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CONCILIO DI EFESO



1. Gli eventi che portarono alla convocazione del Concilio
È noto come il Concilio di Efeso sia stato convocato a causa di un incidente di carattere mariano, cioè il rifiuto del termine θεοτοκός da parte del patriarca costantinopolitano Nestorio. Questo fatto ha forse incoraggiato qualche storico del cristianesimo ad attribuire una finalità mariana eccessiva a questo concilio. In realtà quella specie di incidente provocato dalla reazione di Nestorio ha avuto la conseguenza di portare al centro del dibattito dottrinale una spinosa questione cristologica che da tempo vedeva contrapposte due correnti teologiche emergenti, le quali si trovavano allora particolarmente impegnate nel tentativo di chiarire il costitutivo ontologico della persona divina del Verbo Incarnato. Si trattava della teologia antiochena e di quella alessandrina, che pur condividendo la medesima dottrina trinitaria sulla base dell'interpretazione basiliana del credo di Nicea, erano nettamente divise in tema di cristologia. La condanna della dottrina apollinarista ad opera del Concilio di Costantinopoli sembrava legittimare la cristologia antiochena del λόγος-ανθρωπος contro la cristologia alessandrina del  λόγος-σάρξ tuttavia su questo punto il concilio di Costantinopoli non era riuscito a far cambiare idea ai teologi alessandrini che consideravano la cristologia antiochena un pericoloso attentato all'unità della persona del Verbo Incarnato. In questo contesto teologico si verificò l'incidente che apri la via all'indizione del concilio efesino. Probabilmente nel mese di dicembre del 428, durante una celebrazione liturgica alla presenza di Nestorio, patriarca di Costantinopoli, il vescovo di Cizico Proclo, egli stesso futuro patriarca della capitale dell'impero bizantino, pronunciò un'omelia sulla Madre di Dio durante la quale attribuì alla Vergine il titolo di θεοτοκός suscitando la reazione contraria di Nestorio. Però la vicenda aveva alle spalle una lunga controversia nella quale Nestorio si era da tempo impegnato e su cui sarebbe superfluo insistere perché gli esperti in materia reputano che sia ormai stata chiarita in tutti i suoi aspetti. Potremmo semplicemente ricordare che il termine Theotokos, pur essendo un titolo mariano, contiene un'evidente ridondanza cristologica e come tale era inteso sia da Proclo che da Nestorio. Proclo definiva Maria Theotokos con l'intenzione di affermare che il Cristo da lei nato è per natura vero Dio e vero uomo e che per conseguenza Maria può a buon diritto essere detta Theotokos. Senonché una tale comprensione del mistero del Verbo Incarnato non appariva accettabile a Nestorio, sostenitore della cristologia antiochena, la quale poneva un accento molto forte sulla distinzione tra il Verbo di Dio e l'uomo Gesù. Egli era preoccupato di salvare la dimensione umana di Cristo nella sua integrità di anima e corpo, di distinguerla dalla divinità, fino quasi a separarla da questa. Partendo da tale premessa, Nestorio predicava che in Cristo vi erano due persone, la divina e l'umana, e che per conseguenza il termine Theotokos veniva erroneamente predicato della Vergine santa, madre unicamente dell'uomo Cristo. Contro un simile insegnamento insorse il patriarca di Alessandria Cirillo il quale, nella sua Lettera Pasquale del 429, confutò gli argomenti di Nestorio, rigettandone le conclusioni e in una lunga lettera successiva ai monaci egiziani, espose e difese la dottrina ortodossa della Chiesa. Ci fu uno scambio epistolare tra i due patriarchi, che però rimase senza effetto, per cui ambedue si appellarono al Papa Celestino. Il Pontefice romano, nell'anno 430, riunì a Roma un sinodo che condannò come eretica la dottrina di Nestorio e riconobbe come ortodossa quella di Cirillo. Questi allora si permise delle prese di posizioni che esorbitavano dalle sue competenze: alla lettera papale di condanna di Nestorio aggiunse dodici anatemi e minacciò il patriarca costantinopolitano di scomunica e di deposizione se non avesse ritrattato i suoi errori entro dieci giorni. Le iniziative disciplinari di Cirillo non piacquero all'imperatore Teodosio II, il quale, sollecitato dallo stesso Nestorio, decise la convocazione di un concilio generale, ritenendo che ormai fosse questa l'unica via per scongiurare uno scisma all'interno della cristianità orientale. Tutti i vescovi dell'impero furono convocati a Efeso per la Pentecoste del 431. La prima sessione fu aperta il 22 giugno. Cirillo, che presiedeva l'assemblea a nome del Papa Celestino, ottenne dai vescovi presenti la conferma della scomunica a Nestorio, l'approvazione dei suoi dodici anatemi con la condanna della dottrina delle due persone in Cristo. Ne seguiva che il termine Theotokos poteva essere dichiarato teologicamente corretto. Quattro giorni dopo l'apertura del concilio, giunsero ad Efeso anche il patriarca Giovanni di Antiochia e i vescovi della Siria. Visto quello che era successo, essi decisero di riunirsi in assemblea separata con i sostenitori di Nestono e scomunicarono Cirillo. A questo punto Teodosio pensò di intervenire: depose ambedue i patriarchi; permise a Cirillo di rientrare nella sua sede patriarcale, mentre Nestorio si ritirò in un monastero presso Antiochia. La controversia sembrava concludersi nel 433 con una formula di compromesso. I documenti conciliari che toccano il tema mariano sono il carteggio tra Cirillo e Nestorio, gli anatemi contro quest'ultimo alla fine della terza lettera indirizzatagli da Cirillo e la cosiddetta Formula di riunione del 433, tentativo di ricomposizione tra le due parti contendenti, che però lascerà ancora aperto il contenzioso di natura cristologica e che troverà una soluzione soltanto una ventina di anni più tardi a Calcedonia. Da tutte queste vicende e circostanze emerge con chiarezza che la questione centrale del Concilio di Efeso è stata la dottrina sul Verbo Incarnato, in particolare sul rapporto tra la componente divina é quella umana della sua persona. Agli effetti della discussione dottrinale, il titolo mariano Theotokos veniva considerato dai Padri del concilio soltanto un'appendice della cristologia. Questa circostanza non sminuiva affatto l'importanza che veniva ad assumere la dichiarazione per la dottrina mariana e per la risonanza emotiva che sembra aver suscitato nel popolo di Dio.

2. La seconda lettera di Cirillo a Nestorio

La seconda lettera, che forse nelle intenzioni di Cirillo voleva essere uno scritto puramente personale, è diventata il documento fondamentale di Efeso, perché solennemente approvata dal concilio come fedele espressione della dottrina ortodossa della Chiesa e già in antecedenza confermata dal Papa Celestino e dal sinodo di Roma. Fu letta durante la sessione di apertura del concilio, il 22 giugno, ed unanimemente approvata dai vescovi presenti. Come si è detto, erano ancora assenti il Patriarca Giovanni di Antiochia e i vescovi della Siria; ma i presenti hanno creduto di dover procedere ugualmente perché la dottrina di Nestorio sull'Incarnazione e il conseguente rifiuto di applicare a Maria il titolo di Theotokos erano giudicati dai vescovi del concilio opposti alla fede di Nicea, ritenuta la pietra di paragone per valutare l'ortodossia di ogni dichiarazione dottrinale. L'approvazione della dottrina esposta nella lettera di Cirillo era motivata dalla sua riconosciuta fedeltà alla tradizione dei «santi Padri» e alla professione di fede del Concilio di Nicea, di cui l'autore cita la formula. Si è già fatto notare che il credo di Nicea, pur non nominando la Vergine santa, elenca, tra le verità della fede, l'evento dell'Incarnazione del Figlio di Dio, disceso sulla terra precisamente per incarnarsi  e farsi uomo. Questa terminologia sottintende che dalla Vergine è nata non solo una carne, ma un vero uomo; e dimostra chiaramente la convinzione dei padri conciliari, secondo i quali Nicea aveva già anticipato la soluzione della lunga controversia che da tempo opponeva i fautori della cosiddetta cristologia del λόγος-σάρξ ai difensori della cristologia del  λόγος-ανθρωπος. Con questi ultimi si identificavano i teologi antiocheni, tra i quali dottrinalmente si collocava lo stesso Nestorio; mentre tra i primi, che subivano l'influsso evidente della dottrina di Apollinare di Laodicea, troviamo dei teologi alessandrini, comprese personalità di rilievo quali i patriarchi Atanasio e Cirillo. Infatti Cirillo, sulla linea di Atanasio, sembra attribuire scarsa importanza alla natura umana di Cristo; non accenna mai alla sua anima umana, negata da Apollinare; tutta la sua insistenza si concentrava sulla divinità del Verbo Incarnato, eternamente generato dal Padre. La controversia si inasprirà ulteriormente quando la riflessione dottrinale cercherà di spiegare il tipo di unione tra la natura umana e quella divina nel Verbo e metterà in evidenza il rischiò di errori che possono intervenire nel passaggio da una formula di fede alla sua spiegazione teologica. Gli antiocheni tendevano a sottolineare la realtà delle due nature fino a farne quasi due esseri indipendenti, mentre gli alessandrini accentuavano l'unione delle due nature medesime ad un punto tale da rischiare di dissolvere la natura umana in quella divina. Sarà l'interpretazione monofisita della dottrina alessandrina a sostenere radicalmente questa posizione; ma anche negli scritti di Cirillo si incontrano dichiarazioni che si prestano pericolosamente ad una tale interpretazione. L'approvazione della lettera di Cirillo comportava la condanna della dottrina di Nestorio, confermata nella sua risposta ad una prima lettera a lui indirizzata dal patriarca di Alessandria, nel tentativo fatto da quest'ultimo di richiamare il patriarca costantinopolitano alla professione della vera fede. Nella lettera, ratificata dal concilio, Cirillo si premura di spiegare i termini usati dal concilio di Nicea per esporre il mistero dell'Incarnazione. La dottrina ortodossa viene esposta in concomitanza con il rigetto delle interpretazioni ereticali avanzate dai nestoriani. Nella condanna sono implicate un po' tutte le teorie ereticali che mettevano a repentaglio la verità intorno il mistero dell'Incarnazione. Vengono condannati gli errori più grossolani e assurdi di coloro che professavano che il Cristo avesse assunto dalla Vergine la sua natura divina; o che avesse avuto bisogno di una seconda nascita dalla Vergine, dopo la generazione eterna dal Padre; oppure che dalla Vergine fosse nato un semplice uomo nel quale successivamente prese dimora il Verbo divino. Contro questi errori il concilio ribadisce che il Verbo si è incarnato e fatto uomo non nel senso che la natura del Logos si è trasformata in carne o che si è mutata in un uomo e neppure che si è unita ad un uomo dotato di anima e corpo. La dottrina della fede insegna che il Logos, incarnandosi, ha unito a sé una carne animata dall'anima razionale, e che ciò è avvenuto secondo l'ipostasi, ovverosia nell'essere o nella persona del Logos. È dunque la persona del Logos che ha unito a sé una carne dotata di anima razionale, senza rinunciare alla sua natura divina, diventando quindi vero uomo o Figlio dell'uomo. La conclusione di questo evento, che il testo definisce ineffabile e incomprensibile, è che dall'unione delle due nature risulta un unico Signore, il Cristo Figlio di Dio e vero uomo. Queste dichiarazioni di natura cristologica evidenziano come la dottrina mariana non possa essere altro che la conclusione logica deducibile dalle divergenti cristologie, le quali, come si è detto, erano i veri motivi dell'opposizione tra i due patriarchi. Analizzando la posizione di Nestorio risulta chiaramente che egli escludesse l'applicazione del principio della communicatio idiomatum al termine Theotokos, per una certa incapacità di accettare nell'essere personale la possibilità di unione tra due nature; e pertanto non riusciva ad ammettere che in Cristo le due nature potessero unirsi in una sola persona. Rifiutandosi di identificare Cristo con il Verbo, sosteneva che non tutto quello che si può dire di Cristo si può dire anche del Verbo. In altre parole egli intendeva che, se da una parte si possono attribuire all'umanità di Cristo degli attributi divini, d'altra parte non si possono attribuire alla sua divinità gli attributi umani. Nestorio riteneva dunque impossibile che l'unione delle due nature nel Cristo potesse confluire nell'esistenza di un solo essere personale. Si comprende pertanto la sua indisponibilità ad accettare il termine Theotokos, dal momento che la funzione generatrice di Maria indicava un rapporto con la natura umana di Cristo e non con la sua divinità. Ma era proprio questo modo erroneo di concepire il mistero che tendeva ad introdurre una dualità nell'unica persona del Verbo Incarnato. In questa situazione, una corretta comprensione della verità sulla Madre di Dio appare una condizione imprescindibile per giungere ad una esatta impostazione della dottrina del mistero del Verbo Incarnato. Accettando la formulazione cirilliana, il concilio riconosceva e proclamava che la funzione materna di Maria, se bene intesa, non pregiudica affatto la dottrina dell'origine eterna del Logos divino. La verità dell'Incarnazione infatti insegna che il Verbo, pur avendo la sua origine prima di tutti i secoli perché eternamente generato dal Padre, ha voluto nascere secondo la carne da una donna, dalla quale è stata realmente generata la sua natura umana. La lettera non si stanca di ritornare su precisazioni già fatte, data l'urgenza di sbarazzare il campo da qualsiasi interpretazione eterodossa. Il testo conciliare aggiunge un paio di altre precisazioni. Dire che il Verbo è nato da una Vergine santa non significa sostenere che la sua natura divina abbia preso origine da lei; e neppure che egli abbia avuto bisogno di una seconda nascita dopo la generazione dal Padre. Così recita il documento conciliare: «Sarebbe banale e stolto affermare che Colui che esiste prima di tutti secoli e che è costerno al Padre, abbia avuto bisogno di una seconda generazione per esistere. E per noi e per la salvezza di tutto il genere umano che l'unico Verbo di Dio ha assunto la natura umana nell'unità della sua persona divina nascendo da una donna. In questo senso si deve credere che è nato secondo la carne». Queste precisazioni vogliono ricondurre eventuali interpretazioni erronee del mistero alla intelligenza corretta del ruolo svolto dalla Vergine santa nei confronti del Figlio di Dio; ruolo che viene delineato subito dopo in termini inequivocabili: «È lo stesso Verbo che si è unito alla carne nel seno di lei, per cui non esiste un uomo prima del Verbo Incarnato nel quale questi sia entrato, bensì è stato lui stesso a sottoporsi ad una generazione carnale e ad una nascita umana prendendo la carne da Maria, secondo la testimonianza rivelata del Vangelo di Giovanni: Il Verbo si fece carne (Gv 1, 14)». Prendendo avvio da queste fondamentali premesse cristologiche, la lettera passa alle conclusioni mariologiche, anch'esse sostenute dalla tradizione dei santi Padri. L'idea dominante, sottesa alle dichiarazioni esplicite, è l'assicurazione che la funzione materna di Maria nei confronti del Logos Incarnato, e quindi il termine Theotokos che esprime tale funzione, non recano alcun pregiudizio alla verità centrale in discussione, ossia all'origine divina ed eterna del Logos stesso. Perciò il documento afferma esattamente: «Egli è stato generato anche secondo la carne da una donna; ma ciò non significa che la sua divina natura abbia avuto inizio nella santa Vergine, né che essa (=la natura divina) abbia avuto bisogno di una seconda nascita dopo quella dal Padre. Sarebbe senza motivo e stolto pensare che colui che esisteva prima di tutti i secoli e che è coeterno con il Padre abbia bisogno di una seconda generazione per esistere». Il motivo dell'Incarnazione non deriva da una necessità interna alla divinità che avrebbe determinato Dio a prendere carne e a farsi uomo, ma è unicamente la conseguenza della volontà salvifica di Dio: «Poiché per noi e per la nostra salvezza ha unito a sé l'umana natura nell'unità di persona ed è nato da una donna. In questo senso si dice che è nato secondo la carne. Non dobbiamo pensare infatti che prima sia stato generato un uomo qualsiasi dalla santa Vergine e che poi sia disceso in lui il Verbo; ma che invece, essendo un'unica realtà fin dal seno della madre, è nato secondo la carne accettando la nascita della propria carne». In questo senso si deve intendere la dottrina della fede quando insegna che Cristo, secondo la carne, è nato dalla Vergine santa, dalla quale ha preso la carne nell'unità di una sola persona divina. Tale è il senso da attribuire all'espressione καθ'ύπόστασιν, che definisce la modalità in cui sono unite le due nature nell'unico essere di Cristo. Inoltre, il concilio non manca di sottolineare la finalità soteriologica dell'Incarnazione, nella quale va collocato anche il ruolo attribuito a Maria. Se volessimo applicare il principio della distinzione avanzata da alcuni Padri tra teologia ed economia, dovremmo concludere quindi col dire che la dottrina mariana appartiene alla seconda. La lettera di Cirillo, adottata dal concilio come espressione della sua propria dottrina, si presenta redatta in forma metodica e in termini chiari. Innanzitutto vuole condannare le false interpretazioni della verità che riguarda l'Incarnazione del Verbo; interpretazioni che erano già apparse all'orizzonte teologico dei decenni precedenti. Contemporaneamente espone la dottrina ortodossa, e principalmente quella cristologica, insegnata dalla tradizione della Chiesa. Le conclusioni mariologiche rimangono pur sempre dei chiarimenti e delle conseguenze della cristologia. Quantunque si debba riconoscere che l'intenzione precipua del concilio nella proclamazione della Theotokos sia stata quella di difendere e definire la verità circa il Verbo Incarnato, credo si possa aggiungere che anche il dogma della maternità divina di Maria ha acquistato una sua formulazione precisa e ortodossa ed ha aiutato a definire con chiarezza la condizione ontologica della persona del Verbo Incarnato. È quanto emerge dal documento conciliare che intende raccogliere la testimonianza della fede ortodossa e dell'insegnamento dei santi Padri: «Essi non dubitarono di chiamare la santa Vergine Madre di Dio, non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità abbia avuto origine, nel suo essere, dalla santa Vergine, ma perché da lei nacque il santo corpo, dotato di anima razionale, a cui il Verbo si è unito personalmente. Ecco perché si dice che il Verbo è nato secondo la carne». La definizione efesina può ben confermare la constatazione che i misteri di Cristo e della Madre sua si chiariscono a vicenda: Maria conferma la realtà della natura umana del Verbo Incarnato e questi conferma il carattere divino della maternità di lei.

3. Terza lettera di Cirillo a Nestorio

Anche questa lettera, piuttosto lunga, è entrata a far parte dei documenti conciliari. In essa il patriarca alessandrino ricalca lo stesso procedimento usato nella seconda lettera al medesimo Nestorio. Inizia il suo esposto con la citazione completa del credo di Nicea, pietra di paragone della vera fede, e continua poi ritornando sulle questioni che costituivano il contenzioso tra lui e Nestorio e che sono tutte riconducibili al mistero centrale del Verbo Incarnato. La menzione della Vergine santa ha pure in questo testo il carattere di un'appendice, che tuttavia appare importante allo scopo di chiarire le verità relative all'Incarnazione del Figlio di Dio. Il testo spiega che cosa si deve intendere quando il simbolo niceno afferma che il Figlio di Dio si è incarnato e fatto uomo: «Ha preso un carne dalla Vergine santa e l'ha fatta sua; ha subìto una nascita dal seno come la nostra, procedendo quale uomo dalla donna, non perdendo nulla di ciò che era. Benché infatti abbia assunto la carne e il sangue, ha continuato ad essere quello che era, ossia Dio secondo natura e in tutta verità. Noi non diciamo che la carne si è trasformata nella natura divina e neppure che l'essenza ineffabile del Verbo di Dio si è mutata in una sostanza carnale, dal momento che egli è inconvertibile e immutabile, e secondo le Scritture rimane sempre identico a se stesso». Incarnazione significa dunque che il Verbo divino ha preso una carne dalla Vergine, l'ha fatta sua e che è venuto al mondo attraverso una nascita umana vera e propria. L'evento non comportava che il Verbo da una parte cessasse di essere quello che era fin dall'eternità e dall'altra che la natura umana assunta, per così dire, si stemperasse in quella divina. Quindi l'Incarnazione non reca nessun pregiudizio all'esistenza reale di ambedue le nature nell'essere divino del Verbo Incarnato. Da ciò si comprende il motivo per cui è stato salvaguardato il carattere divino della maternità di Maria. Sostenere il contrario equivarrebbe a negare l'unità delle due nature nell'unica persona del Verbo. Per questo ella, che lo ha generato alla vita umana, è giustamente detta Madre di Dio, a causa dell'unità delle natura nel Cristo. Cirillo, per indicare la generazione dalla Vergine, usa il verbo τίκτω, che significa l'azione della creatura, esprimendo in tal modo la diversità della generazione eterna dal Padre, espressa con il verbo γεννάω. Nell'approvazione della lettera il concilio include anche i dodici anatemi che lo stesso Cirillo aveva formulato contro la dottrina nestoriana, il primo dei quali condanna lo sdoppiamento della persona di Cristo e il conseguente rifiuto del titolo mariano di Theotokos. Abbiamo già ricordato come questo primo anatema abbia avuto un precedente sintomatico nella prima lettera a Cledonio di Gregorio Nazianzeno. Il grande Padre cappadoce era impegnato a difendere l'ortodossia contro gli errori derivanti dalla dottrina apollinarista e formulava la vera professione di fede in termini che riemergeranno nella controversia nestoriana. Nel Cristo non si deve separare l'uomo dalla divinità, perché egli è uno e il medesimo. Prima dell'Incarnazione non era uomo ma solo Dio e unico Figlio del Padre, anteriore a tutti i secoli, incorporeo. Nell'incarnazione assunse la natura umana per la nostra salvezza. Divenne passibile nella carne, pur rimanendo impassibile nella divinità; circoscritto quanto al corpo, ma incircoscritto nello spirito; terreno e celeste, visibile e intelligibile, comprensibile e incomprensibile, totalmente uomo e totalmente Dio. Questa è la divina economia, grazie alla quale l'uomo peccatore può essere riplasmato ad immagine del suo Creatore. In questo contesto cristologico il Nazianzeno avvertiva la necessità di chiamare in causa la Vergine santa con l'appellativo di Theotokos e lo fece con un'affermazione redatta in forma di anatema, indirizzato a chiunque negasse la legittimità del termine Theotokos. Tuttavia è difficile stabilire quale carattere di autorità egli intendesse attribuire alla sua condanna, vale a dire se egli scrivesse come pastore della Chiesa o come semplice teologo. Tra l'altro è da notare che la lettera a Cledonio risale al periodo in cui Gregorio si era da poco dimesso da patriarca di Costantinopoli. Comunque sul piano storico l'anatema del Nazianzeno è da tenere in considerazione perché sembra testimoniare che la polemica intorno alla Theotokos era ben anteriore ai tempi di Efeso e che la reazione di Cirillo e la condanna da parte del concilio devono essere intervenute dopo un periodo piuttosto lungo di diffusione dell'errore, e probabilmente anche di polemiche e di dibattiti dottrinali.

4. La formula di riunione

Dopo la chiusura del concilio, decretata da Teodosio II nel settembre dello stesso anno, le polemiche continuarono, finché le parti contendenti convennero nella opportunità di stilare un documento comune che potesse porre fine alla controversia. Il testo fu pronto nel 433 e non fece altro che riproporre sostanzialmente la cristologia del concilio con l'appendice mariana relativa al termine Theotokos, seppure introducendo qualche ulteriore precisazione. Riportiamo la parte centrale del documento: «Professiamo che Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, perfetto Dio e perfetto uomo, dotato di anima razionale e di un corpo, generato dal Padre prima dei secoli nella sua divinità, e al compimento dei giorni nato per noi e per la nostra salvezza da Maria Vergine secondo l'umanità, è consostanziale al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi secondo l'umanità. Si è verificata infatti un'unione delle due nature, per cui crediamo che uno è il Cristo, uno il Figlio, uno il Signore. In virtù di questa unione senza confusione, crediamo che la santa Vergine è la θεοτοκός per il fatto che il Verbo di Dio si è incarnato e fatto uomo e che attraverso il concepimento ha unito a sé il tempio da lei assunto». Vediamo di nuovo come anche in questa formula la dichiarazione centrale riguardi il mistero del Verbo Incarnato, a cui si ricollega la dichiarazione circa la Theotokos quasi come un'appendice. Notiamo inoltre che il termine όμοούσιον viene usato per esprimere non solo la consostanzialità del Verbo Incarnato con la divinità, ma anche quella con la nostra umanità; e che l'espressione καθ'ύπόστασιν, presente nella seconda lettera di Cirillo a Nestorio, è stata omessa. Credo si possa ipotizzare che l'espressione non abbia convinto i vescovi del concilio a causa della sua ambiguità, poiché, come è noto il termine ύπόστασιν veniva allora interpretato come significante sia l'essenza di una cosa che la sua esistenza reale. Permaneva comunque un problema. Il documento del 433 non specificava il tipo di unione esistente tra le due nature di Cristo; e ciò può spiegare il motivo per cui la controversia non è stata del tutto risolta; anzi è sfociata in una situazione dalle proporzioni ancora più gravi, quale è stata la crisi monofisita, che portò la Chiesa ad un altro concilio nel 451. Quanto al termine Theotokos, non sembra costituisse un problema per chi accettava la cristologia sinteticamente elaborata nel documento.

Bibliografia

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VEDI ANCHE:
 - CONCILIO COSTANTINOPOLITANO I
 - CONICLIO COSTANTINOPOLITANO II
 - CONCILIO DI CALCEDONIA
 - CONCILIO DI NICEA
 - CONCILI ECUMENICI
 - CONCILIO VATICANO II






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