PACE - PAUPERISMO - DIZIONARIO DI MISTICA

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PACE - PAUPERISMO

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PACE. (inizio)

I. Il termine. Nelle diverse culture ed epoche, il termine p. assume un'estensione più o meno ampia e specifica. Così, ad esempio, l'eirene greca non indica tanto un rapporto tra persone, quanto una condizione di tranquillità interiore, in senso piuttosto riduttivo, come semplice assenza di turbamento e di sentimenti ostili; al contrario, la pax romana ha tutta la concretezza del contratto giuridico, dell'alleanza stipulata tra i popoli: allude ad una realtà prevalentemente sociale, tutelata e fondata sul diritto. Molto significativo è, in proposito, il famoso detto: Si vis pacem, para bellum (se vuoi la p., prepara la guerra). Tra queste opposte e paradigmatiche prospettive, il mondo ebraico si distingue in modo nettissimo.

II. Nella Scrittura. Nell'AT la p., shalom, non è un valore tra altri valori, ma coincide con la totalità dei beni. E la pienezza del bene, è la salvezza desiderata ed attesa. Shalom racchiude tutto ciò che di meglio si può augurare: non per nulla diventa la formula stessa del saluto, denso di profondità religiosa. E sinonimo di " benessere ", felicità, giustizia. E benedizione, gloria, vita. In una parola, è il Nome stesso del Messia: Principe della p. (cf Is 9,5; Sal 71). Proprio perché tale, essa è innanzitutto dono da ricevere dalle mani di Dio e segno della sua presenza, che raggiunge la singola persona fin nell'abisso del suo cuore ed insieme stringe tutto il popolo nell'abbraccio della fraternità. L'uno e i molti vengono a coincidere nell'esperienza stessa di Dio. " Misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e p. si baceranno " (Sal 84,11): ecco la prospettiva sociale; ecco però anche il momento delle nozze, dell'incontro mistico: " Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato p.! " (Ct 8,10). L'incontro con lo sposo è la perfezione dell'amore che, nell'unione mistica, procura armonia e p.

L'attesa del Messia diventa realtà concreta in Gesù, dono perfetto del Padre. Egli è la P., meglio: " Egli è la nostra p. " (Ef 2, 14). Tutta la sua vita, dalla grotta di Betlemme all'ascensione al cielo, è posta sotto il sigillo della p. La sua nascita è accompagnata dal canto del coro angelico: " Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e p. in terra agli uomini che egli ama ". Non è solo un inno di lode, ma, più profondamente, è l'annuncio di una realtà che si è compiuta: la salvezza è discesa; un seme di p. è stato deposto - e nascosto - nel cuore stesso dell'umanità e ormai crescerà " spontaneamente ", senza lasciarsi soffocare da spine o rovi. Sull'albero della croce diventerà frutto maturo, pronto per offrirsi in dono il giorno della risurrezione: " Pace a voi " (Gv 20,19.21.26): parole inseparabili dalla dolce e forte promessa con cui si chiude il Vangelo secondo Matteo: " Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo " (Mt 28,20).

III. P. come frutto della consapevolezza mistica. Abitati dalla P., i cristiani sono invitati da Gesù stesso a diventare costruttori di p., se veramente vogliono essere figli di Dio: " Beati gli operatori di p., perché saranno chiamati figli di Dio " (Mt 5,9). Non si tratta di un impegno semplicemente etico, né di uno sforzo puramente umano, ma di vivere in verità il battesimo, lasciando agire liberamente, senza contristarlo, lo Spirito che è stato riversato nei cuori dei credenti: " Il frutto dello Spirito è amore, gioia, p., pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé " (Gal 5,22).

La p., dono dello Spirito, non è e non dev'essere ritenuta un'utopia. Essa fiorisce però soltanto sul terreno dell'amore autentico, quello che non si arresta neppure di fronte all'odio o all'ingiustizia. Frutto della passione di Cristo, la p. può essere custodita solo con la com-passione, col sacrificio di sé, fino al martirio, perché su questa terra la sua crescita è continuamente insidiata e minacciata dal male e dal peccato. Non sono forse i santi, gli amici di Dio, ad offrire all'umanità le icone più belle della p., essi che hanno raggiunto le altezze sublimi della comunione con Dio, in cui, per così dire, hanno goduto il vero e proprio riposo d'amore in Dio Trinità, armonia perfetta? Guardando al loro esempio, è possibile avanzare più speditamente nel cammino fino alla Gerusalemme celeste, che è visione di p., nella piena e universale comunione, che corrisponde al compimento del disegno salvifico di Dio.

Bibl. Aa.Vv., La pace, dono e profezia, Magnano (BI) 1985; Aa.Vv., Il contributo culturale dei cattolici al problema della pace nel secolo XX, (con antologia di scritti sulla pace), Milano 1986; R. Coste - H.J. Sieben, s.v., in DSAM XII1 40-73; W.W. Foerster, s.v., in GLNT III, 191-243; C. Gennaro, s.v., in DES III, 1801-1802; F. Gioia, La forza della pazienza. Il cammino della pace interiore, Cinisello Balsamo (MI) 1995; H.H. Schmid, Shalom. La pace nell'antico Oriente e nell'Antico Testamento, Brescia 1977.

Benedettine dell'Isola San Giulio (NO)

PACOMIO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce nel nomo di Esneah (Tebaide superiore) da una famiglia pagana del sud dell'Egitto. Si converte alla vista della carità dei cristiani per le reclute imperiali. Si pone alla scuola dell'eremita Palamone ( 320 ca.) ma ben presto decide di organizzare un " villaggio cristiano ", cioè la vita comune di monaci disciplinati come un corpo unico. Molti lo seguono, perciò riunisce in vari monasteri, specialmente a Tabennesi e Pebow, migliaia di fratelli e anche suore. Poco prima della morte, avvenuta il 9 maggio 346 o, forse più precisamente (secondo le fonti copte) nella stessa data del 347, a causa di un'epidemia scoppiata tra i suoi monaci, è sottoposto al giudizio di un Sinodo di vescovi locali a Latopoli, ma l'energia dei suoi discepoli lo salva dalla condanna.

Fra questi, Teodoro ne conserva i ricordi più vivi che sono alla base delle Vite copte e della Vita prima in greco (redatta forse prima del testo copto). Le altre vite in greco e la vita in latino che ne dipendono si allontanano già dalla sicura autenticità dei documenti antichi.

Quanto alle Regole, è difficile sapere se siano state messe per iscritto prima della morte del fondatore. Nella traduzione di Girolamo esse si presentano in quattro collezioni non concordate. In copto ne sono stati trovati solo dei frammenti, in greco si hanno solo estratti.

P. è anche l'autore di lettere di linguaggio criptico, tradotte da Girolamo, scoperte recentemente in copto e in greco. Sono state, inoltre, scoperte alcune catechesi copte.

Le Vite fanno di P. un avversario di Origene; nondimeno sembra accertato che nella comunità fossero raccolti i libri " gnostici ", ritrovati a Nag Hammadi, che forse vi erano stati nascosti in occasione di qualche visita canonica.

II. Dottrina mistica. Nella storia della spiritualità cristiana P. è considerato il fondatore del tipo monastico di " vita comune " (koinos bios), che ha per ideale la comunità (koinonia) perfetta descritta in At 2,33 e 4,32. Essa comporta vari aspetti: a. l'unità nello spazio, chiuso con un recinto; il portiere che vi ammette ha anche la funzione quasi di un maestro dei novizi; b. la vita ordinata secondo una comune Regola, quindi uniforme; c. i membri di una grande famiglia spirituale portano un nome comune, la stessa veste e, tranne alcune eccezioni, vige la comunità della tavola e la uniformità dei cibi; d. comunità nella liturgia: i confratelli si riuniscono ogni giorno per una " colletta "; e. comunità nel lavoro; f. la vita è " comune " anche nel senso che è sopportabile da tutti, evita le eccezionali rigorosità dei solitari.

Pio laico, P. non ha una formazione teorica, ma possiede solide nozioni di teologia e di ascetica che gli provengono dalla Bibbia. Nelle sue Catechesi è ben presente la figura di Cristo " pastore delle pecore disperse ", che offre la sua vita in sacrificio. E proprio Cristo, Verbo eterno, che libera la discendenza di Eva dalla schiavitù del diavolo. La vita monastica offre al monaco, attraverso la preghiera, il digiuno, la veglia, l'umiltà, la carità mezzi validi per lottare contro il demonio e il peccato. Rispetto, quindi, all'ascetismo anacoretico, P. sottolinea soprattutto il valore interiore della rinuncia, realizzata nella koinonia, o nell'impegno della vita fraterna.

Uomo di Dio, P. è figura del monaco perfetto, del taumaturgo, del visionario, in breve, dell'uomo che attraverso una dura ascesi, praticata soprattutto nella vita fraterna, perviene alla mistica unione con Dio. Per questo motivo, a giusto titolo, i copti in due inni lo lodano come " aquila grande " (CSCO 107, 140, 142).

Più tardi, il suo ideale sarà ripreso da s. Basilio in Cappadocia e diverrà forma tradizionale del monachesimo della Chiesa.

Bibl. Opere: L.Th. Lefort, Les vies coptes de s. Pachôme, Louvain 1943, 1966; Id., Oeuvres de s. Pachôme et de ses disciples, CSCO 159-160, Louvain 1956; F. Moscatelli, Vita copta di S. Pacomio, Padova 1981; Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti. Introd., trad. e note di L. Cremaschi, Magnano (BI) 1988. Studi: H. Bacht, s.v., in DSAM XII1, 7-15; Monachesimo e Chiesa. Studio sulla spiritualità di Pacomio, in J. Daniélou - M. Vorgrimler, Sentire ecclesiam. La coscienza della Chiesa come forza plasmatrice della pietà, Roma 1964, 193-224; M. Caprioli, s.v., in DES III, 1802-1805; J. Gribomont, s.v., in DIP VI, 1067-1073; R. Kurek, La meditazione della Bibbia presso i monaci pacomiani, in RivVitSp 37 (1983), 53-68; Id. Profilo della comunità pacomiana, in Ibid., 38 (1984), 274-297; V. Monachino, s.v., in EC IX, 511-514; A. Veilleux, s.v., in BS X, 9-20.

T. Spidlík

PADRE. (inizio)

Premessa. " Non avessi conosciuto il Cristo, Dio sarebbe stato per me un vocabolo vuoto di senso. Il Dio dei filosofi e degli eruditi non avrebbe occupato nessun posto nella mia vita morale. Era necessario che Dio s'immergesse nell'umanità e che in un preciso momento della storia, sopra un determinato punto del globo, un essere umano fatto di carne e di sangue, pronunciasse certe parole, compisse certi atti, perché io mi gettassi in ginocchio ". Così confessava lo scrittore francese F. Mauriac nella sua Vita di Gesù (1936), celebrando l'Incarnazione, il mistero centrale della fede cristiana. Molto prima di Mauriac, B. Pascal esaltava non il Dio astratto tanto amato dai filosofi, bensì il Dio che in Gesù Cristo " s'immerge nell'umanità ", si fa carne, parlando e agendo in stretta unità con il P., uomo tra gli uomini. E solo con Dio, P. di Gesù Cristo incarnato, difatti, che l'incontro tra la divinità e l'umanità diventa familiare e si svolge su un piano di paradossale parità. Per questo motivo, i mistici, spezzando l'abitudine a usare il nome di Dio come un vocabolo vuoto, l'hanno riempito del volto paterno di Dio e di quello reale e fraterno di Gesù Cristo.

I. Paternità di Dio nella Scrittura. La credenza nella paternità divina sembra essere estremamente antica e molto diffusa, sia nella preghiera che nel linguaggio delle religioni più sviluppate,1 in particolare nel mondo semitico. Numerosi testi, preghiere ed inni,2 consentono di credere che, sin dai tempi antichi, l'uomo si sia rappresentato la divinità con immagini di parentela, molto spesso con quella di un padre. Questi è invocato come tale, perché si vede in lui un Essere vicino, intimamente inserito nelle alterne vicissitudini della vita umana. Con il tempo questa concezione primitiva dei padri divini, scaturita dal sentimento religioso dell'uomo di tutti i tempi, si è andata via via affinando, fino al momento in cui Dio stesso ha rivelato il segreto del suo vero Essere. All'interno della stessa rivelazione biblica, si constata un'evoluzione sempre più chiara nella rappresentazione della paternità di Dio e delle sue relazioni con ogni uomo.

Occorre ricordare che nell'AT, la paternità divina, all'inizio, è concepita soprattutto in una prospettiva collettiva e storica: Dio è padre di Israele, suo protettore, sovrano benefico che esige sottomissione e fiducia (cf Es 4,22; Nm 11,12). Geremia e Osea sottolineano l'immensa tenerezza di JHWH (cf Ger 3,19; 31,20; Os 11,3ss.). A partire dall'esilio, alcuni salmisti (Sal 27,10; 103,3) e sapienti (Prv 3,12; Sap 2,13-18) considerano ogni singolo giusto figlio di Dio, cioè oggetto della sua tenera protezione.

Tra i libri sapienziali, ad esempio, il Siracide prega così: " Signore, padre e Dio della mia vita... " (23,4). Gli stessi Salmi sono talora intessuti di paterna tenerezza: " Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato ma il Signore mi ha raccolto... Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono " (27,10; 103,13).

Quanto ai profeti, Isaia si esprime così a proposito di Dio: " Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai " (49,15). Ancora lo stesso profeta rivolge a Dio questa reiterata invocazione: " Non essere insensibile perché tu sei nostro padre... Tu, Signore, sei nostro padre... Signore, tu sei nostro padre " (63,15-16).

Anche in Geremia, che riporta un bellissimo soliloquio di Dio, si riscontra una tenera paternità divina: " Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza " (Ger 31,20). E un brano, questo, ove ricorre con chiarezza l'immagine di un Dio che si esprime con sentimenti paterni nei confronti d'Israele, al quale si rivela mettendo a nudo il suo essere più intimo. Nel Dio veterotestamentario sentimenti di paternità e di maternità (" le viscere ", in ebr. rahamim, rehem al singolare, " l'utero " di una donna, rimandano al seno materno) si fondono in un amore totale. Oggetto di tale amore, tenero e viscerale, di Dio P. è ogni uomo che, per questo motivo, non dovrà più sentirsi abbandonato.

In un'altra prospettiva, ma sempre con lo stesso intento, il profeta Osea si raffigura il Signore come un padre che tenta di attirare a sé il figlio piccolo, accostandolo alla guancia per farlo mangiare (11,1-4).

Gesù porta a compimento il meglio della riflessione giudaica sulla paternità di Dio. Pensa ad una comunità (l'orante deve dire " Padre nostro ") composta di piccoli (cf Mt 11,25), ai quali il P. rivela i suoi segreti, e dove ciascuno è personalmente figlio di Dio (Mt 6,4-6.18). A questo nuovo Israele, che rappresenta già l'intera umanità, il P. prodiga i beni necessari (cf Mt 6,26.32; 7,11): anzitutto lo Spirito Santo (cf Lc 11,13), attraverso il quale manifesta la sua immensa misericordia e tenerezza (cf Lc 15,11-32). Dio si rivela P. di ogni umana creatura soprattutto quando ama e perdona.

Gesù nel suo annuncio, però, va al di là della tradizione giudaica: rivela Dio come P. di un Figlio unico, e se stesso come questo Figlio unico. Difatti, Giovanni chiama Gesù l'Unigenito (cf 1,14.18), sottolineando, così, l'unità perfetta delle volontà (cf 5,30) e delle attività (cf 5,17-20) del P. e del Figlio, in breve, la loro reciproca intimità di conoscenza e di amore (cf 5,20.23; 10,15), nonché la loro mutua glorificazione (cf 12,28; 13,31ss.). La fede battesimale fa dei cristiani, partecipi della vita di Cristo, " uno solo in Cristo Gesù " quindi " figli di Dio " ed " eredi secondo la promessa " (Gal 3,26-29), partecipi, con il Figlio primogenito, dell'eredità paterna (cf Rm 8,17.29; Col 1,18). Lo Spirito di Cristo che interiormente muove i cristiani, attesta al loro spirito che sono figli di Dio (cf Rm 8,16) ed ispira in loro la preghiera stessa di Gesù a cui li conforma; anch'essi possono esclamare dal profondo del cuore: " Abbà, Padre! " (Rm 8,15).

La rivelazione di Dio-Padre risulta essere, dunque, il legame che unisce l'AT al NT: il Dio unico veterotestamentario, creatore dell'universo, si presenta nel NT come P. di nostro Signore Gesù Cristo, primo dato del NT. Questa rivelazione sollevò, nei primi secoli della Chiesa, il problema dogmatico più difficile del cristianesimo: la spiegazione, all'interno del monoteismo ereditato dal giudaismo, della divinità del Cristo come Persona distinta dal Dio dell'AT.

Gli scritti del NT offrono già una prima risposta circa la paternità divina: l'espressione " o theós " è riservata al P. di Gesù Cristo. Quest'ultimo preesiste a tutta la creazione in quanto Verbo e Figlio di Dio, quale " irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza " (Eb 1,3). Dio è P. di Gesù Cristo in quanto ha ricevuto da lui la sua vita divina, ed è a questo titolo rivelazione della gloria propria dell'Unigenito del P.

Gesù rivelando l'identità di Dio come P., colloca questa rivelazione all'interno di un mistero ancora più inaccessibile: il mistero trinitario. Dio è P. perché ha un Figlio, Gesù Cristo, che è a sua volta Dio (cf Gv 1,18). Con ciò il fondamento della paternità divina viene collocato su un piano che supera ogni conoscenza razionale. La Trinità divina è il mistero centrale della fede cristiana, e solo a partire dalla Trinità si possono comprendere gli altri elementi dell'insegnamento cristiano.

II. Nella riflessione teologica. 1. Prima del Concilio di Nicea (325). La prima elaborazione teologica su Dio-Padre fu sviluppata nel II secolo dalla gnosi eterodossa. Nella sua eternità, Dio, immerso nella contemplazione del suo proprio pensiero, non era ancora P., ma soltanto Dio. Cominciò ad essere P. quando, liberamente, generò l'Unigenito dal suo proprio pensiero, per creare, per mezzo di lui, il mondo e comunicare così agli uomini la sua vita divina. Questa interpretazione della paternità divina escludeva, però, il carattere divino dell'Unigenito, perché, in realtà, designare Dio come P. significava affermare che egli è Creatore e Signore di tutto (= pantocrator). In breve, Dio viene chiamato P., perché domina tutti gli esseri con la sua onnipotenza creatrice. Questo è il senso della formula " credo in Dio Padre onnipotente " (DS 2,6,9,13,15,54), con la quale iniziano le più antiche professioni di fede.

Gli apologisti del II e III secolo testimoniano la fede della Chiesa in Dio, P. di Cristo, suo Figlio divino, ma la loro teologia della paternità divina è fortemente impregnata di subordinazionismo a motivo dell'influsso della speculazione gnostica: Dio non era P. sin dall'eternità; liberamente e prima del tempo egli generò la sua Parola come persona da lui distinta. La generazione dell'Unigenito era stata da Dio disposta per la creazione del mondo e doveva manifestare Dio agli uomini per mezzo della sua Parola.

Ireneo conferma che il Verbo non è creato, ma non chiarisce il modo in cui è stato generato. Pare, comunque, che egli ritenga la generazione del Figlio più come libera e pretemporale che come eterna. L'Unigenito possiede la visione diretta del P., pertanto, rivela il P. agli uomini. Dio è P. a motivo dell'amore con il quale egli si svela nel suo Figlio incarnato, morto e risorto per amore degli uomini. Dio P., Amore amante, introduce il credente nelle profondità del mistero salvifico-comunionale. Il mistero pasquale è, dunque, cifra della vita divina che è rivelata nella storia della croce e della risurrezione come storia dell'amore trinitario.3 Per mezzo della fede, tale amore del P., rivelato nel Figlio incarnato, consente ai credenti la conoscenza conveniente ai figli adottivi per condurli alla diretta contemplazione di sé e renderli, quindi, partecipi della comunione intratrinitaria, ove la visione del P. sarà la totale divinizzazione dell'uomo.

Molto più chiaramente, Origene afferma che Dio è P. dall'eternità, perché egli genera il suo Verbo personale nell'eternità in quanto gli partecipa la propria sostanza divina. Il P., fonte della divinità, è superiore al Figlio, perché è autotheos. La sua bontà lo porta a comunicarsi. Pertanto, egli genera liberamente, sotto la spinta del suo amore, il Verbo, come immagine del suo pensiero, per poter in lui rivelare e partecipare se stesso agli uomini. Per mezzo dell'Incarnazione, l'uomo Gesù è Figlio di Dio. Gli uomini ricevono la filiazione adottiva come partecipazione alla filiazione divina del Verbo fatto carne.

2. I Padri orientali dal IV secolo sino al VI secolo (particolarmente Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa, Basilio Magno, Cirillo d'Alessandria, Massimo il Confessore) svilupparono molto la teologia della Trinità. Essi continuarono ad affermare la perfetta consostanzialità delle Persone divine e sottolinearono la gerarchia intradivina. L'unità della Trinità ha il suo fondamento nell'unità del suo principio interiore, che è il P., il cui carattere personale è quello di non essere stato generato (aghennesia). Poiché è " principio senza principio ", il P. genera eternamente il suo Verbo, e dal P. e dal Figlio procede lo Spirito Santo. Egli è P., perché non procede da nessun altro e perché in lui hanno origine le altre Persone divine. Il P. è, altresì, la fonte ultima della partecipazione della creatura umana alla vita divina. Difatti, il Figlio di Dio si è fatto uomo per trasformare gli uomini in figli di Dio. Così, diventando P. dell'uomo Gesù, Dio è divenuto P. di tutti gli uomini. L'Incarnazione comporta, dunque, l'elevazione della creatura umana alla filiazione adottiva, cioè alla partecipazione alla vita divina: questa inizia con la fede in Cristo e termina con la visione beatifica del P. In questo modo si arriva ad una profonda concezione della paternità divina: il P., principio senza principio, è altresì il principio ultimo della divinizzazione dell'uomo per mezzo del Cristo nello Spirito. Tale divinizzazione si realizzerà definitivamente, quando l'uomo verrà elevato nello Spirito per mezzo di Cristo all'incontro diretto con Dio P. Più precisamente, la divinizzazione dell'uomo risponde alla logica interna della " umanizzazione ", incarnazione di Dio: 4 si tratta di uno scambio misterioso in cui " ciascuno fa sue le proprietà dell'altro ".5 L'azione dello Spirito Santo, presente nell'intimo del credente, lo mette poi in comunicazione viva con Gesù e con il P.

Ignazio di Antiochia ricorda che i credenti sono " portatori di Dio " (theophóroi),6 " riempiti di Dio " (theou gémete) 7 ecc. Ma è Clemente Alessandrino a dare a questa dottrina chiarezza e precisione, ricorrendo al concetto di divinizzazione: " Il Verbo di Dio si è fatto uomo affinché tu impari da un uomo come l'uomo possa divenire Dio ".8

Atanasio, che pone sullo stesso piano la filiazione adottiva e la divinizzazione dell'uomo, sottolinea come questa assimilazione a Dio non sia un'identificazione: essa infatti non ci fa diventare " come il Dio vero o il suo Verbo, ma quali ci ha voluto il Dio che ci ha conferito questa grazia ".9 In Dionigi Areopagita la divinizzazione rientra nello schema neoplatonico del ritorno a Dio. Massimo il Confessore, a sua volta, utilizza la logica e la fisica di Platone a servizio di una visione teologica del mondo, il cui fondamento è la divinizzazione. Un apporto nuovo viene offerto da Simeone il Nuovo Teologo che insiste sulla presa di coscienza di questo stato.

Due secoli più tardi, Gregorio Palamas farà della divinizzazione il fondamento della sua sintesi teologica. E merito, dunque, dei teologi d'Oriente se questa dottrina è divenuta familiare agli occidentali.

3. I Padri occidentali del IV secolo circa la paternità di Dio non sono completamente liberi dal subordinazionismo, secondo cui il Verbo e lo Spirito traendo origine dal P. non originano, ma sarebbero, in un certo qual modo, a lui subordinati, nel senso di una non perfetta partecipazione della sua natura divina. Ciò nonostante, la dottrina della paternità divina raggiunge una formulazione dogmaticamente perfetta negli scritti di Ilario di Poiters: è proprio del P. generare eternamente il suo Unigenito, comunicandogli completamente la sua sostanza divina. L'Incarnazione è l'opera liberamente voluta dall'amore divino del P. In Cristo, Dio diventa e si manifesta come P. degli uomini.

Quanto ad Agostino, il suo insegnamento sulla paternità divina non collima perfettamente con l'insegnamento dei Padri greci. Il vescovo di Ippona parte piuttosto dall'unicità della natura divina come fondamento della consostanzialità delle Persone divine, pur accettando la processione dello Spirito Santo ’dal Padre e dal Figlio'. Pertanto, egli non sottolinea abbastanza la gerarchia interna delle Persone divine nonché il carattere proprio del P., come vertice della Trinità. Il merito principale della dottrina trinitaria agostiniana, invece, consiste nell'affermare che nell'anima umana si trovano tracce delle processioni intradivine. Dio è P. in quanto egli, con la sua intelligenza, genera dall'eternità il suo Verbo e con la sua volontà spira eternamente lo Spirito, è vincolo di amore (vinculum caritatis) che il P. nutre verso il Figlio. L'Incarnazione è per Agostino essenzialmente un evento salvifico, per il quale il P. eterno è divenuto contemporaneamente P. di Cristo e degli uomini. Così, il Cristo della gloria sarà eternamente il rivelatore del P. Gli uomini risorti dalla morte e partecipi della gloria celeste contempleranno alla fine dei tempi il P. in Cristo Gesù.

4. I teologi medievali sviluppano due distinte concezioni della paternità divina. La prima, che è molto vicina all'insegnamento dei Padri greci, ha i suoi principali rappresentanti in Riccardo di San Vittore, in Alessandro di Halès ( 1245) e in altri, e raggiunge il suo acme in s. Bonaventura. L'unità interna della Trinità trova le sue radici nel P. Il motivo più profondo della fecondità del P., che costituisce il primo fondamento del suo carattere personale, è che è increato. Ma sono la generazione e la spirazione attiva che fanno definitivamente del P. una persona. Il P. è la plenitudo fontalis delle processioni intradivine. Egli è la pienezza della sua sostanza.

Il secondo indirizzo s'ispira molto ad Agostino; proposto innanzitutto da Pietro Lombardo ( 1160), da Alberto Magno e da altri, trovò la sua forma definitiva in Tommaso d'Aquino. La consostanzialità delle Persone divine ha il suo fondamento nell'unità della natura divina. La persona del P. è costituita unicamente dalla relazione sussistente della generazione attiva - ed in questo si distingue dal Figlio -, e dalla spirazione attiva, per la quale si distingue dallo Spirito Santo. Ciò che costituisce il P. come P., è la relazione sussistente che risulta dalla comunicazione sostanziale di sé.

Quasi tutti i teologi medievali si espressero a favore di una possibile incarnazione del P., anche se ritenevano molto conveniente l'incarnazione del Verbo. Essi consideravano tale incarnazione come evento salvifico-comunionale: la gratia capitis è propria dell'uomo Gesù Cristo, Figlio di Dio. La giustificazione è una partecipazione alla grazia di Cristo, che rende l'uomo figlio adottivo di Dio nello Spirito.

La teologia post-tridentina si andò sviluppando quasi esclusivamente nella linea di s. Agostino e di s. Tommaso.

Più o meno recentemente viene sottolineata l'importanza salvifica dell'Incarnazione, per la quale Dio è diventato P. di Cristo e in Cristo P. degli uomini. Si è anche riflettuto sul ruolo di Cristo nella gloria, come rivelatore del P. L'attività del Cristo quale rivelatore del P. viene fortemente sottolineata nel Vangelo di Giovanni. Cristo conosce Dio non nella fede, ma nell'esperienza misteriosa della sua unione con ’suo P.'. Solo l'’Unigenito', che vede il P., lo può rivelare agli uomini (cf Gv 1,14-18; 6,46, ecc.). Nel momento in cui Gesù di Nazaret si rivelava agli uomini come Figlio di Dio, egli rivelava allo stesso tempo il mistero del P. L'Incarnazione comporta così, per mezzo del Verbo incarnato, la rivelazione del Dio P. Per questo motivo, la Dei Verbum afferma: " Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al P. e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa rivelazione, infatti, Dio invisibile (cf Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cf Es 33,11; Gv 15,14-15) e s'intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della rivelazione avviene con eventi (o gesti) e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la creazione " (n. 2).

III. L'esperienza di Dio Padre nei mistici. Che in Dio si trovino compresenti gli attributi di padre e madre lo avevano già colto Clemente Alessandrino in Oriente e Agostino in Occidente. Il primo precisa che Dio " per la misericordia con cui ci circonda è madre. Amandoci, il P. è come se rivestisse un ruolo femminile ".10 A sua volta Agostino, dopo aver citato il versetto del salmo 26: " Il padre mio e la madre mia mi hanno abbandonato ", aggiunge: il salmista " si è fatto fanciullo davanti a Dio; ed egli stesso si è fatto padre, si è fatto madre ".11

A fondare il duplice attributo della paternità e della maternità divine è l'antropomorfismo del linguaggio biblico, sul quale ha richiamato l'attenzione Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem: " Se c'è somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia ’maschili' sia ’femminili' " (n. 8).

Indagare sul senso di Dio-Padre come profondità misteriosa e fontale nei mistici, significa ritrovare la nozione di P. quale appare nella Scrittura e in particolare nel Vangelo, oltre che nella riflessione teologica. I mistici hanno profonda coscienza - sul piano esperienziale - del disegno storico di salvezza di Dio P., percepito come vita-amore che il P. racchiude nel suo seno e che, senza uscire da sé, esprime nella generazione del Figlio e nella processione dello Spirito. Non vi è, dunque, per i mistici, alcuna distanza tra la percezione del mistero divino in se stesso e quella della sua comunicazione nel tempo. Una simile immediatezza caratterizza diverse esperienze mistiche, profondamente segnate dal rapporto, costitutivo ed essenziale, con la Trinità.

Giovanni Cassiano, discepolo in Oriente e maestro in Occidente, nel solco della tradizione biblica, dopo aver descritto il comportamento che " una madre tutta amore e premura " ha verso il proprio figlio, dalla fanciullezza alla giovinezza, conclude: " Il Padre nostro che sta nei cieli sa molto meglio di ogni madre chi è che deve portare sul seno della sua grazia, chi deve esercitare sotto i suoi occhi nella virtù, lasciandolo arbitro della sua volontà. Ma quando anche lo lascia a sé, continua ad aiutarlo nelle fatiche, ascolta i suoi richiami, non si nasconde quando è cercato, giunge fino a liberarlo dai pericoli, senza che quello se ne accorga ".12

Nella riflessione di alcuni mistici medievali, Dio è visto come grembo che porta gli uomini, per sottolineare l'unione dell'anima con la divinità. Altrove, ci s'imbatte in passi che rievocano il simbolo del parto, per porre l'accento sulla sofferenza e sulla morte redentrice attraverso cui dovette passare il Cristo: una morte che genera la vita, idea del resto già ripresa dal Cristo stesso dal mondo vegetale, dove il seme muore per dar vita alla pianta. Difatti, Anselmo d'Aosta, ricorrendo alla metafora materna, si esprime così: " Ma anche tu Gesù, Signore buono, non sei anche tu madre?... Tu per primo..., sei morto e morendo hai partorito... Signore Dio, Tu sei dunque più madre ".13

Analoghe sottolineature si ritrovano nelle Rivelazioni di Giuliana di Norwich. Questa dichiara di aver inteso " tre modi di contemplare la maternità in Dio. Il primo è considerare il fondamento della creazione della nostra natura, il secondo è l'assunzione della nostra natura, e qui comincia la maternità della grazia, il terzo è la maternità nell'operare ".14 E per quanto riguarda la maternità di Dio, scrive: " E così io vidi che Dio è contento di essere nostro padre, e Dio è contento di essere nostra madre... Come Dio è veramente nostro padre, così Dio è veramente nostra madre: questo mi fu mostrato in tutte le rivelazioni, ma particolarmente in quelle dolci parole in cui dice: ’Io sono', cioè ’sono io la forza e la bontà della paternità, sono io la sapienza e la gentilezza della maternità... ".15

Altre esperienze mistiche, molto concrete, sono incentrate sulla comunicazione delle Persone tra di loro. Per esempio, l'esperienza di Maria Maddalena de' Pazzi che vede le tre Persone divine " influirsi l'una l'altra li sua divini influssi con modo indicibile. Il P. influiva al Figliuolo el Figliuolo rinfluiva nel P. Influiva ancora esso P. et Figliuolo allo Spirito Santo; et esso Spirito Santo rinfluiva nel P. e nel Figliuolo, e continuamente vedeva mandarsi essi divini influssi ".16

A queste esperienze mistiche che riportano le comunicazioni intratrinitarie, si possono aggiungere quelle che parlano delle funzioni proprie alle singole Persone nelle operazioni extratrinitarie. Ricollegandosi in questo a Caterina da Siena, che parla della Trinità non in termini teologici ma per mistica intuizione, Maria Maddalena de' Pazzi afferma: " Al P. s'appartiene la potentia con la gubernatione; al Verbo la sapientia con la comunicazione; allo Spirito Santo la bontà co' sua influssi e tranquillità ".17

Accanto a questo accesso più concreto al mistero, ne troviamo un altro che si potrebbe definire mistico-esperienziale, perché esprime con linguaggio umano uno spaccato di vissuto interiore. Così, ad esempio, Teresa d'Avila " vede che queste tre Persone sono distinte; poi, per una conoscenza mirabile concessa all'anima, comprende con grandissima certezza che queste tre Persone sono un'unica sostanza, un'unica potenza, un'unica sapienza, un unico Dio "; e, per sottolineare che si tratta di un'esperienza profonda, la santa aggiunge: " Di modo che ciò che teniamo per fede, qui l'anima lo comprende, per così dire, per la vista, anche se non si tratta di una vista degli occhi del corpo o dell'anima, poiché non è una visione immaginaria ".18

Diversi altri testi mostrano il rapporto tra Teresa d'Avila e Dio P., sorgente di vita spirituale e termine di essa: " Il Signore mi disse: ’Il P. mio si compiace in te' "; 19 " Il Signore mi levò in spirito dinanzi al P. e gli disse: ’Colei che mi desti, ecco io ti dò' ";20 " Mi parve che la persona del Padre mi attirasse a sé e mi dicesse: ’Io ti ho dato mio Figlio, lo Spirito Santo e la Vergine. E tu che mi puoi dare in cambio?' ".21 Ricevendo la santa Comunione, Teresa sottolinea che " il corpo sacratissimo di Cristo viene ricevuto all'interno dell'anima dallo stesso suo P. (...) che gradisce molto l'offerta che gli facciamo di suo Figlio, perché gli si offre la possibilità di trovare in lui le sue delizie e le sue compiacenze anche sulla terra ".22

Ma il simbolo paterno è sottolineato dalla mistica d'Avila soprattutto nella relazione tra l'anima e Dio: " Rendiamoci conto che vi è dentro di noi un palazzo di grandissima ricchezza... e in questo palazzo abita questo grande Re che si è degnato di essere vostro P. e che siede su un trono di grandissimo valore, il vostro cuore ".23 E vero che il simbolo del P., senza essere frequente, non è del tutto raro in Teresa, ma esso si applica il più delle volte al rapporto che il P. intrattiene con il Figlio Unigenito. Difatti, nel Cammino di perfezione, iniziando il commento della Preghiera domenicale, la santa annota subito: " O mio Signore, come è vero che sei il P. di un tale Figlio, e tuo Figlio, il Figlio di un tale P.! ",24 La contemplazione, che si fonda su questa meravigliosa verità, dovrebbe costituire per Teresa il termine della preghiera insegnata dal Signore: " Oh! Come verrebbe bene qui trattare della contemplazione perfetta! Oh! Quanto avrebbe ragione l'anima di entrare in sé per poter meglio elevarsi al di sopra di sé, avendole il Figlio dato di comprendere qual è il luogo dove si trova il P. suo che è nei cieli ".25 Con parole molto semplici, Teresa spiega, in seguito, come tutto il rapporto tra la creatura umana e il P. si fondi sull'interiorità reciproca del Figlio al P. e di ogni uomo con il Figlio, lui che ha assunto la natura umana e si è fatto nostro fratello. Certo, ella non si dilunga sullo sviluppo di una dottrina così essenziale, perché il suo intento è soprattutto pratico. Ma non può, comunque, passare sotto silenzio ciò che il Vangelo di Giovanni rivela del mistero delle relazioni dell'anima, dimora di Dio, con le Persone divine; ecco perché aggiunge: " Per disperso che sia il vostro pensiero, non può darsi che fra un tale Figlio e un tale P. non vi sia che lo Spirito Santo: possa egli colmare d'amore la vostra volontà e incatenarvi con un amore tanto grande, nel caso per questo non bastasse la considerazione del nostro interesse ".26

Come ispirata, Teresa aveva, altresì, notato la corrispondenza fra il mistero dell'Incarnazione e la nostra condizione incarnata.27 Per ogni creatura umana che aspira all'unione con Dio, la mediazione dell'umanità di Cristo è il mezzo connaturale della contemplazione: " Chi vede me, vede il P. " (Gv 14,9). Ciò vuol dire che non si può penetrare nel mistero di Dio P. senza passare necessariamente attraverso l'umanità sacratissima del Cristo: " Separarsi da ciò che è corporeo per bruciare continuamente di amore è proprio degli spiriti angelici, non di noi che viviamo in un corpo mortale... Non dobbiamo separarci dalla sacratissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo, unico nostro bene e rimedio. Non posso credere che alcuni facciano così; è solo che essi non capiscono, e così essi nuoceranno a sé e agli altri. Posso dire, se non altro, che essi non entreranno mai nelle due ultime mansioni perché, perduta la guida che è il buon Gesù, non riusciranno a trovare la strada. Sarà già molto se potranno stare nelle altre mansioni con sicurezza. Non dice forse il Signore che egli è la via? Non afferma che egli è luce e che nessuno può andare al P. se non per lui? E queste altre parole: Chi vede me vede il P. mio? Diranno che bisogna dare un senso diverso a queste parole. Io non conosco altre spiegazioni: con questa io mi sono trovata sempre assai bene, e la mia anima sente che è vera ".28

Qualche barlume del mistero trinitario, Teresa lo aveva avuto durante la stesura del libro della Vita. Ma le prime esperienze risalgono al 1571 e crescono fino all'ultima fase della sua esistenza terrena, quando la compagnia della Trinità non l'abbandona mai. Illustrazione conoscitiva e comunicazione vitale sono le due dimensioni di tale esperienza. Innanzitutto, la scoperta della Trinità dentro di sé 29 illustrata dall'evidenza della promessa fatta dal Cristo: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il P. mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui " (Gv 14,23). Nella visione, Teresa percepisce la comunicazione personale che ciascuna Persona divina ha con lei e con le creature tutte. Entra, poi, in una conoscenza superiore del mistero di Dio uno e trino; con parole ardite ed impeccabile precisione teologica descrive quanto vede: tre Persone, una sola natura; e tra le Persone, delle quali solo il Figlio ha assunto la carne umana, una comunione d'amore, di volontà e di beatitudine; è la divina circuminsessione, il cerchio d'amore intratrinitario che le si apre perché ella vi possa entrare fino al grembo del P.30 Al vertice della comunione divina, partecipatale per grazia, Teresa comprende le parole di Gesù nell'Ultima Cena (cf Gv 17,20.23); così, con l'ardire del profeta, indica la certezza di un ritorno a questa dimora divina " dove è scolpita la nostra immagine ".31 Al centro del mistero intratrinitario, Cristo-Sposo rimane il rivelatore e il mediatore: è lui solo e solo lui che conduce Teresa nel grembo del P. celeste. La mediazione dell'umanità del Cristo porta inevitabilmente alla pienezza della divinità del P.

Più o meno similmente a Teresa d'Avila si esprime Maria dell'Incarnazione a proposito dell'esperienza trinitaria: " In quel momento tutte le potenze della mia anima furono bloccate e patirono l'impressione che era loro data di quel sacro mistero, impressione che non aveva forma né figura, ma che era più chiara e intelligibile di qualsiasi luce, e ciò mi faceva conoscere che la mia anima era nella verità. Tale impressione in un momento mi fece vedere le divine comunicazioni che hanno fra loro le tre divine Persone: l'amore del Padre che contemplando se stesso genera il Figlio, ciò che è stato da tutta l'eternità e sarà eternamente... [La mia anima] poi, intendeva l'amore mutuo del P. e del Figlio che produce lo Spirito Santo, il che avveniva per una reciproca immersione di amore, senza mescolanza né confusione. Io ricevevo l'impressione di questa produzione, comprendendo quel che significa spirazione e produzione... Vedendo le distinzioni, conoscevo l'unità di essenza fra le tre Persone divine; e, benché abbia bisogno di varie parole per dirlo, in un momento, senza intervallo di tempo, conoscevo l'unità, le distinzioni e le operazioni in se stesse e all'esterno. Tuttavia, in un certo modo spirituale, ero illuminata per gradi, secondo le operazioni esterne delle tre divine Persone, e non c'era nessuna confusione in ciascuna conoscenza delle cose che mi erano fatte intendere, e tutto avveniva in una purità e in una chiarezza indicibili ".32

Non in termini di paternità divina, bensì di partecipazione alla vita intratrinitaria, si possono comprendere i testi di Giovanni della Croce. Nel Cantico spirituale il mistico spagnolo, per esempio, afferma che lo Spirito Santo eleva l'anima in modo sublime, informandola " affinché essa spiri in Dio la stessa spirazione d'amore che il P. spira nel Figlio e il Figlio nel P., che è lo stesso Spirito Santo che essi spirano nell'anima in tale trasformazione ".33 Tale esperienza, che si svolge in un clima affettivo molto intenso, è una vera partecipazione alla spirazione d'amore del P. e del Figlio, perché figli di Dio e in quanto tali partecipi della vita divina. E importante notare, tuttavia, che tale partecipazione deriva dall'attività dell'amore. Lo spiega molto bene il santo spagnolo quando scrive: " Essendo [l'anima] l'ombra di Dio per mezzo di questa trasformazione sostanziale, essa fa in Dio, per l'intervento di Dio, ciò che Dio fa in essa per se stesso, e allo stesso modo di lui, perché come la volontà di entrambi è una sola, così l'operazione di Dio e la sua è una sola ".34

In questo senso bisogna leggere il mirabile capitolo in cui il Dottore mistico contempla tutte le realtà come racchiuse nel mistero di Cristo: " Donandoci come ci ha dato il suo Figlio come sua unica Parola - non ne possiede infatti altre - ci ha detto tutt'insieme in una sola volta in questa unica Parola, e non parla oltre ".35 L'evento dell'Incarnazione redentrice del Figlio contiene tutto il disegno del P. nella sua realizzazione storica. Quando sulla croce il Cristo ha detto " Tutto è compiuto (Gv 19,20) ",36 compiva tutte le preparazioni dell'AT. Del resto, nell'evento pasquale era già racchiuso l'insieme del mistero della ricapitolazione: ciò che è avvenuto nel Cristo, avviene al presente per la sua Chiesa che è il suo Corpo mistico: " La tua stessa bellezza sarà mia. Ecco l'adozione dei figli di Dio che diranno in verità ciò che il Figlio diceva in san Giovanni: ’Omnia mea tua sunt et tua mea sunt' (Gv 17,10), il che vuol dire: ’P., tutto ciò che è mio è tuo e tutto ciò che è tuo è mio'. Lui, per essenza, essendo Figlio per natura, noi per partecipazione, essendo figli adottivi; egli ha dunque parlato non soltanto per sé, lui che era il capo, ma per tutto il suo corpo mistico che è la Chiesa ".37 Tutto il mistero della fede, dalla creazione nel Verbo fino alla consegna del regno del P., ultima condizione perché Dio sia tutto in tutti (cf 1 Cor 15,24-28), si realizza perciò nel Cristo in cui abita corporalmente la pienezza della divinità (cf Col 2,29).38

E importante notare che la finalità propria della ricerca umana del volto di Dio P., per Giovanni della Croce, non si pone a livello dell'unione mistica, ma su quello della vita eterna che è visione e possesso. Dinanzi al tutto di Dio - Todo - la creatura umana (nada) arde dal desiderio di vedere l'essenza divina e possedere Dio P., il divino Trascendente. Questo Dio desiderato non è un Dio astratto, quindi, ma Dio nella Trinità delle Persone. Commentando, infatti, il versetto del Cantico dei Cantici: " Dimmi dove ti pasci, dove riposi al meriggio " (1,7), Giovanni della Croce lo intende come una domanda rivolta al P.: " Domandargli dove si pasce era domandargli di mostrare l'essenza del Verbo divino, perché il P. non si glorifica né si pasce in altro che nel Verbo, il suo unico Figlio; e domandargli dove riposa al meriggio, era domandargli la stessa cosa, perché il P. non si riposa né è contenuto in altro luogo che nel suo Figlio, nel quale si riposa, comunicandogli tutta la sua essenza al meriggio, vale a dire nell'eternità dove sempre lo genera ".39 Ecco perché, pur essendo comodo distinguere nell'esperienza mistica quella che s'incentra sulla nozione di essenza e quella che mette in rilievo il rapporto sponsale, è chiaro che, per il Dottore mistico, una simile distinzione non può caratterizzare l'esperienza concreta: il Figlio di Dio, consostanziale al P., è lo Sposo dell'anima; per quest'ultima, desiderare di possedere lo Sposo e vedere l'Essenza divina appartengono allo stesso movimento che la porta verso Dio.

E possibile comunicare al divino Trascendente solo attraverso un'unica via: " Il Verbo, insieme al P. ed allo Spirito Santo, è essenzialmente nascosto nel centro intimo dell'anima ".40 Diventa, dunque, necessario convertirsi all'interiorità e mettersi alla ricerca di una unione essenziale d'amore. Il santo spiegherà, nei suoi scritti, come l'amore sia capace di superare la distanza infinita, secondo l'affermazione di Paolo: " L'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio " (Ef 3,19); per questo l'anima, attraverso una radicale purificazione, deve uscire dalla sua condizione bassa, creaturale, imperfetta per trovare Dio in modo adeguato: " Uscii da me stesso, cioè dal mio basso modo d'intendere e dalla mia debole capacità di amare e dalla mia povera e meschina maniera di gustare Dio ".41 L'anima deve, dunque, uscire da se stessa attraverso l'esercizio delle - virtù teologali che purificano e uniscono - per incontrare il Dio di Gesù Cristo.

La dialettica sanjuanista di confronto e di opzione tra il tutto di Dio e il nulla della creatura trova la sua conclusione nell'unione trasformante dell'anima in Dio per amore e per grazia.42 L'uomo, che possiede " l'essere soprannaturale " 43 a partire dal battesimo, resta elevato a un piano superiore nel quale può comunicare con Dio sino ad arrivare a inserirsi nella sua vita intratrinitaria.44

Se sul piano naturale risulta impossibile l'incontro attraverso una conoscenza e un amore limitati in un ambito finito e limitato, la presenza per grazia rende possibile lo svelamento autentico di Dio, così com'egli è. L'anima può " vederlo nel suo divino essere e nella sua bellezza ",45 nel suo volto di P.

Una descrizione della comunicazione intratrinitaria in se stessa la ritroviamo anche in Ignazio di Loyola. " Al Te igitur, si legge nel suo Diario spirituale, sentendo e vedendo in modo non oscuro, ma luminoso e molto luminoso, l'essere stesso o essenza divina in forma sferica, un po' più grande del sole apparente, e da questa essenza pareva uscire o derivare il P., di modo che al pronunciare Te, cioè Pater, l'essenza divina mi si presentava prima del P.; e in questo rappresentarmi e vedere l'essere della SS.ma Trinità, senza distinzione o senza visione delle altre Persone, tanta devozione alla cosa rappresentata, con molte mozioni ed effusioni di lacrime; continuato così durante la Messa a considerare, a ricordarmi, e altre volte a vedere la stessa cosa con molta effusione di lacrime, con amore intensissimo verso l'essere della SS.ma Trinità, senza vedere né distinguere le Persone, ma vedendo da esso uscire o derivare il P., come ho detto ".46

Se si passa ad un'altra esperienza, quella di Teresa di Lisieux,47 si può notare come la misericordia di JHWH venga da questa descritta sotto forma dell'amore paternomaterno. Con questo si entra nel cuore della dottrina spirituale di questa giovane santa che amava citare Isaia: " Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai " (49,15). E la neo-dottore aggiunge: " Che promessa stupenda! Ah, noi che viviamo nella legge dell'amore, come non approfitteremo delle proposte d'amore che ci fa il nostro Sposo? ".48 Poi, dinanzi al testo di Isaia 66,12-13: " I suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò ", attesta la sua reazione la prima volta che lo legge: " Ah! mai parole più tenere, più armoniose hanno rallegrato l'anima mia ".49

La realtà della paternità di Dio fu, dunque, per Teresa una fonte inesauribile di fiducia, di forza e di gioia. Amava tanto le parole che Gesù ci ha insegnato: P. nostro che sei nei cieli.50 Il Pater è una preghiera che la nutre e la rapisce.51 Un giorno la si trovò con le lacrime agli occhi: " Sto meditando il Padre nostro, è così dolce chiamare Dio ’nostro P.' ".52 Di tale P. celeste ella si percepiva figlia prediletta, oggetto del suo amore preveniente.53

Tuttavia, Teresa non pensa certamente sempre alla prima Persona della Trinità; molte volte il P. per lei è Gesù, rivestito di tanta bontà paterna. Per esempio nella Poesia 36: 54 " In Te, che alle madri creasti il cuore il più tenero dei Padri io ritrovo . Gesù, mio solo Amore, Eterno Verbo, più che materno è il cuor tuo per me ". La pietà di Teresa ha subito in questo senso un'evoluzione: prima Dio era per lei soprattutto Gesù, visto come Sposo. Nel periodo dell'infanzia spirituale, Dio resta Gesù ma, senza cessare di essere sposo, si riveste di attributi paterni, diviene come un P. Teresa resta la sposa, ma diventa sempre più una piccola sposa, come una bambina in braccio a suo P.

Ciò che sorprende nella vita della beata Elisabetta della Trinità, - ultima esemplificazione per confermare l'esperienza della paternità di Dio nell'esistenza teologica dei mistici - è la sua meravigliosa unità di fondo, costituita dall'esperienza dell'inabitazione trinitaria, sotto la guida dello Spirito.55 Ed è proprio sotto l'influsso dello Spirito che ella comprende e gusta la parola della Sapienza eterna. Proprio il contatto con la Parola divina le consente di comprendere che i " figli di Dio sono mossi dal suo Spirito " (cf Rm 8,14) e che è in virtù dello Spirito di adozione che può gridare: " Abbà, P. " (Rm 8,15).57 Per questo, si abbandona ogni giorno di più alla sua azione. Desidera agire non più da sé, ma fare tutto " secondo il consiglio della volontà del P. " (cf Ef 1,11), mettendo a tacere il suo carattere impulsivo, per " ascoltare " la Parola fatta carne. " O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio farmi tutta docilità per imparare tutto da te... ": quest'espressione molto densa dell'Elevazione rappresenta quello spazio di accoglienza sempre più profonda della Trinità nella vita di Elisabetta. In questo arcano contatto soprannaturale, ove l'accompagna Paolo, " Padre della mia anima ", con la purezza del cuore e gli occhi semplici del bambino, la giovane carmelitana penetra nel mistero del Dio Trinità d'amore. E la mistica inabitazione delle Persone divine, sperimentata nelle fibre più intime del suo essere ed esistere.

Nell'agosto del 1905 scriveva alla sorella Margherita: " Ho appena letto in san Paolo cose splendide sul mistero dell'adozione divina... Ascolta: ’Dio ci elesse in Cristo prima della creazione del mondo... predestinandoci ad essere suoi figli adottivi... a lode dello splendore della sua grazia' (Ef 1,4-6). Ciò significa che nella sua onnipotenza, Dio sembra non poter far nulla di più grande... Ascolta ancora: ’Se siamo figli, siamo anche eredi' (Gal 4,7). E qual è questa eredità? ’Il P. ci ha fatti capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce' (Col 1,12). Poi, come per dirci che questo non è un lontano avvenire, l'Apostolo aggiunge: ’Non siete più stranieri né pellegrini ma concittadini dei santi e familiari di Dio' (2,19). E ancora: ’Siamo cittadini dei cieli' (Fil 3,20)... Questa casa del P. nostro è nel ’centro della nostra anima'... Non ti pare che ciò sia tanto semplice, tanto consolante? Attraverso tutte le cose, in mezzo alle sollecitudini materne... puoi ritirarti nella solitudine per abbandonarti allo Spirito Santo perché ti trasformi in Dio... ".58 Si può, dunque, affermare che Elisabetta sia stata una perfetta immagine della storia eterna dell'Amore intratrinitario, in quanto riflesso dell'unità comunionale ed essenziale della vita divina. Sta qui il valore profondo della sua testimonianza esperienziale dell'invisibilità del divino Trascendente nella storia visibile e nascosta della sua esistenza teologica.

Conclusione. " P. celeste, nella tua mano tieni le anime nostre a te affidate, quelle dei vivi e quelle di coloro che sono morti. Nella tua mano con amore tu tieni lo spirito divino di ogni creatura viva. A te, Signore, Dio di verità, a te, ecco io affido lo spirito che è in me. P. celeste, uno solo è il tuo nome, immutabile sei, la tua esistenza, il tuo regno sono eterni e in eterno regnerai su di noi ". Alla sera, dopo aver recitato la preghiera dello Shema', l'" Ascolta, Israele ", il pio ebreo conclude la giornata con questa dolce invocazione, simile ad una continua professione di fiducia in Dio P., colui - come dice Giobbe (12,10) - che tiene in mano l'anima di ogni vivente, il respiro di ogni carne umana ". In sintonia con la comune fede biblica, i mistici di tutte le stagioni hanno fatto propria questa preghiera che, per un verso, è celebrazione della signoria assoluta di Dio, e per un altro è espressione dell'abbandono totale nelle braccia del P. di ogni bontà. Il testo ebraico, infatti, cita il salmo 31,6, lo stesso che Gesù pronuncerà prima della sua morte, secondo la testimonianza di Luca: " P., nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò " (23,46).

Note: 1 Si pensi ai siro-babilonesi che avevano instaurato un rapporto di tipo familiare con la divinità, tanto che ai loro dèi davano il titolo di padre e così li acclamavano nei riti e nelle preghiere; 2 Cf a questo proposito A.M. Di Nola, La preghiera dell'uomo, Roma 1988 e P. Miquel - M. Perrini, Preghiere dell'umanità, Brescia 1993; 3 Sulla teologia del Padre, oltre alle opere generali di teologia trinitaria, cf L. Bouyer, Il Padre invisibile. Approcci al mistero della divinità, Roma 1979; M.-J. Le Guillou, Il mistero del Padre, Milano 1979; A. Milano, Padre, in NDT, 1067-1096; 4 Cf Ireneo di Lione, Adversus haereses 3,19,1: PG 7,939b; 5 Teodoro di Ancira, In nativitatem 5: PG 77,1356bc; 6 Ignazio di Antiochia, Ad Ephesios 9,2; tr.it. nel volume I Padri apostolici, Roma 1976; 7 Id., Ad Magnesios 14,1; tr.it. Ibid.; 8 Clemente Alessandrino, Protrepticos 1,8; 9 Atanasio, Contra Arianos, 3,19: PG 26,361c-364a; 10 Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur, 37: PG 9,641; 11 S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 26, 2,18; 12 Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali, 13,14; 13 Anselmo d'Aosta, Orazione X a san Paolo, in Id., Orazioni e meditazioni, a cura di I. Biffi e C. Marabelli, Milano 1997, 279. Occorre notare a questo proposito che Anselmo, il quale nel Monologion sostiene l'inopportunità di chiamare Dio madre poiché l'uomo è superiore alla donna e il padre contribuisce al processo della riproduzione più della madre, in questa Orazione sopra riportata c'è un passo in cui Paolo e Gesù fanno rifiorire l'anima nel loro seno; 14 Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, Milano 1984, 255; 15 Ibid., 231 e 254; 16 Maria Maddalena de' Pazzi, Colloqui, in Tutte le opere, I, 114: citato in B. Secondin, Gesù Cristo-Chiesa-vita religiosa, Roma 1974, 306; 17 Ibid., 308; 18 Castello interiore VII, 1,6; 19 Relazione 13; 20 Ibid. 15; 20. Ibid. 25; 21 Ibid. 57; 22 Cammino di perfezione 28,9; 23 Ibid. 27,1; 24 Ibid.; 25 Ibid. 27,7; 26 Cf Vita 22,10-11; 27 Castello interiore VI, 7,6; 28 Cf Relazione 15,18; Castello interiore VII, 1,6; 29 Cf Relazione 33 e 25; 30 Castello interiore VII, 2,7-8; 31 Cf Relazione 15,3; 32 B. Maria dell'Incarnazione, Autobiografia mistica, a cura di Ch.-A. Bernard, Cinisello Balsamo (MI) 1987, 78-79; 33 Cantico spirituale A 38,2; 34 Fiamma viva d'amore III, 78; 35 Salita del Monte Carmelo II, 22,3; 36 Ibid., 22,7; 37 Cantico..., o.c. 35,5; 38 Cf Salita..., o.c. II, 22,6; 39 Cantico..., o.c. 1,3; 40 Ibid. 1,4; 41 Notte oscura II, 4,1; 42 Cf Salita..., o.c. II, 5,4; 43 Cf Cantico spirituale B 22; 44 Cf Ibid. 38-39; 45 Ibid. 11,3; 46 Diario espiritual, 6 marzo 1544, n. 121, in San Ignacio de Loyola, Obras completas, Madrid 1963, 351; 47 " Teresa - scrive von Balthasar - lascia piuttosto in disparte il dogma della Trinità. Ella conosce senz'altro questo dogma e vi fa riferimento in momenti decisivi... Ma, al di là di questo, solo due Persone appaiono effettivamente concrete: il Figlio fatto uomo, sofferente e redentore, che invita a collaborare alla sua opera e al quale si può offrire tutto il proprio amore, e il Padre. Però non tanto il Padre trinitario nelle sue relazioni con il Figlio e lo Spirito, quanto colui che rappresenta la bontà, la misericordia divina, il Padre fra le cui braccia ci si sente protetti e verso il quale ogni figlio rivolge lo sguardo, il Padre che è come il prolungamento celeste dell'amato padre terreno... " (Sorelle nello spirito. Teresa di Lisieux e Elisabetta di Digione, Milano 1974, 214); 48 Lettera 191; 49 Manoscritto C 3ro; 50 Cf Lettera 101 e 127; 51 Cf Manoscritto C 25vo; 52 Manoscritto A 39ro; 53 Cf Ibid.; 54 Poesia 36: Solo Gesù!; 55 " Elisabetta, infatti, più che all'ombra del mistero della Trinità, sta in quello dello Spirito Santo, nella luce da lui proiettata sul mistero dell'incarnazione e della redenzione, nella esaltazione esclusiva della rivelazione storica e salvifica della Trinità... Da brava carmelitana, ella sceglie come suo posto quello di Maria di Betania: immobile ai piedi... del Kyrios risorto e glorificato... Elisabetta non si sente teologa... La sua forza sta nel... contemplare..., nell'affondare lo sguardo nelle profondità della semplice Parola che la appaga pienamente e di cui non riesce a scandagliare gli abissi... Elisabetta non vuole teologia, ma adorazione; adorazione della Parola in quanto rivelata, e per questo è necessaria una contemplazione della Parola stessa, sostenuta da quel ’senso di Dio', che viene infuso nel credente... Elisabetta appartiene a [quella] categoria di apostoli che militano sulla frontiera tra il visibile e l'invisibile; nell'invisibile della contemplazione, verso cui deve condurre un'azione visibile; nell'invisibile della vita, verso cui deve indirizzare una certa visibilità del pensiero, che ha funzione di sorgente... " (Sorelle nello spirito..., o.c., 264-265 passim); 56 Cf Il cielo nella fede (=CF 31), g. IX, 1a; 57 Lettera 239.

Bibl. Aa.Vv., Dio nella Bibbia e nelle culture ad essa contemporanee e connesse, Leumann (TO) 1980; Aa.Vv., Dios es Padre, Salamanca 1991; Aa.Vv., Père, Fils, Esprit Saint, in VieSp 55 (1974), tutto il numero; Aa.Vv., Dio come Padre, in Con 16 (1981) 3, tutto il numero; J. Alfaro, Dio Padre, in DT I, 468-478; Ch.-A. Bernard, Il Dio dei mistici, Cinisello Balsamo (MI) 1996; L. Borriello (cura di), B. Elisabetta della Trinità, Opere, Cinisello Balsamo (MI) 1993; L. Borriello - Giovanna della Croce (cura di), Teresa d'Avila. Cristo Gesù Dio della mia vita, Milano 1995; Id., Teresa di Lisieux. Una storia d'amore infinito. " Mio Dio, Trinità beata, desidero amarti ", Cinisello Balsamo (MI) 1996; E.S. Del Cura, Dios padre-madre. Significado e implicaciones de las imágenes masculinas y femeninas de Dios, in Aa.Vv., Dios es Padre, Salamanca 1991, 300-320; H.D. Egan, I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995; J. Galot, Père, qui es-tu?, Paris 1996; I. Gómez-Acebo, Dio è anche madre, Cinisello Balsamo (MI) 1996; O. Hofius, s.v., in DCBNT, 1134-1140; J. Jeremias, Abbà, Brescia 1968; A. Milano, Trinità, in DTI III, 472-498; W. Marchel - J. Ansaldi, Paternité de Dieu, in DSAM XII, 413-437; E. Pacho, Temi fondamentali in san Giovanni della Croce, Roma 1989; P. Ricoeur, La paternità: dal fantasma al simbolo, in Id., Il conflitto delle interpretazioni, Milano 1977, 483-512; X. Pikaza, Padre, in Aa.Vv., Diccionario teologico: El Dios cristiano, Salamanca 1992, 1003-1021; G. Schrenk - G. Quell, Patér, in GLNT IX, 1111-1306; S. Teresa di Gesù Bambino, Opere complete, Città del Vaticano-Roma 1997.

L. Borriello

PADRI. (inizio)

Premessa. L'apriorismo ideologico indusse studiosi come Harnack e Festugière a ritenere la parola " misticoa " come derivante dall'ellenismo secondo la moda del sec. XIX e inizi del sec. XX.1 Studiando i testi patristici nel contesto, si evince che mystikós in senso cristiano ha radici diverse. Prima del cristianesimo la parola è usata nei misteri pagani con il significato di un segreto del tutto rituale, non dottrinale. Solo con la trasposizione nel cristianesimo, la parola mystikós assume una carica dottrinale ed esperienziale religiosa. Per meglio comprendere il binomio mistica-Padri, è opportuno premettere qualche riferimento al "mistero" ad esso strettamente connesso.

I. Il significato di " mystérion " in ambito cristiano. 1. Il mistero paolino. Il termine mystérion, mistero, è largamente adoperato nella letteratura cristiana, a confronto di sacramentum (suo omonimo in ambito latino) di uso ristretto, sacramentale. Se, come è ormai chiaro, nel paganesimo, i "misteri" sono in senso proprio "riti sacri" da rivelarsi ai soli iniziati, è dopo gli inizi del cristianesimo, nell'ermetismo alessandrino (sec. II-III), che si comincia a trasferire la terminologia misterica per indicare una filosofia religiosa. Ma in ambito strettamente cristiano, in s. Paolo, mystérion ha significato dottrinale religioso di provenienza sapienziale giudaica e apocalittica, da scritti giudaici, che sono estranei ad ogni influsso greco.2 Ora, il mistero paolino è il compimento nel Cristo d'un disegno di Dio nascosto all'inizio, manifestato in seguito, dove l'opposizione nascosto-manifestato supera il tempo. Il disegno tende a stabilire un legame stretto tra gli uomini e Dio mediante Cristo, in cui si realizzano la filiazione divina e la comunione degli uomini con Dio.3 Il luogo dove si compie il mistero è, dunque, Cristo mediatore, è il " Cristo in voi, speranza della gloria " (Col 1,27) 4 ma il senso più profondo è che Cristo s'aggrega la Chiesa come suo Corpo (cf Col 1,24). Il mistero rivelato e compiuto nella Chiesa è conosciuto e vissuto dai cristiani in modo diverso, ma in un'esperienza interiore mediante lo Spirito Santo (cf 1 Cor 2,6-10). Il mistero paolino investe il credente della sua forza e della sua luce; inizialmente si tratta di un'esperienza ordinaria, di un'azione dello Spirito che trasforma l'uomo interiore, facendo abitare Cristo nei cuori, radicandoli nell'amore (cf Ef 3,16-17). E in riferimento a questo mistero, come lo presenta Paolo, che dev'essere definito il carattere specifico della mistica cristiana.5

2. Nei P. Essi s'ispirano al concetto biblico e paolino di mistero, danno un significato nuovo ai termini in uso, mostrano la trascendenza e la superiorità del mistero cristiano e dei sacramenti connessi, introducendo così nel mondo pagano una nuova cultura. a. Padri apostolici e subapostolici. Il termine mystérion appare, tra i P. apostolici, solo in Ignazio d'Antiochia. In lui il mistero pasquale, di Cristo morto e risorto, è l'anima, in particolare della teologia del martirio e dell'Eucaristia (cf Ai Romani). Ma in due testi spiega la parola mystérion: Ai Magn. 9,2: " (Cristo), mediante il mistero del quale (= la croce) ci è stato dato di credere "; Agli Ef. 19,1: " Nascosti al principe di questo mondo furono la verginità di Maria e il suo parto (=Incarnazione) come la morte del Signore: tre misteri destinati a essere proclamati (mystéria kraúges), che furono maturati nel silenzio di Dio ". E Giustino martire ( 165) ad accostare per primo il mistero cristiano ai misteri pagani, ritenendoli, però, indipendenti. Parla, difatti, dell'AT come di misteri, ma riferiti a Cristo, alla croce: " Il mistero dell'agnello, tipo del Cristo " (Dial. con Trifone, 11; cf 106). Ireneo di Lione, però, opera un vero incontro tra la terminologia del mistero cristiano e quella degli altri misteri (della gnosi ereticale). Egli rimprovera agli pseudo-gnostici d'aver preso dalle Scritture, specie da Paolo, sia mystérion, sia gnósis, attribuendo loro un contenuto estraneo alla Scrittura. Per lui mystérion è quello paolino. I problemi insorgenti devono venire risolti " studiando il mistero e l'economia del Dio che è e credendo nell'amore di Colui, che ha fatto e continua a fare così grandi cose per noi " (Contro le eresie, 2, 41, 1). Un suo testo, sviluppato poi dagli alessandrini, indica come " nota fondamentale della gnosi ortodossa il fatto che essa ci fa leggere tutta la Bibbia alla luce del mistero paolino, enucleando al tempo stesso le implicanze di questo mistero " (Ibid., 1,4). b. Secoli III-IV. Gli scrittori ecclesiastici e i P. prospettano Cristo come il centro e mediatore del mistero, anzi il mistero stesso, visibile agli uomini, tuttavia sconosciuto ed accessibile solo ai credenti. " Io ti mostrerò il Logos e i misteri del Logos...; misteri davvero santi, luce perfetta " (Clemente Alessandrino, Protr. 12,119-120). Per Origene mystérion è " una cosa sensibile, che contiene in qualche modo nascosta in sé una realtà divina in rapporto all'economia di Dio nel mondo, manifesta a chi ha il senso per percepirla e comunicata in qualche modo a chi vi è disposto. E questo il significato fondamentale comune poi a tutta la patristica seguente ".6 Per Origene, il mystérion primordiale è Cristo, nella sua persona concreta, uomo-Dio, in cui la realtà sacra, divina in rapporto alla salvezza in Cristo, è Dio, il Verbo stesso, la vita divina.7 I grandi fatti della vita terrena di Cristo, le sue parole o azioni salvifiche sono, poi da lui prospettati come misteri particolari del mistero totale; così per lui, la passione e la morte " mistero del perfetto battesimo " di Cristo (cf In Gv. 6,66) e per Gregorio Nisseno il " mistero della croce " è quello in cui si realizza l'unità della creazione riconciliata (Disc. Cat. 32,8; 33,1; cf Ef. 3,18 e Fil. 2,10). " Di nuovo il mio Gesù e di nuovo il mistero " (Gregorio Naz., Disc. Teol. 39,1). Crisostomo, meraviglioso interprete di Paolo e, al tempo stesso, della tradizione, afferma che il mistero è un segreto di Dio, manifestato da principio agli uomini ed è un segno di amicizia di Dio con noi (cf In 1 Cor. Om. 7,1): il mistero è finalizzato alla comunione dell'uomo con Dio. Esso è ricevuto e compreso dalla fede, che fa accedere dal visibile all'invisibile: " Vediamo certe cose e ne crediamo delle altre " (Ibid.). Il concetto fondamentale di mysterium e sacramentum presso i P. latini, poi, corrisponde a quello di mystérion presso i greci. Riferendosi al pane e al calice eucaristico, Agostino può dire ai neofiti: " Questi, fratelli, sono detti sacramenti, perché in essi si vede una cosa, se ne comprende un'altra " (Disc. 272). 3. Dal mistero alla mistica. " La finalità del mistero è quella di essere svelato, rivelato da Dio e conosciuto dall'uomo. Ma ci sono dei gradi nella conoscenza che dipendono, al tempo stesso, dalle disposizioni dell'uomo e dai lumi che comunica lo Spirito Santo. Il progresso nell'apprendimento del mistero si dispiega dalla semplice conoscenza di fede fino ad una esperienza di ordine superiore, che è contemporaneamente una via e una conoscenza mistiche".8 I testi patristici contenenti mystikós possono essere classificati in tre serie quanto all'uso di esso.

II. La dimensione mistico-biblica. In ambito cristiano, mystikós si raccorda solo ad un uso biblico-cristiano e ciò per la prima volta in Origene. Questi lo riconduce al senso allegorico della Bibbia, che trova il suo unico significato-chiave in Cristo. A dire il vero, già Clemente Alessandrino chiama siffatta interpretazione cristiana delle Scritture mistica (cf Strom. 5,6). Per lui, la contemplazione (theoría) corrisponde alla visione d'insieme dell'economia salvifica di Dio nella Scrittura, ossia alla vera sapienza (gnosi) paolina, conferita da Cristo (Ibid., 4, 134), in rapporto all'interpretazione ecclesiale. Per lui la parola dell'AT è un angelo, ma nel NT Gesù è generato come " l'angelo mistico ". Avviando tale uso mistico, egli prepara la strada a Origene, a Gregorio di Nissa e a Dionigi Areopagita. H.U. von Balthasar 9 ha dimostrato che il mistero paolino è la chiave della spiritualità, che il Völker per primo aveva dimostrato essere l'idea-guida degli sviluppi teologici di Origene. Questi vede tutta la spiritualità cristiana scaturire da un'esegesi biblica dominata dal mistero di Cristo morto e risorto.

" Molto meno imbevuto di Clemente della fraseologia e dell'immaginaria dei misteri, egli tuttavia ritiene l'uso abituale dell'aggettivo mystikós decisamente applicato a ciò che egli chiamerà equivalentemente l'esegesi "spirituale" delle Scritture, viste interamente nella prospettiva di questo mistero del Cristo ".10 Per Origene si tratta di una " spiegazione del senso mistico scaturita dal tesoro delle parole (divine) " (In Gv. 1,15). " Noi sentiamo che tutto è pieno di misteri " (In Lev. om. 3, 8); " (...) tutto ciò che avviene, avviene in misteri " (In Gen. om. 191, 1). Per lui le visioni perfette, che seguono le visioni preparatorie, sembrano identificarsi con la paolina " intelligenza del mistero ", ossia con la comprensione spirituale della Scrittura mediante un vino inebriante, un dono del Logos all'anima, attraverso l'esegesi allegorica (spirituale), che guida a cogliere nella Scrittura il Verbo discendente nel mondo e nell'uomo (cf Contro Celso 6, 77). Lo Spirito di Cristo, che ha ispirato gli agiografi, ispira anche l'interprete (cf Princ. 4, 2, 7). Egli coglie, inoltre, la coincidenza del mistero della storia col mistero della sapienza di Dio, che è il mistero della croce, della Parola incarnata, presente nell'AT e nel NT, interpretati in modo tale che i fatti storici rivelati nell'AT si realizzano nel NT. Il senso letterale si apre così a quello mistico in relazione al mistero di Cristo e della Chiesa.11 E il passaggio dall'ombra (skía) alla verità (alétheia). Ma ciò che è "verità" nel Cristo non è ancora che "figura" (typos) in rapporto alla realtà escatologica della Chiesa e di ciò che noi dobbiamo divenire tutti in essa. Per Origene, più precisamente, bisogna parlare più che di tre "sensi" biblici di tre "livelli" del senso biblico in prospettiva dell'unità del processo stesso.12 In base allo schema di 1 Cor 2,6-16, egli riconosce nella Scrittura tre elementi, corpo, anima e spirito, cui accedono rispettivamente i somatici, gli psichici e i pneumatici (incipienti, progredienti, perfetti): solo gli ultimi possono raggiungere la " sapienza nel mistero " (Princ. 4, 2, 4). Vi corrispondono tre livelli del senso delle Scritture. Il senso letterale (storico) è il primo, da stabilirsi seriamente,13 sulla cui base viene il secondo senso, morale o tropologico (di comportamento); segue, poi, il terzo, lo "spirituale" o "cristico", perché tutto l'AT è orientato verso la venuta di Cristo. I tre sensi sono così strettamente collegati l'un l'altro che la centralità di ciò che è avvenuto in Cristo (mistero paolino) induce uno spostamento radicale, per cui il senso cristico passa al primo posto e al secondo quello tropologico, in quanto dipendente da ciò che Cristo ha fatto.14 Il " metodo esistenziale " di Dio che parla è preso da Origene come modello del proprio: " 1. La Scrittura - scrive von Balthasar - è data per annunciare dei misteri oppure, e fa lo stesso, il suo senso primo è il senso spirituale. 2. La lettera ha per scopo primo di nascondere i misteri ai non iniziati. 3. La lettera ("e ciò è ancora più ammirabile") è, malgrado ciò, in se stessa, il simbolo trasparente dei misteri per coloro che hanno la fede semplice. 4. Ma per impedire loro di attaccarvisi come a un fine, ci saranno, qua e là, dei passaggi con senso unicamente spirituale (cf Princ. 4, 14) ".15 Com'è noto, l'itinerario spirituale in Origene è descritto nella Omelia 27 sui Numeri. Le diverse stazioni percorse dagli israeliti dall'uscita dall'Egitto alla terra promessa, hanno valore di misteri, che prendono il loro senso dal mistero di Cristo: in questa " salita dall'Egitto alla terra promessa (...), noi apprendiamo sotto forma simbolica l'ascensione dell'anima verso il cielo e il mistero della risurrezione dei morti " (In Num., om. 27, 4). A guida di questa ascensione non c'è Mosè, ma " la Colonna di Fuoco e la Nube, cioè il Figlio di Dio e lo Spirito Santo " (Ibid., 5). Nel Commento al Cantico l'interpretazione origeniana si articola ancora a tre livelli, ma peculiari: letterale, spirituale-tipologico tradizionale (lo sposo-Cristo e la sposa-la Chiesa), spirituale individuale (lo sposo-il Logos e la sposa-l'anima). Sappiamo del largo successo dell'ultima interpretazione da Gregorio di Nissa a Gregorio Magno, a Bernardo di Clairvaux. In breve, Clemente Alessandrino per primo parla d'una " interpretazione mistica " delle Scritture (Strom. 5, 6) e Origene d'una " spiegazione del "senso mistico" " (In Gv. 1,15; Princ. 4, 2, 9); ma Didimo parlerà pure d'una " comprensione spirituale e mistica delle Scritture " (In ps. 1,3), così altri in Oriente. Gli stessi antiocheni, sebbene contrari all'allegoria alessandrina, qualificano come mistica la ricerca del mistero di Cristo in tutte le Scritture. Teodoreto ( 460?) chiama, infatti, il Cantico dei Cantici " il libro mistico dei cantici " (De prov., 5). E una prassi universale nella Chiesa d'Oriente, sviluppata in particolare dagli alessandrini. Sta di fatto che i P. di continuo meditano, trasmettono il mistero di Dio che si è fatto uomo, affinché l'uomo divenga Dio (cf Ireneo, Contro le eresie, 3, 19, 1); essi entrano così in comunione con le realtà di cui la Scrittura parla e vi entrano sotto la forma oggettiva di riferimento ad essa (cammino dell'esodo, salita di Mosé sul Sinai, commento dei salmi...). Ma senza dubbio è nello scarto sempre rinascente, nella prossimità di Dio che si sottrae, facendosi conoscere, e che offre la sua parola per immergere chi l'ascolta in un silenzio più adorante, che c'è il più puro della mistica dei P. Se, infine, tra i P. greci è mistica la realtà divina portataci da Cristo, che dà senso a tutta la Scrittura, e se mistica è ogni conoscenza (gnosi) di quella medesima realtà,16 tra i Padri latini, Agostino ci lascia, invece della gnosi, la sapienza, di carattere psicologico e avente per oggetto il mistero di noi stessi, che Dio e Cristo portano a scoprire. Il senso biblico, perciò, muta corso e diviene antropocentrico (psicocentrismo). La divaricazione dell'Occidente latino dalla tradizione orientale trova già qui la sua premessa.

III. La dimensione mistico liturgica. A mo' di premessa occorre dire che è comune, anzitutto, ai P. il senso di un sacro, che viene da Dio e che l'uomo accetta senza capire fino in fondo adorando, lodando, ringraziando; i P., inoltre, hanno una pietà oggettiva, comunitaria, possiedono il senso del mistero, della Parola.17 Ad essi è pure comune la centralità di Cristo, fondamento dell'unità dei due Testamenti, il Cristo storico e il Cristo mistico, essenziale all'intelligenza della liturgia. L'approfondimento che la celebrazione liturgica dona alla Parola di Dio è tale che " la liturgia cristiana sta alla sacra Scrittura come la realtà di Cristo sta al suo annuncio ".18 Il fatto contenuto nella Scrittura è lo stesso che si attua nella liturgia. " Sarà, appunto, la liturgia - afferma il Marsili - attraverso la diretta "esperienza" del mistero di Cristo (esperienza di salvezza interiore), a darci quella "conoscenza e rivelazione" dello stesso mistero che non potrà mai restare solo intellettuale, ma tenderà sempre a ripresentarsi, con l'aumento della "conoscenza e rivelazione", in una maggiore esperienza intima ed esistenziale. La Scrittura, quindi, anche rivelazione di salvezza, si completa nella liturgia ".19 Inoltre, " lo stretto rapporto tra Parola di Dio e celebrazione ", precisa Triacca, " è da ricercarsi nel fatto che la Parola di Dio veicola il "mistero" nell'accezione biblico-patristica, cioè nell'accezione di storia della salvezza. Tuttavia, la Parola di Dio non può fare il memoriale del mistero, cioè non può fare il memoriale di se stessa ".20 La Parola di Dio, infatti, offre l'elemento previo del memoriale, che la liturgia realizza attraverso la celebrazione e lo mette in atto. Se, infatti, il memoriale della Parola di Dio è di tipo psicologico (va dall'" oggi " all'" ieri "), il memoriale liturgico " è un far passare dall'"ieri" all'"oggi" la realtà storico-salvifica tanto che nell'"oggi" è anticipato anche il futuro salvifico che la Parola di Dio fa intravedere, ma che solo la liturgia realizza e che nessuna esegesi può far presente " (Ibid.): il memoriale liturgico è, perciò, veritas, mentre quello, di cui è informata la Parola di Dio, è umbra. E chiaro per i P. che le realtà mistiche (mystiká) sono al tempo stesso l'oggetto della Scrittura e il contenuto velato dei sacramenti, specie nella celebrazione eucaristica (sinassi). Di più, quando l'unione interiore realizzantesi in ogni vera partecipazione attiva alla liturgia perviene alla sua perfezione, essa diventa, al tempo stesso, contemplazione o partecipazione contemplativa. Se, poi, " la contemplazione è un atto infuso di carità, si deve dire che non si può dare partecipazione piena e perfetta alla liturgia, se non è nello stesso tempo partecipazione contemplativa. Ecco in che senso la liturgia è ordinata alla mistica come ad un aspetto essenziale di se stessa ".21

Ciò premesso, proviamo che nei P. è possibile seguire il passaggio dall'uso della parola mystikós nel contesto biblico al suo uso nel contesto sacramentale, più precisamente, eucaristico. Cirillo di Alessandria scrive: " Diciamo che sarà tolto alla sinagoga il conforto del pane e del vino. Questa parola è mistica. E a noi, che siamo stati chiamati dalla fede alla santificazione, che appartiene il pane del cielo, Cristo, ossia il suo corpo " (In Is. 1, 2). In particolare, il commento ai testi dell'Ultima Cena rende con evidenza il passaggio dall'idea di compimento della Scrittura all'idea di una realtà sacramentale. Eutichio ( 454) scrive che la cena è " primizia e caparra mistica della realtà della croce " (Trattato sulla Pasqua, 4). L'Eucaristia è chiamata " il sacrificio mistico del suo (di Cristo) corpo e del suo sangue " (Cost. Apost. VI, 23,4). C'è chi vede nell'Eucaristia la presenza di Cristo e, al tempo stesso, il modo velato della stessa " non un semplice pane ", ma " un pane mistico " (Nilo, Ep. III, 39); " noi mangiamo il corpo mistico e noi beviamo il sangue " (Id., Ep. II, 33). Dionigi Areopagita nella Teologia mistica presenta ciò che è nascosto sotto le espressioni scritturistiche e sotto i simboli eucaristici. Notiamo anche che i P. del IV secolo, per primi, applicano ai riti cristiani espressioni che si riferiscono a rituali pagani. Così Eusebio ( 339) chiama il battesimo " la rigenerazione mistica " (Contro Marcello I, 1); per Gregorio di Nissa i battezzati sono i rigenerati dalla " economia mistica " (De Orat. Cat., 34) e l'acqua battesimale è " un'acqua mistica " (Ibid., 35). In Occidente, per Ambrogio le azioni della carne del Signore sono esempio della divinità: le realtà invisibili di lui sono attestate da quelle visibili " (In Luc. IV, 24). " Si vede e si ode l'uomo e dalle opere si riconosce Dio " (In ps. 39,16). In Ilario ( 367) è frequente il termine sacramentum quale realtà nascosta, spesso in endiadi con mysterium. Per Agostino " si chiamano sacramenti, perché in essi altro è ciò che è visto, altro ciò che è compreso " (Serm. 272). Leone Magno ( 461), che nei suoi novantasei sermoni usa centotrentasei volte sacramentum e quarantasette volte mysterium, vede l'ascesi misterica compiersi in quella sacramentale nella celebrazione liturgica. Tra i misteri salvifici di Cristo e i loro effetti, inoltre, s'interpone la mediazione dei sacramenti e delle feste liturgiche. Gesti storici del Signore e gesti liturgici della Chiesa sono in lui così uniti da chiamarli ambedue sacramenta: " Quel che era visibile del nostro Redentore (misteri), passò sotto i segni sacramentali (= in sacramenta transivit). Il corso dell'anno liturgico diviene per Leone il quadro entro cui si compiono le diverse fasi dell'azione redentrice di Gesù nel tempo della Chiesa: la Pasqua è il vertice attorno cui gravitano le altre feste. L'avvenimento salvifico di Cristo, che la festa celebra, acquista una certa presenza (hodie), " ...moltiplicatosi il dono di Dio, ogni giorno in questi nostri tempi si sperimenta ciò che si ebbe negli inizi di Cristo " (Serm. 36,1). Gregorio Magno, per il quale vedere Dio è il fine dell'uomo, riconosce che la visione totale gli è preclusa; la contemplazione si profila in lui come visione di fede, mediante la preghiera unitiva, alimentata dalla lettura della Parola di Dio e la meditazione dei misteri di Cristo. Tale visione di fede è " conoscenza per mezzo dell'amore " (Moralia 10,13): " Amor ipse notitia est " (In Ev. 28,4). Risulta, dunque, chiaro che " la parola mystikós evoca presso i P. un complesso, biblico e sacramentale al tempo stesso, che sarebbe falso dissociare seguendo questo o quell'uso in un ambito particolare ".22

IV. La dimensione mistico-spirituale. I P. applicano la parola mystikós anche ad un certo modo diretto e quasi-sperimentale di conoscere Dio, dove esso esprime una comunione profonda con la realtà divina. Qui la stessa esegesi, pur erudita, diviene esperienza religiosa intensa, in cui s'intrecciano le due dimensioni mistiche già descritte. Il primo testimone di tale dimensione mistico-spirituale pare essere Origene e sempre in contesto meditativo della Scrittura. " Le visioni (theorémata) ineffabili e mistiche fanno gioire e comunicano l'entusiasmo " (In Gv. 13,24). La stessa preghiera vocale in questa dimensione si spiritualizza, purificandosi, per divenire silenziosa: c'è l'unione dell'anima con Dio nella liberazione dal corpo: la preghiera si fa visione, ma nell'amore intercedente per i fratelli (cf Pregh. 14, 2).

La dimensione mistico-spirituale di Origene si prolunga nella conoscenza di Dio (theognosis) di Gregorio Nisseno (cf Vita di Mosè e Omelie sul Cantico), in cui ha luogo l'esperienza estatica della presenza di Dio, avvertita in modo luminoso-oscuro, da parte del cristiano, che assume sensi spirituali nuovi (cf Vita di Mosè, 2). La contemplazione delle cose invisibili è l'esperienza della sposa del Cantico " avvolta nella notte divina, nella quale lo Sposo s'avvicina senza mostrarsi " (In Cant. om. 11): tenebra risplendente. Ma nella partecipazione a Dio (gnosi) Dio viene nell'anima e l'anima si trasporta in Dio (In Cant. om. 6). La mistica di Dio-agápe è la mistica di Cristo, " freccia eletta inviata dal Dio-agápe ", affinché s'introduca, con la freccia, l'arciere stesso " (In Cant. om. 4).

In Occidente, Agostino non offre la gnosi, essenziale alla mistica dei P. greci, ma la sapienza, che ha per oggetto il mistero di noi stessi. La sua mistica, nutrita dalla carità e dalla vita di Cristo comunicate nella Chiesa, si configura in una perfetta unità, che egli stesso definisce sapientia in opposizione a scientia: è così che attraversa tutto il Medioevo. Nella Chiesa il cristiano scopre una sapienza, vera partecipazione alla sapienza propria di Dio; nel cristiano, infatti, è stata rinnovata mediante la grazia di Cristo l'immagine della Trinità, secondo cui egli era stato creato (cf De Trin. 13,1). Quaggiù, poi, per Agostino la contemplazione è sempre passibile di nuovo progresso prima del riposo dell'ottavo giorno. Infatti, " il quaerere è una proprietà inerente in radice alla fede come tale: privata d'essa, cesserebbe immediatamente d'essere fede. Dio pure come colui che è trovato è ancora sempre, e proprio allora appunto, quegli che è cercato " (In Gv. tr. 63,1), e la fede, giunta al suo adempimento, è ancor sempre, e proprio allora, la fede orante, implorante, adorante ".23 In terra, poi, la contemplazione è rapida, un battito del cuore: " E pervenne (la mente) all'Essere stesso in un impeto di trepida visione " (Conf. 7, 13, 23), per un solo momento e di sfuggita (perstrictim et raptim) (In ps. 41,10). Dionigi Areopagita offre, a sua volta, splendidi testi in chiave spirituale. In uno di questi egli sottolinea, contro l'intelligenza erudita della Scrittura, un'esperienza ed una simpatia profonda, che fanno conseguire una " unione e una fede mistiche, che non è possibile insegnare " (Trattato dei nomi divini 2,9). In un altro testo egli afferma: " (Ieroteo) tutto rapito fuori di se stesso in Dio partecipava dal di dentro e interamente all'oggetto stesso che celebrava " (Ibid. 3,2). Altrove, egli applica la parola mystikós ad un modo ineffabile di conoscenza sperimentale delle realtà divine nel contesto del tema della nube e delle tenebre. I misteri della teologia si svelano nella nube sopralucente del silenzio, che inizia alle cose celesti nel più profondo delle tenebre. Alle contemplazioni mistiche, abbandonati i sensi e le energie intellettuali, è necessario applicarsi elevandosi nell'ignoranza verso l'unione a ciò che va al di là di ogni essenza e gnosi (cf Teologia mistica I, 1). Qui Dionigi Areopagita appare come il punto di arrivo di tutta la patristica: in fondo, si conosce per il fatto di non conoscere; è preludio indispensabile alla manifestazione di colui che si tiene al di là di tutto il creato. Infatti, si entra nella tenebra veramente mistica della non-conoscenza (Ibid. I, 3), quando si raggiunge l'oggetto unico del Vangelo, presente ma velato nella liturgia cristiana e sotto la lettera della Scrittura che i P. con Paolo chiamano mystèrion. Siamo al centro del pensiero di Dionigi Areopagita. Questi, dunque, è l'erede di tutta la tradizione patristica al riguardo. La vita e l'esperienza mistica, secondo lui, consistono nello sperimentare il mistero di Cristo, di cui parla tutta la Scrittura e che riempie tutta la liturgia.

V. Dimensione mistico-divinizzante. Il mistero di Cristo meditato nella Scrittura, contemplato, poi partecipato nella liturgia, si compie nei cristiani. Quella dei P. è mistica del conoscere, ma al tempo stesso anche dell'essere, diversamente non perverrebbe al suo scopo, ossia alla divinizzazione. Assimilarsi a Dio implica, infatti, unione a Dio e divinizzazione. Così è per Dionigi Areopagita, per il quale si tratta di uscire da sé per unirsi ad un altro, a Dio (cf Gerarchia cel. 3,2; Gerarchia eccl. 1,3; 20,1). Clemente Alessandrino è il primo ad usare il verbo theopoiein (=deificare): " Cristo deifica l'uomo mediante una dottrina celeste " (Protr. 11); per Origene " il nous è deificato in quello che egli contempla " (In Gv 32,17); Ippolito di Roma ( 236): " Poiché Dio non è povero ha fatto Dio anche te in vista della sua gloria " (Filos., 34). Atanasio contro gli Ariani: " Il Logos si è fatto uomo perché noi fossimo fatti Dio " (Incarn., 54). I Cappadoci riprendono la dottrina. Basilio: " (Lo Spirito Santo) è colui che deifica gli altri ", mentre l'uomo è " colui che è deificato dalla grazia " (Contro Eunom., 3,5); Gregorio Nazianzeno: " Se lo Spirito non dev'essere adorato, in qual modo mi divinizza per mezzo del battesimo? " (Disc. teol., 5,28). Dionigi Areopagita offre una definizione tecnica di divinizzazione: " La theosis è l'assimilazione e l'unione a Dio per quanto è permesso " (Gerarchia eccl. 1,4). Agostino, il Dottore della carità, vede come prerogativa di questa la forza d'assimilazione con l'oggetto amato. Ognuno è tale qual è il suo amore e ne deduce: " Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Che dirò, sarai Dio? Non oso dirlo da me, ascoltiamo la Scrittura: "Ho detto, siete dei e figli dell'altissimo tutti" (Sal 81,6) " (In Ep. Gv. tr. 2,11). Egli fa derivare dalla dottrina della carità, anche quella della deificazione che propone come vertice della giustificazione: " Dio vuol farti dio, non per natura come Colui che ha generato, ma per suo dono e adozione " (Serm. 166,4). E distingue: " Gli uomini sono dei, non per essenza (non existendo); lo diventano per partecipazione (sed fiunt participando) di quell'unico che è vero Dio " (In ps. 118, Disc. 16,1). La deificazione avverrà attraverso l'amore diffuso in noi dallo Spirito Santo ed essa sarà completa dopo la risurrezione dei corpi, quando " tutto l'uomo deificato aderirà (con l'amore) alla verità perpetua ed immutabile " (Serm. 166,4). Gregorio Magno, infine, accoglie l'apporto della Bibbia e della liturgia, dei P. latini e in gran parte dei P. orientali, facendone la sintesi. Per la sua semplicità, egli si accorda con le esigenze dei popoli nuovi, che salgono alla ribalta della storia e dal cui incontro con la romanità e il cristianesimo nascerà l'Europa cristiana. " Come una specie di custodia, Gregorio Magno ha raccolto e unificato l'eredità del passato e diventa a sua volta la fonte di tutte le correnti, che andranno via via sviluppandosi e diversificandosi. Diverrà così il padre spirituale del Medioevo latino ".24

Dopo quanto siamo venuti esponendo, non è possibile presentare la mistica dei P. solo come elemento importato dal neoplatonismo. Essa, al contrario, trova la propria fonte e il proprio sviluppo in una ermeneutica biblica vitale, in un'esperienza ecclesiale della liturgia eucaristica e in una profonda spiritualità, che ha il suo vertice ideale nella divinizzazione del cristiano.

Note: 1 Cf L. Bouyer, " Mystique ". Essai sur l'histoire d'un mot, in VSpS 3 (1949), 3; 2 Cf. Id., Mystérion. Du mystere à la mystique, Paris 1986, 399-400; 3 Cf. G. Bornkamm, Mystérion, in GLNT VII, 694-695; 4 Ibid., 696; 5 Cf. H. de Lubac, Introduction, in A. Ravier (ed.), La mystique et les mystiques, Bruges-Paris 1965, 23-33; A. Solignac, Mystère (mystérion, mystikós), in DSAM X, 1861-1862; 6 C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Roma 19654, 567; 7 Ibid., 568; 8 A. Solignac, Mystère... a.c., 1869; 9 H.U. von Balthasar, Parola e mistero in Origene, in Id., Origene: Il mondo, Cristo e la Chiesa, Milano 1972, 37-38; 10 L. Bouyer, Mystérion..., o.c., 193; 11 Cf M. Simonetti, Origene, in La Mistica I, 257-280; per altri Padri cf S. Lilla, Dionigi, in Ibid., 361-398; B. Salmona, Gregorio di Nissa, in Ibid., 281-313; A. Trapè, Agostino, in Ibid., 315-360; 12 Cf H. de Lubac, Storia e Spirito, Roma 1971, 205-221; 13 Ibid., 135-153; 14 L. Bouyer, Mystérion..., o.c., 197-199; 15 H.U. von Balthasar, Parola..., o.c., 27; 16 L. Bouyer, " Mystique "..., a.c., 13; 17 Cf M. Pellegrino, Padri e liturgia, in NDL, 1008-1015; 18 S. Marsili, La teologia della liturgia del Vaticano II, in Av.Vv., Anàmnesis, I, Torino 1974, 102; 19 Ibid.; 20 A.M., Triacca, Linee teologico-liturgiche della " celebrazione " della Parola di Dio, in Sal 53 (1991), 682; 21 C. Vagaggini, Il senso..., o.c., 691; 22 L. Bouyer, " Mystique "..., a.c., 16; 23 H.U. von Balthasar, Teologia e santità, in Id., Verbum Caro, Brescia 1968, 227; 24 J. Leclercq, La spiritualità del Medioevo (VI-XII secolo), 4A, Bologna 1986, 66.

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O. Pasquato

PAESI BASSI. (inizio)

I. Introduzione. Considerati come un'unità geografica, linguistica e culturale comprendono il territorio di diciassette province organizzate nel 154849 in un'unità territoriale e giuridica da Carlo V ( 1690): i vecchi Paesi Bassi (da Nederlanden), cioè i Paesi Bassi attuali e il nord del Belgio (Fiandre-Vlaanderen). Si può senza dubbio parlare, al loro riguardo, di una storia e di una cultura comuni, ma anche di una spiritualità e di una mistica loro propria.1 Soprattutto a partire dal sec. XII fino al sec. XVI, la spiritualità e la mistica dei P. hanno conosciuto un'età d'oro e, fino alla fine del XVII secolo, un irraggiamento spirituale rilevante al di fuori dell'ambito geografico.

In seguito, nel sec. XVI, nelle province del nord, cioè negli attuali P., la Riforma protestante porta una spiritualità specificamente protestante e una mistica propria.

La mistica dei P. è direttamente legata al rinnovamento spirituale che comincia a fiorire sin dalla fine del sec. XII: è legata soprattutto: 1. al movimento delle beghine, reazione spirituale di donne laiche dinanzi alla dissoluzione generale, in particolare a quella del clero e 2. al movimento mistico delle donne estatiche del XIII secolo.

I. Il movimento delle beghine. Giacomo di Vitry ( 1240), con molta simpatia, ha descritto l'ambiente mistico delle beghine, " donne così piene di particolare e meraviglioso amore di Dio che, nel loro desiderio, si ammalarono e furono costrette a stare spesso a letto per molti anni. L'unica causa della loro malattia era il Diletto che faceva sciogliere la loro anima di desiderio... Una di queste donne ricevette il dono delle lacrime con una tale abbondanza da non poter pensare al Diletto nel suo cuore senza che le lacrime scorressero abbondantemente dai suoi occhi... Altre donne caddero in estasi, prese da ebbrezza spirituale al punto da non poter dire una parola per intere giornate. Difatti, la pace del Signore s'impadroniva di esse e paralizzava i loro sensi, in modo che nessuna voce umana poteva trarle fuori dalla loro estasi... alcune donne, ricevendo la santa Eucaristia, non erano soltanto fortificate nel loro cuore, ma sentivano, allo stesso tempo, in bocca un gusto di un'estrema dolcezza, vera consolazione sensibile... ".2 Giacomo di Vitry scrisse, inoltre, la biografia della beghina Maria d'Oignies ( 1213). Nel 1207, questa si ritirò nella solitudine di Oignies, accanto alla chiesa del convento degli agostiniani, dove conobbe Giacomo di Vitry che, seguendo il suo consiglio, divenne agostianiano e scrisse, dopo la morte di Maria, la sua biografia, completata nel 1230-31 da Tommaso di Cantimpré ( dopo il 1262).3 Maria d'Oignies, rappresentante della mistica dell'amore, eucaristica e cristocentrica ebbe fenomeni tipici della mistica del suo tempo (estasi, levitazione, dono delle lacrime, unione con Dio). Fu definita da Giacomo di Vitry " la serva del Signore ", che serve " il suo Cristo " nella " sua Chiesa " e come la pia mater di un gruppo di donne religiose alle quali Giacomo di Vitry consacrò il prologo della biografia di Maria d'Oignies.4 Il movimento delle beghine ebbe molte mistiche di cui forse la più dotata, sotto tutti gli aspetti, fu Hadewjch d'Anversa. Originaria del ducato di Brabante, donna molto colta, conosceva le opere latine di Guglielmo di Saint-Thierry e di Riccardo di San Vittore. " Ella condusse un'esistenza da beghina nel senso originale del termine; ciò significa che volle vivere solo per Dio fuori dal matrimonio, ma in mezzo al mondo, senza ritirarsi in un convento e senza l'appoggio di una comunità approvata dalla Chiesa " (P. Verdeyen).

Hadewjch ha scritto quattordici (in realtà undici) visioni. Le Lettere in prosa (trentuno) e in versi (sedici) rivolte alle compagne sono, talvolta, veri trattatelli mistici. Le Mengeldichten (diciassette-ventinove) non sono di Hadewjch; " la dottrina di questa pseudo-Hadewjch sembra più vicina alla mistica di Margherita Porete " (F. Willaert). Le quarantacinque poesie mostrano l'influenza della lirica cortese. "Ci si deve astenere dal considerare queste poesie comeconfessioni personali: qui l'io è esemplare e mostra come dev'essere vissuto l'amore sulla terra " (F. Willaert).

L'opera di Hadewjch sembra essersi diffusa nel Medioevo soprattutto tra i certosini, tra i canonici regolari e nell'ambiente della Devotio moderna. Essa ha esercitato una grande influenza su Giovanni Ruusbroec e sul suo discepolo Giovanni di Leeuwen ( 1378).5 La sua opera era stata completamente dimenticata dopo il Medioevo, " finché non fu riscoperta nel 1938 dal filologo F.J. Mone " (F. Willaert).

Accanto ad Hadewjch occorre ricordare ancora un'altra beghina, vicina alla mistica fiamminga, soprattutto a causa dell'influenza esercitata su Eckhart, Margherita Porete. Nel suo libro Lo specchio delle anime semplici, " ella considera se stessa come direttrice di anime e il suo libro come quello di Hadewjch, cioè un vademecum per le sue discepole " (A. Schweitzer). " Questo libro va al di là della tradizione della mistica dell'amore cortese per lanciarsi in un progetto audace, ancorato alla profondità del pensiero simbolico di perfezione mistica che raggiunge già quaggiù, in maniera duratura, la pace e la certezza della gloria celeste. La perfezione implica la libertà accordata alle persone virtuose (c. VI) " (A. Schweitzer). Questa libertà, cosiderata amorale, fu condannata insieme alle otto proposizioni false dei begardi (beghine), dal Concilo di Vienne nel 1312.

Lo specchio delle anime semplici propugna la tesi principale: " ...l'anima annientata non ha volontà ". " Quest'anima è Dio per condizione d'amore ". Ella difende la tesi che l'anima mistica " deve rinunciare a tutte le virtù e a tutte le buone opere ". Ruusbroec si oppone decisamente a questa dottrina che egli considera un errore caratteristico dell'eresia dei Fratelli del Libero Spirito.6 E probabile che lo Specchio sia stato letto e apprezzato soprattutto a Bruxelles dai discepoli eterodossi del Libero Spirito. Ed è forse " per questo motivo che Ruusbroec ha finito per prendere posizione contro lo Specchio " (P. Verdeyen).

II. La riforma dell'Ordine cistercense e il movimento mistico delle " donne estatiche ". Accanto al movimento delle beghine vi sono, soprattutto nel sec. XIII, i monasteri delle contemplative, le monache di Citeaux, in cui si manifesta l'emacipazione religiosa femminile. Lutgarda di Tongres ( 1246) 7 e Beatrice di Nazaret 8 sono le rappresentanti notevoli di un movimento spirituale e mistico caratterizzato da " un grande desiderio di devozione sentita, di visioni e di estasi e di grazie paramistiche straordinarie " (P. Verdeyen). Nella Vita piae Lutgardis il suo autore, Tommaso di Cantimpré, ci presenta con molti dettagli lo sposalizio di Lutgarda con il Cristo crocifisso. Su sua richiesta, il Cristo le fece la grazia di prendere possesso del cuore di Lutgarda e " di fare la guardia all'entrata di questo cuore ". Dopo lo " scambio dei cuori ", che ella conobbe nel periodo benedettino della sua vita religiosa, Lutgarda divenne la grande amante del S. Cuore nel sec. XIII. Secondo il suo biografo, la sua vita trascorreva nella più grande intimità con nostro Signore, con la santa Vergine e con i santi. Una notte le apparve il Crocifisso che l'abbracciò e la fece bere alla piaga del suo costato. Questo dettaglio testimonia un contatto diretto di Lutgarda con la tradizione cristocentrica di Citeaux.

La personalità mistica meglio conosciuta del sec. XIII è Beatrice di Nazaret, nata prima del 16 aprile del 1200 e morta il 29 agosto 1268, orginaria di una famiglia borghese di Tirlemont, nel Brabante belga, fu educata prima da beghine, poi al monastero cistercense di Florival, vicino Wavre, ove pronunciò i voti perpetui nel 1216. Nel 1221, si ritirò nel nuovo monastero Val-des-Vierges (Maagdendaal) vicino Tirlemont, poi, nel 1236, nel monastero di Nazaret, vicino Lierre ove esercitò, fino alla morte, l'ufficio di priora. Fu chiamata Beatrice di Nazaret, perché finì i suoi giorni come priora dell'abbazia che aveva questo nome. Redasse in thiois, la sua lingua materna medio-fiamminga, un'autobiografia spirituale che Guglielmo di Affligem ( 1297), priore del monastero benedettino di Wavre e più tardi abate dell'abbazia di Trond tradusse in latino, adottando la divisione tripartita della vita interiore (1. I: lo stato dei principianti; 1. II: quello dei proficienti; 1. III: lo stato dei perfetti), divisione classica di cui si era servito anche Tommaso di Cantimpré nella Vita Lutgardis. Tranne il primo capitolo, il testo originale dell'opera di Beatrice di Nazaret è andato perduto, ma il testo thiois di questo capitolo, il trattato Sette modi o gradi dell'amore (= Seven manieren van Minne) redatto all'incirca nel 1250 è, con le lettere e le visioni di Hadewjch, il più antico testo mistico in olandese medio che ci sia stato conservato. Il primo grado o specie d'amore è la conquista dei doni naturali; per doni naturali ella intendeva " una fierezza naturale, la perspicacia dell'intelligenza, un'austerità innata, la pace interiore, l'affabilità, ecc. " (S. Axters). Si tratta di considerare questi doni naturali nel loro giusto valore. Il secondo grado d'amore è quello del disinteresse: " L'anima vi ama Dio per se stesso ". Nel terzo grado d'amore l'anima soffre nel servire Dio nel modo sempre più perfetto e, cosciente della sua insufficienza, si trova delusa. E nel quarto grado che comincia, per essere esatti, l'esperienza mistica. Beatrice non usa il termine " mistica ", ma accentua l'aspetto passivo dell'atteggiamento dell'anima nella sua relazione con Dio: " L'anima si trova infatti assimilata, divorata, assorbita, inghiottita, abbracciata dall'amore " (S. Axters). Il quinto grado è quello in cui l'amore divampa nell'anima; anche quello in cui l'anima si trova ferita dall'amore. L'anima, distaccata da tutto e in pieno possesso delle sue facoltà, conosce la vera libertà. Ormai essa non ha più che un desiderio al settimo grado: quello di essere liberata dal corpo che la trattiene quaggiù. " Fermandosi ai doni naturali dell'anima..., ricordando l'interesse che ha l'anima di svilupparli, Beatrice ha aperto la via alla mistica speculativa... E nei Setti modi o gradi dell'amore che gli stati teopatici, cioè la passività dell'anima nel corso dell'esperienza mistica, presero... coscienza di se stessi " (S. Axters).

III. J. Ruusbroec e la sua scuola. Ruusbroec è il " principe " dei mistici dei P. Nel 1343 si ritirò con due altri sacerdoti nella foresta di Soignes, alle porte di Bruxelles, e vi condusse una vita contemplativa nell'eremo di Groenendael. Nel 1350 la comunità adottò la Regola dei canonici di sant'Agostino. Ruusbroec ne divenne il primo priore sottolineando nei suoi scritti l'importanza della reclusione e della solitudine interiore.

L'influenza di Ruusbroec è evidente nelle opere del suo discepolo Giovanni di Leeuven. Il suo trattato Ciò che possiede un uomo povero di spirito (Wat dat een armen mensche van gheeste toebehoert) distingue, come Ruusbroec, tre tappe della vita spirituale: vita attiva, vita interiore (innige, e non begeerende) e vita contemplativa, aggiungendovi però una quarta fase, quella della gedvale, cioè dell'abbandono e donazione totale di sé a Dio. Lo stesso schema si ritrova nell'altro trattato Le cinque forme della carità fraterna (Van vijf manieren broederliker minnen). L'opuscolo Contro gli errori di Eckhart (Een boecxken van Meester Eckaerts leere daer hi in doelde) è una vera diatriba contro Eckhart, che egli considera " eretico, orgoglioso, stolto, indiavolato e privo di spirito " (S. Axters). Tra i primi discepoli di Ruusbroec va ricordato Guglielmo Jordaens di Heersele ( 1372), che visse accanto al maestro per circa vent'anni a cominciare dal 1352, dedicandosi alla traduzione di quattro suoi trattati. Scrisse, inoltre, il De mystieke mondkus (De oris osculo),9 un vero capolavoro della letteratura quattrocentesca.

La tendenza a far prevalere l'amore sulla speculazione è particolarmente sorprendente in un altro autore mistico dello stesso ambiente Giovanni di Schoonhoven ( 1432),10 che preferisce manifestamente alla mistica speculativa le regioni meno elevate dell'ascesi. Egli costituisce il legame tra la mistica brabantina del sud e la Devotio moderna dei P. del nord, il cui iniziatore, Gerardo Groote, subì l'influsso di Ruusbroec. " Si è poco sottolineato il suo grande influsso nella fondazione delle "Sorelle e fratelli della vita comune". Questa denominazione di "vita comune" non ricorda soltanto un genere particolare di vita comunitaria, ma si riferisce anche all'ideale spirituale di Ruusbroec " (P. Verdeyen). Egli tradusse in latino tre opere di Ruusbroec tra cui L'ornamento delle nozze spirituali.

Oltre a G. Groote occorre ricordare ancora due altri autori mistici della Devotio moderna: Enrico Mande ( 1431),11 che nel 1395 entrò come redditus, cioè canonico non-sacerdote, nella Congregazione di Windesheim. Soprannominato " il Ruusbroec del nord ", egli ebbe il merito di aver diffuso le opere di Ruusbroec nelle sue undici o dodici opere, di cui nove scritte in lingua volgare. Inoltre, si deve ricordare Gerlach Peters ( 1411),12 canonico regolare di Windesheim, che riprese la dottrina di Ruusbroec sull'immagine e la rassomiglianza. L'uomo deve svilupparsi spiritualmente nella rassomiglianza di questa immagine. Di lui sono stati conservati due lettere in medio olandese e due trattati latini, Breviloquium e Soliloquium. Quest'ultimo è stato spesso rieditato e tradotto in diverse lingue.

Occorre citare altri autori spirituali considerati volgarizzatori della dottrina di Ruusbroec: E. Herp, rettore dei Fratelli della vita comune di Delft e Gouda e dal 1450 francescano della stretta osservanza. Egli è stato definito l'" araldo di Ruusbroec ".13 Herp esercitò un grande influsso su Silesio, Benedetto di Canfield (e, attraverso lui, sulla mistica cappuccina) e Giovanni di San Sansone (e, attraverso lui, sui carmelitani riformati di Touraine). Altri " volgarizzatori " della dottrina di Ruusbroec sono Dionigi il Certosino e Tommaso da Kempis ( 1471). L'opera a quest'ultimo attribuita, l'Imitazione di Cristo, è pertanto da considerarsi non solo ascetica, ma legata alla tradizione mistica.

L'influenza di Ruusbroec si diffuse anche su alcuni mistici del secolo d'oro spagnolo, sulle beghine (Maria di Hout), sulla Certosa di Colonia, cui si deve la diffusione delle opere di Ruusbroec nel dibattito acceso dalla Riforma protestante e sull'opera anonima la Perla evangelica nonché su Pelgrim Pullen ( 1608) che nell'opera Il libro della nuova creatura, si rifà all'espressione già usata da Ruusbroec " unione senza differenza ": l'identificazione a Dio passa attraverso l'identificazione a Cristo di cui il contemplativo ripete le azioni nella concretezza della vita quotidiana. Questa dottrina verrà seguita anche dal ramo riformato dei carmelitani (Michele di S. Agostino e Maria Petyt di S. Teresa). Giovanni di S. Sansone, inoltre, sulla stessa linea parlerà di una vita " marieforme " che troverà il suo sviluppo ulteriore in Grignion di Montfort.

Note: 1 Cf S. Axters, Les Pays-Bas ont-ils leur spiritualité? nel suo libro La spiritualité de Pays-Bas, Louvain-Paris 1948, 119-134; J. Huyben, Y a-t-il une spiritualité flamande?, in VSpS 4 (1937), 129-147; 2 Giacomo di Vitry, Vita b. Mariae Ogniacensis, Prol. in Acta Sanctorum, giugno V, Anvers 1707, 637E-638B; 3 Tommaso di Cantimpré, Supplementum ad Vitam beatae Mariae Oigniacensis, in Acta Sanctorum, giugno V, 666-676; 4 M. Lauwers, Entre béguinisme et mysticisme. La Vie de Marie d'Oignies ( 1213) de Jacques de Vitry ou la définition d'une santité féminine, in Ons Geestelijk Erf, 66 (1992),46-70; 5 B. Spaapen, s.v., in DSAM VIII, 602-607; 6 Cf R. Guarneri, s.v., in DSAM V, 1241-1268; 7 Cf A. Deboutte, s.v., in DSAM IX, 1201-1204; 8 Cf J. van Mierlo, s.v., in DSAM X, 1310-1314; 9 Cf Meester Willem Jordaens, " De oris osculo ", ed. critica a cura di L. Reypens, (Studien tekstuitgaven van Ons Geestelijk Erf, 17), Antwerpen 1967; 10 Cf A. Gruijs, s.v., in DSAM VIII, 724-735; 11 Cf B. Spaapen, s.v., in DSAM VII, 222-225; 12 Cf A. Assemaine, Gerlach Peters, in VieSp 5 (1921), 117-123. In italiano: Soliloquio infiammato con Dio, Milano 1932. 13 Cf De heraut van Ruusbroec, in Jan van Ruusbroec, Leven, Werken, ondar de redactie van het Ruusbroec-Genootschap, Antwerpen-Mecheten-Amsterdam 1931, 235-248.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM XII1, 705-790; A. Ampe, Kernproblemen uit de leer van Ruusbroec, 4 voll., Tielt 1950-1957; S. Axters, Geschiedenis van de Vroomheid in de Nederlanden, 4 voll., Antwerpen 1950-1960; Id., La spiritualité des Pays-Bas, Louvain-Paris 1948; Id., Nederlandse mysticken in het Buitenland, Gand 1965; L. Cognet, Introduzione ai mistici renano-fiamminghi, Cinisello Balsamo (MI) 1991; B. Fraling, s.v., in WMy 377-380; A. de Libera, Introduction à la mystique rhénane, Paris 1984; K. Ruh, Abendländische Mystik im Mittelalter, Stuttgart 1986; J. Smits van Waesberghe, Katholieke nederlandse Mistik, Amsterdam 1947.

O. Steggink

PALAU Y QUER FRANCESCO. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce ad Aytona (provincia di Lérida, Spagna), il 29 dicembre 1811, studia nel seminario di Lérida (1828-32) ed entra nel convento dei carmelitani scalzi di Barcellona (23 ottobre 1832), professando un anno dopo. Una rivolta generale che incendia, il 25 luglio 1835, i conventi, mette bruscamente termine all'esistenza claustrale di P. che pur vivendo nel mondo rimarrà nel cuore, fino alla morte, carmelitano e contemplativo. Gli anni di esilio in Francia (1840-51) rivelano in P. il direttore spirituale, il carismatico, che conduce un'esistenza profetica, capace di compiere in sé una straordinaria sintesi degli opposti: " contemplativo e attivo ", l'essere l'" uomo della solitudine e l'uomo dell'intervento e della parola " (E. Pacho).

Scrive La vita solitaria, una calda difesa dello stretto rapporto tra vita sacerdotale e vita eremitica o di preghiera, e Lotta dell'anima con Dio, un'opera indirizzata a quanti amano la Chiesa (nella sua drammatica situazione in Spagna), nella quale propone, come unico mezzo per salvarla dalla persecuzione anticlericale, la preghiera contemplativa. Tornato a Barcellona nel 1851, dopo il concordato con la Santa Sede, P. lavora come sacerdote, apre un centro di educazione cristiana e tiene lezioni raccolte in seguito nel Catechismo delle virtù. Paga il successo dell'iniziativa e la fama della sua santità con il confino ad Ibiza (9 aprile 1854). Trascorre sei anni di solitudine, di intensa vita di preghiera ritirato sull'isolotto " El Vedrà ", difendendosi, dopo un triste intervallo, con un altro scritto La scuola della virtù. Dopo la liberazione, tornato in Spagna, P. si dedica alla predicazione e alla fondazione di due Congregazioni femminili di terziarie carmelitane. Continua l'attività di scrittore, di assistenza caritatevole, e muore a Tarragona, il 20 marzo 1872, stroncato quasi improvvisamente da una polmonite fulminante.

Negli anni 1861-67 nasce l'opera principale intitolata Le mie relazioni con la Chiesa, preceduta e preparata da due altri scritti: Quidditas Ecclesiae Dei, composto durante l'esilio, ma non pervenutoci, e La Chiesa di Dio (1865), che illustra la Chiesa Città di Dio con ventuno stampe.

II. Insegnamento mistico. Decisiva per iniziare la terza opera, di carattere autobiografico, è una profonda esperienza mistica nella cattedrale di Cuidadela (1861). Dalla Chiesa come Corpo Mistico, come Città di Dio (tensione escatologica) P. giunge a comprenderla come Realtà personificata e la sperimenta come Persona mistica. A parte la visione (o apparizione) della Chiesa come giovane donna di estrema bellezza, egli la colloca al centro delle sue meditazioni e preoccupazioni. Contemplando Cristo, non può far altro se non contemplare Cristo come Capo strettamente unito al suo corpo, la Chiesa, e vivere un rapporto nuziale con Cristo-Chiesa, un vero " matrimonio spirituale ", dinamico, incondizionato, immerso nell'amore reciproco, di donazione totale alla sua " Amata ", come usava chiamare la Chiesa identificata al Cristo totale.

P. non ha lasciato una sintesi teologica della sua mistica ecclesiale. Per ricostruire il suo pensiero che riflette l'esperienza vissuta - una vera passione d'amore - bisogna ricorrere alle pagine autobiografiche. La sua mistica della Chiesa è radicata nella tradizione patristica e spirituale, ma assume in lui sfumature originali e raggiunge vette di sublime altezza.

Bibl. Opere: Francisco Palau Escritos, a cura di E. Pacho, Burgos 1997. Non esiste la tr. it. degli Scritti (in sp. 10 voll., pubblicati a Roma 1976-1982). Studi: Aa.Vv. Una figura carismatica del siglo XIX. El P. Francisco Palau y Quer, Apostel y Fundador, Burgos 1973; Carmelo Missionario (cura di), Antologia: Scritti sulla Chiesa, Roma 1988; G. De Muro, Yo: Francisco Palau y Quer, Burgos 1986; D. De Pablo Maroto, s.v., in DES III, 1843-1847; E. Pacho, Francisco Palau y Quer. Una passione per la Chiesa, Roma 1986; Id., Francesco Palau. Atleta dello spirito, Roma 1989; Id., El Beato Francisco Palau y Quer: experiencia de la Iglesia, in Monte Carmelo, 101 (1993), 187-217, 435-470.

Giovanna della Croce

PANTEISMO. (inizio)

Premessa. Una nozione di p. (concetto usato nel 1705 da J. Toland [ 1722] per indicare la credenza nell'unità di Dio con tutti gli esseri), genericamente parlando, afferma: Dio è tutto, tutto è Dio con l'implicita pretesa di identificare Dio con il mondo della natura o fare della creatura solo un momento transitorio della divinità, confusa con la totalità anonima del reale. Il vero p. implica, dunque, la simultanea negazione della realtà personale divina e di quella umana.

Né si possono qualificare come panteiste le primitive malcerte affermazioni dei primi filosofi occidentali preplatonici e pre-aristotelici. Piuttosto c'è da ammirare lo sforzo che fanno, con un linguaggio ancora primitivo, per qualificare il Principio primo di tutte le cose (l'Arché). E una filosofia che cammina verso il cristianesimo come si può notare nei due sommi Platone ed Aristotele ( 322 a.C.) che, con la loro ragione, giungono alle soglie della creazione. Tralasciando le forme medievali di p., esso sembra volere avvicinare maggiormente Dio all'uomo, in una parola umanizzare Dio e divinizzare l'uomo. Questa è la logica interna di ogni forma di p.

I. Concezione filosofica del p. Abbiamo una vera e propria rigorosa sistematica concezione filosofica del p. in Baruch de Spinoza ( 1677). Dio è l'unica sostanza, tutto il resto non è altro che manifestazione dell'identica realtà. La sua concezione sta alla base di tutte la altre forme di p. moderno. L'idealismo, specialmente fichtiano-hegeliano, non fa altro che dinamizzare la sostanza statica del p. spinoziano. E un passaggio dal p. statico a quello dinamico. Dal p. spinoziano derivano le due forme più estreme del p. idealistico (Fichte, Schelling, Hegel) e il p. materialistico di Feuerbach ( 1851) e Marx ( 1883), che di fatto ricade nell'ateismo puro e semplice.

La forma di p. più astuta e più insidiosa è quella idealistica che nella terminologia vorrebbe identificarsi con il cristianesimo. La vaga somiglianza è solo superficiale, ma sottilmente insinuante, e continua tuttora a insidiare pensatori cristiani e persino teologi che credono, assumendo e facendo propria la dialettica hegeliana, di rinnovare la teologia. Di fatto l'affossano. E l'illusione di avvicinare di più Dio all'uomo e alla sua storia, magari con la pretesa di superare i grandi mistici come s. Giovanni della Croce e s. Teresa d'Avila.

II. Origini del p. Quali le origini di questa illusione che costituisce tuttora un pericolo per chi non affronta in profondità il problema di Dio e dei suoi rapporti con l'uomo e con il mondo?

La risposta è complessa, ma non è difficile richiamare alcuni principi troppo dimenticati, atti a mettere in luce le carenze che sostanziano la cultura tardo-illuminista e laica del nostro tempo.

1. Anzitutto manca, persino nell'area cattolica, un'adeguata idea dello spirito sia divino che umano. Manca una robusta filosofia sulla realtà dell'anima umana come spirito. La stessa manualistica filosofica scolastica è assai avara e povera quando si tratta di approfondire la giusta nozione della natura spirituale dell'anima. Anziché affrontare con decisione questo grave problema, la manualistica divaga in descrizioni fenomenologiche del conoscere, limitandosi ad una esposizione superficiale delle modalità del nostro conoscere.

Eppure, a voler affrontare seriamente la questione della realtà si vedono emergere tanti e convincenti argomenti che quanto più si meditano tanto più recano stupore e finiscono con l'offrirci dell'uomo un'idea assai più grandiosa e vasta di qualsiasi speculazione estranea al cristianesimo. Vi sono molti motivi che portano diritto a una stupenda idea della parte migliore dell'uomo che è appunto lo spirito, fondamento primo di una grandiosa dottrina spirituale umana e cristiana.

Procediamo per cenni su un argomento che meriterebbe ben più ampi sviluppi.

2. S. Agostino, specialmente e ripetutamente nel trattato De Trinitate, con uno dei suoi abituali lampi di genio, enuncia un grande principio, assunto più tardi e fatto proprio da s. Tommaso d'Aquino: quando non si tratta di grandezza in senso materiale (di mole corporea) dire migliore è lo stesso che dire maggiore. Nelle cose, che non sono grandi, nel senso dell'estensione, migliore e maggiore coincidono.

Per la nostra mente abituata ai calcoli sul piano dell'estensione in senso quantitativo proprio della realtà spazio-temporale, il passaggio dall'ordine estensivo a quello intensivo è faticoso, ma rende. La grandezza dello spirito umano si colloca nettamente sul piano intensivo. Dal principio sopra riferito s. Tommaso nella I, q. 76, a. 3 trae subito le conseguenze: " Se l'anima è migliore del corpo è anche maggiore del corpo ". Di conseguenza, " è meglio dire che il corpo è nell'anima che viceversa ". E più esatto e più forte dire, dunque, che il corpo è nell'anima.

Nè si tratta soltanto di una superiorità gonfiata e vuota di contenuto. E una superiorità ontologica, fatta di ricchezza d'essere. Vi è più ricchezza d'essere nella superiore semplice e intensissima realtà spirituale dell'anima che in qualsiasi massa estesa-corporale. L'universo fisico, con le sue vertiginose dimensioni quantitative, è tutto spiritualmente contenuto nell'intensità e profondità relativamente infinita dello spirito umano. Lo stesso Aquinate non teme di affermare, di conseguenza, che l'uomo è tutte le cose. E la totalità dell'essere.

L'anima umana, dunque, non è soltanto " forma del corpo " al quale comunica l'essere, l'unità, l'attività. E anche spirito con operazioni nettamente superiori allo spazio e al tempo.

Questo superiore modo d'essere, costituito da un interiore intensissimo tipo d'esistenza, è ignorato o cancellato in ogni forma di p. portato a livellare la realtà spirituale con quella materiale.

III. Negatività del p. E facile constatare come il p. contenga negatività molto gravi. E affetto da avarizia mentale tesa a cancellare la varietà e molteplicità del creato sensibile, a mettere sullo stesso piano Dio e il mondo sensibile. Certo, per la pigrizia della mente umana il modo di pensare panteista è molto più comodo. Il principio agostiniano sopra ricordato ci pone di fronte non soltanto all'infinito divario tra Dio e il creato, ma anche tra la realtà spirituale umana e quella materiale.

Il mondo in cui siamo non manifesta soltanto una grande varietà di esistenti in senso orizzontale. Abbiamo anche l'esperienza quotidiana della realtà sensibile in linea verticale che ha luogo sia nella scala degli elementi chimici non viventi, sia nella scala biologica dei viventi: dal vegetale all'uomo la cui mente esorbita dal mondo materiale. Tutto il creato sensibile mostra una mirabile varietà di esistenti secondo le due direzioni: verticale e orizzontale.

La filosofia moderna, inoltre, quasi senza eccezioni, ha univocizzato i vocaboli immanenza-trascendenza. Inoltre, anziché coordinarli dialetticamente, come detta l'esperienza immediata, li ha opposti l'uno all'altro. Tutto viene ridotto ad immanenza, da un lato, e a trascendenza dall'altro.

La linea verticale della stessa realtà materiale ci costringe a riconoscere che ogni qualvolta un ente è superiore ad un altro, come ad esempio nel vivente animale rispetto al vegetale, sempre il vivente superiore trascende quello inferiore. E lo trascende non per esclusione e opposizione, ma per positiva, più concentrata presenza e inclusione. Nessun esistente potrebbe dirsi superiore ad un altro se non contenesse, in modo superiore, diverso ed eminente tutti i valori del vivente inferiore.

Ma quando si passa da un ente materiale ad un ente spirituale, il ricordato principio agostinano riveste tutta la sua energica valenza. La superiorità ontologica di ordine spirituale contiene, al di sopra di ogni paragone, tutti i valori d'essere degli enti materiali. Così, come tutti i valori d'essere sono in Dio in modo divino e creante, superiore, diverso, eminente, così, analogamente, tutti i valori del mondo materiale sono eminentemente presenti nell'essenza spirituale dell'anima.

Dinanzi a questo fatto il p. manifesta tutte le sue debolezze e deficienze. Il p., viene, così, colpito alle radici. Le riflessioni precedenti trovano il loro completamento nel concetto cristiano di persona, nel quale vengono superate le miserie di una filosofia monotona qual è il p. E fortemente personale, anzi tripersonale, la realtà di Dio creante e ancor più di Dio redimente e rivelante. Sono fortemente personali la realtà e l'attività umana agli antipodi del p. La realtà della persona pervade tutta l'opera della creazione e ancor più il mistero della redenzione.

Non è difficile arguire di qui l'abissale differenza tra la spiritualità cristiana e qualsiasi forma più o meno panteistica di spiritualità. La spiritualità cristiana ha nella persona il suo punto di partenza e l'itinerario da percorrere. L'opera della santificazione e della crescita nella vita spirituale è frutto di crescente adesione dello spirito umano allo Spirito di Dio.

Prende qui tutto il suo vigore uno dei concetti fondamentali della teologia e della spiritualtà cattolica: l'uomo è immagine di Dio. L'uomo perciò non ha altra via di sviluppo spirituale che conformarsi e immedesimarsi sempre più in Dio sul divino modello, Gesù Cristo, Verbo Incarnato.

Una critica a fondo del p. getta torrenti di luce sulla spiritualità cattolica di ogni tempo.

Bibl. M. Caprioli, s.v., in DES III, 1847-1849; C. Fabro, Introduzione all'ateismo moderno, Roma 1968; A. Guzzo - V. Mathieu, s.v., in Aa.Vv., Enciclopedia filosofica, V, Firenze 1967, 511-522; S. Lilla, s.v., in DPAC II, 2603-2604; E. Lüdeman, s.v., in WMy, 392-393; St. Pfürtner, s.v., in LThK VIII, 25-29; F.A. Schalck, s.v., in DTC XI, 1855-1874; F. Sciacca, s.v., in EC IX, 682-693.

L. Bogliolo

PAOLO (santo). (inizio)

I. Premesse. L'uso del termine " mistica " in rapporto a P. non è esente da alcuni problemi. Precisato che il vocabolo proviene dal greco (propriamente un aggettivo neutro plurale sostantivato) e che, all'origine, connota l'idea di una divinizzazione tale per cui l'umano e il divino si confondono,1 alcuni studiosi d'inizio secolo hanno cercato di appiattire del tutto P. nell'ellenismo (cf R. Reitzenstein), mentre altri hanno difeso la sua inconciliabilità con l'ambiente ellenistico (cf E. von Dobschütz) e altri ancora hanno sottolineato il valore discriminante della fede (cf K. Deissner) o dell'escatologia (cf A. Schweitzer) o del battesimo (cf A. Wikenhauser) o di una teologia vissuta (cf L. Cerfaux) o, infine, di un cambio di Signoria.2

In effetti, bisogna guardarsi dall'usare il termine nel senso pieno che esso assume a livello di studi religionisti, per non cadere in equivoci incresciosi. Per P., che ha una specifica pre-comprensione di tipo giudaico, la distanza ontologica tra Dio e l'uomo resta un dato di base indiscutibile (cf 1 Cor 4,7: " Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? "; 8,6: " C'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui "). Tuttavia, egli né si ferma all'idea di una loro totale separazione (come in Qo 5,1: " Dio è in cielo e tu sei sulla terra "), né s'inserisce nelle correnti mistiche giudaiche delle Hekalôt (" aule " celesti, a cui si perviene per contemplare la merkavàh o trono di Dio descritto in Ez 1), né si limita a lodare la ricerca di Dio come sufficiente a dare gioia in abbondanza anche se non fosse trovato (così Filone Alessandrino). Va comunque precisato in linea di massima che il linguaggio "mistico" di P., detto alla tedesca, non riguarda tanto la Gottesmystik quanto piuttosto la Christusmystik: egli, cioè, parla normalmente di una unione del cristiano non tanto con Dio quanto piuttosto con Cristo, come si osserverà più avanti.

II. Le caratteristiche fondamentali della mistica paolina. Vi sono almeno due fattori che contraddistinguono P. rispettivamente nei confronti dell'ellenismo e del giudaismo. Il primo è che l'accennata distanza tra Dio e l'uomo viene superata da un atto di grazia proprio di Dio stesso, sovranamente libero. Il processo di ricerca paradossalmente non parte dall'uomo, che in quanto tale non approderebbe mai al Dio della rivelazione cristiana (cf Rm 1,21: " Pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria, ecc. "; 10,20= Is 65,1: " Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano "; 1 Cor 1,20: " Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? "; 2,9: " Ciò che occhio non vide, né orecchio udì, ecc. "). Esso invece parte da Dio stesso, a cui soltanto appartiene l'iniziativa di un decisivo incontro con l'uomo (cf Rm 5,8: " Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi "; 8,31: " Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? ").

Corollario inevitabile di questo principio è che la rivelazione della grazia di Dio avviene non a livello soggettivo e individuale come l'ispirazione di una musa (cf 1 Cor 8,2: " La conoscenza gonfia... Se alcuno crede di sapere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere "; 14,36: " Forse la parola di Dio è partita da voi? o è giunta soltanto a voi? "), ma neanche soltanto oggettivamente nella grandezza e bellezza della natura creata: pur affermando la praticabilità di quest'ultima via (cf Rm 1,19-20 con Sap 13,1-9; At 17,24-29), l'Apostolo ne sottolinea l'estrema insufficienza (cf 1 Cor 1,21: " Il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio "). Il corollario consiste invece nel fatto che Dio si è rivelato al largo della storia, nella precisa persona di Gesù Cristo e soprattutto nell'evento scandaloso della sua morte in croce (e risurrezione). Ciò significa che all'origine dell'identità cristiana c'è un extra nos (come direbbe M. Lutero sulla scia di s. Agostino), cioè qualcosa che si è verificato fuori di noi e senza di noi, e inoltre c'è un eph'ápax (Rm 6,10), cioè un evento accaduto una volta sola e una volta per tutte, ma talmente carico e denso di virtualità salvifiche che vi si può sempre attingere senza mai esaurirlo (cf Col 2,10; Ef 3,18-19).

Il secondo fattore consiste in una effettiva esperienza di comunione, che unisce strettamente i cristiani al loro Signore. Non si tratta solo di essere dichiarati giusti da Dio (come nel concetto luterano classico della " giustizia forense "), ma di partecipare effettivamente alla vita di Cristo risorto o almeno di far parte viva della sua sfera d'influenza. Il concetto di " nuova creatura " sottolinea all'evidenza una partecipazione al nuovo ordine escatologico della fine dei tempi già inaugurata. Lo si legge chiaramente in 2 Cor 5,17: " Se uno è in Cristo, è una nuova creatura (oppure: lì c'è una nuova creazione); le cose vecchie sono passate: ecco che ne sono nate di nuove " (cf anche Gal 6,15); in parallelo si possono ricordare le espressioni analoghe che parlano di " pasta nuova " (1 Cor 5,7) e soprattutto di " uomo nuovo " (Col 3,10; Ef 4,24). L'uso del termine greco ktísis, " creazione o creatura ", dice che il cristiano sperimenta un nuovo inizio, una ri-creazione, un rifacimento, che investe le sue radici più profonde. Non si tratta perciò di una semplice imputazione (per cui, alla maniera luterana, Dio considererebbe il cristiano solo " come se " fosse rinnovato), ma di una vera trasformazione, che la Lettera a Tito definisce testualmente come " palingenesi " (3,5), cioè rinnovamento, rinascita, rigenerazione.

Anche qui c'è un corollario importante: ed è che la "mistica" riguarda tutti i cristiani, indistintamente. Tutti i battezzati sono costituiti in comunione con il Signore: questa si rinnoverà particolarmente al momento dell'Eucaristia (cf 1 Cor 10,16), ma qualifica già ogni cristiano fin dal momento del battesimo (cf Rm 6,3-5). In quest'ultimo testo il dato appare ottimamente espresso dall'aggettivo sýmphytos, " congenito, connaturale ", nel v.5: " Infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua ".3 Ciò che qui si vuole dire è che la morte di Cristo è stata anche la morte di ogni cristiano e che quindi tra i due c'è una vera comunanza di destino (che proseguirà con la risurrezione). Propriamente parlando, quindi, nella Chiesa non ci sono gradi diversi di "mistici": almeno alla sua origine, l'identità cristiana è uguale per tutti ed è una identità "mistica". E sempre sorprendente notare che i destinatari delle lettere ai Corinzi, pur rimproverati per tutta una serie di distorsioni morali a livello sia individuale sia comunitario, vengono ciò nonostante interpellati come " santi per vocazione " (1 Cor 1,2) o semplicemente " santi " (2 Cor 1,1). Si vede bene che per P. la santità non si misura in termini morali come un traguardo da raggiungere con i propri sforzi o, detto con le sue parole, con le proprie opere; la santità, invece, è una dimensione pre-data, donata, che sta già all'inizio, alla base, in partenza, e che solo va fatta fruttificare (cf Ef 2,8-9: " Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene "). E questa santità che definisce la "mistica" di ogni battezzato. E se altrove P. parla di " perfetti " e di " spirituali " (1 Cor 2,6-3,3), non intende certo stabilire delle gerarchie ontologiche (come invece faranno poi gli gnostici); per lui, infatti, la perfezione non è soltanto lo scopo, ma lo status di ogni singolo credente; la divisione fra cristiani di grado superiore e inferiore deriva solo dal fatto che i destinatari non corrispondono al loro vero status di grazia, cioè alla condizione donata loro gratuitamente da Dio in Cristo.

III.B L'esperienza personale di P. P. di Tarso è l'unico personaggio delle origini cristiane, di cui ci sia raccontata la vicenda biografica di un decisivo passaggio al cristianesimo postpasquale (dal giudaismo farisaico). Ciò lo accomuna, in un certo senso, a tutti noi, cristiani di questa fine del sec. XX, che non siamo stati chiamati dal Gesù terreno. Il suo approdo a Cristo è tanto più sorprendente in quanto passa attraverso un'opposizione accanita e persecutoria nei confronti della Chiesa. In qualche modo egli già si rendeva conto del nesso strettissimo che esisteva tra la Chiesa e Gesù; anche se la frase di At 9,4 (" Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? ") è da considerarsi lucana, quindi redazionale (cf Lc 10,16: " Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me ") più che paolina (infatti P. nelle lettere dice soltanto di aver perseguitato la Chiesa [1 Cor 15,9; Fil 3,6; Gal 2,13] e non Gesù Cristo), tuttavia il concetto paolino della Chiesa come " corpo di Cristo " esprimerà all'evidenza l'idea di una totale appartenenza e quasi di una identificazione di essa con Gesù Cristo. Il minimo che se ne possa concludere è che per P. l'identità del cristiano non è assolutamente scindibile da quella del suo Signore; ed è sintomatico che la frase già citata circa la creatura nuova in Cristo (cf 2 Cor 5,17) segua immediatamente quella autobiografica, in cui l'Apostolo ammette di aver precedentemente conosciuto Cristo soltanto " secondo la carne " (2 Cor 5,16), cioè in una maniera troppo umana.

Egli, dunque, sulla via di Damasco fu " ghermito " 4 da Gesù Cristo (cf Fil 3,12) in modo irresistibile. Occorre rendersi conto che, a differenza di Luca negli Atti, P. non narra mai l'avvenimento; egli lascia da parte tutte le circostanze di tempo, di luogo, di compagnia, e tutte le modalità, per concentrarsi soltanto sulla dimensione personalistica del suo incontro con il Signore Gesù. Oltre a tutti gli altri testi (cf 1 Cor 9,1;15,8; 2 Cor 4,6; Fil 3,7; Ef 3,8; 1 Tm 1,16), è significativo quello di Gal 1,15-16, in cui P. esprime bene il senso dell'evento: Dio " si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani ". A proposito del fatto in questione abbiamo qui la dichiarazione dell'iniziativa divina, della sua destinazione missionaria e, soprattutto, del suo costitutivo cristologico. P. dice più precisamente che il Figlio fu rivelato " in me ": si lasciano cadere tutte le circostanze esteriori, perché ciò che conta è il contatto interiore e profondo che si era operato in lui, come una illuminazione folgorante (cf 2 Cor 4,6: " E Dio, che disse "Rifulga la luce dalle tenebre" [Gn 1,3], rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo "). L'esperienza "mistica" di P. comincia allora e sarà sempre il propulsore segreto (ma neanche tanto) della sua instancabile attività di missionario, di fondatore e pastore di chiese, di pensatore e di scrittore, fino al martirio.

Ci sono alcuni passi epistolari che esprimono perfettamente le dimensioni proprie dell'esperienza di P. in materia. In Gal 2,20 leggiamo: " Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me ". Anche se qualche autore suggerisce di considerare il pronome di prima persona singolare solo un artificio retorico adottato per parlare di ogni singolo cristiano, è tuttavia innegabile che l'Apostolo perlomeno attribuisca anche a sé un'esperienza che può ben essere generale, ma che ha in lui un paradigma tutto particolare. Come si vede, abbiamo qui un'affermazione di tipo fortemente "mistico": " Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ". Precisiamo di passaggio che un'analoga frase in Fil 1,21 (" Per me vivere è Cristo e il morire un guadagno ") non ha esattamente lo stesso valore, poiché là si tratta della vita fisica che, contestualmente contrapposta alla morte, viene dichiarata tutta all'esclusivo servizio di Cristo. Più vicina, invece, è la dichiarazione di Col 3,3 (" Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio "), che però vale evidentemente per tutti i cristiani.

Resta il problema di sapere che cosa significhi: " Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ". Dobbiamo forse scorgervi un cedimento alle categorie ellenistiche, secondo cui chi veniva iniziato ai misteri delle varie divinità cultuali (Persefone, Osiride, Adone, Attis) finiva per costituire una sola cosa con il dio? In questo caso si tratterebbe di una divinizzazione (propriamente di una "cristizzazione") tale da distanziare, sì, P. dalle concezioni giudaiche, ma da accostarlo totalmente a quelle pagane dell'epoca. E proprio qui che il termine "mistica" rivela tutta la sua ambiguità. Se P. lo intendesse in senso pieno, dovrebbe concepire e sperimentare una sorta di spersonalizzazione che, al limite, giungerebbe a deresponsabilizzare la sua umanità (un po' come nella storia delle eresie cristologiche l'apollinarismo sosteneva l'inserimento del Verbo divino al posto dell'anima razionale di Gesù). Qualcuno s'inoltrò su questa via (cf A. Deissmann), appoggiandosi alla frequente locuzione paolina " in Cristo " (cf per esempio Gal 3,28: " Tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù "), intesa addirittura in senso locale. Ma la preposizione locale " in " non indica più che una metafora, così come in corrispondenza antitetica l'uomo fuori di Cristo vive " nella carne " (Rm 7,5) o " nel peccato " (Rm 6,1-2). Allora, vivere " in Cristo " non ha altro significato che quello espresso in Fil 3,8-9 dove P. dichiara di considerare ormai tutto " come spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui ". Cristo è diventato la ragion d'essere, l'ambito vitale, il respiro della sua identità cristiana: non per uno scambio, ma per un distanziamento di ruoli personali, come avviene per un servo nei confronti del suo Signore (cf Rm 1,1;7,4) o come per un beneficiario nei confronti del suo donatore (cf Rm 8,31-39), dove i rispettivi ruoli, tutt'altro che confondersi, vengono enfatizzati nella loro diversità.

Ci sono due fattori che premuniscono P. dal cadere nella trappola della "mistica" pagana. L'uno è il concetto di fede (cf Gal 2,20b: " Vivo nella fede del Figlio di Dio... "; Fil 3,9b: " ...con una giustizia che deriva dalla fede in Cristo "), che tiene ben nette le distanze e non permette che i due poli Cristo-cristiano si confondano; la fede, infatti, implica necessariamente un faccia a faccia che colloca ciascuno al suo giusto posto, senza pericolose mescolanze: " Mi ha amato e ha dato se stesso per me " (Gal 2,20)! L'altro è la riserva escatologica, per cui l'attuale esperienza storica è considerata solo una parte, non ancora perfetta, di ciò che caratterizzerà il futuro (cf Fil 3,12.13.20: " Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di conquistarlo... Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta... Di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo ").

In ogni caso, il rapporto di P. con Cristo è strettissimo e non ha paragoni. Lo si vede in particolare nell'esperienza delle sue sofferenze apostoliche. Egli giunge a parlare delle " sofferenze di Cristo in noi " (2 Cor 1,5) con la coscienza di " portare sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù " (2 Cor 4,10). Nel testo di Col 1,24 si legge addirittura: " Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo "; questa traduzione CEI dovrebbe però essere meglio variata così: " Completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne ". La differenza nella versione non è di poco conto; infatti, se P. percepisce una mancanza, essa non riguarda la passione di Cristo, la cui efficacia è talmente piena da avere persino delle risonanze cosmiche (cf Col 1,20), ma riguarda un deficit di partecipazione personale da parte di P. stesso (" nella mia carne ") a quella passione per sé sufficiente. Nient'altro che a questo mirano le sue fatiche, prigionie, percosse, naufragi, travagli per fame e sete, freddo e nudità, pericoli di ogni genere (cf 2 Cor 11,23-28), che egli affronta come se tutte queste prove, paradossalmente, non fossero altro che la concessione di una grazia: quella di soffrire per Cristo (cf Fil 1,29).

L'Apostolo, che non trae motivo né di vanto né di forza da un'esperienza di rapimento estatico al terzo cielo menzionata solo quasi di passaggio (cf 2 Cor 12,2-3), sente invece il peso di " una spina nella carne ", permessagli dal Signore (cf 2 Cor 12,7), che viene identificata dagli studiosi o in una non precisata malattia o meglio nella ostinata opposizione dei suoi avversari giudaizzanti (e non più, come in epoca patristica, in scomposti desideri sessuali). Ma ad una sua richiesta di allontanamento il Signore stesso gli risponde: " Ti basta la mia grazia; infatti, la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza " (2 Cor 12,9). E per questa certezza che egli può vantarsi delle proprie sofferenze: " Quando sono debole, è allora che sono forte " (2 Cor 12,10), perché " tutto posso in colui che mi dà la forza " (Fil 4,13). Come a dire: in me si ripete il doppio movimento del mistero pasquale. La quotidiana esperienza della morte (cf 1 Cor 15,31) trae senso doppiamente dal fatto che essa è assimilata a quella di Cristo e dal fatto che, come quella di Cristo, è destinata al trionfo della vita: " Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio; e anche noi siamo deboli in lui, ma saremo vivi con lui per la potenza di Dio " (2 Cor 13,4). I diversi complementi pronominali " in lui " e " con lui " esprimono bene i due diversi stadi del rapporto personale con Cristo: rispettivamente, ora nella storia, in cui la vita cristiana è una nascosta immersione in Cristo (cf Col 2,12), e poi nell'éschaton, quando Cristo sarà un più manifesto compagno di gloria (cf 1 Ts 4,17).

Sempre comunque l'esistenza dell'Apostolo e quella di ogni cristiano sono contrassegnate dall'amore di Cristo stesso, che non solo " ci spinge " (2 Cor 5,14: traduzione CEI), ma, secondo il verbo greco synéchei, " ci possiede, ci stringe, ci tiene in mano o in pugno " e non permette che alcun'altra potenza ce ne separi (cf Rm 8,35-39). Esso infatti " è stato riversato nei nostri cuori " (Rm 5,5) e, mediante la fede, è ormai indelebilmente diventato vita della nostra vita. La sua associazione qualitativa allo Spirito del Figlio, che permette di rivolgersi a Dio chiamandolo " Abbà, Padre " (Rm 8,15; Gal 4,6), ci inserisce misteriosamente, ma realmente, nel circolo incomparabile della vita trinitaria. Ci si accorge allora di vivere in uno spazio illimitato, dove " l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità... sorpassano ogni conoscenza " (Ef 3,18-19); esso, infatti, partecipa del Dio " che abita una luce inaccessibile " (1 Tm 6,16), il quale, se ci ammette alla comunione con sé (cf Rm 5,2; Ef 2,18; 3,12), proprio per questo richiede un ringraziamento e una lode incessanti (cf Rm 11,33-36; 1 Tm 3,16).

Note: 1 Cf Papiri magici: " Tu sei io e io sono tu "; 2 Cf E.P. Sanders, che definisce il paolinismo come " escatologia partecipazionista "; 3 Così la versione CEI, ma si tradurrebbe meglio così: " Siamo diventati connaturati (a lui) per la condivisione della sua morte "; 4 " Sono stato conquistato " traduce il testo CEI.

Bibl. A.M. Artola, " Comprehensus a Christo Domino " (Fil 3,12). La struttura dell'esperienza di Cristo in san Paolo, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 202-212; P. Barbagli, s.v., in DES III, 1849-1869; M. Bouttier, La mystique de l'apôtre Paul. Rétrospective et prospective, in Revue d'Histoire et de Philosophie Religieuse, 56 (1976), 54-67; L. Cerfaux, La mystique paulinienne, in VSpS 6 (1952), 413-425; Id., Cristo nella teologia di san Paolo, Roma 1969; Id., Il cristiano nella teologia paolina, Roma 1969; G. Helewa, San Paolo mistico e mistica paolina, in Aa.Vv., Vita cristiana ed esperienza mistica, Roma 1992, 51-122; J. Huby, Mistica paolina e giovannea, Firenze 1950; J. Jeremias, Per comprendere la teologia dell'apostolo Paolo, Brescia 1973; J. Lanczkowski, s.v., in WMy, 397-398; R. Penna, Problemi e natura della mistica paolina, in La Mistica I, 181-221; Id., s.v., in DTI II, 645-660; Id., L'Apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Cinisello Balsamo (MI) 1991; Id., Paolo di Tarso, un cristianesimo possibile, Cinisello Balsamo (MI) 1992; J. Rumak, Mistica dell'apostolo Paolo, Assisi (PG) 1977; A. Schweitzer, La mystique de l'âpotre Paul, Paris 1962; U. Vanni, La spiritualità di san Paolo, in R. Fabris (cura di), La spiritualità del Nuovo Testamento, Roma 1985, 177-228; A. Wikenhauser, La mistica di san Paolo, Brescia 1958.

R. Penna

PAOLO DELLA CROCE (santo). (inizio)

I. La vita. Paolo Francesco Danei nasce ad Ovada (AL) il 3 gennaio 1694 e muore il 18 ottobre del 1775. Primogenito di sedici tra fratelli e sorelle, fin da piccolo è favorito da straordinari doni mistici. Verso i diciannove anni si " converte " e pensa di dedicarsi totalmente a Dio. Dopo varie traversie, una serie di " visioni intellettuali " gli indica la divina volontà: dovrà fondare una famiglia religiosa destinata a fare perpetua memoria della passione di Gesù ed a promuoverla anche tra i fedeli, mediante la predicazione e la guida all'orazione. Il vescovo di Alessandria approva il suo proposito ed il 22 novembre 1720 lo riveste dell'abito religioso (come eremita). Nei giorni seguenti, fino al 1 gennaio 1721, in un " ritiro " compiuto a Castellazzo Bormida, in mezzo a grandi esperienze spirituali (di cui ci resta il prezioso Diario), scrive la sua Regola.

Solo dopo molti anni può realizzare effettivamente la Congregazione dei chierici scalzi della SS. Croce e Passione di Gesù. Infatti, consacrato sacerdote nel 1727, dall'anno successivo si fissa stabilmente coi primi compagni sul Monte Argentario (Grosseto), ove costruisce la prima casa, inaugurata nel 1737. I Papi, da Benedetto XIV nel 1741, fino a Pio VII nel 1775, ripetutamente danno la loro approvazione, in forme sempre più solenni. P. si prodiga per la sua fondazione, lasciando alla sua morte dodici " ritiri " ed un monastero femminile. Contemporaneamente, continua la sua singolare esperienza personale di " far proprie per amore le pene del suo dolcissimo Gesù ", mediante l'orazione contemplativa, la penitenza e specialmente l'interiore " desolazione ", che praticamente dura fino agli ultimi anni della sua vita. A questa vita interiore di altissimo livello mistico il santo accompagna un'intensissima attività apostolica. Predica centinaia di missioni popolari in villaggi, paesi e città degli Stati Pontifici e detta innumerevoli corsi di esercizi spirituali a monasteri. Promuove, così, ovunque efficacemente la memoria della Passione, lasciando sempre come impronta del suo passaggio apostolico l'abituale meditazione di Gesù Crocifisso.

II. La sua esperienza e dottrina mistica. Unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi mistici (o il maggiore) del suo secolo, gli studi su di lui assumono rilievo e incisività solo nel nostro secolo, dopo la divulgazione del suo diario, delle sue lettere e, molto di recente, del suo opuscolo su La morte mistica. Oggi, valutando la mistica di P., si relativizza alquanto la fenomenologia, pur imponente, dei fatti straordinari che si verificano lungo tutta la sua vita e si apprezza invece la sua dottrina - allineata completamente con quella di Giovanni della Croce - che patrocina nudità interiore e disaffezione circa i fenomeni, spesso ambigui, che toccano immaginazione e sensibilità. Cogliamo sempre meglio la profondità dottrinale (anche se implicita, non avendo l'umilissimo P. mai tentato di presentarsi come maestro e tanto meno come innovatore) del suo pensiero, forgiato direttamente dalle ispirazioni divine che sono all'origine anche della sua opera di fondatore e dalla piena penetrazione di fede della Sacra Scrittura.

Il centro è indubbiamente quello cristologico, per cui non si può entrare nel mistero di Dio se non per la " porta " della passione; reciprocamente, chiunque si unisce per amore all'umanità sofferente di Gesù è già nel seno del Padre. Questo passaggio può avere infiniti gradi di intensità, ma è pur sempre una " morte mistica ", un " distacco " ed " astrazione " dagli elementi creati della vita, da ciò che non è Dio. Contemporaneamente, è una " divina natività ", un'infusione esperienziale di vita divina, deificata ed ineffabile. Quando già da tempo questo nucleo dottrinale si era formato in P., che lo aveva lucidamente espresso, egli conobbe ed amò Taulero, l'insigne autore spirituale del sec. XIV, perché vi si ritrovava pienamente, pur prescindendo da ogni retroterra di teologia scolastica e di metafisica classica.

Nella sua pedagogia era piuttosto affine all'altro autore da lui preferito, Francesco di Sales, unendo sempre, nella direzione spirituale, la radicalità ad una grande benignità e ad un incrollabile ottimismo teologico, basato sulla certezza che " Dio non può volere che l'ottimo ". Egli insegna soprattutto la conformità alla volontà divina di beneplacito, cioè a raggiungere sempre, " sine medio " (come esperienza immediata) la Causa prima in ogni evento, specialmente in quelli che portano con sé patimenti. Nulla di negativo, dunque: al contrario, chi si gloria della croce, quasi pregusta la beatitudine, tanto meglio quanto più nudo (cioè privo di conforti umani) è il patire.

Ogni apriorismo metodologico è relegato a funzione secondaria, unico " assoluto " è la " memoria passionis ". La mistica paulocruciana radicalizza quella intrinsecamente presente nell'economia sacramentale cristiana, a partire dal battesimo, immersione nella morte salvifica di Gesù per iniziare la nuova vita, nascosti con lui in Dio. Se ne ha conferma nel ruolo assolutamente determinante che ha per P. l'Eucaristia, come sublime ed insieme accessibile " fonte alla quale attingere torrenti di fuoco ".

Il santo conduce così a straordinari progressi spirituali persone di ogni categoria: in primo luogo ovviamente quelle consacrate, nella sua Congregazione e in altre, ma anche moltissimi laici, tra cui padri e madri di famiglia. Con amorevole, ma incessante insistenza egli indica loro come raggiungere, entro i propri doveri di stato, l'esperienza della morte mistica e della nascita al divino.

III. Attualità della mistica paulocruciana. Da oltre due secoli ne sono copiosi i frutti: molti suoi discepoli, da allora e fino ad oggi, sono riconosciuti santi e beati. E riconosciuta tra le altre, come distinta e vitale, la scuola di spiritualità passionista. Anche il ripensamento del modo di fare " memoria della passione ", centro del magistero di P., è facilitato dalla souplesse con cui egli la propone, esplicitamente riconoscendola possibile ad ogni categoria di persone. La fiducia nella vita, sottesa a tutto il suo magistero, risponde ad una profonda istanza del credente: " Nella passione di Gesù c'è tutto "; la " santità segreta della croce " è grande e sicura.

Bibl. A.M. Artola, La muerte mística según san Pablo de la Cruz, Duerto 1986; S. Breton, La mistica della Passione. Studio sulla dottrina spirituale di S. Paolo della Croce, Pescara 1986; G. von Brockhusen, s.v., in WMy, 396-397; C. Brovetto, Introduzione alla spiritualità di san Paolo della Croce. Morte mistica e divina natività, Teramo 1955; Giacinto del SS. Crocifisso, s.v., in EC IX, 727-730; F. Giorgini, s.v., in DSAM XII1, 540-560 (con ampia bibl.); A. Lippi, Mistico ed evangelizzatore, san Paolo della Croce, Cinisello Balsamo (MI) 1993; S.L. Pompilio, L'esperienza mistica della passione in san Paolo della Croce, Roma 1973; E. Zoffoli, s.v., in BS X, 232-257; Id., s.v., in DES III, 1869-1872; Id., S. Paolo della Croce. Storia critica, 3 voll., Roma 1963-68.

C. Brovetto

PARAMISTICA. (inizio)

Premessa. La mistica comprende fatti o fenomeni preternaturali e sovrannaturali, come le esperienze che superano le forze della natura.

La p. comprende fatti e fenomeni che sono naturali, ma vengono considerati da alcuni fatti pretero supernaturali. Sono vari, ma noi considereremo i più attuali e diffusi, precisamente: 1. le esperienze dei rianimati; 2. le comunicazioni dei defunti nelle sedute spiritiche e mediante la scrittura automatica; 3. le " esperienze mistiche " dei drogati.

I. Le esperienze dei rianimati E noto che alcune persone morte clinicamente, mediante le risorse della medicina attuale, possono riprendere tutte le funzioni vitali. La morte clinica si ha quando cessano le funzioni vitali fondamentali: sensibilità, respirazione, circolazione sanguigna, ecc. e quando il medico dice: è morto. Ma in realtà la morte clinica non coincide con la morte vera, che consiste nella separazione dell'anima dal corpo. Questa avviene qualche tempo dopo la morte clinica, quando la sostanza vivente, per il cessare delle funzioni vitali, si è talmente modificata da non poter essere più informata dall'anima umana. Il ritorno alla vita dalla morte clinica può avvenire perché l'anima umana è ancora nel corpo; ma non può avvenire, se non per miracolo, dalla morte vera. Sappiamo dalla rivelazione: " E stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio " (Eb 9,27).

Per questo motivo, le esperienze dei rianimati sono esperienze naturali di viventi, anche se sorprendenti. Tra l'altro, alcuni vedono una luce chiarissima, passano in rassegna la propria vita, vedono personaggi dell'" altra vita ". Alcuni le interpretano quali esperienze dell'altra vita, ma se fossero esperienze di autentici morti, tutti i rianimati dovrebbero avere tali esperienze. Ciò che non è; né alcuni vedrebbero Dio in un grande palazzo! Il teologo gesuita J.J. Heaney ne fa un'ampia esposizione critica.

II. Le comunicazioni con la scrittura automatica. La scrittura automatica è un fenomeno che si può acquisire, esercitandosi. Lo acquistano specialmente le personalità alquanto nevrotiche, dette " sensitivi " o medium. Cadono in trance, perdono completamente la coscienza e non sanno ciò che hanno scritto. Ma, alla lettura dello scritto, si scorgono pensieri sensati, che vengono attribuiti ai defunti evocati ai quali hanno posto varie domande. Ma la psicologia sperimentale dà un'altra spiegazione. Il dinamismo delle immagini, l'inconscio del sensitivo, arricchito da nozioni coscienti e inconscie, che gli provengono per telepatia, spiegano il fenomeno. L'inconscio trattiene molte nozioni e le elabora non di rado in modo sorprendente. Si pensi, per esempio, ad alcuni sogni.

Da esperimenti del padre De Heredia e del padre Reginald-Omez risulta che la trasmissione avviene specialmente tra inconscio e inconscio o subconscio. Si illudono, quindi, coloro che ritengono di avere comunicazioni dai defunti mediante i sensitivi.

La Chiesa proibisce di evocare i defunti anche in tal modo.

III. Le esperienze " mistiche " dei drogati. Non pochi giovani allo scopo di evadere dalle angustie di una società consumistica e materialistica, si rifugiano nell'uso di certe droghe allo scopo, come insegnavano alcuni studiosi e scrittori, di entrare nel mondo della mistica. T. Leary fu il promotore della " rivoluzione psichedelica ". Fondò una comunità di fedeli e una religione. Mediante la droga si raggiunge il paradiso in terra!?

A. Ginzburg chiese all'L.S.D. 25 di risolvere il mistero della vita e di incontrare Dio.

A. Huxley asserì che la droga ha la forza della poesia e del misticismo. Nessuna meraviglia se non pochi giovani si immisero nel mondo sconcertante della droga e diversi intrapresero il viaggio in Oriente alla ricerca di un guru che con la droga aprisse le porte del misticismo. E cosa trovarono? Lo psicologo G. Borg, che seguì gli hippies e gli yunkies in cerca di misticismo, dice che vi trovarono la rovina.

Paolo VI, riguardo a coloro che si drogano per trovare Dio, afferma: " L'esperienza autenticamente religiosa e il contatto spirituale con Dio sono frutti di lucidità e di attività mentali in piena coscienza; sono tensioni e ascensioni nelle vie della conoscenza intuitiva che il più delle volte costano sacrificio e sempre esigono un esercizio di autocontrollo ".

Bibl. Esperienze dei rianimati: J.J. Heaney, The Sacred et the Psychic Parapsychology and Christian Theology, Ramsey 1984; L.J. Meduna, The Effect of Carbon Dioxide upon the Function of the Brain in Carbon Dioxide Therapy, Springfield 1950; R.A. Moody, La vita oltre la vita, Milano 1977; Fr.J. Nocke, Eschatologie, Düsseldorf 1982. Le comunicazioni con la scrittura automatica: J. De La Vaissiére - F.M. Palmès, Psicologia experimental, Subirana 1952; C.M. De Heredia, Le frodi dello spiritismo, Roma 1955, 339ss.; V. Marcozzi, La scrittura automatica, in Id., Fenomeni paranormali e doni mistici, Cinisello Balsamo (MI) 1993 2, 11-13; R. Omez, Religione e scienze metapsichiche, Roma 19602, 117; Id., Occultismo e scienza, Roma 1965, 64-65. Le esperienze " mistiche " dei drogati: G. Borg, Viaggio alla droga, Modena 1971; S. Lucarini, Dossier sulla droga, Roma 1970, 97-98, 120-123; C. Olivenstein, La rivoluzione della droga, Milano 1970; Paolo VI, E necessario mobilitare energie e volontà per arginare la terribile diffusione della droga, in Id., Insegnamenti di Paolo VI, X, Città del Vaticano 1972, 1285.

V. Marcozzi

IV. Il fenomeno. Vi sono delle esperienze apparentemente mistiche che spesso vanno sotto il nome di "mistica", come certi fenomeni concomitanti o pseudo-mistici. Alcuni di questi sono di carattere più o meno somatico; altri, invece, riguardano l'ordine della conoscenza. Questi fenomeni, che, di solito si verificano nelle anime mistiche, ma possono presentarsi anche in quelle anime che mistiche non sono, costituisce, come già indicato sopra, la cosiddetta p. Questa studia le cause dei fenomeni straordinari della vita mistica, dovute, talvolta, a varie contraffazioni diaboliche, o a fatti semplicemente naturali. La p., inoltre, s'interessa anche del rapporto comparativo tra le diverse esperienze mistiche presenti nelle grandi religioni, come il buddismo, l'ebraismo, l'induismo, l'islamismo, ecc.

V. Secondo la vera tradizione mistica, quale posizione assumere dinanzi a tali fenomeni? Innanzitutto un sano scetticismo che non permetta di annettere alcuna importanza a questi fenomeni concomitanti. Anche dagli effetti prodotti nell'anima si può risalire all'autencità mistica di detti fenomeni: per dirla evangelicamente, dai frutti si riconosce l'albero, e l'albero buono produce frutti buoni (cf Mt 3,8; 7,17; 12,33; Lc 6,43), ma il criterio per discriminare un vero da un falso fenomeno mistico è quello di constatare se il soggetto in questione viva un'intensa vita di carità pasquale, perché il frutto dello Spirito è l'amore (cf Gal 5,22).

Bibl. Aa.Vv., La mistica non cristiana, Brescia 1969; Aa.Vv., La mistica e le mistiche, Cinisello Balsamo (MI) 1996; Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 19893, 520-524; J. Cornwell, Paranormale dossier aperto, Cinisello Balsamo (MI) 1994; J. Guitton - J.-J. Antier, Poteri misteriosi della fede, Casale Monferrato (AL) 1994; J. Lhermitte, Mistici e falsi mistici, Milano 1955; G. Thils, Religioni e cristianesimo, Assisi (PG) 1967; H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Alba (CN) 1956; G. Walther, Phänomenologie der Mystik, Freiburg i.B. 1955.

L. Borriello

PAROLA DI DIO. (inizio)

Premessa. Il Concilio Vaticano II ha dimostrato la sua novità e la fedeltà alla tradizione consegnandoci una costituzione dottrinale sul primato della P., la Dei Verbum.

I. Nella tradizione. Il primo millennio, grazie alla presenza dei Padri della Chiesa e del Medioevo monastico, ha garantito la presenza qualificata della P., possiamo dire, quasi a senso unico come ci veniva tramandata dalle Sacre Scritture dell'uno e dell'altro Testamento. L'unico genere letterario, soprattutto per quanto riguarda la spiritualità, per il primo millennio, nel suo insieme, è costituito dai commentari biblici che ci sono pervenuti, anche con i diversi caratteri, da quello strettamente dottrinale, più connesso alle riflessioni dei Concili sugli aspetti delle controversie, a quello più parenetico, più pastorale e spirituale, capace di guidare l'educazione alla fede del popolo di Dio.

II. Il secondo millennio, già delineatosi, peraltro, con i Carolingi e caratterizzato da una grande secolarizzazione della Chiesa romana, culminante nella lotta per le investiture dei sec. XII e ss., segnerà un esilio della Sacra Scrittura. La liturgia, perciò, si propone sempre più come esercizio del culto pubblico connesso ad una lingua non più parlata dal popolo. Il profondo giuridicismo, soprattutto della Chiesa gerarchica, favorirà quei processi devozionali che diventeranno il linguaggio sempre più a senso unico della via della fede. La teologia positivo-scolastica non è più in grado di esprimere la riflessione teologica in connessione con la P. Prevale il carattere apologetico della verità da credersi. La divisione delle Chiese di Oriente e di Occidente aggravava la situazione nel confronto del primato della P. che nella unità dei Testamenti si proponeva come criterio ermeneutico profetico dell'unità e del pluralismo, doni dello stesso Spirito, nella Chiesa. La riforma ecclesiale del sec. XVI, riproponendo il primato della Scrittura, procedeva in modo radicale a quella reformatio Ecclesiae, così legata al deciso influsso della P.

Nello stesso periodo l'istituto dell'Inquisizione procederà alla proibizione della divulgazione delle Scritture nelle lingue volgari perché connessa alla riforma protestante e ai movimenti del Libero Spirito che si richiamavano in modo acritico alla P. della Scrittura. La vita di Teresa d'Avila sperimenterà nel vivo il processo inquisitoriale. La grande maestra e mistica si lamenterà con il Signore di non poter leggere le Sacre Scritture! Fu allora che il Signore la consolò con le parole: Teresa sarò io il tuo libro vivente! Sarà questo emergere di una kenosi della Chiesa e della P. lungo i sec. XII e ss. a favorire il sorgere di quelle coscienze plurime della mistica cristiana espressa anche dalle grandi figure di donne spirituali, nonostante l'abbandono delle Scritture, da una liturgia sempre più incompresa anche a motivo della lingua, da un contesto ecclesiale ben delineato dalle notti oscure di Giovanni della Croce. Anche se in senso differente dal suo intento immediato, si giungerà a quel movimento biblico, liturgico, patristico, laicale che dal Concilio Vaticano I in poi sarà uno dei segni che esprimeranno la Kenosi della P. resa sempre più somigliante mistericamente a quella figura emblematica, profetica del servo sofferente del Deuteroisaia, che redime e riscatta il mondo. In questo contesto seguiremo quanto A. Rosmini percepì in rapporto alla Reformatio in capite et in membris per riproporre la memoria profetica della Chiesa popolo di Dio, andata completamente smarrita lungo il processo dei secoli seguito alla reformatio gregoriana. Ricordiamo il card. J.H. Newman e il teologo tedesco J.A. Möhler che riproponevano il valore con cui i Padri avevano letto le Scritture nel loro senso spirituale, come un primordiale da recuperare urgentemente. Il Concilio Vaticano II sarà un evento salvifico per la netta affermazione del primato della P. e per la riproposta della teologia della tradizione auspicata dai contributi di H. de Lubac e di J. Daniélou, di Y. Congar e di una sequela di teologi di questa scuola illuminata dallo Spirito della Pasqua del Signore.

Così conclude la Dei Verbum: " La Chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della P. che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli " (n. 21). " E necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola, siano attaccati alle Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché qualcuno di loro non diventi "vano predicatore della Parola all'esterno, lui che non l'ascolta da dentro", mentre deve partecipare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della Parola divina, specialmente nella sacra liturgia. Parimenti, il santo Concilio esorta con forza e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere "la sublime scienza di Gesù Cristo" (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture. "L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo". Si accostino dunque volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi che, con l'approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché "gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini" " (DV 25). " Con la lettura e lo studio dei libri sacri "la P. compia la sua corsa e sia glorificata" (2Ts 3,1) e il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini. Come dall'assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall'accresciuta venerazione della Parola, che "permane in eterno" (Is 40,8; 1 Pt 1,23-25) " (DV 26).

III. Processo storico della P. Una nota teologica, propria di Gregorio Magno, illustra il processo storico della P. nella Chiesa: è il rapporto tra P. e popolo di Dio, che, alla luce del Concilio Vaticano II, giunge come una provocazione così appropriata al cammino odierno della Chiesa.

" Prima di tutto, lui stesso (=Gregorio) in quanto vescovo si sente debitore verso la sua comunità ecclesiale per l'intelligenza della Parola che andava esponendo. "So, infatti, che spesso molte cose che nella Santa Scrittura da solo non riuscivo a comprendere le ho capite quando mi sono trovato in mezzo ai miei fratelli. Dietro questa conoscenza, ho cercato di capire anche per merito di chi mi era stata data tale intelligenza. Così, con la grazia di Dio, avviene che aumenta l'intelligenza e diminuisce la superbia, mentre per causa vostra imparo ciò che a voi insegno, perché, ve lo confesso candidamente, il più delle volte con voi ascolto quello che a voi dico. Perciò nella lettura di questo profeta (Ezechiele) quando comprendo poco è per la mia ignoranza spirituale; quando poi posso approfondire il suo senso è per la grazia di Dio, concessami dalla vostra pietà' (Hom. in Ez. II, 2: PL 76, 948D-949A). Ma Gregorio procede oltre. " Lo Spirito, che porta ogni membro del popolo di Dio, può far sì che i fedeli comprendano meglio del loro maestro il senso della Parola. In questo caso, il maestro diventa discepolo a sua volta dei suoi fedeli più illuminati dallo Spirito Santo. "Se il mio uditore e lettore, che certamente potrà comprendere il senso della Parola in modo più profondo e più vero di quanto ho fatto io, non troverà di suo gradimento le mie interpretazioni, tranquillamente lo seguirò come un discepolo segue il maestro. Ritengo come un dono tutto ciò che egli potrà sentire e comprendere meglio di me. Quanti, infatti, ripieni di fede ci sforziamo di far risuonare Dio, siamo organi della verità che essa si manifesta per mio mezzo agli altri e che per gli altri giunge a me. Essa è certamente uguale per tutti noi, anche se non tutti viviamo allo stesso modo; ora tocca questo, perché ascolti con profitto ciò che essa ha fatto risuonare per mezzo di un altro; ora invece tocca quello, perché faccia risuonare chiaramente ciò che gli altri debbono ascoltare" ". Gregorio prosegue in questa dialettica spirituale della P. " Il cammino spirituale di chi presiede la comunità è vincolato dal progresso nella fede dei fratelli, e viceversa questa crescita di fede dei fratelli è sostenuta dalla fede di chi presiede. In questo comune ascolto della P., la carità fraterna esprime i suoi carismi vari (Mor. 30, 27: PL 76, 569C-570A) ",1 affinché tutti possano raggiungere la pienezza della vita nello Spirito, che è la meta ultima di ogni itinerario mistico.

Note: 1 B. Calati, La spiritualità del primo Medioevo (secc. VII-XII), in Aa.Vv., La spiritualità del Medioevo, Roma 1988, 17.

Bibl. Aa.Vv., Parola di Dio e spiritualità, Roma 1984; S. Agouridas, Parola di Dio ed esperienza mistica, in J.-M. van Cangh (cura di), La mistica, Bologna 1997, 47-58; B. Baroffio, La mistica della Parola, in La Mistica II, 31-46; B. Calati, s.v., in NDS, 1134-1150; B. Corsani, s.v., in NDTB, 1097-1114; J. Guillet, s.v., in DSAM XII1, 237-252; M. Magrassi, Vivere la Parola, Noci (BA) 1980; C.M. Martini, In principio la Parola, Milano 1982; D. Mollat, La Parola e lo Spirito, Città del Vaticano 1987; C. Rocchetta, s.v., in DES III, 1873-1877; C. Vagaggini et Al., Bibbia e spiritualità, Roma 1967.

B. Calati

PARSCH PIUS. (inizio)

I. Vita e opere. Nato con il nome di Giovanni Evangelista (Hans) il 18 maggio 1884 a Neustift, vicino Olmütz in Moravia, allora parte dell'Impero austro-ungarico ed oggi nota come la città ceca di Olomouc, Sebastian Parsch muore nel monastero di Klosterneuburg, vicino Vienna, l'11 marzo 1954. Ha un'infanzia tranquilla e crescendo, studente laborioso, s'interessa anche di atletica e di arte drammatica amatoriale. Al termine dei suoi studi entra a far parte della Congregazione dei canonici regolari di sant'Agostino a Klosterneuburg nel 1904, ricevendo il nome religioso di Pius (Pio), dopo la recente elezione di Pio X. Il nome si rivela in qualche modo provvidenziale, poiché, già durante i suoi studi, il giovane religioso si unisce ad altri nell'intento di completare nel monastero l'insegnamento di san Pio X sulla Comunione frequente. Allo stesso tempo, mostra interesse per la celebrazione liturgica, cercando di redigere la sostanza di un commento sull'Ufficio divino. Prepara una dissertazione sul significato della morte di Cristo sulla croce in s. Paolo. Negli anni successivi alla sua ordinazione sacerdotale, nel 1909, occupa il tempo preparando un dottorato in teologia all'Università di Vienna (conseguito nel 1912) e con l'ufficio pastorale in una parrocchia alla periferia di Vienna, dove indirizza le sue energie ad incoraggiare i fedeli alla frequente comunione e ad una direzione spirituale individuale. Nel 1915 è chiamato come cappellano militare al fronte e sperimenta nuove esperienze pastorali venendo in contatto, per la prima volta, con uno strato della popolazione che in pratica vive lontano dalla Chiesa considerata mondana o formalistica e ostile.

P. giunge così alla conclusione della necessità di un rinnovamento della pietà popolare nella pratica liturgica e pastorale da ottenersi soprattutto attraverso un ritorno alle origini. Tornato a Klosterneuburg, alla fine della guerra, comincia ad animare una varietà di gruppi liturgici e biblici e a promuovere lì ed in varie parrocchie viennesi le nuove celebrazioni liturgiche. Avendo già iniziato a progettare sussidi per incrementare la partecipazione della gente, P., nel 1925, fonda una casa editrice che, dal 1926, pubblica la rivista Bibel und Liturgie e, dal 1928, un settimanale: Leben mit der Kirche. Queste diverse iniziative, gradatamente, riescono ad esercitare un'influenza sull'opinione pubblica nazionale ed internazionale. I testi della Messa, in traduzione tedesca, sono distribuiti in più di tre milioni di copie in soli tre anni e, agli inizi del 1930, le sue idee fanno testo.

Gli anni del nazional-socialismo in Germania e in Austria e la Seconda Guerra mondiale, vanificano la crescita del movimento di aggregazione, ma P. riprende a lavorare progressivamente sulle sue iniziative dal 1945, finché, nel 1952, non viene parzialmente paralizzato da un colpo apoplettico che lo conduce alla morte due anni più tardi. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue e ristampate più volte.

II. Insegnamento. P. desidera restituire alla prassi cristiana due elementi perduti: la Bibbia e la liturgia, le sole che avrebbero permesso di sviluppare una vita spirituale fondata solidamente. La pietà personale dev'essere nutrita da una lettura individuale e quotidiana della Scrittura e da un'attenzione al contenuto della liturgia, soprattutto alla proclamazione liturgica della Parola di Dio, allontanandosi da una devozione-fondata e da una pietà soggettiva e avvicinandosi agli oggettivi e centrali misteri della fede, interpretati e narrati nella Bibbia e celebrati in vari aspetti della liturgia, soprattutto durante la Messa e l'anno liturgico. Dovrebbe anche essere contraddistinta da un rinvigorito senso del sacerdozio di tutti i fedeli. Da questo momento, P. fa tutto il possibile per promuovere un senso comunitario della celebrazione liturgica. Riguardo al culto eucaristico, P., nel suo ministero, cerca di distanziarsi da ciò che considera un'esagerata enfasi sull'adorazione del SS.mo Sacramento a favore di un'attiva partecipazione alla celebrazione della Messa, che include la frequente comunione sacramentale; una partecipazione che deve, quindi, portare ad un'azione caritativa pratica nei confronti del prossimo emarginato.

Come uno dei grandi apostoli del movimento pastorale liturgico, P. contribuisce validamente, attraverso la sue attività a dare nuovamente alle persone il senso della loro appartenenza alla Chiesa come Corpo di Cristo stimolando non un'appartenenza formale, ma una vera incorporazione mistica nella sua realtà sacramentale, come espressa perfettamente nella celebrazione eucaristica.

Bibl. Cf in modo particolare gli studi di N. Höslinger - T. Maas-Ewerd (edd.), Mit sanfter Zähigkeit: Pius Parsch und die biblisch-liturgische Erneuerung, Osterreichisches Katholisches Bibelwerk, Klosterneuburg 1979; R. Pacik, s.v., in DSAM XIII, 267-271; Id., Volksgesang im Gottesdienst..., Klosterneuburg 1977.

A. Ward

PASCAL BLAISE. (inizio)

I. Cenni biografici. P. nasce nel 1623. Scienziato geniale, filosofo cristiano, è anzitutto un pensatore religioso, la cui esperienza di Dio è centrata sul mistero di Cristo. In un certo senso, P. diventa emulo e discepolo di s. Giovanni della Croce.

Il magistrato Etienne Pascal lascia al figlio una doppia eredità, quella di natura e quella di cultura, in quanto pedagogo dei figli con l'istruzione umanistica e scientifica, con la formazione umana e religiosa. Accanto al padre, P. conosce Descartes ( 1650). La dimora della famiglia Pascal a Clermont-en-Auvergne, a Parigi, a Rouen, favorisce l'incontro con la cultura francese del Seicento. In famiglia P. subisce anche l'influsso giansenista. Nel 1646, legge le opere di Saint-Cyran ( 1643), di Arnauld ( 1619) e forse l'Augustinus di Giansenio ( 1638). Da allora, P. entra in sintonia con lo spirito di Port-Royal, dove la sorella Jacqueline diventa suora ed egli stesso si ritroverà spesso tra " i solitari ". Dall'eredità ricevuta in famiglia e nell'ambiente della cultura del suo tempo, con vantaggi e limiti, P. sviluppa la propria personalità religiosa in tre modi da lui definiti geometra, o pirroniano cristiano.

II. I limiti della ragione. L'itinerario spirituale di P. ha inizio nell'ambito della scienza fisico-matematica. P. dà prova di essere un genio precoce. I suoi trattati sulle coniche, sul vuoto, sulla curva cicloide, sul calcolo delle probabilità, sul triangolo aritmetico, sono considerati perfetti. Inventa la prima macchina per le operazioni aritmetiche e ottiene dal re il permesso per la prima linea pubblica di trasporti, nel 1662. Dimostra di avere l'ésprit de la géométrie. Allo stesso tempo, P. intuisce anche i limiti della scienza e ne fa " rinuncia totale e dolce ", per arrivare a verità più profonde, mediante la ragione e l'ésprit de la finesse. Mosso dalla singolare esperienza religiosa del 1654, P. è convinto che il problema radicale sia quello religioso: l'uomo davanti a Dio. Egli si è sentito chiamato, come Maimonide ( 1204), alla guida des égarés del suo tempo, atei e libertini. A questo scopo ha concepito il progetto di un'Apologia contro gli increduli. In questo lavoro ha dato il meglio di se stesso. A noi sono arrivati soltanto frammenti, i Pensées, briciole di una mensa opulenta. P. prende l'incredulo per mano, gli mostra i frutti della propria miseria, gli propone il difficile problema della " canna pensante " e lo porta con sé alla ricerca di una soluzione, al di sopra della povera filosofia e della ragione, per le vie del cuore e della fede. La ragione umana arriva soltanto al Dio dei savants, non al Dio vivente, al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, al Dio rivelato in Gesù Cristo, perciò sia il geometra che il filosofo devono lasciarsi convincere dal cristiano.

III. Il mistero di Gesù. L'itinerario di P. trova il culmine nel mistero di Gesù. Nella notte del 23 novembre del 1654, P. ha un'esperienza religiosa singolare, da lui descritta nel Memoriale, come momento di " fuoco ", di conversione. Trova Dio rivelato in Gesù Cristo. P. comprende la centralità del mistero di Cristo, via e verità. Solo per mezzo di Gesù Cristo si è in grado di conoscere Dio e se stessi. Il mistero dell'uomo si rivela, perciò, nel mistero di Gesù. Conoscenza e mistero, chiaro e oscuro, vanno insieme. Il mistero di Cristo si scopre nella passione: Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo. A partire da questa esperienza, tutta l'attività pascaliana sarà orientata verso Cristo, nella sua vita povera e distaccata, fino alla morte nella casa della sorella Gilberte, il 19 agosto del 1662. L'incontro con Cristo è il sigillo del cristiano. La differenza tra i primi cristiani e noi sta nel differente approccio al mistero di Gesù.

Questo cristocentrismo fa di P. un precursore della ricerca mistica contemporanea di Dio che, per lui, pur nel suo mistero, è fondamentalmente conoscibile, perché egli illumina o acceca, secondo la sua impenetrabile volontà. Egli rende raggiungibili e comprensibili anche gli stessi livelli corporali e spirituali, che restano inferiori, a partire dall'alto, dall'amore divino reso presente in Gesù Cristo.

Bibl. Opere: Oeuvres complètes, a cura di J. Mesnard, I, Paris 1964, II, 1970; in tr.it., Blaise Pascal, Pensieri, Opuscoli, Lettere, Milano 1978; Studi: A. Bausola, Introduzione a Pascal, Bari 1973; H.D. Egan, Blaise Pascal, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 534-542; C. Fabro, s.v., in DES III, 1877-1882; M. Figura, s.v., in WMy, 393-395; R. Guardini, Pascal, Brescia 19803; J. Mesnard, s.v., in DSAM XII, 279-291; Id., Pascal, l'homme, l'oeuvre, Paris 1967; A. Moscato, Pascal. L'esperienza e il discorso, Milano 1963; H. Schmitz, Pascal, une biographie spirituelle, Assen 1982; M.F. Sciacca, Pascal, Milano 1962.

A. Lobato

PASSIONI. (inizio)

I. Terminologia e contenuto. Il concetto di passione è sempre stato presente nel pensiero filosofico e teologico e da esso ha ricevuto determinazioni contenutistiche, classificazioni e valutazioni morali diversificate, fondate su differenti opzioni antropologiche soggiacenti. Ne è derivata una configurazione polivalente e talora ambigua che si richiama o alla passività recettiva o a ciò che propriamente irrobustisce il processo operativo o a ciò che offusca l'autentico porsi razionale dell'uomo.

Una concezione antropologica dualista, quale quella iniziata nel pensiero platonico e continuata nei suoi svariati epigoni, incontra nello stoicismo il suo porsi più significativo che ha influenzato grandemente il pensiero teologico e spirituale cristiano sia orientale che occidentale. Le p. impediscono come " malattie dell'anima " l'incontro con la ragione personale e con la natura cosmica e, valutate moralmente come cattive, sono identificate come vizi - tendenza per altro prevalente negli scritti biblici, dove il termine passione non è semplicemente descrittivo ma implica già una precisa connotazione negativa -, venendo meno a quel giudizio neutrale su di esse, che invece aveva caratterizzato la riflessione di Aristotele ( 322 a.C.) prima, e di Lattanzio ( 350 ca.) e di Tommaso d'Aquino poi.

II. Nel cammino ascetico il dominio di se stessi prevedeva la prima tappa della lotta alle p., che mirava all'apatia, al non sentire, e che aveva lo scopo di condurre il carnale e lo psichico dell'uomo sotto il dominio dello spirituale ed evitare quella deregolazione inevitabile in una vita che accoglie la presenza del passionale.

Quest'ordine di idee viene ripreso ed accentuato nella visione protestante riguardo alle conseguenze sulla natura - con tutto quello che il termine riassume in sé - della condizione lapsaria generata dalla colpa originale che inficia radicalmente la bontà della creazione relegandola ad una costitutiva incapacità operativa rispetto al conseguimento del bene morale e spirituale.

In epoca moderna, possiamo ritrovare nel medesimo solco, per un certo verso, lo stesso Cartesio ( 1650) con un accostamento meccanicistico e fisicista basato sulla netta separazione tra " res cogitans " e la " res extensa " e più ancora E. Kant ( 1804), nel cui approccio l'imperativo categorico deve trovare precisa esecuzione in quella purezza apatica che ne assicura l'autenticità motivazionale ed operativa.

III. La nascita della psicologia sperimentale ha visto la continuazione di questo modello d'approccio: per S. Freud le pulsioni sono cieche e talmente irrazionali ed amorali da essere distruttive per la persona e la società. Lo stesso indirizzo viene assunto anche dal sociologo E. Durkheim nel definire la connotazione prevalentemente egoistica di ogni inclinazione naturale. In altri ambiti di ricerca psicologica si afferma invece un certo cognitivismo, una sorta di intellettualismo etico che riduce la capacità morale della persona alla semplice conoscenza razionale del bene e del male, semplificando pesantemente anche sul versante emotivo e passionale.

Per contro si registra un approccio unitario a livello antropologico che interpretando l'essere umano secondo il principio di unitotalità, permette una migliore valorizzazione di tutte le risorse dell'uomo in ordine alla sua completa e reale autorealizzazione. In esso si afferma pure la neutralità morale delle p. in quanto tali, neutralità che viene determinata dalla finalità a cui esse sono indirizzate ricevendo così la loro successiva qualifica positiva o negativa, come virtù o vizio. E l'approccio già presente in Aristotele e ripreso da Tommaso d'Aquino, divenendo tipico della genuina riflessione teologico-morale cattolica, aliena sia dal pessimismo di indole protestante che da prospettive antropologiche dualiste.

IV. La p. nella vita spirituale. Si pone allora il problema di disporre la forza delle p. a servizio del progetto personale, progetto che l'uomo stesso è chiamato a leggere razionalmente e a decidere liberamente a partire dal senso della propria umanità. E propriamente qui il luogo umano e cristiano del discernimento e della selezione della ragione pratica illuminata dalla fede, fede che ultimamente svela l'uomo a se stesso nella misura in cui lo inserisce nel mistero di Dio in Cristo. Il discernimento morale svincola dalla fissazione sul particolare tipica della " vis appetitiva " per una considerazione più ampia e più profonda e configura questa risorsa dell'uomo come atteggiamenti permanenti virtuosi, di cui la rivelazione cristiana indica la portata ultima e globale incidendo nel livello motivazionale con le virtù teologali di fede, speranza e carità, anima della vita morale e spirituale dell'uomo cristiano. L'obiettivo a lungo termine punta alla configurazione del carattere morale della persona e a livello cristiano a saper vivere l'esperienza morale come esperienza della " legge nuova " dello Spirito Santo, la cui accoglienza matura nelle svariate forme di santità, da quella mistica a quella apostolica, proprie di chi, ormai adulto nella fede, vive nella propria originalità storica e biografica l'attualità dello Spirito del Risorto.

In tutto ciò si possono anche individuare significative convergenze e riscontri con la modalità storica con cui l'uomo è, cioè con l'intrinseca processualità e progressività del proprio essere chiamato ad una felice realizzazione. Anche per le sue inclinazioni e p. l'uomo è storico e dinamico, inclinazioni che debbono essere certamente interpretate e correlate col senso, ma che già nel loro porsi e nel loro esistere lasciano intravedere un orientamento finalizzato ed un percorso operativo. La moderna psicologia ha descritto la passione come polarizzazione emotiva che predomina sulla vita psichica con una certa tensione e con una certa durata che ha un'azione direttiva sulla condotta e sul pensiero. S. Freud individua nella spiccata plasmabilità una delle caratteristiche delle pulsioni, che possono essere sottratte alla loro pericolosa regressività incanalandole produttivamente, tramite la sublimazione, al servizio della persona e della civiltà, anche se il tutto prende le mosse da un determinismo indubbiamente problematico da un punto di vista morale e spirituale.

Sembra che così possa ricevere iniziale risposta una ricorrente e talora giustificata lamentela rivolta da diversi fronti - anche intraecclesiali - circa l'accentuata razionalizzazione dell'esperienza morale e spirituale cristiana a detrimento o in opposizione dell'articolato mondo emotivo ed affettivo. Per altro verso, il rischio che si corre qui è quello dello spontaneismo, cioè il vivere la semplice espansione emotiva di sé senza ulteriore considerazione, affidandosi al libero corso dei processi pulsionali miranti alla ricerca e alla soddisfazione momentanea del piacere. A ciò tende chiaramente l'edonismo e in certa misura anche l'utilitarismo seppur in maniera più razionale e raffinata.

Evidentemente matura qui una questione educativa e il dovere morale per una cura della propria identità personale sia umana che cristiana, proprio perché ciò che più propriamente l'uomo è, consiste nel suo libero decidersi. In questa prospettiva ricordiamo la legge della gradualità, riproposta dalla Familiaris consortio (n. 34), che con saggezza riconosce le tappe dello sviluppo e della crescita e su di esse, se non determina l'oggettivo morale, tuttavia calibra il concreto possibile del soggetto, perché non sia indebolito da un perfezionismo tanto rigido quanto impraticabile e dall'altra non sia avviluppato da uno spontaneismo talmente ingenuo da impedire ogni progresso anche quello realmente fattibile. L'educazione è un'educazione globale della persona, procede coinvolgendo perciò contestualmente ogni sua risorsa e dimensione, evita ogni forma di intellettualismo, che farebbe consistere la qualità della vita morale semplicemente nelle acquisizioni cognitive della verità morale, come pure ogni forma di volontarismo, che ritiene perseguibile il bene morale solo con un rilevante investimento della volontà, troppo legato al premorale del risultato e poco trasparente al valore morale dell'atteggiamento che modifica la persona. Ed infine, come ogni itinerario, anche quello educativo conosce momenti involutivi, da cui forse per una superficiale ponderazione della vita morale e spirituale è difficile talora riprendersi. La certezza che l'impegno morale espresso non vada mai perduto e una criteriologia valutativa più profonda e affinata permettono di riformulare il cammino della vita cristiana secondo le possibilità del concreto e del situato, dove il Dio di Gesù Cristo chiama personalmente ogni uomo. La secolare esperienza di vita cristiana, raccolta nella saggezza della Chiesa, ha visto e continua a vedere nell'educazione delle passioni un campo delicato del proprio itinerario, valorizzando in modo precipuo la volontà come prassi ascetica. L'ascesi punta a raccogliere ogni risorsa dell'uomo e ad investirla e a finalizzarla allo scopo da lui accolto e scelto, rendendo realmente la persona " padrona " di se stessa, perché, in tutte le sue svariate dimensioni e livelli, effettivamente diventa - e perciò è - ciò che essa stessa ha scelto di essere: si determina così l'autenticazione della persona. Questo cammino, che non è lineare e incontra talora la notte dei sensi e dello spirito, si configura come un rapporto personale di amicizia con Dio, sorretto e coltivato nella preghiera di meditazione, di contemplazione e di unione.

Note: 1 Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo I, 6-13; III, 16-45.

Bibl. G. Blais, Le passioni umane, Roma 1968; G. Chimirri, Etica delle passioni, Bologna 1996; J. Duvignaud, La genèse des passions dans la vie social, Paris 1988; B. Fraling, s.v., in WMy, 395-396; S.G. Harak, Virtuous Passions of Christian Character, New York 1993; V. Marcozzi, Ascesi e psiche, Brescia 1963; G.G. Pesenti, s.v., in DES III, 1888-1891; S. Pinckaers, Les passions et la morale, in RSPT 74 (1990), 379-391; A. Solignac, Passions et vie spirituelle, in DSAM XII1, 339-357.

P. Carlotti

PASSIVITA. (inizio)

I. Il termine P. può indicare generalmente la condizione di chi subisce un'azione o un influsso proveniente da altri. Nel mondo dello spirito può significare lo stato di ricettività dell'anima, cosciente o non, di fronte all'azione divina della grazia: ciò che si verifica a qualsiasi livello spirituale. Ma, sul piano mistico, gli scrittori intendono qualcosa di molto diverso e preciso, che è necessario capire. Non si tratta semplicemente di inattività di fronte all'influsso della grazia, ma di un' esperienza mistica ben qualificata, che non ha nulla a che fare con l'inerzia spirituale né con l'atteggiamento quietista, che è inattivo e indifferente di fronte sia al bene che al male.

II. Il contenuto mistico. L'idea di p. mistica risale ad una frase di Dionigi Areopagita,1 che parla dell'anima la quale, per un influsso soprannaturale, non solo conosce, ma sperimenta le cose divine (" non solum discens sed patiens divina ", secondo una traduzione medievale). S. Tommaso d'Aquino spiega questa frase dicendo che l'anima " non solo è nello stato di chi riceve la conoscenza delle cose divine, ma anche di chi, amandole, si unisce ad esse con l'affetto ". Così l'esperienza positiva è posta nel campo dell'affetto perché questo tende verso gli oggetti nella loro realtà mentre l'intelligenza si ferma alla propria conoscenza.

In questo senso, gli scrittori mistici posteriori hanno cercato di descrivere questa p. esperienziale del divino (pati divina): ciò che è abbastanza indescrivibile. Siamo nel campo psicologico dell'esperienza mistica che può avere molteplici manifestazioni.

Intanto si tratta di fatti di origine soprannaturale, che nessuna forza umana può produrre. L'esperienza parte dalla fede divina, disposta a ricevere tutto ciò che viene dall'alto. Nella luce della fede lungamente e appassionatamente meditata si suscitano ardenti desideri di toccare, di possedere quelle cose eccelse. Il desiderio è sostenuto dal cuore purificato da ogni altra attrattiva. L'anima, quindi, non può fare altro che attendere, in un'attitudine positiva, ciò che gratuitamente può venire solo dall'alto. Il momento di attesa non si sa quanto sarà protratto. Certo che l'anima non può far altro che attendere, senza parole, passivamente, con le mani dello spirito levate in alto.

Forse la risposta verrà con una ferita d'amore o con una sensazione d'abbraccio o con una visione celestiale di festa nuziale, o altro.

Dio ha infiniti modi per riempire di doni meravigliosi le mani della creatura che attende. Molti di questi modi resteranno nei segreti ricordi del mistico come sogni meravigliosi che non si raccontano. Ma nelle vite dei santi si leggono tante di queste esperienze che a volte hanno superato l'attesa lasciando segni di una realtà inesprimibile.

La p., quindi, è il clima di un dono di esperienza divina, concesso al mistico quasi come un anticipo del cielo.

La p. di cui parliamo ha una chiara connotazione affettiva, alimentata dall'orazione mistica (Giovanni di Gesù Maria). Questa si fonda non su una teoria intellettuale, ma su una verità di fede, la presenza di Dio nell'anima (inabitazione), attestata da s. Paolo (cf Rm 8,9ss. Ef 3,17ss. Gv 14,17ss.). Tale presenza, intensamente contemplata sotto la guida dello Spirito, è forza attrattiva per i servi di Dio distaccati da ogni preoccupazione personale. L'anima allora è tutta disponibile alla manifestazione, comunque sia, della divinità. In questo atteggiamento, risultato di tutte le purificazioni precedenti attuate sotto la guida medesima, l'anima è pronta al misterioso incontro dell'esperienza diretta o comunione con Dio: " Qui tu mi mostrerai quel che l'anima mia da te pretende ".2

La nozione esposta si distingue bene dal cosiddetto " sonno delle potenze ", come pure dal sonno spirituale di cui parlano alcuni autori.

Note: 1 Dionigi Areopagita, Dei nomi divini II, 9; 2 S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, str. 38.

Bibl. P. Adnès, Sommeil spirituel, in DSAM XV, 1041-1053; Ch.-A. Bernard, Structures et passivité dans l'expérience religeuse, in NRTh 110 (1978), 643-678; R. Kiechhefer, The Notion of Passivity in the Sermons of John Tauler, in Recherches de théol. anc. et méd., 48 (1981), 198-211; A. Mager, Le fondament psychologique de la purification passive. Anima et Spiritus, in ÉtCarm 23 (1938)2, 24-53; G.B. Scaramelli, Il Direttorio mistico I, Venezia 1754; A. Solignac, s.v., in DSAM XII1, 357-360; Tommaso d'Aquino, Commentarium super De divinis nominibus, Torino 1950.

G. D'Urso

PATIRE. (inizio)

I. Descrizione del fenomeno. Da sempre i discepoli di Cristo hanno cercato di seguire il loro Maestro portando la croce. Nei primi secoli cristiani fervorosi ambivano imitare il martire del Golgota aspirando al martirio cruento. Cessate le persecuzioni, s'incominciò a cercare la morte incruenta col separarsi dal mondo andando nel deserto o con ogni tipo di mortificazioni e rinunce. Poi si passò, seguendo le parole di s. Paolo, alla crocifissione della carne (cf Gal 5,24), qualificata come nemica dello spirito (cf Gal 5,17), cioè a combattere le tendenze dei sensi, fino ad essere morti alle opere della carne e sepolti con Cristo (cf Col 3,3; Rm 8,4).

Di qui nacquero, nel tardo Medioevo e dopo, tante pratiche penitenziali, escogitate per trovare nuovi modi per castigare la carne con digiuni, astinenze e flagelli fino all'inverosimile. S. Caterina da Siena fu, in questo, un modello per molte altre donne sante dei secoli successivi che, in un'eroica gara di sofferenze volontarie, desiderate e sopportate, agivano per la gloria di Dio e la salvezza del prossimo.1

II. L'esperienza del p. All'imitazione del Crocifisso si aggiunse la volontà di cooperare all'opera redentrice del Salvatore e al compimento del piano divino di salvezza. Cercare dunque insistentemente i patimenti, invece di fuggirli, fino a dare il proprio sangue per il Cristo, in un martirio incruento. Di qui venne l'idea del " puro p. ". Il patimento volontario si può dire puro: a. anzitutto se è libero da ogni condizionamento di intenzioni personali, fosse pure il desiderio della propria salvezza; b. il puro p. è essenzialmente mosso dal puro amore di Dio e della sua gloria; c. è offerta d'ogni pena nella quale non ci sia il proprio gusto né attesa di premio o consolazione, anzi specialmente le pene contrarie al proprio sentimento; d. unico scopo è compiacere il Signore, immedesimarsi in lui e nei suoi voleri, rinunziando a tutto ciò che si differenzia da essi perché non c'è niente di più perfetto di ciò che Dio vuole.

Questa dottrina è chiaramente praticata da molti santi o anime perfette; è adombrata dagli scrittori ascetici quando trattano della volontà di Dio significata. Più espressamente si trova in vari autori, come s. Giovanni della Croce nel Cantico spirituale,2 ma specialmente nei mistici pratici. S. Caterina da Siena, parlando del grado unitivo (terzo scalone), accenna a qualcosa di più, come un quarto stato di perfezione: " Ma è un frutto che esce da questo terzo stato d'una perfetta unione che l'anima fa in me (parla l'eterno Padre), dove riceve fortezza sopra fortezza, intanto che, non che porti con pazienza, ma esso desideri con ansietato desiderio di potere sostenere pene per gloria e lode del nome mio. Questi si gloria negli obbrobri de l'unigenito mio Figliolo... Così questi cotali, come innamorati dell'amore mio e affamati del cibo dell'anima, corrono alla mensa della santissima croce volendo con pena e col molto sostenere fare utilità at prossimo e conservare e acquistare le virtù ".3

Ma la vera profetessa ed esperta del puro p. è s. Veronica Giuliani. Ella ne parla espressamente innumerevoli volte, osservandone per esperienza tutti gli aspetti. Ella, come s. Francesco Saverio ( 1552) invoca spesso " più pene, più pene " e come s. Francesco d'Assisi trova diletto in ogni pena, intestando le sue lettere con il distico: " Le croci e i patimenti sono gioie e son contenti ". La sua drammatica descrizione di un castello interiore 4 non è altro che il " castello del puro p. ", murato di pietre scolpite di croci e dominato da una sola e pura croce. Altrove spiega il concetto del p. in termini precisi: " In un subito si sente l'anima totalmente spogliata di tutto, tanto in ordine allo spirito come anche al temporale. Iddio le fa capire il suo annientamento e la sua impotenza... Essa non s'avvede se è in cielo o in terra. Si vede del tutto priva, e non ha pure un sussidio di potersi sollevare e le pare di esser priva di tutto... Io questo lo chiamo puro patire, perché qui non vi hanno che fare le potenze [dell'anima], le quali non si possono adoperare in niente; qui non vi sono sentimenti, perché tutto pare sia fuor di noi; qui non vi han che fare i sensi, perché essi si vedono di già come morti. Non è opera da loro né tampoco da nessun altra creatura. Solo è un semplice lume dell'anima sola sola, e però si può chiamare puro p. ".5

Note: 1 S. Caterina da Siena, Il Dialogo, a cura di G. Cavallini, Roma 1968, c. 5 e 78; 2 S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 37, 11; 3 S. Caterina da Siena, Il Dialogo, o.c., c. 78; 4 Veronica Giuliani, Diario, I, 278ss.; 5 Ibid., V, 214.

Bibl. D. Lucchetti, Ascesa spirituale e misticismo in s. Veronica Giuliani, Città di Castello (PG) 1983; C. Noce, Il martirio: testimonianza e spiritualità nei primi secoli, Roma 1987; S. Caterina da Siena, Il Dialogo, a cura di G. Cavallini, Roma 1968; A. Solignac, Pati divina, in DSAM XII, 357-360; S. Veronica Giuliani, Esperienza e dottrina mistica, a cura di L. Iriarte, Roma 1981.

G. D'Urso

PATOLOGIA SPIRITUALE. (inizio)

I. Precisazione dei termini. Qualunque sia la tradizione di cui esso è erede, quali che siano i suoi riferimenti dottrinali, il termine spiritualità significa e indica un modo di essere dell'esistenza per e secondo lo spirito, una vita " altra " implicata nella vita naturale, che si presume essere irriducibile agli atti che specificano e caratterizzano il comportamento biopsicologico. In particolare, allorché vien detta inseparabile dalla dimensione religiosa, la spiritualità vuol significare che la parola di fede, per non esaurirsi in termini anodini, è relazione dello spirito allo Spirito. Secondo alcuni filosofi e uomini di scienza e di tecnica, " spiritualità " è termine vuoto di senso. Viene riferito in parte al ripiegarsi su se stesso, al vuoto interiore riempito dalle pulsioni del corpo e dai suoi fantasmi, astratti dal mondo della natura e della storia. In tal modo, la spiritualità sarebbe una vera e propria causa perduta, per assenza proprio di quella realtà che si pretende conoscere e servire. E il progresso della ragione scientifica che depone nella medesima tomba la ragione filosofica e la spiritualità, o che per lo meno mette decisamente fra parentesi ogni dato spirituale, in ogni ordine di manifestazione, considerando la coscienza un mero epifenomeno, trascurando la distinzione tra coscienza e consapevolezza, tra Bewusstsein e Besinnung, come avrebbe detto Störring. Certamente, se il nostro corpo non è presenza, ma è soltanto consegnato alla biologia e in essa risolto, allora l'" interiorità spirituale " si riduce a fenomeno oggettivo per la psicopatologia, e nessuna ideologia può dissimulare il fondo crudamente naturalistico dell'approccio psicopatologico. L'umanità dell'uomo finisce per divenire irriperibile. Rianimare la memoria, il ricordo dello spirito, è possibile solo se il pensare recupera il suo luogo d'origine, scoprendosi altro da ogni fenomeno naturale, irriducibile all'insieme del mondo delle cose. E, dunque, un'alterità radicale dello spirito, che lo costituisce come un'inerenza al corpo, irriducibile alla biologia. Quando si dimentica il desiderio spirituale, che ci costituisce, facendoci " altri ", allora ci si riduce al banale destino biologico, per il quale il solo avvenire della nascita è la morte. Certo, lo spirito è legato alla simbolica dell'animazione della vita naturale, al respiro (e ciò in ogni cultura), ma esso designa anche l'intelligibile, inarrivabile dal sapere empiricamente mosso e condizionato. Sono, a ben vedere, due focalità semantiche, che sembrano escludersi vicendevolmente: la vita naturale (dal semplice accadere biologico all'intelligenza artificiale) e la conoscenza soprasensibile. Va anche detto, qui, che la " spiritualità " viene spesso considerata come interiorità astratta e, per ciò stesso, inferma, chiusa al mondo, nella sua soggettività sterile. Dobbiamo qui riconoscere che c'è il rischio affettivo di identificarsi con la disaffezione per l'esistenza storica e sociale di impigliarsi nel controsenso dell'introversione, che rende assenti dal mondo esterno. D'altro canto, lo spirito sa discernere la ricerca del " divino " da ogni fuga in avanti; altrimenti l'infinita possibilità dell'" intimior intimo meo " rischia, in un doppio controsenso, di scadere in fervore nostalgico per la sensibilità interna. Non è facile, per la spiritualità, revocare queste proprie perversioni. Ciò può accadere solo nella misura in cui si realizza la presenza reciproca dell'azione espressiva e della meditazione. Certo, spesso, la spiritualità tende a privilegiare il raccoglimento interiore; ciò risulta in parte dal rifiuto del qui-ora e in parte da una frequente adesione a una teologia negativa, ereditata dal neoplatonismo; la storia della spiritualità ne è costellata: si pensi al Cusano. Già G. De Luca, in una memorabile Introduzione all'Archivio Italiano per la Storia della Pietà (1951) spiegava allo sprovveduto lettore che la spiritualità è legata a quello stato psicologico dell'uomo in cui " è presente Dio, quasi per consuetudine d'amore ". Ma già nel 1916 don Angelo Roncalli, scrivendo la biografia del vescovo di Bergamo Radini Tedeschi, aveva intuitivamente definito la pietà come " la visione, l'amore, la ricerca di Dio e della sua gloria in tutto... la verità nello spirito, la carità nel cuore, la libertà nell'azione ". Questo aspetto della spiritualità (appunto, la pietà) ha avuto sempre, ed ha tuttora, ampiamente una dimensione laica che investe latamente e profondamente il " popolo di Dio ". L'aumentata estensione che il contributo del " popolo di Dio ", nella sua ampia svolta concettuale post-conciliare, offre all'esperienza religiosa comporta anche un aumento della frequenza e dell'intensità delle emergenze (o varianti) abnormi se non proprio nettamente patologiche (si pensi alla scrupolosità e a tutte le sue gradazioni e sfumature).1 Non va dimenticato, inoltre, che tali emergenze abnormi sono anche favorite dall'approfondimento della dinamica delle dimensioni psicologiche e sociali della " vita vissuta ", soprattutto in epoca attuale. Ciò comporta un dato innegabile: la lettura dei fattori spirituali, anche da parte dei più validi addetti ai lavori, è divenuta sempre più aliena da premesse dogmatiche, fideistiche, sempre più consapevole dell'estrema precarietà della cosiddetta " normalità " - soprattutto - sempre più impegnata nella dimensione temporale. Viene in tal modo sollecitata tutta l'attuale ricchezza (ma anche la varianza e il disordine) del vissuto religioso, più o meno consaputo e agito, sia nel quotidiano che nel grembo oscuro di ogni esperienza mistica. Se entriamo, con Le Goff, nel " cuore religioso " dei secoli passati e, con G. De Rosa, invadiamo il terreno della " pietà istituzionalizzata ", ci accorgiamo subito che la spiritualità è un " terreno vigilato ", pieno di trappole e di inganni, anzi un terreno minato, che sempre più dilata le sue radici in orizzonti etiologici, socioculturali, psicosociologici, sociopatologici e anche, abbondantemente psicopatologici, pur se oggi lo psichiatra è obbligato epistemologicamente a riflettere sulla legittimità e validità delle categorie concettuali cui egli d'abitudine ricorre nel formulare la " diagnosi ". E sempre più necessario esplorare, come è accaduto in Francia con Les Annales, il " vissuto religioso ", anche il più radicalmente ispirato, come orizzonte aperto alla " histoire totale ", capace sì di focalizzare le emergenze psico(pato)logiche della spiritualità e dello pseudomisticismo, dal IV al XII secolo, e soprattutto dal 1600 ad oggi, ma anche capace di uscire dal nesso normalità-follia mediante un lento ma continuo processo di penetrazione della psicoanalisi e dell'emergenza di nuove modalità espressive della sofferenza (della gioia) umana e della sua aspirazione alla trascendenza. Qui il discorso coglie ogni settore della vita spirituale religiosa, attraverso i secoli dagli stiliti ai messaliani, dai bogomili ai catari, ai fraticelli, agli apocalittici, ai gioachimiti, dai quietisti agli alumbrados, dai grandi " visionari " agli umili di de Foucault.

II. Ambito psicopatologico. Ho detto " visionario ": questo termine (si ricordi " visione " opposto a " vista ", schauen a sehen) che ci introduce con grande suggestione nel bel mezzo del discorso psicopatologico, è termine che non solo va riferito a figure dei secoli passati (per es., tra i più significativi, Caterina de' Ricci, M.M. Alacoque, Caterina da Genova, per non parlare di Veronica Giuliani, di Gemma Galgani, delle numerosissime visionarie e mistiche del Medioevo, in primis Hildegarda di Bingen), ma è un qualcosa che ancora nella piena realtà odierna ci problematizza; né ce ne possiamo superficialmente liberare, sotto pena di cadere in un riduttivismo radicale e frettoloso oppure unilaterale e ingenuo, anche se allettante per inquadramenti esclusivamente biologistici e psicologistici, sensu stricto (talamo!) e sensu lato (riflessi condizionati!). Si pensi soltanto alla preghiera psicologica e allo spessore psicopatologico (a volte ben camuffato!) di alcuni fenomeni mistici, dalle visioni (tipiche e mirabili, quelle di C. Emmerich) 2 all'aureola, dalle ferite d'amore e dalle transverberazioni all'estasi, dalla chiaroveggenza alla levitazione, dal " luminoso " alla multilocazione, dalle locuzioni alle sensazioni ineffabili di odori paradisiaci, ecc. In questo estesissimo campo, dove si nascondono sicuramente cibi prelibati anche per gli psichiatri più esigenti, non si può però prescindere dalle dimensioni esistenziali (la solitudine, la noia, l'esaltazione, la sublimazione, l'acedia) e dallo spirito dell'epoca (Zeitgeist), mai così vivace come qui, dalla pregnanza delle ideologie, dallo spirito di gruppo: si pensi ai Folli di Cristo, a s. Caterina da Siena, a s. Serafino di Sarov ( 1833), a certe figure carismatiche attuali, che mobilizzano incredibilmente la scena del cristianesimo odierno.

III. Qui s'impone un Bbreve accenno alla contemplazione, nella sua struttura psicologica e nelle sue infinite risonanze religiose. Si può parlare di un desiderio di sapere e di esperire che nessuna scienza può soddisfare, che trascina verso un Bene, in un'unione che non è propriamente una conoscenza? Questo " amor del profondo " può portare l'uomo a conquistare suapte natura la propria perfezione oppure a sortire da sé per passare al di là, " oltre ", metà ta fysikà? E ciò, se accade, avviene in virtù di una facoltà naturale, sia pure sovrarazionale, oppure si tratta di un dono venuto dal più alto? Insomma, è una contemplazione, questa cristiana, tesa di per sé verso l'estasi plotiniana, oppure il suo sforzo dev'essere sollecitato, sostenuto e fatto sbocciare dall'ineffabile agire del Cristo? A me pare che la contemplazione supponga delle disposizioni interiori (ancor tutte da scoprire dalla genetica e dalla psicoanalisi), ma non ne è lo svolgersi (proprio come una mutazione genica!), viene all'improvviso (exaìfnes) e dal di fuori dell'Io. L'unione tra affettivo e cognitivo è, platonicamente, quel che rende possibile la comunicazione tra il mondo divino e il mondo dei mortali (proprio alla greca). Ma questa traccia dell'Uno non è un accidente, anzi è quel che in noi vi è di più profondo, di più essenziale, pronto e disposto a ricevere il " messaggio ". E qui che accade la pienezza (pleróma), l'illuminazione (éllampsis), l'esperienza incomunicabile nella quale il contemplante subisce l'emprise divine (pàthema). La contemplazione mistica d'ordine naturale è possibile. Qui sembra opportuno seguire J. Maritain, dopo il suo ritorno dall'India quando, contrariamente a prima, sostenne la possibilità di un'esperienza che, senza penetrare nell'intimità del mistero divino, fosse tuttavia una contemplazione mistica autentica d'ordine naturale (1939), esperienza fruitiva dell'assoluto, " esperienza mistica negativa " della presenza d'immensità. Ovviamente ciò non può non essere di grande importanza per ogni psichiatra che abbia interessi psicoterapeutici specifici nelle tecniche di meditazione e che sappia riconoscere l'intervento della volontà libera in questo che potremmo forse a ragione, chiamare " atto-limite " dell'intelletto. Se si tien presente che la preparazione alla contemplazione va intesa non come l'attenta e precisa applicazione di tecniche ma come orientamento costante della volontà e dello sforzo di concentrazione, che agiscono su un dato aspetto della personalità di base, è facile rendersi conto di quanti pesanti ostacoli sia cosparsa questa via " spirituale ", che esige non solo intensa applicazione mentale, ma anche una forza speciale dell'immaginazione. Nessun vero " spirituale " ha mai voluto sterminare il sensibile, mentre ha sempre cercato, agostinianamente, di render possibile il ritorno su se stessi. G. Marcel ha ben visto, nei nostri tempi, che questo cammino può essere svelato soltanto attraverso l'amore, senza il quale non si può attingere il " mistero ontologico ", anzi si è radicalmente incapaci di contemplare, di vivere il contatto oscuro (eppur luminosissimo) che ci trascende. E evidente allora perché la psicologia degli " spirituali ", così polarizzata verso la potenza del contemplativo (J. Maréchal) e vista con ottica alquanto peculiare da Urs von Balthasar negli ultimi decenni, tanto venga ad interessare le moderne teoresi psicoterapeutiche; e ciò non solo per certe emergenze psicopatologiche, per es. la tanto studiata scrupolosità (tratto patologico spesso molto importante e diffuso) ma anche per certi suggerimenti " perenni " (anche se oggi particolarmente sottolineati psicodinamicamente) di evitare pigre passività o declinazioni esistenziali " evitanti ": l'esychia, l'acedia, il messalianismo, il quietismo, il molinismo, e di giungere con Cassiano al possesso dell'acies mentis et cordis (A. Kemmer), ripreso mirabilmente da Bonaventura.3

I grandi risvegli del sec. XVI, età d'oro degli esercizi metodici, delle grandi sintesi psicologiche dei dottori del Carmelo, della " spiritualità ignaziana " con i suoi " esercizi " miranti alla formazione di una vita cristiana più intima e personale è stato tema di numerosi e profondi studi: ricordiamo appena A.F. Poulain, Ch. Richstätter, de Guibert, dom Butler, dom A. Mager, il cistercense T. Merton; questi e molti altri autori hanno tutti energicamente sostenuto quanto dice Teresa d'Avila nella Quarta Mansione (c. 3) del Castello: pur non cancellandosi qui l'aspetto nozionale e discorsivo dell'attività psicologica, si resta in un preludio quieto, raccolto, semplice, passivo. Tale stato, che non raramente può veicolare tratti psicopatologici più o meno evidenti, soprattutto favorenti gli scrupoli e il dubbio, è ancora ben lontano dalla cosiddetta " conoscenza sperimentale di Dio ", dallo " stato teo-patico ", il quale ci introduce nella contemplazione propriamente detta, là dove, come scrive L. de Grandmaison, l'uomo " ha il sentimento di entrare non per uno sforzo ma per un appello, in contatto immediato, senza immagini, senza discorso ma non senza luce, con una bontà infinita ", contatto che dirige tutti gli atti dell'anima e che la possiede, come dice Giovanni della Croce, fin nel suo fondo più intimo. E qui che si pone il fondamentale problema della contemplazione infusa e di quella acquisita. E a quest'ultima che deve appartenere il patrimonio comune dell'insegnamento spirituale e dell'esperienza interiore dei " fatti " psicologici, di cui con grande penetranza discusse nel 1949 il padre Gabriele di S. M. Maddalena. E questa un'affermazione tradizionale dell'antropologia cristiana, tuttora pienamente valida; ma è qui, in questo contesto, che si pone almeno una parte (la più sottile e la più difficile a cogliersi) della tematica che interessa lo psicopatologo e che rende ragione di questo contributo: si pensi ad esempio ai tratti temperamentali e caratteropatici dell'incertezza e dell'ossessione, che veicolano la scrupolosità, o del narcisismo e dell'egocentrismo, isterici e non, che sono alla base di esperienze e comportamenti psicopatici, ad es. anoressici, autistici, visionari, pseudo-allucinatori. Per la contemplazione infusa il problema resta invece totalmente teologico, formulabile, se non proprio totalmente risolubile solo in tale ambito.

IV. Giustamente J. Gagey, parlando in modo davvero essenziale dei fenomeni mistici 4 ne suggerisce con vigore un esame critico, sia per il loro rivelarsi proteiforme e non sempre ben chiaro e specificato, sia perché l'asse di riflessione sul convincimento mistico (se è lecito poter unire questi due termini apparentemente opposti, a mo' di ossimoro) porta inevitabilmente verso un riduzionismo psichiatrico che conduce alla scoperta della " credenza ", del credere come categoria autonoma psicologica, certamente col rischio di regressione narcisistica o di confrontamento col mistero dell'individuazione (junghiana), con una vigilanza sempre maggiore dell'acutezza critica, che non vuol compiere troppi qui-pro-quo. Ciò non significa che, come per il passato, il discrimine delle scienze psicologiche sia chiamato, volens aut nolens, a una certa qual decostruzione dei miracoli: il discernimento spirituale va tenuto qui ben distinto dalla dinamica psicologica. A me pare che la messa in scena agiografica abbia sempre fatto ricorso al meraviglioso, con grande peso di metafora; per esempio, la telecinesi, la levitazione e tanti fenomeni visionari (si pensi a Matilde di Magdeburgo). Epistemologizzare a proposito dei fenomeni mistici, e per di più muovendosi in ambito " spirituale ", comporta il facile pericolo che lo psicologo si smarrisca nel pesante terreno, più o meno improvvisato, della credulità collettiva, delle diavolerie del passato, dall'ubiquità all'allucinazione visionaria collettiva, dalle stimmate psicosomatiche alle dermatosi isteriche, ai sudori di sangue, che esprimono le preoccupazioni profonde del soggetto o un certo stile del pensiero meditativo, come ritrovabile in s. Francesco, oggi tornato agli onori della cronaca giornalistica. Ma sono soprattutto le visioni (si pensi alle " veggenti ") che ci inducono a intendere la percezione come una stimolazione proiettiva a stimoli sia interni che esterni, tanto più intensi quanto più marcato è l'investimento affettivo del mondo vissuto e la risonanza psicosomatica, quanto più, come gli eidola degli stoici, essi si costruiscono all'interfaccia dell'individuo e del suo ambiente, da quello, lontano nei secoli e difficilmente immaginabile nelle sue rilevanze esistenziali, a quello, recente e ben focalizzabile, di Gemma Galgani, dove la visione mistica, tanto problematizzante quanto abnorme, potrebbe essere non altro che il caso estremo della proiezione percettiva sia pure nell'ambito di un'apologia partigiana dei fenomeni mistici intesi come Realitätserlebnisse nel senso di M. Scheler. Qui la psicopatologia rischia di divenire la retorica del razionalismo, come è accaduto in qualche caso recente e come, ben sette secoli fa, fu denunciato dal francescano David d'Augsburg ( 1272), che parlò di " praeludia insaniae ".

Circa la psicopalologia della convinzione mistica, va detto che a volte questa " convinzione " è tale da sollecitare arditi accostamenti con i convincimenti parapsicologici oppure con quelli assurdi e clamorosi mostrati da certi soggetti deliranti. Un esame attento degli scritti dei mistici e anche delle loro biografie (a prescindere dagli evidenti " pseudomistici ", per lo più parafrenici, ipomaniacali, fanatici, ossessivo-compulsivi, esibizionisti, isterici, istrionici, esaltati, ambiziosi passivi, millantatori, recitanti, visionari affettivi), ci consente di seguire le diverse linee di resistenza dello " spirituale ", o mistico che dir si voglia, alla sua psichiatrizzazione. Una biografia approfondita, e non dettata da prevenzioni, del vero mistico rivela facilmente, sia al credente che ad ogni spirito imparziale, che egli non è un pazzo. Purtroppo però spesso l'imparzialità riesce a dissigillare soltanto gli occhi di colui che si è dimesso dall'esigenza psicopatologica (e sarei tentato di dire, anche " psicoanalitica "); importante sarebbe strappare il mistico, lo " spirituale ", dalle grinfie del demone razionalista: non rinunciare a comprendere, ma guardarsi attentamente dal ritenere che si è già compreso. Psichiatrizzare il mistico in nome di una prima nosografia medico-psicopatologica significa considerare attentamente il contenuto rappresentativo del sintomo per cercare di comprenderlo: sentimenti di possessione, di peculiari estasi, polimorfe o bizzarre, di aperture a luminosità accecanti, incomunicabili, di raptus, è tutto un insieme di sintomi facilmente riduttivi, anche se molto spesso poggianti sulla solida base del pensiero magico-religioso (di cui è piena, anzi traboccante, ogni storia della cultura). A volte però non si tratta soltanto di peculiarità irrazionali, ma, in qualche modo, di matrici del vero. Il vecchio accoppiamento di misticismo e follia, che investe nell'incrollabile atmosfera del positivismo tutta la seconda metà dell'Ottocento, parlando di teomania, demonopatia, psicopatia religiosa tout-court - qui la serie dei nomi sarebbe interminabile - comincia da alcuni decenni a convincere sempre meno e, soprattutto, sempre meno tende a farci permanere in questo stato di convinzione. Anche se in un certo senso è vero che la psicopatologia della regressione psicodinamica " rifà il letto " alla psicopatologia delle credenze, è pur vero che l'antropologia attuale, psichiatrica o non, riconosce nella costituzione di ogni personalità elementi non infra - né sopra - ma extrarazionali. Né l'isteria freudiana, questo cuscinetto reggispinta della medicina dell'Ottocento, crea problematiche peculiari della riflessione sulla mistica. Intanto, non si può qui non ricordare, per il rapporto tra scritti mistici e psicanalisi, R. Otto, M. de Certeau soprattutto, i quali non soltanto richiamano l'attenzione sul vissuto comune (e non soltanto proprio della spiritualità) della regressione narcisistica, ma suggeriscono la ricomparsa di corpo e sesso, fino ad allora repressi, come nuovi punti di repere della cultura. Non va dimenticato, del resto, che, per lo psicanalista odierno, il narcisismo è lo zoccolo attivo del processo di individuazione, quello che promuove l'ipseità e che è il vero padrone del gioco. Ma questo pendio scivoloso del narcisismo, che trasforma i suoi investimenti superegoici in investimenti pseudo-propri, suscita specificamente l'apertura e l'elevazione del mistico, il cui vissuto autentico non autorizza affatto la psicanalisi a considerarlo come il fanciullo-perduto (l'enfant terrible) della regressione. Malgrado i frequenti tentativi di " decostruzione ", lo psicologo onesto e serio non riesce, in ultima analisi, a rendersi padrone della spiritualità, o quanto meno ad esorcizzarla; non esaurisce le lezioni che potrebbe ricevere (e che di fatto riceve) da questo ombelico della navigazione platonica.

VI. Ed ecco allora delinearsi almeno tre orizzonti problematici che la mistica ben specifica nella sua radicale inserzione nel terreno della spiritualità: 1. La scoperta del Vero non è semplice presa di coscienza, ma è avvenimento, è Erlebnis, è Seelenveränderung, è Selbswerdung, cioè, junghianamente, realizzazione del Sé; non è il conformarsi a un ordine esterno (biocosmologico), ma è illuminazione interiore; 2. Tra il cammino e l'arrivo c'è un lavoro inevitabile (il lavoro istituito dalla storia, dalla Chiesa, dalla scuola, dalla politica); l'arrivo è l'apertura del senso, l'apertura all'altro, al Tu, " fere sicut raptus "; 3. Il viaggio dell'anima non si compie per se stessa, solo per sua natura, ma, lévisianamente, per il volto dell'Altro. Tutto, dunque, ci induce a pensare che per lo psicologo e anche per lo psicopatologo (del resto, ovviamente) il mistico resterà la posta, la scommessa, forse anche la pietra d'angolo, di imprevidibili cammini. Con tutto ciò resta anche chiaramente affermato che la vita spirituale sana (o prevalentemente tale) continua a svilupparsi dinamicamente, mentre in quella psichicamente abnorme, invasa dallo scrupolo, dalla colpa ossessiva, dall'idea fissa, dal fanatismo, dal ritiro dalla realtà (withdrawal) dominano la chiusura, l'astoricità, l'irrigidimento stereotipato, la fuga, la difesa, il timore paralizzante o coartante, lo sterile ripetersi in un'immobilizzazione dell'immaginario, avulso dal torrente della realtà; mentre il vero linguaggio mistico non è glossolalia, non è linguaggio privato, ma è un linguaggio sempre sociale, cioè articolato nel e al gruppo, inscritto nella binswangeriana storia interiore della vita. Il discorso vale del pari per i fenomeni somatici mistici: i concetti di conversione somatica o di somatizzazione non soddisfano molto, nascondendo nei termini generici parecchie confusioni, specie situazionali. Poche esperienze umane riescono così appieno come quelle mistiche a darci il senso antropologico del corpo vissuto. Ed è nel rischio che il fenomeno somatico venga preso per " la cosa stessa ", che si giocano, sui limiti territoriali dell'esperienza, sulla linea di confine di P. Tillich, i legami fra mistico e psicopatologico, tanto lassi eppur tanto enigmatici quanto lo sono quelli tra verità e delirio, tra realtà e imago. Si pensi alle parole interiori, linguaggio interno diffuso e continuo, riguardo al quale dice Teresa d'Avila: " Sono certe parole molto formate ma che non si odono con le orecchie del corpo, sebbene si intendano più chiaramente che se si udissero ".5 Non si tratta qui della " sonorizzazione del pensiero " degli schizofrenici né dell'automatizzazione della parola interiore degli psicastenici né della vivida immaginazione verbale degli isterici (pseudo-allucinazioni, di Kandinski): chi possiede esperienza di stati psicopatologici non avrà difficoltà a capirne la differenza. In tre casi da me descritti e studiati in passato si poteva notare che la patologia psicotica era fuori discussione, ma la pregnanza " pseudomistica " di essi lasciava sbalorditi. Mancava l'essenziale, quell'ineffabile eppur appercepibile " conoscenza sperimentale di Dio ", quel " sentimento di presenza " che fu così concretamente ed essenzialmente descritto da s. Giovanni della Croce,6 infine " l'unione trasformante ", cioè lo stato teopatico propriamente detto. Non mancavano invece, anzi erano molto comunicati, numerosi epifenomeni " mistici ": la passione dell'amore divino, gusti, godimenti, delizie, consolazioni, nonché fenomeni mistici " somatici ", estasi morbose. Pare potersi ancor oggi confermare che " i fenomeni d'accompagno sono frutto del condizionamento psicofisico e non sono struttura essenziale del fatto mistico che si verifica nell'estasi autentica " (E. Ancilli). A mio parere di psichiatra, quel che oggi viene sempre più contando è la temperie culturale (G. Villa), la personalità di colui che è aduso a vivere le esperienze spirituali, anche con lunghi e impegnati apprendimenti (alla stessa stregua dell'apprendistato medievale alla magia).

Tornando alla spiritualità, alla sua struttura, alla sua storia, non pare esserci dubbio alcuno che moltissimi casi attuali e soprattutto del passato (per esempio la Emmerich), per non parlare delle grandi correnti mistiche ebraiche, sufiste, buddiste, indù, ci inducano a parlare più di struttura peculiare (anche, se si vuole, abnorme) della personalità che non di psicopatia o devianza psichica.7 Troppo spesso non si è tenuto conto di ciò e si è voluto vedere solo l'estasi, con i suoi aspetti psicopatologici e psicosomatici d'accompagno (crisi isterica, erotismo sublimato, regressione verso una fusione pre-oggettuale) o una vera esaltazione fissata (Verschrobenheit, di Binswanger) o un vero stato di acedia o di psicastenia. Contano, inoltre, moltissimo l'elemento socioculturale, il contesto storico, lo spirito del tempo, per situare e comprendere le emergenze estatiche nei vari ambienti e nelle varie epoche (contemplative versus operative) senza necessariamente psichiatrizzarle. Spiegare l'estasi e i vari fenomeni mistici (anche quelli più impregnati di psicopatologia) in ogni caso solo dal punto di vista psicologico o psicoanalitico o comportamentistico (pur consentendo ciò notevoli approfondimenti) mi pare inadeguato e falsificante, con la mistificazione del concetto di norma. Ritengo che sia molto importante il sentimento ineffabile e certo dell'esperienza della presenza di Dio, in una specie di stato di coscienza sognante (di tipo oneirofrenico), con restringimento e iperlucidità puntuale (dantesca) della coscienza. Ma ciò non è elemento essenziale nè per la contemplazione infusa (che va ben tenuta distinta da quella acquisita) né per il raggiungimento dei più elevati livelli di vita spirituale, come convincentemente sostenuto da C. Butler, G. Picard, R. Arnou. Per questi raggiungimenti è essenziale la preparazione " ascetica " (non l'illuminazione), la lunga via di purificazione, che riesce a superare gli ostacoli con uno sforzo perseverante e progressivo sforzo di unificazione psicologica e morale. Di questo deve oggi tener conto ogni psichiatra e psicologo che si interessi antropologicamente di fenomenologia della vita spirituale (mistica compresa, ma, certo, non soltanto mistica) senza semplicismi riduttivi, evitando ogni cecità mentale nel cogliere la specificità dell'esperienza del sacro ed evitando anche l'impermeabilità di fronte alle vicissitudini del rapporto interpersonale. Si pensi all'indiscriminata utilizzazione del termine paranoia (paranoia religiosa), unificatore di equivoci e, a volte anche di malafede, sartriana.

Conclusione. Pur tra i grandi contemplativi " che mantengono anche ora un posto di scelta nel Corpo mistico di Cristo " (PC 7) possono incontrarsi immaginifici che si trasformano in allegorizzanti, con il tempo vissuto che è tutto escatologia (" complesso dell'Apocalisse "), con componenti sempre eccessive della personalità, con la luce della " maravilla " e il fuoco della " mutaciò " catastrofica, con una spinta indubbiamente ipomaniacale (J. Vaz de Carvalho). E questo il paradigma spirituale di tanti contemplativi in cui l'assenza di misura, l'aspirazione o il sogno di grandezza (chiaramente abnormi), come pure la tormentosa eclissi di Dio (di buberiana memoria), o causata da acedia demoniaca (si pensi a Evagrio Pontico) o provocata da depressione distimica (come vissuta da Giovanni della Croce) si mescolano con equilibri mentali mirabili (acies mentis et cordis). Oltre mille anni fa ciò fu visto con sorprendente acutezza, dati i tempi, da Leone VI ( 912), il saggio imperatore di Bisanzio il quale, nella sua autoritaria " Gubernatrix animarum regula ", distinguendo la " tristezza secondo Dio " dall'" afflizione umana ", ordinò a tutti i monaci di porre speciale attenzione a discernere i limiti fra spirituale e patologico; discernimento che è sempre restato d'obbligo ad ogni livello di evoluzione storica e delle mentalità dell'uomo, a qualunque livello di cultura e di spiritualità.

Note: 1 Il precisismo morboso dell'ossessivo, visto nell'ambito del sacramento della penitenza è stato sempre una regione borderline tra norma e patologie anche per il motivo che in tale ambito, come in altri, la Chiesa aderisce in pieno alla morale dell'intenzione, fatto che se scrupolosamente inteso, ingigantito e deformato può dar luogo ad una fitta frangia di dubbi e d'interpretazione e di incertezze di giudizio che ostacolano lo sviluppo di una vera vita morale. Sovente il senso di scrupolo e di insicurezza pessimistica conduce a prolungate esperienze angosciose di rimorso, con tendenza morbosa all'auto-accusa e al lacerante senso di colpevolezza. In questi casi è in particolare l'" esame di coscienza " che si carica di rimuginamenti ossessivi e di ruminazioni nevrotiche. I vari trattati di psichiatria pastorale vi hanno sempre molto insistito; 2 Qualcuna delle grandi " visionarie " (la visione, come dice H. Suso, come figurata locutio) che hanno lasciato tracce nella storia della spiritualità cristiana e che mi hanno profondamente interessato a diversi livelli: Aldegonda di Maubege; Elisabetta di Schönau; Maria d'Oignies; Ida di Nivelles; Lutgarda d'Aywières; Beatrice di Nazaret; Dolcelina di Digne; Matilde di Magdeburgo; Margherita da Cortona; Gertrude di Helfta; Chiara da Montefalco; Angela da Foligno; Margherita Ebner; Adelaide Langman; Caterina da Siena; Giuliana di Norwich; e ancora moltre altre e molti altri. Il misticismo visionario che sbocca nel movimento delle beghine e dei begardi (XIII e XV secolo), oggi si pensa a ragione con Adnès essere sostanziato da pie meditazioni e contemplazioni guidate; 3 " Actus contemplationis partim est cognitivus et partim est affectivus, ita quod in cognitione inchoatur et in affectione consummatur ", Sent. 3, q. I, t. 3, 774; 4 Cf s.v. in DSAM XII1, 1259-1274; 5 Vita, 25,1; 6 Salita del Monte Carmelo, II, 16,10; 7 Ciò dico anche se, con P. Adnès ritengo ancora pienamente attuale la sua definizione di visione come manifestazione sensibile o mentale di realtà comunemente ritenute naturalmente invisibili e non coglibili nelle abituali circostanze di vita e di esistenza. Certamente, pensando al profeta del Monte Amiata, Davide Lazzaretti (G. Villa, Delirio e fine del mondo, Napoli 1987), le visioni danno l'impressione di non provenire dal soggetto, il quale ha l'indubitabile sensazione di riceverle gratuitamente, come un dono, un privilegio personale, un favore inatteso e, io direi, un segnale.

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B. Callieri

PAUPERISMO. (inizio)

I. Nozione. E l'impostazione di un'esistenza individuale o collettiva sulla base ispirazionale della povertà.

Propriamente il sostantivo p. allude all'idea o all'articolazione sistematica di idee (ridotte ed essenziali, in verità); povero individua la persona che subisce la povertà o quella che opta per essa, soprattutto per motivazioni ascetiche e mistiche; pauperistico designa un movimento o un gruppo che ispirano le proprie scelte comportamentali solitamente alla radicalità significata dalla rinuncia ai beni, dall'indifferenza per la propria indigenza, dalla mendicità.

L'innesto etimologico del p. sta nel sostantivo latino pauperies, meno utilizzato dell'equivalente e più versatile paupertas, e nell'aggettivo pauper. Oltre che povertà, quello significa mancanza di ricchezze, miseria, indigenza, ristrettezza, modestia, privazione. Il suffisso ismo è neologismo, inesistente nelle lingue classiche.

P. e pauperistico sono vocaboli non privi di valenze negative. Essi coinvolgono artificiosità comportamentali, scelte provvisorie estrose, contraddizioni nella dialettica tra ricchezza garantita e goduta e povertà appena verbalmente apprezzata, rifiuto aprioristico e irrazionale di benessere e progresso, disimpegnate teorizzazioni e simpatia verso una beatitudine della povertà scelta e favorita non per sé ma per altri, situazione sociale transitoria o permanente di economia bassa e insufficiente alla soddisfazione di umani bisogni.

II. L'itinerario della mistica è guidato dagli orientamenti della povertà piuttosto che da quelli del p. Tuttavia la spiritualità purifica da devianze e contiguità ambigue e negative del p. e ne recupera ispirazioni e prassi positive in ambito antropologico, psicologico, soteriologico-religioso. L'evangelo nobilita il p., ed è proprio nella prospettiva religiosa che il p. acquista senso e valore. La religiosità è manifestazione di una fede, segno del collegamento con il mondo del divino o almeno con una trascendenza che supera il terrestre e il contingente. In tale itinerario verso il mistero, la mistica è la tensione della ricerca, che si nutre anche di povertà.

Ogni religione si confronta con qualche risvolto del p. L'induismo evidenzia una grande e spontanea semplicità, inerme fiducia verso la miriade di divinità. Il buddhismo percorre la via del p. proteso alla eliminazione del desiderio, focolaio di dolore, fino alla spogliazione totale della persona ed impegna monaci e laici in una pur diversificata povertà. Il confucianesimo, refrattario alla mistica, tende a superare la povertà del mondo impegnando alla costruzione di benessere e felicità terrene.

L'ebraismo, a cominciare dalla Bibbia veterotestamentaria, situa nell'interiorità un suo tipico p., cioè quello di colui che è grato e gioioso dell'abbondanza dei beni, ma è pure consapevole di essere o è alla ricerca di diventare anawim, ossia povero, umile, fidente di fronte all'Onnipotente, perciò da lui benvoluto e avvolto di misericordia. L'islam assicura ricche ricompense al fedele, il muslin, ma al Misericordioso egli totalmente si abbandona come servo e bisognoso di aiuto.

Nell'itinerario della mistica, pertanto, il p. costituisce una traettoria maestra, ascesi indispensabile nella vivacità delle convinzioni e nelle evidenze coerenti della testimonianza.

III. P. e Vangelo. Il p. radica la propria ispirazione nell'Evangelo di Gesù Cristo; dirama le proprie ininterrotte propaggini lungo gli itinerari dell'ascesi verso la mistica, concretati soprattutto nella forma dell'eremitismo, del monachesimo, dei movimenti laici, degli Ordini mendicanti.

La qualità del p. cristiano si plasma e si motiva nello spirito delle beatitudini evangeliche. Esse cominciano con l'annuncio che sono beati i poveri in spirito (cf Mt 5,3), ossia coloro ai quali lo Spirito Santo fa capire la povertà. Tale povertà non è solo il distacco dallo stato del ricco, bersaglio dei " guai " evangelici (cf Lc 6,24), bensì è innesto a Cristo, il quale da ricco che era si fece povero per arricchire i suoi con la propria povertà (cf 2 Cor 8,9). La ricchezza è un ostacolo alla sequela evangelica, ma può diventare tramite di misericordiosa condivisione con il povero (cf Mt 19,21-22, paralleli e contesti).

Siffatto "evangelo" di preferenza alla povertà è la piattaforma sulla quale si edifica la maggior parte delle tipologie della vita consacrata. Il voto di povertà è uno dei suoi capisaldi. La varietà delle forme testimoniali della povertà, quali la rinuncia e la condivisione dei beni, la solidarietà e il servizio ai poveri, rappresenta l'esteriorità di una opzione radicale, appunto il p. nella più sublime identificazione. Finalità della scelta pauperistica non è prioritariamente la povertà né fare atti di povertà, bensì farsi evangelicamente povero. Le elevazioni della mistica si raggiungono nell'interiorità dell'essere povero, anche se i gradini sono segnati da episodi di povertà. Tale itinerario e il medesimo approdo dell'essere povero interpellano ogni discepolo dell'evangelo, il seguace di Cristo d'ogni tempo. E itinerario attuale in ogni epoca.

IV. La storia della spiritualità documenta originalità e ripetitività nell'itinerario del p. L'egiziano Antonio, antesignano del monachesimo, imbocca la via della mistica vendendo i propri beni, donando il ricavato ai poveri, seguendo Cristo nell'anacoresi ovvero contemplazione eremitica, illuminato dalla Parola evangelica. Il monachesimo orientale ed occidentale, strutturato nella pluralità delle Regole, costituisce una tipologia di p. collettivo esternato nell'assenza di proprietà individuale (vivere sine proprio). Il rapporto con i beni della ricchezza è, però, solo un segno, seppure corposo: il monaco, colui che è alla ricerca di Dio e tende all'unità, da una parte si impoverisce per alleggerire il suo cammino ascetico, dall'altra nell'esperienza mistica in confronto con Dio si percepisce estremamente povero e totalmente bisognoso di lui.

La contraddizione tra povertà affettiva (interiore) ed effettiva (esteriore) ha consentito pingui accumuli di beni anche al monachesimo pauperistico: ed è stata una delle cause letali della sua decadenza. Il monachesimo rifiorisce anche riattivando la radice della povertà. I secc. XI-XIV sono i più esaltanti nella storia del p. cristiano. Il monachesimo rinnovato (da Cluny a Citeaux, da Camaldoli a Vallombrosa, dai monasteri doppi a quelli femminili abelardiani); gli Ordini mendicanti (francescani, domenicani, agostiniani, carmelitani, servi di Maria, altri soppressi); i movimenti laicali (valdesi, patarini, catari-albigesi e altri financo oltre il confine dell'ortodossia), o ritornano alla primitiva osservanza di povertà o aprono la loro esperienza sulle soglie dell'evangelo dove privilegiano la povertà portata sino alle opzioni più estreme, talune coraggiose e dignitose e tal'altre esagerate e illusorie. Anche la loro anima pauperistica è custodita nell'interiorità, oltre la vivace varietà delle forme: tale interiorità s'identifica con la humilitas, la minoritas, il servitium, l'essere pauperes propter Christum.

Quelle epoche movimentate da tali ispirazioni e istituzioni pauperistiche sono dense di contraddizioni per la presenza di pochi ricchi e potenti, tra i quali la gerarchia ecclesiastica, e la pullulazione di moltitudini di poveri e subalterni: un'epoca di negativo p. che si tenta di consolare con sublimazioni nel misticismo. I movimenti pauperistici con il richiamo evangelico alla povertà contestano quelle contraddizioni. Le istituzioni pauperistiche si incontrano lungo l'itinerario scolpito nel fortissimo imperativo e nella mistica esperienza del nudus nudum Christum sequire.

Il medesimo itinerario percorrono i mistici "classici", donne, grandi mistiche comprese. Emblematica è Maria di Oignies ( 1213): il biografo situa la motivazione della sua opzione pauperistica, spinta fino alla mendicità itinerante, nell'ut nudum Christum nuda sequeretur. Tale nuditas è il simbolo della spogliazione totale per seguire senza intralci il Signore e per meritare di potersi rivestire di Cristo.

Questo filone di p. spirituale attraversa le esperienze dei mistici successivi, e soprattutto delle mistiche, almeno fino al sec. XVII.

Le istituzioni dei religiosi, via via impiantate nella Chiesa, conservano il voto di povertà sebbene in maniera assai variegata ed attenuata. Il p., quale segno e mediazione mistica, appare velato soprattutto dall'enfasi delle diaconie e dalla imponenza delle strutture istituzionali.

V. La spiritualità odierna, dal Concilio Vaticano II in poi, motiva tutte le opzioni evangeliche con l'appartenenza di ogni battezzato all'unico indivisibile popolo di Dio, ossia alla Chiesa mistero e comunione.

Il linguaggio abituale schiva termini come p.: questa parola non si rinviene nei documenti conciliari e probabilmente nemmeno in altri del Magistero per indicare ispirazioni evangeliche supportate dalla povertà. Il vocabolo p. attualmente o serve a designare fenomeni preteriti o allude a circostanze soprattutto sociali connotate di negativo, pertanto temibili e scongiurabili. Il linguaggio della spiritualità e della mistica utilizza tuttora la parola p., ma con cautela e nelle inflessioni positive. Il sostantivo povertà e l'aggettivo sostantivato poveri sono con abbondanza ricorrenti.

La povertà evangelica è una sfida ultima dell'attualità. Il cerchio si chiude, il ciclo storico si riallaccia alle origini della Chiesa, allorchè i poveri erano evangelizzati ed erano beati i poveri nello Spirito Santo.

La Chiesa è guidata dal Cristo povero. La Chiesa è povera perché abitata da santi, ma anche da peccatori, cioè discepoli bisognosi della salvezza. La Chiesa è di tutti, soprattutto dei poveri e dei poveri fa l'opzione preferenziale. La Chiesa evangelizza i poveri, impegnata per la liberazione dei poveri. Anima della Chiesa è lo Spirito delle beatitudini, specialmente lo spirito della povertà che apre il regno di Dio. Maria, madre di Cristo e icona della Chiesa, primeggia tra i poveri del Signore.

Queste sono alcune coordinate sulle quali si intrecciano il p. odierno, l'esperienza della povertà evangelica quale eredità e impegno di tutto il popolo di Dio, la gerarchia e i presbiteri, i "consacrati" secondo le svariate tipologie, i laici nella pluralità di situazioni vocazionali. Si può qualificare la Chiesa come popolo dei poveri del Signore il cui spazio vitale è il p. evangelico.

L'atteggiamento pauperistico è viatico anche per l'attualità. E necessario attingere il distillato positivo di testimonianze ascetiche, esperienze mistiche, soluzioni istituzionali che hanno costellato i due millenni di storia del cristianesimo (ma anche prima e fuori di esso). Un ventaglio di efficacie sul terreno sociologico, antropologico-psicologico, ascetico e mistico giustifica e valorizza tuttora il p. oltre che la povertà evangelica.

Il p. conduce a equilibrio tra le esagerazioni: è la via del modesto tenore di vita che non equivale a mediocrità. Purifica da massimalismi plutocratici: possesso e ricchezza costituiscono assillo e turbamento che distraggono dalla spiritualità e squilibrano i rapporti interpersonali e sono guaribili ridimensionando le forze che spingono ad avere e possedere. Il p. contesta l'uso disinvolto ed esagerato del benessere: il benessere è un diritto, non una idolatria e l'uso equo lo fa bastare a ciascuno e responsabilizza per garantirlo a tutti. Il p. impegna a sollevare l'uomo dalla miseria: la povertà ingiusta e sciagurata è deformazione del p., situazione non appena argomento di studi antropologici o strategie economiche, bensì controparte d'una sfida di amore e giustizia. Il p. disvela il limite della persona umana. In assiomi di psicologia e antropologia la potenza dell'uomo è illimitata, ma nel realismo personale egli si scopre povero e circoscritto: l'accettazione del limite non è fatalismo nichilista o attendista, bensì umiltà. Il p. pacifica la consapevolezza di indegnità e bassezza umane di fronte alla sublimità di Dio: né esasperazione della miseria dell'uomo né sfida titanica a Dio placano quando può placare un'esperienza di povertà riempita nell'incontro mistico. Il p. percorre un itinerario penitenziale: il bisogno di conversione, ossia di miglioramento e di passaggio in spazi ottimali, è impulso innato nel cuore umano; è nostalgia non solo di abbandono del male e del peccato, ma ancor più della progressione verso promesse e sognate pienezze. Il p. postula tra le priorità l'ascesi. Nella realizzazione di sé il discepolo attraversa l'impoverimento lungo la via della rinuncia, della preghiera e della liturgia, della meditazione e della contemplazione: sono doni attesi dai poveri nello spirito. Il p. riconosce i doni che ogni persona alberga in sé: immagine e somiglianza di Dio, l'uomo e la donna sono scrigno dei doni divini: la consapevolezza di essi attiva gratitudine, gioia, agevolazione del loro dinamismo. Il p. è quieta attesa del dono dello Spirito Santo: " Il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono " (Lc 11,13). La beatitudine della povertà evangelica si completa nella invocazione e nell'accoglienza del dono massimo, lo Spirito Santo.

Bibl. Rarissimi sono i titoli sul pauperismo; imponente è la bibliografia sulla povertà: si citano taluni sussidi utili a intravedere ispirazioni e atteggiamenti connessi con un positivo evangelico pauperismo: Aa.Vv., Povertà, in DIP VII, 246-410; Aa.Vv., Pauvreté chrétienne, in DSAM XII1, 613-697; Aa.Vv., La pauvreté évangélique, Paris 1971; Aa.Vv., La povertà religiosa. Un approccio interdisciplinare, Bologna 1991; G.M. Colombas, El monacato primitivo, II, Madrid 1975; L. Dattrino, Il primo monachesimo, Roma 1984; L. De Candido, I mendicanti. Novità dello Spirito, Roma 1983; T. Goffi, Il povero, il primo dopo l'Unico, Brescia 1983; R. Grégoire, La vocazione sacerdotale. I canonici regolari nel Medioevo, Roma 1982; E. Peretto, Movimenti spirituali laicali del Medioevo. Tra ortodossia ed eresia, Roma 1985; A. Vanchez, Ordini mendicanti e società italiane nel XIII-XV secolo, Milano 1990.

L. De Candido

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