L'IMMAGINE
La tilma su cui è impressa l'immagine della Vergine di
Guadalupe, è costituita da due teli di ayate, un ruvido
tessuto di fibre d'agave, usato dagli indios poveri
per coprirsi. Le due parti sono unite da un filo molto sottile.
L'immagine è di 143 centimetri, di carnagione un po' scura, per cui
il popolo messicano affettuosamente la chiama Virgen Morena o
Morenita. Essa è circondata da raggi solari, ha la luna sotto
i suoi piedi, ed è sorretta da un piccolo angelo, le cui ali sono
ornate di lunghe penne rosse, bianche e verdi. I tratti del volto
sono tendenti al meticcio, per cui anche oggi, a distanza di
secoli, la Vergine di Guadalupe appare tipicamente "messicana".
Sotto un manto regale dal colore verde-azzurro coperto di
stelle dorate, la Vergine indossa una tunica rosa coperta di
fiori dorati e stretta sopra la vita da una cintura viola
scuro che, presso gli aztechi, era il segno di riconoscimento
delle donne incinte e, indica, quindi, la divina maternità di Maria.
IL DIPINTO E LA TILMA
In base ai risultati di approfondite analisi scientifiche, iniziate
già nel 1666, sarebbe stato assolutamente impossibile dipingere ad
olio o tempera un'immagine così nitida sull'ayate e
conservarla così bene fino ad oggi. Secondo Miguel Cabrera,
che condusse diversi esperimenti sulla tilma a partire dal 1751,
l'immagine in sostanza non è un dipinto, essendo i colori
come incorporati alla trama della tela e lo stesso tessuto
dell'ayate avrebbe dovuto disgregarsi in breve tempo nelle
pessime condizioni climatiche della radura ai piedi del Tepeyac.
L'impossibilità a resistere in simili condizioni da parte di una
pittura eseguita senza preparazione del fondo, è testimoniata
dall'esperimento condotto dal medico José Ignacio Bartolache, il
quale tra il 1785 e il 1787, fece realizzare da filatori e tessitori
indigeni, diversi ayates, il più possibile simili a quello di
Juan Diego. Dopo diversi tentativi e scelti quelli che sembrano più
vicini, all'occhio e al tatto, all'originale, incaricò cinque
pittori di eseguire copie della Morenita sulla tela non preparata,
adoperando i colori e le tecniche di pittura in uso al tempo delle
apparizioni. Una delle copie, precisamente quella dipinta nel 1788
da Rafael Gutiérrez, viene collocata il 12 settembre del 1789
sull'altare della Capilla del Pocito, da poco eretta accanto al
santuario, ma ci rimane solo pochi anni: nonostante fosse protetta
da due spessi cristalli, dovette essere rimossa dall'altare già nel
1796, perché completamente rovinata.
PROPRIETA' INSPIEGABILI DELLA TILMA
Nel 1791, alcuni operai, incaricati di pulire con una soluzione di
acido nitrico la cornice d'oro che dal 1777 racchiudeva l'immagine,
lasciarono cadere sulla tela parte della soluzione detergente.
Stando alle leggi della chimica, l'acido nitrico, oltre a reagire
con le proteine presenti nei tessuti d'origine vegetale dando loro
un caratteristico colore giallo [reazione xantoproteica],
interagendo con la cellulosa che costituisce la struttura portante
delle fibre vegetali, avrebbe dovuto disgregare e distruggere la
tilma. Invece il tessuto è rimasto inspiegabilmente integro, e le
due macchie giallastre della reazione xantoproteica, che non hanno,
comunque, toccato la figura della Vergine, sbiadiscono con il
passare del tempo. A questo si aggiunga un altro fatto, ancora oggi
inspiegabile, ma notato per la prima volta già nella seconda metà
del secolo XVIII e via via costantemente confermato fino ai nostri
giorni: l'ayate respinge gli insetti e la polvere, che
invece si accumulano sul vetro e sulla cornice.
Nel 1936, il direttore della sezione di chimica del Kaiser Wilhelm
Institut di Heidelberg, dottor Richard Kuhn, insignito del premio
Nobel per la Chimica nel 1938, ha la possibilità di analizzare due
fili, uno rosso e uno giallo, provenienti da frammenti della
tilma di Juan Diego. I risultati delle analisi, condotte con le
tecniche più sofisticate allora disponibili, sono incredibili: sulle
fibre non vi è alcuna traccia di coloranti, né vegetali, né animali,
né minerali.
Nel 1979, lo scienziato americano Philip Serna Callahan esegue una
quarantina di fotografie all'infrarosso dell'immagine, sulle quali
può compiere uno studio accurato. Tale studio conferma nella
sostanza gli studi precedenti: la quasi totalità della figura fa
tutt' un corpo con il tessuto dell'ayate, con l'eccezione di
alcune parti, come le mani, che appaiono ridipinte per ridurre la
lunghezza delle dita, l'intera parte inferiore compresa la figura
dell'angelo, l'argento della luna, l'oro dei raggi solari e delle
stelle, e il bianco delle nubi che circondano i raggi stessi,
ritenuti da Callahan delle semplici "aggiunte". Non tutti gli
scienziati sono d'accordo su questo, perchè sia la più antica
descrizione dell'immagine, In tilmatzintli, scritta con ogni
probabilità da Antonio Valeriano nella seconda metà del secolo XVI e
pubblicata da Luis Lasso de la Vega nel 1649 insieme con il Nican
mopohua , sia la copia presente alla battaglia di Lepanto,
quindi anteriore al 1571, mostrano l'immagine come ci appare oggi.
È quindi più probabile che gli interventi di mano umana individuati
da Philip Serna Callahan siano, più che aggiunte, dei semplici
ritocchi. In ogni caso, è significativo che anche le fotografie
all'infrarosso abbiano dimostrato la natura "non manufatta"
della parte essenziale dell'immagine guadalupana.
GLI
OCCHI SEMPRE VIVI
I risultati più incredibili sono venuti dall'esame degli occhi della
Vergine di Guadalupe. Secondo la legge ottica di Purkinje-Sanson,
due ricercatori che la scoprirono nel secolo XIX, nell'occhio umano
si formano tre immagini riflesse degli oggetti osservati: a) una
sulla superficie esterna della cornea; b) la seconda sulla
superficie esterna del cristallino; c) la terza, rovesciata, sulla
superficie interna del cristallino stesso. Che tali immagini
riflesse, oltre che negli occhi di una persona vivente, possono
essere viste anche negli occhi di un volto umano dipinto su una tela
è impossibile. Eppure, nel 1929, il fotografo Alfonso Marcué
González, esaminando alcuni negativi dell'immagine della Madonna di
Guadalupe, scorge nell'occhio destro qualcosa di simile al riflesso
di un mezzo busto umano. La scoperta, viene confermata il 29 maggio
1951 dal fotografo ufficiale del santuario, José Carlos Salinas
Chávez, che attesta con un documento scritto di aver notato
riflessa nella pupilla del lato destro della Vergine di Guadalupe la
testa di Juan Diego, e accerta subito la presenza anche sul lato
sinistro" .
Negli anni successivi, Illustri oftalmologi, con osservazioni
dirette compiute sulla tilma priva del vetro protettivo,
individuano, nel solo occhio destro, la seconda e la terza immagine
di Purkinje-Sanson. Nel 1979 l'ingegnere peruviano José Aste
Tonsmann, esperto di elaborazione elettronica delle immagini, può
analizzare i riflessi visibili negli occhi della Morenita, con il
metodo dell'elaborazione elettronica, usato per la
decifrazione delle immagini inviate sulla terra dai satelliti
artificiali e dalle sonde spaziali. Con questo metodo, basato sulla
scomposizione di una figura in punti luminosi e sulla traduzione
della luminosità di ciascun punto nel codice binario del calcolatore
elettronico, José Aste Tonsmann riesce a ingrandire le iridi degli
occhi fino a 2500 volte le loro dimensioni originarie, e a rendere,
mediante opportuni procedimenti matematici e ottici, il più
possibile nitide le immagini in esse contenute. Il risultato ha,
ancora una volta, dell'incredibile: negli occhi della Vergine, è
riflessa l'intera scena di Juan Diego che apre la sua tilma
davanti al vescovo Juan de Zumárraga e agli altri testimoni del
miracolo. In questa scena è possibile individuare, da sinistra verso
destra guardando l'occhio: un indio seduto, che guarda in
alto; il profilo di un uomo anziano, con la barba bianca e la testa
segnata da un'avanzata calvizie e da qualcosa di simile alla
chierica dei frati; un uomo più giovane; un indio dai
lineamenti marcati, con barba e baffi, certamente Juan Diego, che
apre il proprio mantello, ancora privo dell'immagine, davanti al
vescovo; una donna dal volto scuro; un uomo dai tratti spagnoli che
si accarezza la barba con la mano. Tutti questi personaggi guardano
verso la tilma, meno il primo, l'indio seduto, che
sembra guardare piuttosto il viso di Juan Diego. Insomma, negli
occhi dell'immagine di Guadalupe vi è come una istantanea di
quanto accaduto nel vescovado di Città di Messico al momento in cui
l'immagine stessa si formò sulla tilma. Al centro delle pupille,
infine, si nota, in scala molto più ridotta, un'altra scena, del
tutto indipendente dalla prima, in cui compare un vero e proprio
gruppo familiare indigeno composto da una donna, da un uomo, da
alcuni bambini, e - nel solo occhio destro - da altre persone in
piedi dietro la donna.
La scoperta e la conferma scientifica della presenza di queste
immagini negli occhi appare come la conferma definitiva dell'origine
prodigiosa dell'icona guadalupana: è materialmente impossibile
dipingere tutte queste figure in cerchietti di circa 8 millimetri di
diametro, quali sono le iridi della Morenita, e per di più
nell'assoluto rispetto di leggi ottiche scoperte solo un secolo
dopo! Inoltre, la scena del vescovado come appare negli occhi, non è
quella che poteva essere vista dalla supeficie della tilma,
dato che vi compare Juan Diego con la tilma dispiegata
davanti al vescovo. A questo proposito José Aste Tonsmann avanza
l'ipotesi che la Vergine fosse presente, sebbene invisibile, al
fatto, e abbia proiettata sulla tilma la propria immagine, avente
negli occhi il riflesso di ciò che stava vedendo.
IL LINGUAGGIO DEGLI INDUMENTI
Anche gli indumenti della Vergine, sono avvolti dal mistero ed hanno
profondi significati simbolici. In base ad uno studio scientifico,
la disposizione delle stelle sul manto e dei fiori sulla veste
sembra tutt'altro che casuale. Mario Rojas Sánchez, traduttore dei
testi náhuatl sull'apparizione e studioso della cultura azteca,
partendo dalla somiglianza fra i grandi fiori in boccio visibili
sulla tunica della Vergine e il simbolo azteco del tépetl,
cioè del monte, ha identificato sulla tunica una "mappa" dei
principali vulcani del Messico; quanto alle stelle, invece, ha
potuto accertare, grazie alla collaborazione dell'osservatorio
Laplace di Città di Messico, che esse corrispondono alle
costellazioni presenti sopra Città del Messico nel solstizio
d'inverno del 1531 che cadeva proprio il 12 dicembre, non viste però
secondo la normale prospettiva "geocentrica", ma secondo una
prospettiva cosmocentrica, ossia come le vedrebbe un osservatore
posto al di sopra della volta celeste.
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