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  Maria nel Quarto Vangelo 
BibbiaDa Alberto Valentini, Maria nei racconti dell'infanzia e nel quarto Vangelo,  in AA. VV., Maria nel cuore della Parola di Dio donata accolta trasmessa, Centro di Cultura Mariana "Madre della Chiesa", Roma 2009, pp. 186-198.

La letteratura giovannea, la più tardiva e più matura del Nuovo Testamento, è particolarmente densa di riflessione teologica. In essa, più che altrove, il racconto è al servizio del messaggio. Non che gli scritti giovannei non si occupino di storia; si tratta però di una storia “simbolico-sacramentale”, che nasconde e rivela al tempo stesso realtà altamente spirituali. Nell’umiltà delle vicende di questo mondo ha fatto irruzione la divinità («Il Verbo si è fatto carne») e la realtà è stata investita e trasfigurata dalla gloria di Dio. Eventi, azioni, gesti e personaggi presentano un marcato orientamento cristologico: sono al servizio della rivelazione del Figlio di Dio. In tale luce va considerata anche la figura di Maria. La tradizione giovannea – a differenza di quanto avviene in Luca – appare piuttosto sobria, quantitativamente, nei confronti di Maria: ne parla solo all’inizio (a Cana) e al termine del vangelo (presso la Croce) e indirettamente in Apocalisse12. Ma, almeno per quanto concerne il Vangelo, è il caso di dire che la quantità è inversamente proporzionale alla qualità: nei due episodi – di Cana e della Croce – si tocca il vertice della riflessione su Maria nel Nuovo Testamento. Ella non è più soltanto la credente e la madre di Gesù ma, proprio in quanto credente e madre, è posta all’inizio e al termine del Vangelo, al servizio della fede e della vita dei discepoli del Signore. In tal modo ella è coinvolta direttamente e in maniera unica con la persona e l’opera del Figlio.5

1. LE NOZZE DI CANA

Gv 2,1-11[12]6 è un brano da sempre studiato, ma cela ancora ricchezze misteriose, quasi inesauribili. È un episodio chiave non solo per la comprensione della figura di Maria, ma anzitutto per penetrare nel cuore del vangelo di Giovanni, nel suo messaggio e in particolare nella sua cristologia. Dopo il fondamentale capitolo primo, comprendente il Prologo innico (1,1-18) e il prologo narrativo (1,19-51) con la testimonianza resa a Gesù da Giovanni Battista e la chiamata dei primi discepoli (il tutto scandito da una sequenza precisa di giorni e di ore, importanti per l’evangelista), ecco, subito – nel capitolo secondo – la presenza della madre di Gesù. La pericope di Cana non riguarda in primo luogo Maria, nonostante ella vi sia profondamente inserita. Anzi, proprio perché “incastonata” nella rivelazione del mistero di Gesù, tra realtà teologico-salvifiche grandiose, la figura della Vergine acquista un rilievo singolare. Ciò appare più evidente se si confronta la scena di Cana con quella di Maria presso la croce (Gv 19,25-27). Posti all’inizio e al culmine del mistero di Gesù e dei «segni» che lo rivelano, i due brani formano come una fondamentale inclusione. Costituiscono, in certo modo, gli estremi in mezzo ai quali si compie l’intera opera salvifica di Cristo.

1.1. Il «principio dei segni»
Come si può già intravedere, la ricchezza della scena di Cana è impressionante. Il testo inizia con una determinazione di tempo e di luogo e si conclude, parallelamente, con un’indicazione spazio-temporale:
– v. 2,1: «E il terzo giorno ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea…».
– v. 2,12: «Dopo questo discese a Cafarnao…».
Un episodio inquadrato con tale cura non può essere una normale festa di nozze, ma un evento di salvezza che si svolge nel tempo e nello spazio dell’esistenza umana. A dissipare ogni equivoco, giunge puntuale la voce dell’evangelista che, al termine dell’episodio, commenta: «questo fece Gesù come «“principio” dei “segni”…» (v. 11). Il «segno» è un’azione o un’opera compiuta da Gesù per rivelare la sua identità di Figlio di Dio, la presenza in mezzo a noi del Verbo fatto carne. Cana è il «principio» dei segni che seguiranno: un archetipo, un segno-tipo, che sta all’inizio, prefigura e anticipa tutti gli altri, rivelandone il senso e la finalità. Non si tratta dunque di un semplice episodio, ma di un evento fondamentale, che inaugura la missione di Gesù. Con esso egli rivela la sua gloria, lo splendore e la potenza che aveva presso il Padre prima della creazione del mondo (cf. 1,1ss; 17,5) e quella di cui sarà rivestito nella sua risurrezione. Il segno manifesta la gloria, e la contemplazione della gloria conduce alla fede: «e i suoi discepoli – conclude l’evangelista – credettero in lui!» (v. 11). Queste realtà fondamentali della teologia giovannea: segno-gloria-fede mostrano come la pericope di Cana sia profondamente radicata nel quarto Vangelo, e ne annunci i principali sviluppi. Non saremo dunque stupiti quando sotto termini e realtà apparentemente comuni vedremo emergere realtà e simbologie densissime.

1.2. «Il terzo giorno»
Il brano inizia dunque con l’espressione: «il terzo giorno» (v.1). Non si tratta di un semplice dato cronologico, ma di una formula evocante il mistero della risurrezione, il segno per eccellenza, nel quale effettivamente si manifestò la gloria di Gesù e i suoi discepoli credettero in lui. «Il terzo giorno» esprime ancor oggi la nostra fede nella risurrezione. D’altra parte «il terzo giorno» richiama l’evento dell’alleanza del Sinai con il dono della Legge, che prefigura l’alleanza nuova con la Legge nuova donata da Cristo. In tale ampio e denso contesto di memoria e profezia, il quarto Vangelo introduce Maria: «e la madre di Gesù era là» (v. 1). Il racconto inizia sottolineando la sua presenza. Nel brano ella viene indicata ripetutamente con la formula «la madre di Gesù» (vv. 1.3.5.12); come tale, nel v. 3, ella interviene presso Gesù perché ponga rimedio a una situazione difficile.

1.3. La madre di Gesù, la donna e l’ora
La madre di Gesù – come in genere i personaggi giovannei (cf. Nicodemo, la samaritana, i giudei, il cieco nato…) – all’inizio si colloca e parla su un piano umano: «non hanno il vino» (v. 3). Gesù però la trasporta immediatamente ad un livello diverso e superiore, prospettandole un altro tipo d’intervento e di presenza: «Che c’è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora» (v. 4). È una frase a prima vista enigmatica e sconcertante, dalla quale emergono tuttavia rivelazioni preziose. Chiamandola «donna» e non madre (come sarebbe stato logico) Gesù prende le distanze dai legami familiari, per affermare la sua identità e la sua missione. La sua risposta, in forma interrogativa, echeggia quella data al padre e alla madre nel tempio di Gerusalemme: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo stare presso il Padre mio?» (Lc 2,49), e richiama le parole di Gesù riguardanti la madre e i fratelli (cf. Mc 3,31- 35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21). La carne ed il sangue devono cedere il posto alle esigenze del Padre e della missione da Lui ricevuta. Il termine «donna» – a dispetto della prima impressione – non presenta un’accezione negativa: verrà ripreso ed esplicitato nel testo parallelo della Croce (Gv 19,26), in cui si manifesterà la nuova identità e il compito particolare della madre di Gesù nel mistero della salvezza. Già a Cana, tuttavia, il temine sembra rivestire un senso positivo e nuovo, come si può arguire dalle parole che la madre, immediatamente dopo, rivolge ai servi (cf. v. 5). Gesù, in ogni caso, rivendica un suo spazio anche nei confronti della madre. Per il momento, del resto, non è ancora giunta la sua ora (cf. v. 4). L’ora di Gesù è il tempo della sua passione-morte e glorificazione, nella quale il Padre e il Figlio saranno glorificati (cf. Gv 13,31; 17,1). A tale ora è orientata tutta l’esistenza di Gesù: si tratta di una tensione-inclusione che percorre ed abbraccia tutto il quarto vangelo, dall’espressione iniziale «non è ancora giunta la mia ora» (2,4) a quella del compimento «Padre, è giunta l’ora» (17,1). Un’ora determinata dal Padre e che nessuno potrebbe anticipare. Dopo la risposta misteriosa e insieme rivelatrice di Gesù, l’intervento di Maria, prima legato a una situazione contingente, si trasforma e diventa invito ai servi a fare la volontà del Figlio: «Quello che egli vi dica, fatelo!» (v. 5). Si noti che tale formula echeggia l’antica professione di fedeltà all’alleanza ai piedi del Sinai (cf. Es 24,7). Con quelle parole, legate a una fondamentale esperienza passata, si introduce un evento nuovo che sta per compiersi, un «segno» che rivelerà la gloria del Figlio di Dio e inaugurerà la fede dei discepoli.

1.4. Simbolo, memoria e profezia
È sempre più evidente che l’episodio di Cana non è una semplice festa di nozze: tutto appare simbolico-sacramentale ed evoca altri gesti, come quello in cui Gesù moltiplica i pani, per poi rivelare che vero pane è il suo corpo e vera bevanda il suo sangue (cf. Gv 6,55). Tutto a Cana diventa simbolo, memoria e profezia: le nozze sono il segno della comunione finale di Dio con il suo popolo, nozze che si attuano in Cristo, sposo della Chiesa. Non a caso, nel capitolo seguente – in Gv 3,29 – il Battista si definisce «l’amico dello sposo», in riferimento a Gesù, sposo della comunità dei credenti. Nelle nozze c’è naturalmente un banchetto, e sulla tavola non può mancare il vino. Il vino è particolarmente sottolineato nel nostro brano (ricorre cinque volte sulle sei di tutto il quarto vangelo) e il suo significato emerge in particolare da contrasto con l’acqua lustrale, usata per la purificazione dei giudei. L’acqua, elemento rituale legato alla legge antica, viene trasformata nel vino nuovo, simbolo dei tempi messianici finalmente presenti, con la gioia che li caratterizza. Il vino indica non solo i tempi messianici con la nuova Legge che li caratterizza, ma Cristo stesso. Il maestro di tavola, infatti, non sa «donde venga»: secondo il tipico linguaggio giovanneo, il mondo non sa «donde venga» Gesù, a differenza dei servi che, avendo fatto quello che egli ha detto, sono diventati suoi amici, ai quali Gesù ha rivelato tutto (cf. Gv 15,14s). Egli non comprende come mai lo sposo (che in realtà è Gesù) abbia riservato il vino buono fino ad ora. La risposta è che i tempi messianici sono compiuti e lo sposo ha profuso in abbondanza i beni della salvezza. L’evangelista può dunque concludere, rivelando l’eccezionale densità dell’episodio narrato:
– «Questo fece Gesù come principio dei segni
manifestò la sua gloria
– e i suoi discepoli credettero in lui
» (v. 11).
In questo densissimo testo, Maria appare inizialmente come «la madre di Gesù»: il titolo viene ripetuto tre volte (vv. 1.3.5). Ma non è questo dato, tradizionalmente acquisito, che l’evangelista intende sottolineare: a lui preme mettere in rilievo la presenza della «donna» accanto a Gesù, al servizio della missione del Figlio e della fede dei discepoli. Ella, da madre, diventa discepola di Cristo, passando da una richiesta contingente – «non hanno vino» – ad una totale adesione di fede; anzi a un’opera di mediazione – simile a quella di Mosè – a vantaggio dei servi del Signore e della fedeltà all’alleanza. Come «donna», ella ha una missione – in continuità con l’antica Figlia di Sion – al servizio di tutto il popolo di Dio, ma ciò apparirà più chiaramente nella scena del calvario. La madre di Gesù, infine, per la sua fede, è la prima dei discepoli del Signore, di coloro i quali, accogliendo la parola di Gesù, costituiscono la comunità della nuova alleanza. Ella – insieme con i discepoli divenuti credenti – è la vera sposa di Colui che, al di là dei simboli, è lo sposo della chiesa e dell’umanità: Gesù, il Verbo di Dio fatto carne.

2. MARIA PRESSO LA CROCE

La pericope di Gv 19,25-27 è veramente una scena notevole, inserita nel cuore del mistero pasquale di Cristo. La sua importanza emerge dalla densità del brano, dal contesto dell’ora e dal suo rapporto con l’episodio di Cana. Iniziamo da quest’ultimo.

2.1. Cana e la Croce
La scena delle nozze (Gv, 1-12) non solo annunzia ed anticipa, in qualche misura, quella della calvario, ma in essa attinge senso compiuto e rivela la sua eccezionale densità. Poste all’inizio e al termine del vangelo, costituiscono due episodi chiave, fondamentali non solo per comprendere la figura e il ruolo di Maria, ma lo stesso messaggio giovanneo. Le due scene, attentamente orchestrate, appaiono in evidente parallelismo. I personaggi sono i medesimi: Gesù, rispettivamente all’inizio e al compimento della sua opera, la madre di Gesù, i discepoli, rappresentati sulla croce dal «discepolo amato». In un caso come nell’altro, la Vergine non viene presentata col nome personale, ma con quello di «madre di Gesù» e poi di «donna», titolo mai usato da un figlio nei confronti di sua madre! In ambedue i brani si parla dell’ora di Gesù, che a Cana non è ancora giunta (cf. 2,4) e sul calvario è compiuta (cf. 19,27). Sia l’episodio di Cana come quello della Croce sono seguiti dalla medesima espressione: «Dopo questo…» (2,12; 19,28), una formula non semplicemente temporale, ma consequenziale-causale,7 che nel contesto rivela notevole importanza:
– v. 2,12: «Dopo questo» si ha una comunità di fede riunita intorno a Gesù;
– v. 19,27: «Dopo questo» tutte le cose sono compiute.
Possiamo dire, in generale, che se Cana si presenta sotto il segno dell’ora non ancora venuta, la Croce costituisce il compimento dell’ora. Se a Cana c’era il «principio», l’archetipo dei segni, sulla Croce c’è il segno per eccellenza – l’esaltazione del Figlio dell’uomo – che rivela la gloria di Dio e conferma nella fede i discepoli.

2.2. Il contesto dell’ora di Gesù
La scena di Gv 19,25-27 riceve luce dal confronto con Cana, ma rivela la sua eccezionale densità nel contesto immediato degli “atti” di Gesù in croce (Gv 19,17-37). Si tratta di cinque episodi nei quali si articola l’ultima fase della passione:
– l’iscrizione del titolo sulla croce (vv. 19-22)
– la divisione delle vesti (vv. 23-24)
– le parole alla madre e al discepolo (vv 25-27)
– il compimento dell’opera affidata dal Padre (vv. 28-30)
– la trasfissione del costato (vv. 31-17).
La nostra pericope, come si vede, è al centro degli eventi supremi dell’ora di Gesù, tutti altamente simbolici e di eccezionale portata teologica. Non si può non sottolineare la profonda unità di queste scene e la loro importanza, dal momento che l’evangelista le presenta quale misterioso compimento delle Scritture. Non possono dunque essere lette su un piano superficiale e fenomenologico, ma devono essere intese quale definitiva rivelazione pasquale. Sembra anzi che proprio nel nostro episodio sia presente una scena di rivelazione, nella quale si manifesta la vera identità della madre di Gesù e del discepolo amato. Nonostante la presenza di altre persone, al centro della scena del calvario ci sono – come si è notato – tre protagonisti:
Gesù, che nella sua maestà regale di Figlio dell’uomo innalzato sulla croce, comunica le rivelazioni supreme e dona le ultime disposizioni testamentarie.
La madre, la quale, a differenza di Cana, non parla, ma è al centro dell’attenzione quale depositaria principale della volontà del Figlio. Ella viene nominata quattro volte come la madre di Gesù, una volta come la madre del discepolo e una come «donna».
Il discepolo, non menzionato all’inizio tra coloro che stanno presso la croce, ma poi reso destinatario, come Maria del dono del Maestro.
Dal punto di vista della frequenza, la figura maggiormente sottolineata è la madre. Ella appare anzitutto quale madre di Gesù, ma anche come la donna, madre del discepolo. Il discepolo, a sua volta, non è solo colui che segue il Maestro ed è da lui amato, ma – appunto perché tale – è anche il figlio della «donna». Se la maternità nei confronti di Gesù è tradizionalmente accettata, il titolo di «donna» e la maternità nei confronti del discepolo richiedono delle spiegazioni.

2.3. Il discepolo amato
Come sempre nel quarto vangelo, e specialmente in queste scene della Passione, non ci si può limitare ad una comprensione materiale e dunque superficiale del messaggio. La scena di Gv 19,25-27 non costituisce un semplice atto di pietà familiare nei confronti di una madre che sarebbe rimasta sola, come spesso si afferma, specie in ambito non-cattolico. Ciò contraddice al testo stesso che sottolinea anzitutto la presenza e il ruolo della madre («Donna, ecco il tuo figlio»), e solo in secondo luogo, come conseguenza, affida al discepolo la madre. E poi i rapporti che intercorrono tra di essi non sono nell’ordine della natura, ma della generazione secondo lo spirito. Chi è dunque il discepolo? È una persona e al tempo stesso un simbolo. Secondo Bultmann8 le parole di Gesù innalzato solennemente sulla croce hanno in fondo lo stesso significato di quelle rivolte al Padre nella preghiera sacerdotale di Gv 17,20ss: «non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…». Anche secondo M. Dibelius il discepolo amato esprime «il tipo dei discepoli»: l’uomo della fede, il testimone della croce, «il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, con la loro posizione in rapporto a Dio, sono diventati essi pure fratelli di Gesù (20,17)».Si noti che il discepolo, nel nostro testo, è nominato tre volte (vv. 26-27) e sempre con l’articolo determinativo, per così dire, in forma enfatica: il discepolo amato rappresenta tutti coloro che hanno creduto ed hanno accolto Gesù. Essi costituiscono il nuovo popolo di Dio: sono la comunità dei redenti dal sacrificio dell’Agnello al quale non dev’essere spezzato alcun osso (cf. vv. 33.36); sono la Chiesa nata dal sangue e dall’acqua, scaturiti dal costato del Redentore (v. 34), la nuova Eva tratta dal fianco del nuovo Adamo dormiente sulla croce.10

2.4. La «donna», madre dei figli di Dio
La donna, per conseguenza, è madre del discepolo e dei discepoli, anzi della comunità di tutti coloro che erano dispersi e per i quali Gesù è morto. «Egli infatti doveva morite… per raccogliere nell’unità i dispersi figli di Dio» (Gv 11,51s). Nel pensiero veterotestamentario i dispersi figli di Dio sono i figli d’Israele esiliati tra le genti a motivo dei loro peccati (cf. in particolare Dt 4,25-27; 28,62-66; 30,1-4). Il Signore che li aveva disseminati tra i popoli, lontano dalla loro terra, li ricondurrà nel loro paese e nella loro casa. Dei regni divisi di Israele e di Giuda Egli farà un solo popolo e un discendente di Davide sarà il loro pastore (cf. Es 34, 23-24; 37,24). Con essi stringerà un’alleanza nuova, il cui mediatore sarà un misterioso «servo» di Dio (cf. Es 42,6; 49,8), il quale offrirà la sua vita in riscatto per le moltitudini (cf. 53,10s). Tutte le genti verranno allora e si raduneranno in Gerusalemme, la quale diventerà madre di figli innumerevoli (cf. Is 49,19-20; 60,1-9; Tb 32,12s). Già sposa di Dio – abbandonata a causa delle sue infedeltà e privata dei suoi figli – essa vedrà il ritorno del Signore ed accoglierà entro le sue mura una discendenza che non si potrà contare. Sarà una maternità prodigiosa ed universale. La città ed il popolo vengono indicati frequentemente col simbolo di una donna, sposa e madre, e con il titolo di «figlia di Sion», invitata a gioire – dopo la grande sofferenza – per la redenzione e il ritorno dei suoi figli. «Agli occhi della prima generazione cristiana la madre di Gesù si configurava come l’incarnazione ideale della “figlia di Sion”. In lei, persona individua, maturava esemplarmente la vocazione di Sion-Gerusalemme e di tutto Israele, popolo dell’Alleanza».11 Su questo sfondo, il discepolo amato rappresenta tutti i redenti, e Maria, la donna-figlia di Sion, simboleggia la comunità dell’alleanza, madre dei figli di Dio un tempo dispersi ed ora raccolti in unità. Maria non è solo figura dell’antica figlia di Sion, nella quale peraltro le splendide promesse si realizzarono solo parzialmente e temporaneamente: ella inaugura, quale primizia, la vocazione della nuova Sion, la comunità del Nuovo Testamento, madre di tutti i discepoli del Signore. Proprio perché madre di Cristo, «primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29), Maria è madre di tutti coloro che sono rinati per la fede in lui. La sua maternità, iniziata con la nascita di Gesù, attinge sul Calvario la sua pienezza. Come si vede, l’episodio di Gv 19, 25-27 va ben al di là di una semplice scena domestica, d’un atto di premura filiale da parte di Gesù.

2.5. L’accoglienza della madre
Di fronte a questa maternità, dono-rivelazione del Maestro, il discepolo è chiamato ad un atteggiamento di fede, a un’adesione vitale, a una decisione che sorge dal profondo della sua libertà: decisione libera, ma non facoltativa. Il discepolo amato non può rifiutare il dono del suo Signore. L’accoglienza della madre è una delle note che caratterizzano il vero discepolo di Cristo. E «da quell’ora» (v. 27), il discepolo l’accolse eis tà ídia.12 L’ora dell’accoglienza della madre – che non è tanto indicazione cronologica, ma momento teologico – coincide – ed è di grande significato – con il compimento dell’ora di Gesù. L’espressione «dopo questo», con la quale inizia il verso seguente (v. 28) non sembra – come s’è notato – una semplice formula di transizione, ma intenderebbe sottolineare uno stretto legame tra quel che precede e quel che segue. «Dopo questo – in conseguenza di ciò – Gesù, sapendo che tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, dice…» (v. 28). Come si vede, è un linguaggio particolarmente solenne, nel caratteristico stile giovanneo, che colloca il nostro episodio al culmine dell’ora stabilita dal Padre e come suggello dell’opera salvifica. Con il dono rivelazione di Maria quale madre dei credenti e con la sua accoglienza da parte del discepolo si compie l’opera di Gesù. Sono visioni splendide e grandiose, che emergono dalle profondità del vangelo di Giovanni. La aveva già intuite il genio di Origene, per il quale nessuno può attingere il senso del quarto vangelo se non si è chinato sul petto di Gesù e se non ha ricevuto da Gesù Maria per madre.13 Alla luce dell’episodio di Maria presso la croce, s’illumina anche il misterioso segno di Cana. Si comprende meglio il senso delle nozze e dell’ora ed il compito di quella donna, nella vita dei discepoli del Signore.

NOTE
5 Cf. Lumen gentium, 56.
6 Per la bibliografia su Gv 2,1-12, cf. A. VALENTINI, Maria secondo le Scritture, Bologna 2007, 462s.
7 Cf. BAMPFYLDE G., «John 19,28. A Case for a different translation», NT 11 [1969] 247-260) e – sulla sua scia – de la Potterie, Serra ed altri. Sulla stessa linea si poneva già Feuillet, secondo il quale «l’evangelista in 19,28, ci chiede di vedere nella scena che ha appena narrato il culmine dell’opera messianica di Gesù e la manifestazione suprema del suo amore salvifico» (A. FEUILLET, «Les adieux du Christ à sa mère [Jn 19,25-27] et la maternité spirituelle de Marie», NRT 86 (1964) 474. Bisogna notare tuttavia che i grammatici (cf. BLASS-DEBRUNNER, § 478; J.H. MULTON, III, 344) per lo più adducono il v. 28a come esempio di stile per cui la frase finale precede quella principale e pertanto sarebbe da collegare con quanto segue. Ma forse – osserva Brown – «le due possibilità non dovrebbero essere nettamente separate» (R.E. BROWN, Giovanni, II, Assisi 1979, 1130).
8 Cf. R. BULTMANN, The Gospel of John. A Commentary, Oxford 1971, 483.
9 M. DIBELIUS, «Eine Studie zum Traditionsproblem des Johannesevangelium», in Festgabe für A. Deissmann, Tübingen 1927, 178. Questo titolo non indica un amore di privilegio rivolto a un personaggio particolare, ma un amore del quale è destinatario ogni autentico discepolo del Signore, come afferma Gesù stesso nei discorsi di addio: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, costui mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio» (14,21). Quanti lo amano non sono più servi, ma amici: ad essi Gesù rivela i segreti del Padre e per essi offre la sua vita (cf. 15,12- 15). L’appellativo «discepolo amato», mette dunque in luce due grandi temi della teologia giovannea: l’amore fontale di Gesù per il discepolo e l’identità profonda del discepolo stesso che diviene tale mediante l’osservanza dei comandamenti – meglio del comandamento di Gesù – e rimane nel suo amore: in tal modo egli è introdotto e dimora nella sfera dell’agape divina (15,10).
10 Cf. GIOVANNI CRISOSTOMO, Catech.3, 19; SC 50, 177.
11 A. SERRA, E c’era la madre di Gesù (Gv 2,1)... Saggi di esegesi biblico-mariana (1978-1988), Edizioni Cens-Marianum, Milano-Roma 1989, p. 43.
12 Per il significato di questa importante e discussa espressione, cf. A. VALENTINI, Maria secondo le Scritture, o.c., 320-324.
13 Cf. ORIGENE, Commento a Giovanni, I, 4; PG 14, 32.

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