgia, Parigi 1935, p. 342; M. Righetti, Storia liturgica, Milano 1945, pp. 519-20; Silverio Mattei, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 960-964.
CROCIFERO
CROCIFERO
Secondo un antico uso cristiano la croce, come vessillo di Cristo, precede tutte le sacre processioni dei fedeli, e l'ufficio di portarla è specialmente affidato al suddiacono.
CRUDELIS HERODES DEUM
CRUDELIS HERODES DEUM
Inno dei Vespri nella festa dell'Epifania, composto delle strofe 8, 9, 11 e 13 del celebre inno di Sedulio, che celebrano i tre misteri ricorrenti nella festa dell'Epifania: l'adorazione dei Magi, il Battesimo nel Giordano e il miracolo delle nozze di Cana. La prima strofa è una significativa interrogazione ad Erode sul suo infondato timore per la nascita del nuovo re, che non usurpa domini terreni, ma che anzi dà in premio il regno dei cieli ai suoi seguaci. Tutta la composizione è ispirata ad un parallelo fra la divina e la umana natura del nato Messia.
Bibliografia
G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1857, p. 128; S. G. Pimont, Les hymnes du Bréviaire romain, II, Parigi 1884, pp. 88-95; C. Albini, La poesie du Bréviaire, I, Lione s. a., p. 135; Silverio Mattei, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1025-1026.
CUSTODES HOMINUM PSALLIMUS
CUSTODES HOMINUM PSALLIMUS ANGELOS
Inno del Vespro nella festa degli Angeli Custodi (2 ott.). Sono tre strofe asclepiadee ispirate al bisogno dell'aiuto celeste nelle lotte continue che si debbono sostenere con le forze del male. La terza strofa è una preghiera all'Angelo Custode. Si trova per la prima volta in un breviario cistercense nel 1570.
Bibliografia
G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1857, p. 312; C. Albini, La poesie du Bréviaire, I, Lione s. d., p. 115; G. Bossi, Gli inni del Breviario romano, versione ritmica, Roma 1919, p. 192; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947; Silverio Mattei, da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1095.